Adriano - racconti e altro

QED

Era tardi, erano finiti i treni, non aveva l’auto e abitava nel paese vicino. A circa dieci chilometri di distanza, metro più metro meno. Così Giacomo Merlo controllò di nuovo l’orario, si guardò attorno, si arrese all’evidenza che nessun cambiamento miracoloso si sarebbe mai verificato e sospirò. C’era di peggio e non era la prima volta che gli capitava. Non sarebbe stata neppure l’ultima. E poi sapeva già la strada. Un passo alla volta e arrivi. Alla fine. Oh beh. Pensando a cose tristi, si incamminò.

Considerò per un momento di tenersi sul bordo della strada, ma non era una buona idea. Il cielo era coperto, l’illuminazione quasi nulla e davvero non se la sentiva di finire spiaccicato sotto le ruote di un automobilista di passaggio, come certi animaletti che ogni tanto capitava di vedere. Vero, non ce n’erano poi così tanti di automobilisti a quell’ora e da quelle parti, non in un giorno feriale, ma non ne servivano molti. Ne bastava uno, se mirava bene. O male, a seconda dei casi. Meglio evitare.

C’era però un sentiero che attraversava la campagna ed era uno strano ibrido di strada bianca, pista ciclabile, varie ed eventuali. Diventava poltiglia alla prima pioggia, piena di pozzanghere da film di Paolo Villaggio, ma non pioveva da almeno un mese e tutto era secco. Un problema in meno per lui. Era anche un percorso semplice e sicuro, se non ci lasciavi una caviglia o trovavi uno psicopatico nascosto nei cespugli, ma gli psicopatici tra i cespugli erano rari, quasi tutti preferivano la politica o le grandi industrie. Altro problema in meno per lui, no?

Restava il buio. Che lungo quel sentiero era buio davvero, se non c’era luna piena. Quella notte non c’era. C’erano solo nuvole, che riflettevano un poco di luce dai paesi attorno, ma troppo poca per le sue esigenze. Pure, sembrava la soluzione migliore e Giacomo la scelse.

Per un poco tutto andò bene, poi cominciò ad andare male. Circa.

Il terreno sotto i piedi era solido e compatto, dritto o quasi, e la luce riflessa del paese che si stava lasciando alle spalle disegnava almeno la vaga sagoma grigiastra del percorso. Non lo vedevi, non davvero, ma era come camminare sullo spettro di un sentiero. Un sentiero piuttosto largo e comodo, in quel punto, costeggiato da vegetazione varia e assortita, che al buio non potevi riconoscere, non se eri solo un Giacomo Merlo qualunque, ma almeno ti dava una vaga idea dei confini e, insomma, era una specie di cornice, no? Tu ti tenevi dentro ai margini e non c’erano problemi.

C’erano suoni, o almeno rumori, ma anche questo era normale. Stava attraversando un tratto di più o meno campagna, anche se addomesticata e quasi urbana, e si sa che in campagna trovi sempre una fauna più attiva, che si muove e fa fruscii di ogni tipo, che scappa e, non so, vive. Giacomo non era molto esperto di ambienti senza asfalto e cemento, ma film e letture gli suggerivano che funzionava così, o roba simile. Quindi i rumori erano normali e non si doveva preoccupare.

Non se ne preoccupò, finché rimasero fruscii.

Aveva inserito il pilota automatico e lasciava che le gambe lo portassero verso la meta. Sapeva che c’era una strada sola, sapeva dove sarebbe arrivata e insomma non c’erano problemi: era questione di tempo. Tu cammini e prima o poi arrivi. Facile. Così si era perso in una vaga fantasia piacevole, come gli capitava spesso quando il suo cervello non aveva bisogno di lavorare, e la sua coscienza si faceva cullare da un miscuglio di memorie rivisitate e corrette, condite con alcuni se e uno spruzzo di senno di poi. Si stava ricreando un passato migliore e si godeva la fantasticheria.

Smise di godersela quando sentì lo scalpitio.

