Questione di un passo
Era venuta sera mentre pensava ad altro. Così si sarebbe potuta descrivere la vita di Andrea Molli e così la descriveva lui, quando era di buon umore. Forse non la descrizione migliore, certo non la più precisa o dettagliata, ma la più elegante? Sì, questo ci sta. Breve, sintetica, priva di quelle sfumature scatologiche che finivano sempre per infiltrarsi nei suoi pensieri quando non era di buon umore. Era venuta sera mentre pensava ad altro.
Che l’altro in questione fossero state perlopiù stupidaggini era un discorso a parte, uno che lui non amava affrontare. Aveva inseguito aquiloni, chimere, nuvole e qualunque altra immagine poetica vi possa venire in mente. Aveva sprecato tempo, fantasticando troppo e rendendo poco. Poi un giorno si era dovuto fermare a guardarsi attorno e aveva scoperto quella verità che aveva sempre saputo ma che aveva preferito ignorare per quieto vivere. La verità che era venuta sera.
Era venuta sera e lo aveva sorpreso in mezzo a un prato, coi pantaloni abbassati. Sempre per usare una immagine poeticissima. E adesso lui?
Adesso Andrea Molli era tornato a casa. Per valori molto vaghi di casa, ma era pur sempre il paese dove era nato e cresciuto (non molto, ma è il pensiero che conta) e se non puoi chiamare casa il tuo paese natale, per cos’altro lo dovresti usare quel sostantivo? Per l’edificio dove abiti, d’accordo, ma per Andrea il discorso abitazione era delicato e preferiva evitarlo, ma grazie dell’interessamento. A ogni modo, era tornato nel luogo che considerava casa. Il suo paese natale.
Non era un granché di luogo. Forse non lo era mai stato, ma nei ricordi della sua infanzia era molto più animato, vivace, luminoso, accogliente e tutti gli altri aggettivi positivi che soltanto nei ricordi è possibile trovare concentrati nello stesso punto. Ricordava bambini ovunque quando bambino lo era stato anche lui, e ragazzi ovunque quando era stato ragazzo. Adesso c’erano vecchi ovunque, o così sembrava. Andrea Molli non era vecchio. Facciamo di mezza età, d’accordo, e magari portata male, ma non certo un vecchio, vivaddio. Eppure c’erano vecchi ovunque.
Perché?
Ma era soltanto un piccolo problema, se davvero lo si voleva considerare un problema invece di uno scherzo della prospettiva esistenziale, o roba simile. Andrea ricordava negozi che oggi erano chiusi e abbandonati. Ricordava alberghi animati, che oggi parevano ospizi dimenticati da dio e maledetti dagli uomini. Ricordava alberi che oggi erano mozziconi o, peggio ancora, colate di asfalto. E così via, di depressione in depressione, mentre confrontava memoria e presente, giocando al più triste di tutti i “trova le differenze”. C’era da coprirsi la faccia e piangere, se ci tenevi davvero.
Andrea Molli non si coprì la faccia e non pianse, perché non ci teneva davvero e perché da un certo punto di vista se lo era aspettato. Confermava la sua generale percezione entropica del mondo e del ruolo che in esso aveva l’umanità. Tutto sembrava andare a puttane, quindi tutto era bene: il mondo seguiva la sua orbita e la gente pure. Era consolante. Gli bisbigliava che sì, poteva anche avere fatto tanti errori nella sua vita, poteva anche aver sbagliato più o meno tutto, ma almeno aveva ragione su una cosa. Non una bella cosa, d’accordo, ma era meglio di niente, no?
Dunque perché era tornato indietro?
Andrea se lo era già chiesto più volte dopo essere sceso dal trenino locale, ma ancora gli mancava una risposta decente. Era tornato indietro perché non sapeva più dove andare avanti: ecco il meglio che aveva saputo produrre. Se non puoi avanzare, arretra. Era una scemenza, ma da un certo punto di vista aveva una sua logica. Se eri di bocca buona e non ci pensavi troppo.
