Qualcosa si muoveva
Quando Fabio si svegliò, c’era qualcosa che si muoveva nella cameretta. Al buio. Vicino al letto. Piano piano. Non un bel modo per svegliarti, quando hai cinque anni.
Fabio non aveva cinque anni. Ne aveva quasi sei ed era grande. A settembre avrebbe cominciato la scuola. Aveva già comprato lo zaino. Era rosso.
Non era più così sicuro che ci sarebbe arrivato al primo giorno di scuola. Perché c’era qualcosa che si muoveva nella sua cameretta. Al buio. Vicino al letto. Faceva un leggero frsssh, frsssh, che quasi non lo sentivi. Però lo sentivi. Piano, ma lo sentivi. Ed era vicino. Forse voleva farsi sentire. Da te.
Fabio si intartarugò nel guscio delle lenzuola. Era una posizione di sicurezza, era ottima, funzionava e non aveva mai fallito, finora. Presentava solo un piccolo, piccolissimo problema. Il motivo per cui Fabio si era svegliato. Che non era stato il rumore. Era qualcosa di molto più personale.
Gli scappava.
Non ancora così tanto, non era da allarme rosso si salvi chi può, però era un peso, una vescica piena che gli ricordava che sì, nascondersi sotto le lenzuola era ok, ma non ci poteva restare tanto. Perché non era ancora urgente, d’accordo, ma non ancora. Lo sarebbe diventata, se non faceva qualcosa, e quando ti scappa c’è solo una cosa che puoi fare per risolvere il problema. Lo sanno tutti.
Ok, in effetti ce n’erano due, ma Fabio era grande, aveva quasi sei anni e quella seconda cosa non la faceva più. Aveva smesso. Quindi si doveva alzare e andare in bagno. Che era appena fuori, accanto alla sua cameretta. Due passi in corridoio e c’era arrivato. Roba da niente, di giorno.
Adesso era notte. Era buio. E qualcosa si mosse di nuovo, lì vicino al suo letto. Frsssh, frsssh.
Fabio sentiva che presto avrebbe fatto la seconda cosa, se non trovava una soluzione. Ma quale? La mamma, forse. La poteva chiamare. Ma se faceva un rumore lui, magari il qualcosa che si muoveva nella sua camera si sarebbe arrabbiato. Era pericoloso. Magari si sarebbe arrabbiata pure la mamma, e anche lei era pericolosa. La mamma si arrabbiava spesso, verso fine mese. Dunque?
Dunque doveva pensarci lui. Da solo. Era un uomo, dopotutto, ed era grande. Aveva quasi sei anni e a settembre avrebbe cominciato la scuola. E non aveva paura. Perché sì, qualcosa si muoveva nella sua cameretta, ma i mostri non esistono, la mamma glielo aveva spiegato più di una volta, per cui la cosa che si muoveva era, non so, magari uno scarafaggio o roba simile. Non molto meglio, vero, ma gli scarafaggi non ti mangiano. Sono troppo piccoli.
E un grande eroe come lui non aveva mai paura. Là!
Perché era un grande eroe. Nei giochi. Un cavaliere senza macchia e senza paura, che sconfiggeva a secchiate i suoi nemici. Ed erano nemici terribili, eh? Mica cose da niente. Quando accendeva il suo proiettore per la realtà aumentata, che la mamma gli aveva regalato per il compleanno scorso, la sua cameretta si trasformava in un mondo magico, pieno di orchi, troll, draghi e tutto quello che trovava in memoria nel proiettore. E lui li combatteva. Li sconfiggeva. Quindi...
Fabio si interruppe.
Il proiettore? Possibile? Gli era già capitato un paio di volte di dimenticarlo acceso e la mamma lo aveva sgridato. Era successo di nuovo? Era andato a letto e si era dimenticato di spegnerlo, finita la sua ultima avventura? Fabio aveva un terribile sospetto. Aveva anche una vescica piena, per cui non si poteva concedere il lusso di pensarci troppo. Doveva verificare.
In un modo o nell’altro.
Non che di modi ne avesse molti. Raccolse tutto il coraggio che poteva trovare, vide che era molto meno di quanto avrebbe voluto, si impegnò a cercarne ancora un poco, ne trovò un’ultima scorta, si fece forza, scostò un poco le lenzuola protettive, allungò un braccio, sperò che niente lo afferrasse e strappasse, come aveva visto in quel film che la mamma aveva guardato un paio di mesi fa, quando pensava che lui si fosse già addormentato, le sue dita sfiorarono la lampada sul comodino, ancora la più piccola delle esitazioni mentre cercava l’interruttore, ci siamo quasi, trovato, clic!
E la luce fu.