Giacomo si bloccò. Venne dalla sinistra, dal buio oltre una fila di arbusti variegati che formava forse il confine tra la stradicciola e un campo, magari coltivato e magari no. Vallo a capire, di notte. Fosse o meno coltivato, era secondario. Primario era il rumore che sentì e che lo bloccò.

Qualcosa che correva. Meglio, qualcosa che cominciava a correre. Qualcosa con più di due zampe. Doveva avere sentito i suoi passi in avvicinamento e per qualche motivo si era spaventata. O si era spaventato. Stessa cosa. Così, nella quiete della notte, un tonfo improvviso sulla terra, seguito da un grattare confuso e lo scalpitio di passi pesanti che si allontanavano in tutta fretta. Che era una buona cosa. Finché le creature sconosciute scappano, tutto va abbastanza bene. Probabilmente.

Pure, Giacomo Merlo rimase immobile. Attendeva.

Il rumore si spense a poco a poco, sempre più lontano. Tornò la quiete. Solo che... la notte non era più così pacifica. Non come gli era sembrata prima. Perché prima era facile pensare di essere solo, il proprietario di quel sentiero, unico e indiscusso maestro della notte. Era facile dimenticarsi del resto del mondo e perdersi nelle fantasie che il suo cervello produceva a ritmo da catena di montaggio.

Prima, appunto. Adesso quel rumore gli aveva ricordato che la notte e il buio appartenevano anche a molti altri esseri viventi, animali di ogni tipo, e non erano tutti piccoli e tranquilli, che frusciavano e sgusciavano quieti tra i cespugli. Qualunque cosa fosse appena scappata, era stata grande.

Quanto grande? Giacomo ci pensò.

Un cane? Possibile, sì. Un cane randagio, che credeva di avere trovato un posticino tranquillo in cui passare la notte, ma poi un intruso umano era arrivato a rompergli le scatole. Ed era scappato. Sì, la spiegazione gli piaceva. Poteva anche essere stato più di un cane, in effetti, perché aveva scalpitato parecchio. Due cani? Diciamo di sì. Non che facesse molta differenza, dopotutto. Erano scappati.

Giacomo sorrise e riprese a camminare, ma con più attenzione. Potevano esserci altre sorprese sulla strada e avrebbe preferito non lasciarsi sorprendere troppo, se possibile. Sembrava solo un tratto di campagna abbandonata o quasi, giusto qualcosa per riempire lo spazio tra un paese e l’altro, ma era abitato da diversi animali, in apparenza. Abitato o frequentato. Quei cani (forse) erano scappati, ma i prossimi inquilini potevano avere idee diverse.

Ma la notte era tranquilla, la temperatura accettabile, primavera ma non troppo, passato il freddo ma il caldo ancora da venire, uno spiffero di vento di tanto in tanto, nuvole in alto e buio dappertutto. Si poteva camminare senza problemi, con quel clima. Più luce avrebbe fatto comodo, ma è importante sapersi accontentare. Giacomo Merlo si doveva accontentare spesso, la sua era una vita di quel tipo, ma ormai ci si era abituato e poteva sempre andare peggio. Tutto poteva sempre andare peggio. Era una regolaccia che non sembrava mai disposta a prendersi una vacanza.

Così camminava, in silenzio e al buio. No, non proprio in silenzio. C’era ghiaietto a coprire quella parte di stradina e le sue scarpe squittivano un poco, o un rumore simile. Doveva esserci un termine più preciso per descriverlo, ma Giacomo non lo sapeva e in fondo non aveva molta importanza. Era da solo, stava facendo un mezzo monologo interiore e poteva anche prendersi tutte le libertà che gli pareva, almeno in fatto di vocabolario. Dunque le sue scarpe squittivano sui sassolini, erano il solo suono a rompere il silenzio e...

Non erano il solo suono.