Fosse come fosse, era tornato al suo paese natale, lo aveva girato per l’intera giornata, vedendo tutto ciò che valeva la pena di vedere (non era un paese particolarmente grande e non c’era poi molto che valesse la pena di vedere, almeno secondo lui), e adesso era di nuovo davanti alla stazione, non una idea di cosa fare, non un risultato, niente di niente. Di nuovo: e adesso lui?
Non era ancora il tramonto, ma mancava poco. Poteva salire sul primo treno e andarsene da qualche altra parte, ma dove? Poteva raggiungere un alberghetto squallido ed economico, trovarsi una stanza e dormirci sopra, ma a che scopo? Poteva restare a vagare tra il parco e le vie circostanti per tutta la notte, ma perché? Lo aveva fatto qualche volta da giovane in altre città, quando non si poteva o non si voleva permettere un alloggio, ma adesso non era più giovane e non ne vedeva il senso.
«Questa è una delle scemenze più sceme che mi sono inventato,» borbottò. «Cosa ci sono venuto a fare? Cosa ho concluso? Niente. Ho buttato via i soldi per il viaggio e basta.»
Tutto vero, ma ripeterselo non lo aiutava a migliorare la situazione o a decidere cosa fare adesso. Se c’era qualcosa da fare a parte lasciar perdere tutto e andarsene, come estremo tentativo di ridurre le perdite. Il problema vero era che, ok, andarsene, certo, grandioso, perfetto. Ma dove?
Questo lo riportava al tema della casa, ma era un tema che Andrea non gradiva proprio affrontare o considerare, neppure in un monologo interiore. C’erano cose che erano semplicemente nate storte e ogni tentativo di raddrizzarle serviva soltanto a peggiorare la situazione. O giù di lì. Non la migliore delle massime, ma per il momento poteva bastare. Spiegava senza spiegare, proprio perché non era una spiegazione, ma suggeriva l’ombra di una spiegazione e questo induceva l’ascoltatore, quando e se c’era un ascoltatore, a inventarsi il resto e dare un senso al tutto. Approssimativamente.
Andrea Molli sospirò. La facciata della stazione, triste. Di fronte, una piccola rotonda triste con una triste aiuola di benvenuto al suo centro, che forse un tempo non era stata così triste ma adesso lo era e non ti dava proprio il migliore dei benvenuti possibili. Più in là, tristi spazi per parcheggiare, tristi strade alberate, l’ombra di un parco triste, edifici grigi e tristi sui lati, non molti e non alti.
Un sobborgo, o poco più. Un sobborgo in declino. Davvero era il suo paese natale? Davvero. Il che diceva già molto sul suo conto. Suo di Andrea, intendiamo. La tristezza come parte integrante della sua storia, nonché del suo presente. Una di quelle situazioni in cui l’ambiente rispecchia la persona e la persona rispecchia l’ambiente, ci siamo capiti. Doveva avere un nome, ma Andrea Molli non se lo ricordava, se mai lo aveva saputo. Probabilmente no. Era un poco...
Si bloccò di colpo nel suo pontificare interiore. Era passato un tizio, un tizio in automobile, che per il più breve dei momenti gli era sembrato una faccia conosciuta. E forse anche tutto il resto di quella persona, certo, ma siccome sedeva al volante, la sua faccia era la parte che si vedeva meglio, per lo meno dalla prospettiva di qualcuno che si trovava sul marciapiede.
A chi poteva appartenere?
Non un granché di faccia, ma se aggiungevi una certa dose di capelli, la spianavi un poco, toglievi la barba e la alleggerivi qui e qui, poteva ricordare quella di un tizio che aveva conosciuto quando era ragazzo. Un compagno di classe delle medie, che aveva frequentato anche in seguito, almeno in un primo momento, poi si erano persi di vista, come spesso accade. E poi? Cosa era successo dopo? Andrea non lo sapeva e non lo riteneva importante.
«Fortuna che non mi ha visto,» si disse. «Pensa se si fosse fermato e avesse attaccato bottone, per chiedermi come va o cosa faccio adesso. Terribile.»
