Adriano - racconti e altro

Furono i pinguini a convincere Alvise Bugnon che qualcosa era successo. O stava per succedere. I pinguini, che emergevano a decine dalle acque scure della Giudecca e zampettavano fradici lungo le Zattere, fra turisti che filmavano e scattavano, nel sole di agosto che pareva cuocere l’universo.

«Sono tornati,» mormorò, per poi aggiungere un “diocan” perché era stato addestrato bene.

E dire che era stata una giornata normale, fino ad allora. Si era svegliato presto nel suo alloggio di Spinea, già soffocante di primo mattino, e aveva acceso il climatizzatore per fare colazione, mentre contava le nuove punture ricevute durante la notte. Bilancio tragico, alla faccia di zanzariere e roba varia. Dovevano essere zanzare mutanti, magari radioattive: non c’era altra spiegazione logica. Così aveva sospirato e spalmato altra crema dopo la doccia. Non che la crema servisse, ma ok.

Aveva controllato i turni che lo attendevano, giusto come pro forma: li conosceva a memoria, ma si sentiva sempre più tranquillo dopo una controllata. Specie coi tempi che correvano. Uno sbaglio ed eri fuori, tolleranza zero e palle varie. Un errore significava licenziamento in tronco, anche se avevi dieci anni di eccellente servizio. Alvise non era particolarmente felice del suo lavoro, ma era il suo lavoro ed era sempre meglio di un calcio nel culo. In media. E comunque nessuno lo aveva ancora pagato per prenderlo a calci nel culo, per cui il lavoro presentava almeno un piccolo vantaggio.

L’autobus numero sei lo aveva scaricato in piazzale Roma, su un asfalto che puzzava già di bruciato e sotto un cielo color candeggina, che magari non puzzava di bruciato ma prometteva l’ennesima e orribile giornata soffocante di metà agosto. Alvise Bugnon aveva mostrato la tessera da dipendente per superare i blocchi di ingresso e si era incamminato verso gli spogliatoi assieme ad altri figuranti.

Alcuni li conosceva di nome, altri di vista, altri non sapeva neppure che esistessero fino a un paio di minuti prima. Irrilevante. Si salutavano con identica cortesia moderata, scambiandosi frasi imparate e correggendosi a vicenda gli errori di pronuncia. Qualcuno consigliava nuove esclamazioni, altri le bocciavano, due o tre si lamentavano. Solita roba, solita storia. Alvise procedeva a pilota automatico e pensava ai fatti propri, come mille altre persone attorno a lui.

In spogliatoio aveva sbloccato l’armadietto usando l’impronta dell’indice destro, si era cambiato, si era esaminato allo specchio con la solita smorfia di infelicità esistenziale, aveva scrollato le spalle e annuito alle solite battute, poi si era accodato a quelli che avevano il suo stesso turno, confrontando pareri e chiacchiere senza spessore o significato, in attesa del vaporetto riservato.

Erano tutti pronti al proprio posto per l’orario di apertura al pubblico, vestiti come deficienti con un ruolo da comparsa in un film su Giacomo Casanova, opuscoli in mano e discorsetto pubblicitario in attesa sulle labbra. Biglietti da vendere, polli da spennare, truffe da servire. Ma era tutto spettacolo e al pubblico piaceva, o così sostenevano ai corsi di formazione. Magari era persino vero.

I primi turisti si erano affacciati nelle calli, sgocciolando da nord e da sud lungo la rotta che portava dal ponte dell’Accademia a quello di Rialto o viceversa, a seconda del senso in cui la percorrevi. Da qualunque parte tu arrivassi, però, dovevi passare davanti ad Alvise e ai suoi colleghi, distribuiti qui e là secondo uno schema che, a detta del coordinatore, era stato calcolato per assicurare il massimo profitto. Di nuovo, magari era persino vero. Nessuno dei dipendenti se ne preoccupava, sapendo che tanto a loro non sarebbe arrivato alcun bonus, che vendessero zero o mille. Problemi altrui.

Alvise aveva sorriso, intrattenuto, accettato foto, venduto qualche biglietto, ricevuto qualche insulto e due pernacchie, incantato i visitatori col suo perfetto accento veneziano artificiale, imparato dopo un lungo corso di dizione e tre mesi di tirocinio non retribuito. Si era guadagnato da vivere. Non era stata una mattinata molto prolifica, ma il grosso sarebbe arrivato col Ferragosto e comunque, come si è già detto, il problema non era suo, perché aveva uno stipendio fisso e di bonus ne vedevi forse a distanza con un telescopio, se proprio ci tenevi, ma non arrivavano mai a te.