Giacomo si fermò di nuovo. Silenzio. Pure, era sicuro di aver sentito qualcos’altro, un attimo prima. Un rumore simile allo squittio delle sue scarpe, ma non proprio uguale, e soprattutto veniva da una direzione sbagliata. Quindi non era lo squittio delle sue scarpe. Quod erat demonstrandum, eccetera.

Attese un poco, ma il silenzio continuava, così si strinse nelle spalle e fece un paio di passi avanti, con cautela, orecchie tese a cogliere qualunque cosa ci fosse da cogliere. E lo sentì di nuovo.

Era uno scricchiolio, sì, come quello dei suoi passi, ma veniva un attimo dopo, era in ritardo, ed era dietro di lui. Era come se qualcuno lo stesse seguendo, attento a muoversi solo quando si muoveva anche lui, per mascherare i passi, ma non ci riusciva, non alla perfezione. C’era un leggero ritardo e ricordava un poco un vecchio film doppiato male, dove le parole arrivano un attimo dopo il labiale.

Giacomo si fermò di nuovo. Silenzio. Guardò dietro di sé e vide solo il buio. Era fitto. Era intenso. Era parecchio nero. Era buio, insomma. Ma era sempre stato così scuro? Sembrava strano. Dopo un po’ i tuoi occhi cominciano ad abituarsi e tu ci vedi meglio, no? È così che funziona. Quindi adesso lui avrebbe dovuto vedere meglio, dato che era quasi mezz’ora che camminava al buio. Ma non era così. Ci vedeva peggio. Anzi, ci vedeva come un culo fasciato.

Guardò in alto. Il cielo rimaneva nuvoloso, forse, e... Ma già, che stupido! Prima ci vedeva meglio, perché era vicino al paese e le nubi riflettevano un poco di luce artificiale. Adesso era quasi a metà strada e di luce artificiale ce n’era pochissima, quindi non avevano granché da riflettere. Il buio era diventato più buio, perché era calata la luce rifratta. Riflessa. Quello che era. Che stupido!

Fece qualche altro passo in avanti e di nuovo sentì lo scricchiolio che lo seguiva.

Giacomo si fermò. Stava diventando ridicolo, davvero. Che succedeva? C’era sul serio qualcuno là dietro, oppure si stava facendo paranoie per niente? Era al buio, era in una zona desolata, era solo e sì, d’accordo, da bambino aveva avuto paura del buio e forse era una mezza fobia che ancora non aveva superato del tutto, forse l’aveva solo rimossa, ma non aveva senso andare in panico per...

Ah, forse aveva capito. Fece un passo avanti e sentì lo scricchiolio con effetto doppler. Un secondo passo e un secondo scricchiolio ritardato. Possibile? Doveva esserci qualche strano effetto acustico, ma niente di più. Sentiva l’eco. L’eco dei suoi passi. Hah! Che stupido.

Che poi, come funzionava di preciso? Lo aveva studiato alle medie e ricordava che c’era di mezzo il suono che rimbalzava contro qualcosa e tornava indietro. Qualcosa che si trovava a una distanza di, ecco, un certo numero di metri come minimo. Sedici? Di più? Un numero simile. Non vedeva dove potesse rimbalzare il rumore dei suoi passi, ma non era importante. Non vedeva proprio. Era buio.

Giacomo annuì. Eco. Sentiva solo l’eco dei suoi passi. Quod erat demonstrandum e così via. Adesso poteva ripartire e magari accelerare un poco, perché cominciava a farsi tardi e aveva sonno. Aveva anche un certo bisogno di alleggerire la vescica, ma la poteva ancora tenere. Nulla di urgente.

Si rimise in viaggio, con l’eco che continuava a seguirlo ma ormai svelato, smascherato, privo della sua possibile minaccia immaginaria. Era quasi una compagnia, adesso. Poteva fingere di non essere più solo, di avere qualcuno che camminava con lui. Non il migliore dei compagni, d’accordo, ma ad anni luce dal peggiore che gli fosse mai capitato. Quel tizio orribile col pizzetto, che all’università si trovava spesso sul suo treno e fin troppo spesso seduto accanto a lui. che incubo! Meglio l’eco.