Era la domanda che odiava di più. Cosa fai adesso? Andrea non sapeva mai cosa inventarsi per dare l’impressione di essere una persona normale e responsabile, che aveva saputo fare qualcosa con la propria vita. Non qualcuno di successo, d’accordo, ma una persona realizzata nel suo piccolo. Si era preparato una serie di risposte convenzionali, ma potevano funzionare soltanto su breve scala, tanto per liberarsi da un interlocutore. Non avrebbero mai resistito all’urto di un bottone serio, magari di quelli con lunghe tirate sul motivo retorico dello ubi sunt o sul tema del “ti ricordi”.
La verità non la poteva certo dire. Sarebbe stato troppo umiliante.
Ma la faccia conosciuta aveva tirato dritto, chiunque fosse, e il pericolo era scampato. Solo che non lo era. Si voltò e si trovò di fronte la madre di quello che era stato il suo migliore amico da ragazzi e dintorni. Invecchiatissima, ovvio, ma altrettanto ovviamente l’avrebbe riconosciuta ovunque. Tante volte era stato a casa loro, ai tempi della scuola, e tante volte era stato portato in auto da lei e da suo marito. Aveva in mano una borsa della spesa e sulla faccia la terribile espressione di chi ti ha appena riconosciuto e si prepara a saluti, domande e aggiornamenti vari sulla salute di mezza provincia.
«Andrea! Ma guarda! Da quanto tempo! Cosa ci fai qui? Che piacere!»
Andrea Molli si sentì crescere il muschio sulle ossa.
Era stata brutta. Peggio, era stata terribile. Tutte le domande che aveva temuto e molte di più, che lo avevano prima gettato nell’abisso e poi gli avevano pure sputato in faccia. E come va, e come stai, e dove stai adesso, e cosa hai fatto, e ti ricordi, e da quanto tempo, e i tuoi genitori, e quella volta, e il lavoro, e quanto ti fermi, e perché non passi da noi, e lo hai più rivisto Piero, e questo, e quello.
Andrea Molli non lo aveva più rivisto Piero. Non desiderava neppure rivederlo, se proprio vogliamo essere sinceri, ma non era il genere di risposta che potevi dare alla madre. Non che ci fosse qualche risposta che desiderasse dare a qualunque altra persone, in effetti. Era venuta sera mentre pensava ad altro, come abbiamo già detto, e disgrazie di questo genere non ti lasciano molto da raccontare.
Aveva mentito, senza ritegno ma vergognandosi un poco. Lo consolava sapere che comunque non si sarebbero mai più rivisti, proprio come non aveva più rivisto Piero, che un tempo era stato il suo miglior amico e adesso era qualcuno che viveva da qualche parte, probabilmente. Non avrebbe mai neppure rimesso piede o altre fette del corpo in quel paese. Non avrebbe mai dovuto rimettercele, a volerla dire tutta, ma era successo per ragioni che a un certo punto gli dovevano essere sembrate in qualche modo buone, ma che adesso vedeva per ciò che erano davvero. Un errore, uno dei tanti. Ma di tutta la gente che poteva incrociare, ussignùr... Bella sfiga.
Si era liberato inventando storie di un appuntamento importante, lo stesso che lo aveva riportato in paese, capisce, proprio non posso trattenermi, mi spiace, sono già un poco in ritardo, sa, mi sarebbe piaciuto, magari la prossima volta, sì, chiamando anche Piero, è tanto che non sia fa sentire?, sarà in giro, sempre avuto i suoi giri lui, lo staneremo, una rimpatriata, già, ci conto, mi spiace, davvero, arrivederci, a presto. Sospiro di sollievo. Sopravvissuto!
Era sembrata un poco delusa, mentre si allontanava, ma l’importante era che si stava allontanando, lui in una direzione e lei nell’altra e se la sfiga gli dava una tregua, magari, non si sarebbero mai più dovuti rivedere. Non che le augurasse qualche male, sia chiaro: si augurava solo di poter restare alla massima distanza possibile da lei e da tutta la famiglia. Probabilmente ci sarebbe riuscito. Dopotutto nessuno sapeva sotto a quale sasso lui si annidasse oggi e nessuno lo avrebbe mai scoperto, grazie.