Alla fine del turno avevano raggiunto il locale che fungeva da mensa, un buco fuorimano dove non si vedevano quasi mai turisti. Fortunatamente, secondo il modesto parere di Alvise: ne vedeva anche troppi durante il resto della giornata, almeno i pasti preferiva farli in pace e senza doversi fingere un veneziano. Era il suo lavoro, d’accordo, ma era anche un lavoro noioso. Per non dire di peggio.

Quel giorno Bepi aveva intrattenuto alcuni novellini con le solite leggende metropolitane, arricchite qui e là da quei tocchi personali che rendono sempre divertenti le sue storie. Magari non sempre, ok, ma abbastanza spesso da poterle ascoltare senza sentirti morire dentro, come succedeva quando era un gondoliere a parlare. Erano piatti e lagnosi, i gondolieri; quando non si lagnavano, si vantavano e pavoneggiavano del loro ruolo così affascinante e romantico, nonché di tutte le scemenze che i vari turisti facevano in gondola. Secondo il modesto parere di Alvise, la metà di quanto dicevano era una panzana e il resto era stupido. Molto meglio ascoltare Bepi, detto “il vecio” per ovvi motivi di età.

Bepi il vecio interpretava il ruolo di bottegaio. Vendeva maschere e altre cianfrusaglie turistiche, un negozietto sistemato sulla rotta principale tra l’Accademia e San Marco. Faceva buoni affare, o così si diceva, e magari era persino vero. Le greggi di turisti che percorrevano quel tragitto spendevano in media il trentadue per cento in più rispetto ad altri, come mostravano i grafici che il coordinatore amava tanto distribuire, e Bepi aveva esperienza. Ne aveva vagonate. Quando entravi nella bottega gestita da lui, tu non compravi solo un oggetto: vivevi una experience. O roba simile.

Il punto era che il vecio era un grande parlatore e durante il pranzo si era divertito a riempire le teste dei novellini con la sua storia migliore: la Grande Sparizione di Venezia, maiuscole obbligatorie.

Non che fosse sparita la città, ovvio. Non ancora, almeno. Al ritmo con cui saliva il livello del mare, Venezia sarebbe sparita di sicuro, ma quel momento era ancora un poco più avanti nel futuro. No, la sparizione a cui si riferiva la storia di Bepi era degli abitanti di Venezia, i veneziani autentici. Quelli sì che erano spariti, altrimenti Alvise e gli altri non avrebbero avuto bisogno di impersonarli a uso di visitatori e pubblico pagante. Spariti tutti, dal primo all’ultimo.

Almeno se credevi alla storia del vecio. I novellini di solito ci credevano, per un poco, poi capivano di essere stati presi per il culo, ci ridevano sopra e si preparavano a rivenderla ai prossimi novellini. La storia era bella e le belle storie non muoiono mai, specie se puoi usarle per truffare qualcuno.

Così, mentre si pranzava nel fresco del climatizzatore, Bepi aveva raccontato di nuovo la sua storia, partendo dall’acqua alta sempre più alta, proseguendo col livello del mare in continua ascesa, varie e inefficaci misure per proteggere la città, con nomi biblici sempre più strampalati e malaugurati, la chiusura temporanea della laguna, che aveva trasformato l’ambiente marino in una pozza a elevato tasso di inquinamento, «ma non era un problema, perché tanto ormai non ci viveva più niente, tutti morti da anni, anche le alghe e le pantegane», ed era arrivato all’ultima grande opera, il NOE, che aveva salvato la città da un bilancio attivo per oltre due secoli a venire. E intanto la produttività era nulla, lo spopolamento proseguiva, il declino, le piaghe d’Egitto, questo e quello.