Per un poco Giacomo si perse nuovamente nella memoria e nella sua ricostruzione libera, rivivendo il periodo accademico e rimodellandolo come non era mai stato nella realtà. Occasioni perse, scelte sbagliate, questo e quello, e intanto i piedi lo portavano avanti, verso il paese e verso casa. O quello che ne faceva le veci nella sua vita, un misero tugurio abitato da selvaggi.

Il pensiero incrociato dei selvaggi spedì le sue fantasticherie lungo un percorso diverso, che a poco a poco si faceva sempre più irreale. I continui tonfi dal piano di sopra, il sogno di sterminare i vicini e danzare sulle loro carcasse, l’università, il treno, il grido demoniaco.

Giacomo Merlo si fermò per l’ennesima volta.

Il grido demoniaco? Non era una fantasticheria. Non comparivano mai grida demoniache nelle sue fantasticherie. Non era quel genere di persona. E infatti non era una fantasticheria. Era reale.

Si guardò attorno, cauto. Il buio era buio e non sembrava volersi schiarire, anche se ormai doveva avere superato la metà del viaggio ed essere vicino al paese. Sentiva un suono. Un suono reale.

Non era un grido, anche se aveva assunto quella forma entrando nelle sue fantasticherie. Somigliava più a una risata. Demoniaca, su questo non c’erano dubbi, ma pur sempre una risata. Non la rendeva meno inquietante, ma era un altro discorso, uno che Giacomo non voleva affrontare al momento. Ci avrebbe potuto pensare dopo, volendo, ma le priorità erano altre.

La risata demoniaca, dicevamo. Più sghignazzo che risata, in effetti. Veniva da qualche parte sulla sua sinistra, dove il buio era particolarmente fitto e impenetrabile, e variava di intensità, come una specie di onda. Più intenso, più calmo, di nuovo più intenso e di nuovo più calmo. Come se il suono respirasse, pulsasse, qualcosa del genere. Poteva essere uscito dalla colonna sonora di un horror. Era quel tipo di sghignazzo demoniaco, capite.

Cosa poteva essere? La fantasia gli presentò varie risposte, ma Giacomo le scartò tutte. Non erano il genere di risposte che voleva ricevere, soprattutto non lì, al buio, da solo. E poi suvvia, cerchiamo di essere realisti, ogni tanto. Aveva passato i quaranta e stava ormai scendendo in picchiata verso la terribile quota cinquanta. Non poteva comportarsi come un bambino stupido. Doveva ragionare.

Non ci sono risate demoniache nel mondo reale. Non ne aveva mai incontrate e non aveva mai visto persone sane di mente che ne avessero incontrate. Qualcuna insana sì, come il tizio che una volta gli aveva attaccato un superbottone mentre erano in coda alla posta e gli aveva spiegato certe cose che persino il protagonista di una storia di Lovecraft avrebbe trovato demenziali. Il punto era che nessun uomo sano di mente avrebbe mai creduto a risate demoniache in piena notte. Lui era sano di mente. Dunque non era una risata demoniaca. Quod erat demonstrandum.

Cosa poteva essere? Giacomo Merlo si concentrò per ascoltare meglio, cercando intanto di azzittire la parte più imaginifica del suo cervello. Non era una risata, ovvio. Doveva essere un suono naturale come, non so, il verso di un uccello. Ci sono i succiacapre che sghignazzano, per esempio. O quello che è, forse non stava usando il termine giusto, ma il punto era che potevano esserci anche uccelli di quel tipo. Che ridacchiano. Come demoni. Era plausibile, no?

Solo che sembravano esserci tante cose che sghignazzavano come demoni. Uno stormo di uccelli? A metterla così, sembrava un poco assurda. Cosa ci faceva uno stormo di uccelli sconosciuti in quel punto, tutti impegnati a sghignazzare al buio? Ridicolo! Quindi non erano uccelli. Potevano invece essere, non so, rane? Rane demoniache? Qualcosa del genere?