Mentre cambiava zona alla massima velocità possibile, Andrea Molli si domandò di nuovo che cosa avrebbe dovuto fare. Restare in paese? Fuggire? E come? Era pericoloso tornare in stazione, giusto nel caso ci fosse qualche altro brutto incontro in agguato. Poteva aspettare, certo, ma se aspettava, il treno avrebbe smesso di viaggiare per quel giorno. Chiudeva presto, in luoghi dove pochi avevano voglia di andare. Tempo di raccogliere l’ultima infornata di pendolari e poi tanti saluti, arrivederci a domattina. E lui, lui Andrea, sarebbe rimasto bloccato lì.
Ma cosa voleva fare? No, sinceramente: che cosa?
Il problema era che non lo sapeva neppure lui. Non una novità, gli era capitato fin troppo spesso nel corso della sua vita ed era stato uno dei motivi principali per cui la sua vita non aveva corso proprio, ma al massimo zoppicato e arrancato qui e là. Solo che adesso non si trattava di obiettivi vaghi, che potevi anche seppellire sotto una nebbia di parole, ma di qualcosa di molto, molto concreto: doveva decidere come passare la notte. E dove passare la notte. Ed era quasi il tramonto.
Ci pensò un poco, ma il suo cervello era una scimmia che batteva i piatti, mentre cespugli secchi e quasi sferici rotolavano lenti attraverso un paesaggio desertico. Anche questa non era una novità. La sua mente era spesso un mortorio, soprattutto quando cercava di cavarne fuori qualche idea, magari anche buona, o almeno passabile. Quando la lasciava libera di fare ciò che voleva, o la abbandonava a se stessa, tendeva a riempirsi in un attimo di ciarpame assortito, nonché inutile. Poteva essere una specie di metafora della condizione umana, o almeno della condizione di certi umani. Tipo lui.
Si arrese.
Ad Andrea Molli succedeva spesso, quando non sapeva cosa fare. Sceglieva di non scegliere, ma di rinviare la scelta a giorni migliori. Prendeva tempo. Aspettava. E, come si è detto più di una volta, il risultato era stato che era venuta sera mentre pensava ad altro, ma questo non lo aveva poi cambiato davvero. Ancora aspettava, ancora rinviava, ancora restava fermo ad attendere il bus.
Siccome stava venendo sera anche in senso letterale e non solo metaforico, Andrea si diresse verso un alberghetto da poco, che ricordava dalla sua giovinezza e che, contro tutte le aspettative, pareva non essere ancora fallito. La vita riserva spesso sorprese, anche se non sono necessariamente belle o interessanti. Dettagli. L’albergo era lì, seminascosto in un vicolo, e aveva sempre la stessa aria priva di speranze e di stimoli, da un certo punto di vista come lo era lui stesso. Una buona combinazione.
Il nome era semicancellato: poteva essere l’albergo Floff, ma probabilmente era Flora, che almeno aveva un qualche senso. Andrea entrò, chiese una stanza, la ottenne, ritirò la chiave, salì una rampa di scale. L’aria era un poco pesante, ma non puzzava. Tracce di un qualche detergente aromatizzato a sostanze chimiche non precisate. Niente macchie di umidità, ma tappeti prossimi alla dipartita. Si poteva accontentare. Si sarebbe accontentato. Era comunque meglio di dove viveva di solito.
La stanza offriva una incantevole vista sul muro dell’edificio di fronte.
Andrea scrollò le spalle, sfilò le scarpe e si afflosciò sul letto. Ok, aveva rinviato per un poco la sua necessità di decidere, ma adesso cosa doveva fare? Tipo per mangiare, ad esempio. Le sue riserve si stavano riducendo più del previsto e si vergognava sempre a dovere usare soldi. Li usava lo stesso e non di rado, d’accordo, però si vergognava. Un poco. Quando ci pensava. Meglio non pensarci.