Fabio scostò con la massima cautela le lenzuola e guardò. Era la cameretta di sempre, non proprio il massimo dell’ordine e non troppo spaziosa, ma era normale, era familiare, era la sua camera e tutto ciò che vedeva era... beh, sì, ok, era normale, come abbiamo già detto. Lo sembrava di meno adesso che era notte, ma restava comunque normale. Tutto come lo ricordava lui. niente di mostruoso.
A parte la piccola sagoma dello gnomo malvagio, che corse subito a tuffarsi sotto il letto.
Fabio sorrise. Proiettore acceso, già. Lo gnomo era uno dei mostri che infilava sempre nelle storie e nelle avventure con cui passava il tempo. Un mostro base, semplice semplice: era più basso di lui, la pelle verdastra, un elmo con piccole corna, un randello come arma. Col proiettore ne potevi creare a decine senza problemi, sparivano al primo colpo ed erano le perfette comparse con cui riempire una battaglia immaginaria. Ne aveva usati parecchi anche quella sera, quando si era inventato la ricerca di un magico anello con cui sconfiggere l’Oscuro Signore.
«L’ho dimenticato acceso, il proiettore,» borbottò scuotendo la testa.
Oh beh, niente di grave. La mamma non se n’era accorta e l’avrebbe spento tra un attimo, dopo aver risolto l’altro problema che aveva. Adesso che la luce era accesa e la camera tornata normale, anche la paura se n’era andata, ma il peso nella vescica no. Lo attendeva un’avventura epica alla ricerca di un regno nascosto: il mitico Gabinetto di Casa. Aveva anche un tempo limite per trovarlo.
Fabio si alzò, aprì la porta, accese la luce del corridoio, uscì, colse un rapido movimento in camera, sorrise di nuovo pensando allo gnomo che scappava qui e là, accese la luce del bagno, entrò, chiuse la porta, puntare mirare fuoco. Altro problema risolto. Restava giusto da ricordarsi il proiettore, una volta tornato in camera, ma era una sciocchezza, solo un altro interruttore da premere. E lo avrebbe premuto di sicuro: la mamma gliene avrebbe date chissà quante se lo avesse trovato ancora acceso il mattino dopo. Era una sua responsabilità, come lei gli diceva sempre.
Fabio tornò in camera, andò a spegnere il proiettore per la realtà aumentata, vide che era già spento, si grattò la testa. Lo aveva spento lui prima di andare in bagno? Non si ricordava di averlo fatto, ma se adesso era spento, qualcuno lo doveva pur aver spento, no? E in camera c’era solo lui. In effetti, non si ricordava neppure di averlo dimenticato acceso, eppure doveva averlo fatto, proprio come lo doveva avere spento prima di uscire.
Controllò di nuovo e sì, il proiettore era spento. Che strana storia! Ma non era importante,. Forse si era sognato tutto. Già, doveva essere così. Che sciocco! Meglio tornare a dormire e non pensarci più fino a domani. O più e basta. Anche perché era tardi di sicuro, ormai. Piena notte. Piena notte ed era sveglio. Wow! Che storia. Quasi un’avventura.
«Buonanotte gnomo,» disse, mentre si infilava sotto le lenzuola.
Fabio spense la luce, chiuse gli occhi e... sentì un rumore. Al buio. Vicino al letto. Era un leggero frsssh, frsssh, come di qualcosa che vuole fare sentire che non vuole farsi sentire. Ma il proiettore lo aveva controllato. Era spento. Spento per davvero. Aveva anche controllato due volte!
Fabio aprì gli occhi, poi li richiuse subito, prima di potere vedere qualcosa. Non lo voleva davvero vedere. Magari non c’era niente da vedere, che sarebbe stato bello, ma sarebbe anche stato peggio, a pensarci bene. Molto meglio... sì, chiudere gli occhi, chiudere gli occhi e intartarugarsi per bene con le lenzuola. E dormire. Pensare che era solo uno scarafaggio e... dormire. Sì. Ottimo.
Il mattino dopo sarebbe stato tutto normale e ci avrebbe riso sopra. Era sempre tutto normale con la luce del giorno. Tempo di dormire, dunque, per farla arrivare più in fretta.
Una mano strattonò le lenzuola verso il basso, lasciandolo scoperto.
Fabio non voleva davvero aprire gli occhi, ma lo dovette fare. Non c’era più niente per nascondersi. E li vide. Perché erano li, non lo. Almeno quattro, forse ancora di più persi nel buio della cameretta. Non li vedeva bene, non in dettaglio: soltanto sagome più scure, nella pochissima luce che filtrava attraverso la tapparella e la finestra. Luce di strada, luce di lampioni. Nel buio della sua cameretta serviva solo a definire figure che erano familiari, sì, ma molto, molto più grosse.
Avevano elmi con piccole corna ed erano armati di randelli. Grossi. Chiodati.
«Adesso tocca a noi giocare con te,» grugnì la sagoma più vicina. «Ci divertiremo un mondo.»
Un noi che, Fabio sospettava, non avrebbe davvero incluso lui.