«Ma ce n’erano ancora parecchi, eh, più bagnati che asciutti. Facevano più o meno quello che fanno fare a noi oggi: le zecche dei turisti,» aveva ripetuto Bepi, agitando un dito rugoso e sporco di sugo. «Ce n’erano ancora parecchi, sì. Decine di migliaia. Ma una notte... tutti spariti. Così!» E giù con lo schiocco di dita a effetto, sotto al naso degli ascoltatori. «Verso mezzanotte hanno suonato le sirene dell’acqua alta, a lungo. OoooOOOOooo, ooooOOOOooo! E quando è tornato il silenzio, la città si era svuotata. Case vuote, calli vuote, bacari vuoti. Non un’anima viva. Non. Un. Anima. Viva

I novellini lo avevano ascoltato, avevano domandato, annuito, commentato, obiettato e più o meno il resto di quello che si fa alla fine di una storia a cui non credi granché, ma è una storia bella e un po’ ti piacerebbe che fosse vera. Alvise Bugnon aveva sorriso dal suo posticino nell’angolo e non si era espresso. Altri veterani si divertivano a dare corda al vecio, ma lui preferiva ascoltare e basta.

Non c’era niente di strano o di misterioso nella Grande Sparizione di Venezia. Gli abitanti si erano solo rotti le palle di vivere in una città in cui dovevi sbarrare le porte sei giorni su sette per non farti allagare la casa, dove non si produceva niente e l’unico lavoro era truffare i turisti. Quasi tutti erano andati sulla terraferma, a Marghera, Mestre e negli altri paesi della provincia, lontano a sufficienza da rimanere asciutti ma vicino a sufficienza da raggiungere il posto di lavoro. I veneziani esistevano ancora: si erano solo mescolati all’altra gente e avevano smesso di spacciarsi per anfibi.

In gran parte. Vero, di alcune famiglie si erano perse le tracce e certe persone sembravano svanite da un giorno all’altro, ma anche in questo non c’era niente di soprannaturale. Gente che si era sottratta al fisco e ad altri debitori, con tutta probabilità. Gente con ottime ragioni per far perdere le proprie tracce. Ce ne sono ovunque, ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno. Fine della storia.

Poi erano spuntati i pinguini. Alvise Bugnon era uscito non appena li aveva sentiti nominare. Bepi si era lanciato con entusiasmo a spiegare di come fossero apparsi la prima volta e i novellini avrebbero commentato a dovere con la giusta dose di sorpresa e incredulità, come facevano sempre. Alcuni dei veterani avrebbero aggiunto il proprio parere, magari sarebbero spuntate anche foto, video, eccetera. Tutto giusto, tutto normale. Tutta roba che Alvise lasciava volentieri ad altri.

Venezia nel primo pomeriggio di metà agosto non era un posto vivibile, non a lungo e non da esseri umani. Il caldo era brutto, ma l’umidità era orrende. Con l’umidità i quaranta gradi li sorpassavi con una sgommata e un gestaccio di accompagnamento. Nessuna persona sana di mente sarebbe uscita a passeggiare a quell’ora. I turisti lo facevano, sì, ma i turisti non erano sani di mente per definizione: erano turisti, appunto. Alvise non si riteneva del tutto insano, ma aveva preferito il caldo ai pinguini.

Li aveva visti, cinque anni prima. Li aveva visti sgambettare lungo le Zattere nel caldo afoso, ed era stata una scena curiosa, anche divertente. All’inizio. Poi aveva smesso di essere divertente.

Alvise non ci voleva più pensare. Per questo non ascoltava mai, quando il vecio o altri raccontavano ai novellini certe storie. Per questo era uscito anche quel giorno, nonostante il caldo e le due ore che ancora gli mancavano prima del nuovo turno di lavoro. Ed era un turno lungo le Zattere, giusto per aggiungere un poco di ironia. Ma non era il caso di preoccuparsi. La prossima migrazione sarebbe stata tra due o tre anni, lo dicevano tutti. I tempi erano quelli. Bastava saper contare.

Così Alvise Bugnon non si era preoccupato (in superficie) e aveva girato un poco per Venezia, tra il caldo e i turisti. Si era anche finto un turista per un poco: in borghese e senza tesserino in mostra, si poteva confondere facilmente tra le altre mille e mille facce anonime. Era anche parte del lavoro, o così sosteneva il coordinatore. Diventate turisti, di tanto in tanto: capirete meglio le loro esigenze e imparerete a fornire loro esattamente la Venice experience che desiderano.

Scemenze, con tutta probabilità, ma era una scusa buona come un’altra, quando voleva staccare un poco e spegnere il cervello. I discorsi di pinguini gli avevano fatto venire una grande voglia di fare entrambe le cose, ma soprattutto staccare il cervello. Senza cervello non ricordi e non pensi. Bene.