Il cibo non era un problema. Lo poteva risolvere con qualche robaccia da asporto. Aveva visto più di un locale del genere, quel giorno; sembravano la sola parte del paese a non essere ammuffita. Un pensiero non molto bello, forse, ma comune. Magari avrebbe anche fatto due passi al buio, tanto per tirare tardi e far passare altro tempo. Dormire gli riusciva sempre difficile. Era il periodo in cui nella sua testa saltavano tutti i freni e le fantasie si mescolavano a memorie, rimpianti, recriminazioni e in generale a qualunque cosa passasse nei paraggi. Era il periodo delle storie a bivi. Immaginiamo che sarebbe successo se avessi fatto così invece di cosà. Se avessi preso questa strada invece di quella.
Non un bel modo di passare la notte. Per forza anche il sonno gli girava alla larga: a infilarsi nella sua testa c’era da diventare scemi. Quindi sarebbe uscito a camminare un poco. Era buio, era metà settimana: non ci sarebbero stati pericoli, giusto? Bastava un minimo di attenzione e mimetismo.
Riposò un poco, poi uscì. Raggiunse il centro molto circospetto, si procurò qualcosa da asporto che aveva l’aria commestibile a sufficienza e lo mangiò su una panchina seminascosta nel vicino parco. Si sentiva in parte ladro e in parte scemo, un mix piacevole a modo suo. Era quasi come essere un ragazzo di nuovo, ma senza le attenuanti di quella età. Nonché senza alcune delle rotture di scatole di quella età, ma è un altro discorso. Non si stava proprio divertendo, ma per adesso non era male.
Gettò la carta in un cestino, si fermò a una fontanella per sciacquarsi la bocca, si distese la schiena e ne ricavò un gradevole concerto vertebrale. Un problema pratico risolto, altri mille ancora in attesa, tanto tempo da occupare. Poteva scegliere uno dei percorsi che si divertiva a seguire da ragazzo, in tutte le frequenti occasioni in cui non riusciva a trovare altra compagnia per le serate. Tempi lieti, in cui ancora non immaginava quanta solitudine avrebbe inghiottito in futuro e in quanta parte sarebbe stata autoimposta, per ridurre i problemi e gli imbarazzi.
A ripensarci, non era una grande idea. Perché farti un clistere di nostalgia, se lo potevi evitare? Per adesso Andrea lo poteva ancora evitare, quindi lo avrebbe evitato. La passeggiata ci stava, ma lungo altre strade, su cui i ricordi spiacevoli non si erano sedimentati. Già meglio. Non perfetto, ma era un passo avanti rispetto alla prima bozza. Facciamo progressi.
Cazzeggiò ancora un poco nel parco, per assicurarsi che facesse buio a sufficienza, poi si allontanò perché faceva buio a sufficienza e non voleva che eventuali carabinieri di ronda lo scambiassero per un maniaco sessuale in agguato. Uomini di mezza età che si aggirano da soli al buio nel parco, beh, possono dare una cattiva impressione, soprattutto di questi tempi, con certi pregiudizi e la pubblicità negativa che circola. Lo capite anche voi. Andrea Molli non era un maniaco, o almeno non quel tipo di maniaco, per cui ritenne che fosse il momento giusto per cambiare zona. La cambiò.
Camminò a lungo, evitando con cura ogni figura umanoide che potesse sembrargli familiare anche solo vagamente e di sfuggita. Niente rischi, se possibile. Di tanto in tanto si fermava per un poco a guardarsi attorno, confrontando il presente con la memoria. Aveva scelto apposta strade dove aveva pochi ricordi, lontani dai suoi soliti percorsi, o almeno tanto lontani quanto lo possono essere in una città così piccola che neanche vale la pena di chiamarla città. Paese, semmai. Paesino, anche, se non vuoi esagerare o se ti ha fatto girare le palle di recente. Ma non voleva rischi, neppure psicologici.
Li trovò lo stesso.
Il caso, il destino o la sfiga lo portò a guardare un portone qualunque di un edificio qualunque. Non il genere di edificio che avrebbe scelto di guardare, perché era piuttosto anonimo, ma sembrava più recente degli altri, anche se non proprio nuovo. Forse Andrea aveva abbassato la guardia per questo. Che pericolo ci può essere in un edificio che non era ancora stato costruito quando lui aveva vissuto qui? Nessuno, giusto?