Giacomo sapeva che da qualche parte nei dintorni doveva esserci una specie di torrente. Non era un granché e spesso rimaneva asciutto, ma potevano viverci delle rane, no? Era plausibile. E magari le rane erano, non so, nottambule? Possibile. Non conosceva le abitudini di vita dei batraci in generale e non gli erano mai interessati come animali, ma era plausibile che qualche specie fosse attiva anche di notte. Quindi erano rane, erano attive e gracidavano come demoni.

Giacomo Merlo ci pensò un poco. Sì, non trovava gravi difetti nel suo ragionamento, quindi poteva funzionare. Stava sentendo strane rane, niente di cui preoccuparsi. Quod erat demonstrandum e così via, nei secoli dei secoli amen.

Il gracidio rimaneva inquietante, questo lo doveva ammettere, ma era solo un gracidio. Non era una risata demoniaca, uno sghignazzo demoniaco, altra roba demoniaca. Solo un verso di animali, forse notturni o forse affetti da insonnia. Tutto normale. Con un ultimo sguardo alla chiazza più buia dove forse scorreva il torrente e forse no, Giacomo riprese il cammino.

La notte non era più così silenziosa. C’erano i passi che lo seguivano (solo l’eco), c’erano le risate demoniache (solo rane), c’era ogni tanto qualche fruscio nei campi attorno a lui (solo animaletti). Di tanto in tanto gli arrivava fioco il ronzio di un’auto di passaggio, ma la strada asfaltata era ancora a una certa distanza e in condizioni normali non l’avrebbe sentita. Era solo la quiete della notte che ti faceva sembrare più forti tutti i suoni. Era una specie di amplificatore naturale.

L’immagine gli piacque molto e Giacomo Merlo la ruminò per un poco, mentre camminava al buio e si impegnava a non pensare all’ambiente. Perché sì, poteva spiegare tutto, non c’era niente di così strano o soprannaturale, però c’erano luoghi e tempi migliori per liberare la tua immaginazione. Un sentiero buio e desolato in mezzo alla campagna, in piena notte, non andava bene. Punto.

Il paese si avvicinava. Le luci artificiali si intensificavano all’orizzonte, ma non troppo, perché c’era bisogno di risparmiare e il sindaco aveva ordinato di lasciare acceso solo il minimo indispensabile a suo insindacabile giudizio. Secondo il modesto parere di Giacomo era troppo poco, ma bastava per fargli capire che la meta era vicina, praticamente dietro l’angolo.

E, sempre parlando di dietro, non era cambiato il ritmo dei passi? Dico l’eco che lo seguiva.

Giacomo ci pensò, senza fermarsi ma cercando di ascoltare meglio. Sì, da un certo punto di vista, o magari di udito dato che si stava parlando di suoni, il ritmo dei passi sembrava diverso. Soltanto un poco, quasi non lo notavi, ma adesso lo stava notando. Lo squittio della scarpe riecheggiava sempre con una frazione di secondo di ritardo (davvero una frazione? O un secondo pieno? Boh...), ma non tutti i passi. A volte l’eco arrivava un poco prima, a volte un poco dopo. Era strano, sì. Una qualche anomalia acustica, ovvio, ma causata da cosa? Giacomo non ne aveva idea.

Superò la sagoma di un albero, ne superò un’altra, una ragnatela sottile gli si appiccicò alla faccia, si pulì soffocando una violazione del secondo comandamento, odiava tantissimo le ragnatele, vide o credette di vedere una persona in piedi sul lato del sentiero, guardò meglio, si accorse che era solo il tronco pallido di un qualche albero, gli aveva fatto quasi venire un colpo, starnutì, sfilò dalla tasca il pacchetto di fazzoletti, ne estrasse uno alla cieca, si fermò, si soffiò il naso.

I passi dietro di lui continuarono.

Giacomo Merlo si dimenticò di respirare. Era solo uno scherzo, vero? Una specie di allucinazione auditiva, vero? Non stava sentendo realmente dei passi che si avvicinavano, vero? Vero?