Alvise aveva superato sfondi di compensato che chiudevano calli non accessibili al pubblico; aveva aggirato gli emboli di persone in sovrappeso che ostruivano la circolazione del traffico umano, persi tra una mappa e un navigatore; aveva osservato con finto interesse le pantegane smart in fuga dalla fermata di un vaporetto; aveva sospirato mentalmente di fronte alla follia di due donne giovanili che sedevano sul bordo di un canale e immergevano piedi nudi nelle acque cupe della laguna, e chissà come sarebbero stati belli dopo averli estratti da quella brodaglia tossica. Turisti, appunto.

Si era dimenticato di Bepi e dei pinguini quando era arrivata l’ora di passare in spogliatoio prima di ritornare al lavoro. Aveva lasciato campo San Barnaba quasi fischiettando, un paio di svolte ed ecco le Zattere col turno pomeridiano da bottegaio, che non era molto divertente ma era il suo lavoro.

Il primo pinguino era emerso quasi trenta minuti dopo. Trentasei, forse.

Alvise Bugnon lo aveva visto attraverso la vetrina del negozio in cui si stava annoiando, in attesa di un possibile prossimo cliente. Un pinguino. Si era arrampicato a fatica sul bordo di pietra, lasciando una macchia grigio scura di acqua. Si era scrollato un poco. Aveva ruotato la testa in una direzione e nell’altra. Aveva cominciato a sgambettare verso l’interno. Poi era emerso un secondo pinguino, un terzo, un quarto e la diga aveva ceduto, il tappo era saltato, la metafora che preferite: spuntavano da ogni lato, erano ovunque, erano fradici, erano una silenziosa invasione di locuste in abito da sera.

Qualcosa era successo. Qualcosa stava succedendo. Qualcosa sarebbe successo.

I turisti sembravano amarli. Smartphone in mano e quasi nulla dentro il cranio, spuntavano da ogni lato e zampettavano verso i pinguini, commentando in una macedonia di lingue, alzandosi da dove stavano prendendo il sole, filmando, fotografando, sistemandosi nelle pose più stupide in mezzo ai poveri animali perplessi. Due maree che si incontravano: una muoveva dall’acqua verso l’interno, la seconda dall’interno verso l’acqua. Dove si incontravano era un manicomio di selfie e post.

Alvise osservava in silenzio, immobile nell’aria condizionata della bottega deserta. Pinguini. Dopo cinque anni, di nuovo i pinguini. Sì, qualcosa era successo. Poteva essere successo. Sospirò. Di tutti i giorni, proprio quando toccava alla sua squadra chiudere i cancelli e rimanere fino a tardi?

«Almeno non sarò da solo,» pensò, ma col cazzo che non sarebbe stato da solo. Tutti erano da soli, quando si chiudeva. A ognuno toccava un settore e doveva assicurarsi che ogni cosa fosse sistemata a dovere, che gli accessi alle zone vietate ai turisti fossero sigillati, che non ci fossero né ritardatati né dispersi, che questo e quello. Oh, d’accordo, da qualche parte nelle vicinanze c’erano i colleghi, ma da qualche parte nelle vicinanze poteva non essere vicino a sufficienza, in caso di problemi.

Cinque anni. C’era una storia che il vecio non raccontava mai, neanche per spaventare i novellini, o divertirsi un poco con loro. Non la raccontavano neppure gli altri veterani, non più. Soltanto durante la prima settimana ne avevano discusso, e solo quando non c’erano coordinatori o altri capetti nelle vicinanze. Ne avevano parlato Bepi, Marco, Toni, Cesco, gente a cui era toccato il turno di chiusura, e un paio di autisti delle navette che li avevano aspettati. Poi, soltanto il silenzio.

Adesso sarebbe toccato a lui scoprire se la storia era davvero vera. Ne avrebbe fatto molto volentieri a meno, ma gli toccava. Era il suo lavoro, giusto? E proprio un bel lavoro, già.

Passò il resto del pomeriggio a guardare la folla senza vederla davvero. Nessun turista era venuto da lui a farsi spennare, ma non era strano. Anche loro pensavano soltanto allo spettacolo gratuito, così insolito e imprevisto, e non avevano tempo da sprecare coi negozi. I negozi ci sarebbero stati anche il giorno dopo, i pinguini probabilmente no. Meglio filmarli e fotografarli finché potevi.