Sbagliato. La prima targhetta che vide non era un residente, ma uno studio. Di uno psicologo. Anzi, di una psicologa. Era un nome che gli sembrava familiare, ma subito non lo riusciva ad accostare a qualcuno, una faccia, una sagoma. Poi ci riuscì e la memoria lo colpì nei denti come una calza piena di sabbia, fatta roteare con violenza insensata e gratuita.
Conosceva quel nome. Conosceva quella persona.
Cercò di affogare il ricordo come una nidiata di gattini non voluti, ma continuava a riemergere e gli rifilava una nuova mazzata nei denti a ogni tentativo di sopprimerlo. Alla fine si arrese; si consegnò per qualche minuto a una malinconia velata di rimpianto, molto spiacevole ma molto familiare. Non era così che sarebbe dovuta andare, ma era andata così. Come al solito.
Scuole medie, terzo anno: ecco dove l’aveva conosciuta. Beh, forse dire che l’aveva conosciuta era un poco eccessivo, ma almeno aveva scoperto che esisteva e quale fosse il suo nome. Lei forse non aveva mai scoperto che lui esisteva, d’accordo, ma era un dettaglio secondario. Il punto era che lui aveva scoperto che esisteva lei. Lui, Andrea Molli.
E non aveva mosso un dito.
Ok, in realtà ne aveva mosso anche più di uno, specie in solitudine, ma qui stiamo parlando in senso figurato. L’aveva vista, l’aveva trovata bella, si era preso la classica cotta da scuole medie e mai che avesse provato anche solo a rivolgerle la parola. Perché? Ma perché era un andreamolli qualunque e sapeva già che sarebbe andata male. O così si era giustificato, parlando da solo. Aveva la vaga idea che fosse meglio arrendersi subito, invece di provare ed essere bastonati. Non era logica, ma era una sua idea, che si era messo in testa chissà come e chissà perché. Non se l’era mai tolta, il che poteva spiegare parecchio sulla sua vita, se mai qualcuno avesse voluto indagare.
Finora nessuno aveva voluto. O potuto, in effetti.
«Forse dovrei chiamarla e prendere un appuntamento,» si disse, e sorrise un poco. Non lo avrebbe mai fatto, ovvio. Gli psicologi costavano parecchio e comunque non avrebbe mai avuto il coraggio o la sfacciataggine di presentarsi davanti a una sua cotta delle medie e raccontarle i fallimenti che si potevano anche definire “vita”, in mancanza di meglio. Non che lei avesse mai saputo di essere una sua cotta delle medie, e forse neanche che lui era esistito, ma lo sapeva lui e tanto gli bastava. Non l’avrebbe mai chiamata. Ovvio.
Si allontanò.
«Chissà come sarebbe andata se io ci avessi provato e lei per qualche miracolo avesse accettato?»
Fantasticò un poco lungo questa direzione, mentre i piedi lo portavano dove capitava. Si annoiò a breve, perché le sue fantasie potevano svilupparsi solo in due modi: essere realistiche e composte di fallimenti, oppure essere irreali e composte di successi. Non sapeva trovare vie di mezzo e questo le rendeva piuttosto noiose, sul lungo termine. Meglio passare ad altro.
Un gioco di meditazioni incrociate lo riportò a pensare a Piero, che era stato il suo miglior amico da ragazzi. Quello con cui passava più tempo, almeno. Andrea non era certo di aver mai avuto davvero un miglior amico, o anche solo un amico. O meglio, forse gli altri si erano considerati suoi amici, sì, ma lui aveva sempre messo una specie di muro nel mezzo. Da una parte Andrea Molli e dall’altra il resto dell’universo. O qualcosa del genere, ci siamo capiti.
Roba da psicologi, si potrebbe dire. Solo che lui non ne avrebbe mai parlato con uno psicologo. E in particolare non con una psicologa di cui aveva appena incontrato il nome. Figuriamoci.
Ma torniamo a Piero. Da quanti anni non lo vedeva? Andrea non lo ricordava di preciso, ma doveva essere stato un qualche momento nel corso della sua vita universitaria. Secondo anno? Terzo? Roba del genere. Attorno alla metà del suo corso di laurea, forse poco dopo. Si erano persi di vista perché, beh, si sa, perché...