Li sentiva. Erano passi, assomigliavano ai suoi, avevano anche lo stesso ritmo, la stessa cadenza, e si stavano avvicinando. E adesso?

Giacomo non si voleva girare, ma sapeva di doverlo fare. Era praticamente una legge di natura. Non puoi non girarti a controllare, quando succedono certe cose. Poi ti penti, come si erano pentiti sia la moglie di Lot sia Orfeo, ma devi girarti lo stesso. E lui? Come si sarebbe pentito lui?

I passi si avvicinavano. Li aveva quasi addosso. Una decina di metri al massimo, poi sarebbe stato lì con lui. Chiunque fosse l’autore dei passi, dico. Lo avrebbe raggiunto. E allora?

E allora Giacomo Merlo si girò. E lo vide. E si vide.

Era un altro Giacomo che lo seguiva. Era lui, ma non lo era. Il Giacomo che gli veniva incontro era un uomo invecchiato bene, molto meglio di lui. Era più muscoloso, ma senza esagerare. Era vestito meglio. Era pettinato meglio. Aveva più capelli. Aveva una barbetta curata. Non aveva gli occhiali. Aveva lo sguardo di chi sa cosa vuole, non una faccia da bassotto stitico.

Era traslucido. Risplendeva. Per questo lo vedeva così bene, in dettaglio.

Giacomo rimase fermo, incapace di muoversi, mentre l’altro Giacomo lo raggiungeva e lo superava. Passandogli attraverso, come se uno dei due non esistesse davvero. O forse entrambi, chi lo poteva dire? Non certo lui. Chiunque fosse lui.

Continuò ancora per un poco a sentire i passi, poi si spensero. Soltanto allora Giacomo si risvegliò, se di sonno si poteva parlare. Lui non lo sapeva. Non sapeva e basta, in termini generali.

Cosa era accaduto? Niente, ovvio. Solo un, non so, un sogno a occhi aperti. La stanchezza. Un poco di confusione. Questo e quello. Un momento di debolezza mentale. Niente altro. La realtà era solida attorno a lui, il mondo era solido, tutto erano normale, tutto era a posto. Certe cose non accadono in questo universo. Accadono solo nelle storie. Quella non era una storia. Quindi non era accaduto.

Quod erat demonstrandum.

Giacomo ripartì, non proprio correndo ma quasi. Voleva solo arrivare a casa, infilarsi nel suo misero tugurio, seppellirsi nel letto e dimenticare tutto. Domani è un altro giorno e alla luce del sole quella strana storia si sarebbe dispersa, come un sogno. Perché era un sogno. Era sveglio, ma era un sogno lo stesso. Aveva sognato tutto. Sì, ovvio, inevitabile. Andiamo a casa, dai.

Arrivò. Aprì il portone col microchip innestato nella mano, salì le scale, aprì la porta di casa con un altro gesto della destra, entrò, chiuse. Casa dolce casa. Che non era dolce, ma almeno era casa. Una camminata lunga, ma era finita. Tutto a posto. Tutto normale. Tutto come sempre.

Togliendosi le scarpe, Giacomo Tordo ebbe per un attimo la sensazione che qualcosa fosse cambiato lì attorno, che ci fosse qualcosa fuori posto, qualcosa di diverso, ma cosa? Non vedeva cambiamenti e forse non ce n’erano davvero. Solo suggestione, già. I residui della camminata.

Cosa mai poteva essere cambiato, dopotutto? Niente, ovvio. Così si andò a lavare, si preparò per il letto e cercò di non pensare più a tutto il resto. Non c’era niente da pensare, in fondo. Era stata una camminata lunga e a modo suo strana, ma adesso era finita. Apparteneva al passato, alla fantasia. E non contava più, non avrebbe lasciato strascichi. Era finita. Dormiamoci sopra.

Era bella la normalità, anche per i Giacomo Tordo di questo mondo.

di Adriano Marchetti