Quando il melo fioriva
Neppure quella primavera il vecchio melo era fiorito.
L’uomo voltò la schiena al tronco, le mani in tasca, e lasciò correre lo sguardo lungo il pendio, che scendeva alla città, come tante volte avevano corso i piedi, da bambino. Poi asfalto e cemento si erano mangiati la sua collina e adesso non si correva più: non c’era spazio. Troppe case in mezzo, troppi anni alle spalle. E il prato incolto che conoscevano loro, ormai, era sparito.
È il progresso, bellezza.
Sospirò, fissando senza vederla quella distesa di tetti e vie. Negli occhi gli rimaneva un ricordo e in qualche modo cercava di farlo combaciare col presente, ma non ci riusciva. Non c’era mai riuscito.
Aveva speso estati lì, a sudare con gli amici, quando il caldo non lo sentivi ancora, perché nessuno ti aveva ancora spiegato che c’è caldo e non devi stare troppo al sole, che poi ti fa male. Ore infinite a fantasticare su tutto, a creare storie e farle vivere attorno a loro, gruppetto di bambini che abitava lì in basso, nel quartiere di periferia.
Ex periferia, oggi, perché un nuovo quartiere era cresciuto più in là, dove un tempo era vuoto. Eppure quel posto non gli sembrava più ricco, o più animato, nonostante la promozione. Le vecchie strade che conosceva lui erano sempre le stesse, forse un poco più spente. O erano solo i suoi occhi a vederle spente? C'era vita, ma lui non la vedeva?
Non lo sapeva e non gli interessava molto. Non era più il suo quartiere, ormai; se n’era andato già da tempo, a scavarsi una vita altrove. Ma ogni tanto tornava a casa, parodia di anguilla terricola. Tornava a casa a cercare il passato, ma trovava solo il vecchio melo, che non fioriva più in primavera.
L’uomo si mosse a disagio, nel breve spazio attorno all’albero. Tra poco sarebbe arrivato il buio e le vie sotto di lui sarebbero cambiate in alveari di luci artificiali. Le vie che prima erano campi, dove solo stelle e lucciole illuminavano la notte. Prima. Ma il prima non esisteva più, anche se i fossili come lui non lo volevano mai capire, né accettare. Pazienza, il mondo andava avanti anche senza di loro. E di strada ne aveva fatta parecchia.
Eccoli là, i posti dove giocavano. Il villaggio degli orchi era il roveto fra le due colline, la palude era il fitto di canne alla fine dei campi, la via dei draghi era il sentiero sterrato che passava sulla cresta. E il melo era la loro base, bianca in primavera, verde e ombrosa in estate, solo dolce in autunno.
Li vedeva nella memoria, in controluce, fantasmi del mondo che era stato. Perché oggi il villaggio degli orchi ospitava due condomini nella spianata; le villette a schiera ricoprivano la palude; la via dei draghi era asfaltata. E il melo non fioriva più. Tornava a vederlo ogni anno e ogni anno era lo stesso. Ormai poteva risparmiarsi il viaggio, eppure continuava. Perché?
Sulla sua destra, il campanile della chiesa era una sagoma scura sul cielo che scuriva. Quello era rimasto uguale, sì, ma rimangono sempre uguali, i campanili. Non contano. Tutto il resto era cambiato per sempre. Anche lui lo era. Una volta era stato il ragazzo che fuggiva dal paese addormentato, alla ricerca di sogni e miraggi; adesso era l’adulto che tornava indietro e si guardava attorno, alla ricerca di ricordi e miraggi. Bel cambiamento, proprio.
Aveva giurato di non rimetterci più piede, ma certi giuramenti sono fatti per non essere mantenuti. Il tempo si era portato via il rancore del ragazzo, ne aveva smussato gli angoli, e adesso era lì, a salutare di nuovo un vecchio melo, che non fioriva più. Aveva continuato a sperarci, in fondo.
Perché non si sa mai. Perché vale sempre la pena di dare un’occhiata. E perché in fondo lui restava il solito, inutile brontolone, a rimpiangere i bei tempi andati, quando tutto era migliore, perché i ricordi conservano solo ciò che piace a loro e il resto lo gettano via. Sono capricciosi e non te ne puoi mai fidare davvero, anche se ti fanno comodo. Perché la memoria cambia, ogni volta che la consulti.
L’uomo camminava avanti e indietro, come un animale in gabbia, gli occhi sempre fissi sul presente, che si mangiava il passato. Ed era normale. La città cresceva su se stessa, gomitolo di cemento che si avvolgeva nello stesso punto, intrecci di fili sopra intrecci di fili precedenti. E ad ogni passaggio, qualcosa di vecchio finiva ricoperto da qualcosa di nuovo. Era la vita stessa, dove nuovo e vecchio si fondono e confondono.
Ma lui era rimasto lontano troppo a lungo, per adattarsi ai nuovi volti. Il luogo non gli apparteneva più. Era stato il bambino che giocava, era adesso l’adulto che tornava a guardare, ma in mezzo c’era il ragazzo che era fuggito, esule volontario da un abito troppo stretto. Il melo li cuciva assieme, sotto i suoi rami, ma il melo non fioriva più. Era la fine di un’epoca e si trattava solo di accettarlo, cosa sempre più facile a parole, che a gesti. Ma tanto avevano deciso altri al posto suo. Gli avevano tolto il peso dalle spalle, che gli piacesse o meno.
Sospirando, l’uomo sedette sulla terra fredda, sotto l’albero. Il tramonto aveva finalmente acceso di luci finte il paesaggio ai suoi piedi. Prima la notte e le lucciole, adesso la notte e le finestre. Tutto un altro mondo, già. Forse i vecchi del quartiere la pensavano come lui, ma i vecchi che conosceva lui erano morti ormai, e i nuovi vecchi non erano la stessa cosa. Erano nuovi, appunto.
Cercava di fissare ogni angolo, ogni riflesso nella memoria, perché sapeva che non sarebbe tornato. Non stavolta. Era finita. Poteva ancora esserci qualcosa laggiù, scorie della magia che aveva conosciuto da bambino. Poteva e forse c’era. Ma non per lui. Era magia nuova e apparteneva ad altri, come ad altri apparteneva quel luogo. Lui era solo un visitatore, glielo dicevano i nastri rossi e bianchi che aveva scavalcato.
L’odore di terra gli riempiva le narici, sussurrando che niente era perduto davvero. E sì, forse aveva ragione. Tempo di tagliare l’ultimo filo, perché i fili più importanti se li teneva dentro e nessuno li avrebbe tagliati mai. Erano il tessuto che lo formavano, il gomitolo che era lui stesso. Ma faceva male vedere certe cose. Vedere gli scavi che si mangiavano anche quell’angolo.
Il vecchio melo non fioriva da tempo e tra poco non sarebbe stato più. In un paio di giorni avrebbe lasciato spazio alle fondamenta del nuovo condominio. Era un bene? Era un male? Era, e basta.
Forse adesso era il momento di cercarli altrove, quei fiori di neve. Da qualche parte più avanti, oltre la strada asfaltata che gli passava accanto, oltre le luci della città, oltre il treno e la ferrovia. Altri meli in fiore, dove le ruspe del tempo non erano ancora arrivate. C’erano di sicuro. Bastava alzarsi e cercarli, per una volta. O almeno sperava.
Mentre un timido vento frusciava sul nastro di plastica, che delimitava gli scavi, l’uomo si accese la sua ultima sigaretta, fissando la sera.