Avevano filmato e avevano fotografato, e di sicuro anche postato. Alvise osservava senza interesse, dietro la doppia protezione del bancone e della vetrina. I pinguini erano rimasti sulle Zattere per un po’, poi si erano incamminati verso Ca’ San Bernardo, sparendo dietro l’angolo. Alvise non li aveva visti più. Molti turisti li avevano inseguiti, altri si erano dispersi per i fatti propri. Tutto normale.

Pinguini a parte.

Cinque anni. Nei frammenti di storie che aveva sentito e ancora ricordava, i pinguini arrivavano con altre cose. Nessuno aveva mai precisato cosa fossero quelle cose. Erano solo cose. Dovevi accettare come articolo di fede. Bepi diceva che erano i pinguini a portarle. Per Marco, invece, i pinguini non le portavano, ma scappavano da loro. Fosse come fosse, prima apparivano gli uccelli e poi le cose.

La volta precedente Alvise aveva visto i pinguini, emersi dalla Giudecca a metà pomeriggio, giusto poco prima che finisse il suo turno. Li aveva osservati assieme a un paio di colleghi, scambiato due o tre battute sceme, scrollato le spalle. La trovata pubblicitaria di un qualche sponsor, si erano detti.

Il giorno dopo, in mensa, i veterani avevano spiegato che no, non era una trovata pubblicitaria. Era qualcosa di vero, forse naturale o forse innaturale. «È già successo,» aveva detto Bepi. «E succederà ancora. È cominciato tutto con la Grande Sparizione di Venezia.» E giù con la solita solfa.

Alvise e gli altri avevano smesso di ascoltare, limitandosi a sorridere e annuire quando serviva. Era stato Cesco a far cambiare loro idea. Cesco, a cui il giorno prima era toccato l’ultimo turno, quello che chiudeva la città. Cesco, che aveva camminato da solo nelle calli ai confini della zona sbarrata, a controllare che nessuno si fosse perso. Mentre le ombre si addensavano e la notte calava.

Che cosa aveva visto? Che cosa aveva sentito? Non lo aveva mai raccontato, non a loro. «Magari se ne fossero andati davvero,» aveva borbottato in coda alla storia di Bepi, occhi fissi sul prosecco.

Non aveva detto altro, non a loro, ma con qualcuno doveva avere parlato, perché le storie sulle cose erano cominciate il giorno dopo. Le cose portate dai pinguini; le cose che inseguivano i pinguini.

«Scemenze,» aveva sempre pensato Alvise Bugnon. Ma adesso? Adesso l’ultimo turno era suo, e di altri sfortunati come lui. Avrebbero visto qualcosa? C’era qualcosa da vedere? Cesco era andato via due anni prima, sostenendo che non ne poteva più di quel posto, di quel lavoro. Comprensibile, per carità, ma col ritorno dei pinguini non potevi non porti certe domande. Alvise se le poneva.

Ridendo e scherzando, anche quel giorno venne sera. I turisti abbandonavano uno dopo l’altro calli e campielli, i negozi chiudevano, i musei pure, le mostre non avevano più niente da mostrare e forse c’erano addirittura due gradi in meno rispetto al pomeriggio. O forse no, forse ti eri solo assuefatto. Le zanzare arrivavano, i lavoratori si allontanavano e la gente dell’ultimo turno si raggruppava pian piano in campo dei Frari, dove una volta c’era la mensa universitaria, quando l’università era ancora una università e non un luogo di lavoro per figuranti.

Erano in venti, poi in venticinque, dopo che anche i ritardatari si furono aggregati. Il coordinatore li accolse con la cordialità di un cactus, poi assegnò i settori, azzittì le lamentele, ordinò a tutti di non preoccuparsi dei pinguini, che non erano affari loro, ricordò gli orari delle navette, ricordò i doveri e le responsabilità, questo e quello, e li intrattenne a morte con un discorso di ventotto minuti esatti.

Cominciava a fare piuttosto scuro, quando finalmente partirono per le aree assegnate.

Alvise non era felice. Gli toccava scarpinare fino a Cannaregio, in culo agli angeli, a controllare e sigillare le zone dietro le Fondamente della Misericordia. C’era di peggio, d’accordo, come quelli a cui toccavano le Fondamente Nove, la zona della Celestia, magari anche a Sant’Elena, ma che senso ha pensare a chi se la passa peggio, se te le passi già male tu? Solo uno psicopatico si consola così, e lui non era uno psicopatico. Probabilmente. Non più della media umana, quantomeno.

Così adesso camminava, oltre il ponte degli Scalzi e ancora più in là. All’inizio c’erano altri assieme a lui, ma si erano staccati uno dopo l’altro, a mano a mano che raggiungevano le zone assegnate. In Strada Nuova si era staccato anche lui, all’altezza del Cinema Italia, e da un certo punto di vista era stato un sollievo: quella via era sempre intasata di turisti durante il giorno, ma adesso era vuota, era silenziosa, era... inquietante, sì, ok, diciamolo pure. L’area delle Fondamente della Misericordia era deserta a ogni ora del giorno e questo la rendeva meno inquietante. Il pieno che diventa vuoto è più brutto di un vuoto che è sempre vuoto, no? O qualcosa del genere, ci siamo capiti.

Alvise Bugnon era solo. Gli unici suoni che sentiva erano il pigro e lieve battere delle onde contro il bordo dei canali. Le fondamente erano lunghe e vuote, stese da est a ovest, con qualche ponte che ti ostacolava la visuale. Case e ancora case a nord, a sud soltanto acqua. Diverse callette affondavano tra gli edifici, claustrofobiche, quasi tutte sigillate. Come sigillate erano le case. Nessuno vi abitava più da anni. Tanti anni, forse troppi. Le facciate erano ben mantenute, per salvare le apparenze, per il bene dei turisti che passavano ad ammirarle. Ammesso che qualcuno vi passasse mai.

E dentro? Come era l’interno degli edifici? Forse lo sapevano gli addetti ai restauri. Lui, no di certo.

Alvise sospirò. Cominciò a controllare la tenuta dei lucchetti, la solidità dei pannelli, chiudendo qui e là i passaggi lasciati aperti durante il giorno, da bloccare quando era notte. Non tutti i turisti se ne andavano a fine giornata; alcuni rimanevano a dormire in città e qualcuno usciva a cenare, magari a fare una passeggiata. Improbabile che si allontanassero dalle aree più turistiche, piazza San Marco e dintorni, ma non si poteva mai dire. I turisti erano capaci di inventarsi di tutto.

Il rumore arrivò mentre controllava i sigilli posti a un settore remoto, aperto sulla laguna, lasciato ai piccioni e alle pantegane. Ma non era un rumore di piccioni, né di pantegane. Non lo sembrava, per lo meno. Era più come... No, non proprio, semmai un... Ma anche un po’ un...

Alvise si bloccò e chiuse la bocca al cervello. Concentrò tutta la propria esistenza nelle orecchie e ascoltò forte, come non aveva mai ascoltato prima. E non sentì un cavolo di niente.

«Me lo sono sognato,» bofonchiò, e riprese a controllare sigilli.

Il rumore tornò. Ma lieve, come se non volesse farsi sentire. Anzi, come se volesse far sentire che si stava impegnando per non farsi sentire. O qualcosa del genere, ci siamo capiti, no? Alvise trattenne il fiato e aspettò. Poi smise di trattenere il fiato perché stava soffocando, ma continuò ad aspettare.

Di nuovo. Erano... passi? Possibile. Piedi strascicati, come un bambino che non vuole andare in un certo posto ma ci deve andare lo stesso, altrimenti la mamma gli molla due ceffoni. Dal medico per una vaccinazione, ad esempio. Alvise non ci voleva mai andare, quando era piccolo, poi un morbillo di tre settimane con febbre anche a quaranta gradi gli aveva insegnato che una puntura poteva essere meglio di una malattia. Durava molto meno, tanto per cominciare.

Ma stava divagando, e stava divagando perché c’era un suono di passi che proveniva dalla calle che si trovava dietro la paratia di compensato. Una calle chiusa. Una calle in cui nessuno poteva entrare, almeno in teoria. E dunque? E dunque erano arrivati i pinguini, nel pomeriggio, e quando arrivano...

L’odore di salsedine era molto forte nell’aria densa e appiccicosa di metà agosto. Forte a sufficienza da coprire anche il retrogusto di cloaca che non ti abbandona mai, quando sei vicino a un canale. E a Venezia sei sempre vicino a un canale, che tu lo voglia o meno. Odore di mare, ma di un mare che ospita molte cose morte e poche vive. Mare andato a male.

Alvise scosse la testa. Stupidaggini. Doveva essere una qualche eco strana, i suoni di una pantegana amplificati dalla calle, dal compensato, da suo nonno in carriola. Solo suggestioni, colpa di Bepi e delle sue storie. Aveva un lavoro da concludere e faceva già buio a sufficienza, non c’era bisogno di perdere altro tempo coi peti di una mente infantile, una immaginazione troppo attiva.

Frrssh, frrssh, lento e strascicato dietro la paratia. «Pantegane,» borbottò, allontanandosi di fretta.

Un controllo, un altro controllo, e chiudiamo qui, e sigilliamo là. Il crepuscolo era già un ricordo e la sera un presente che si andava infittendo quando Alvise ebbe concluso. Non aveva sentito fruscii, non aveva niente da segnalare. Tutto tranquillo, tutto morto. Poi si voltò per tornare e la vide.

La sagoma era una decina di metri più avanti, al centro delle fondamente. Umanoide, spalle un poco ingobbite, se ne stava di profilo a fissare il canale, o forse la sponda opposta, dove si alzava una fila di edifici abbandonati. C’era qualcosa sulla sua testa, o forse era il cranio ad avere una forma strana. In ogni caso, sembrava quasi che...

La sagoma si girò verso sinistra. Verso Alvise. Piegò un poco il capo da una parte e disse qualcosa. Anzi, emise un suono. Una serie di suoni. Cominciò ad avanzare a passi lenti, strascicati.

Frrssh, frrssh. La creatura allungò un’appendice che poteva essere un braccio.

Per Alvise Bugnon fu più che sufficiente. Scattò come un centometrista dopatissimo alle Olimpiadi, infilò il ponte sulla sua sinistra quasi senza sfiorare i gradini, lo attraversò in un paio di balzi, scese più o meno precipitando dal lato opposto e corse come non aveva mai corso in tutta la sua vita, fino a Strada Nuova e oltre, dimentico del caldo, l’umidità, la fatica, tutto. Esistevano soltanto le gambe, che pompavano come dannate per portarlo il più lontano possibile da quella cosa, la città, l’odore dei canali, da tutto il resto. Lontano, lontano, via.

Il dramma cardiaco era dietro l’angolo, quando passò la stazione ferroviaria e fu in vista di piazzale Roma. Rallentò, asciugò un poco di sudore, ansimò come un maniaco sessuale in crisi di astinenza da anni, attraversò il ponte sul Canal Grande con gambe di marzapane scaduto: il ponte più recente e più brutto, che porta il nome del suo colpevole.

Le due navette, gli altri, le luci artificiali. Alvise avrebbe voluto piangere, ma non lo fece. Avrebbe voluto dimenticare tutto e giurò che sì, lo avrebbe fatto, a cominciare da subito. Non ci avrebbe più pensato. Non era successo niente. Tutto tranquillo, tutto normale, tutto a posto.

«Come mai sei così sudato? Te la sei fatta di corsa?»

«Solo il caldo, lo soffro molto.» Alvise scrollò le spalle. Solo il caldo, giusto.

Partirono. Mentre Venezia si allontanava dietro di loro, diventando a poco a poco un grumo scuro in fondo al ponte della Libertà, Alvise Bugnon rabbrividì nell’aria condizionata della navetta. Davvero non invidiava i turisti che avrebbero passato la notte là. Se poi erano così pazzi da decidere di fare una passeggiata, beh, se la andavano a cercare. C’era qualcosa di vero nelle storie del vecio, quelle in cui suggeriva che i vecchi abitanti non se n’erano proprio andati, non come si pensava.

Gli antichi abitanti, che forse inseguivano i pinguini o forse erano guidati da loro, verso casa.

Nella luce artificiale della navetta, tra le solite chiacchiere dei colleghi, Alvise poteva ancora sentire riecheggiare il rauco verso di quella cosa, mentre camminava verso di lui, con un passo che era più un barcollare da ubriaco. Poteva rivedere la sagoma della sua testa, che forse aveva la forma di un cappello, o forse ne indossava uno. Un cappello piatto, con una strada coda che penzolava di lato.

Poteva ancora sentire il suo accento, davvero impeccabile. Gorgogliava.

«Ghesboro-ro, ghesboro-ro.»

di Adriano Marchetti