Perché si erano persi di vista? Andrea non ricordava di preciso neppure questo, ma sospettava che il movente per la rottura non esistesse davvero. Dovevano essere scivolati lontano un po’ alla volta, io vado da una parte e tu dall’altra, quel genere di situazione. Corsi diversi, interessi diversi, abitudini diverse, frequentazioni diverse. Succede. È facile. A chi non è mai capitato?
A qualcuno, probabilmente. Se ne hai davvero voglia, i contatti li riesci a mantenere. Sfilacciati, ok, e con tutta la provvisorietà delle foglie di Ungaretti, ma non è necessario perdersi del tutto. Bastano gli auguri di compleanno, magari una cartolina ogni tanto, un saluto quando capita, cose così. Se si vuole davvero, si riesce a mantenere attorno una persona, anche solo a distanza di sicurezza.
Lui non aveva voluto. No, non è vero: metterla così significherebbe attribuire ad Andrea Molli quel tipo di forza di carattere che non aveva mai sentito di possedere. Più che altro, aveva lasciato che le cose andassero così. Non si era preso la briga di impedirlo. È normale, si era detto. Succede. Niente che io possa fare per impedirlo. Ma lo voglio impedire? Beh, sì, più o meno, si capisce. È un amico. Lo era. Ma non c’è niente da fare, no? E niente aveva fatto.
Sì, doveva essere andata così. Andrea contemplò per un poco la presa di coscienza, poi la mise in un angolo e passò ad altro. Ormai era andata così, niente che ci potesse fare. O che ci volesse fare. Già.
I suoi piedi traditori lo stavano riportando verso una zona troppo frequentata del paese, che faceva più o meno le funzioni di un centro. Non che ci sarebbe stata molta gente a quell’ora in quel periodo dell’anno, vero, ma perché rischiare? Aveva già incontrato la madre di Piero ed era stato ben più che sufficiente. Meglio allontanarsi.
Si allontanò. Camminò nei dintorni del campo sportivo, che sembrava un poco più triste di quanto lo ricordasse, ma soprattutto era fuori mano: non ci sarebbe passato nessuno di sicuro, non col buio. Lo circumnavigò, ciondolò avanti e indietro non sapendo cosa fare, poi infilò una scalinata e salì al cimitero comunale, non il più amoenus dei loci, ma di sicuro deserto. Lo era. Col cancello chiuso e il parcheggio vuoto, ti dava una certa tristezza, ma in fondo era un cimitero, che cavolo! Non ti puoi aspettare che sia allegro e pieno di vita, no?
Cosa era venuto a fare lassù? Andrea se lo domandò, ma non seppe trovare risposte decenti. Evitare possibili incontri sgraditi, d’accordo, e magari sgranchirsi le gambe, prendere una boccata d’aria, la frase fatta che preferisci, questo e quello, palle varie. Venendo al dunque, però: cosa faceva lì?
La domanda lo infastidiva. Lo infastidiva ancora di più perché non c’erano risposte, o almeno non a sua disposizione. Non risposte che gli piacessero. Forse era tempo di rientrare in albergo e dormirci sopra, che ne dici? Stai solo perdendo tempo. Ok, ne hai in abbondanza, ma ci sono modi migliori a disposizione per perderlo, se è questo che vuoi. Allora?
Andrea Molli annuì. Vero. C’erano modi migliori per perdere tempo che starsene davanti al cancello del cimitero del suo paese natale, di notte. Non sarebbe neanche dovuto tornare lì, in effetti, ma era successo e pazienza. Se ne sarebbe andato domattina, magari col primo treno. E poi?
Scacciò la domanda come la più fastidiosa delle mosche. Al poi avrebbe pensato poi, se necessario. Se invece non lo era, tanto di guadagnato.
Nella sua stanzetta di albergo Andrea dormì. E sognò.
Fu il sogno di un pomeriggio estivo di molti anni prima, riveduto e corretto come soltanto il mondo onirico sa fare. C’erano molti degli elementi che aveva posseduto anche nella realtà, arricchiti dalle stramberie che una mente sa produrre quando nessuna coscienza è al volante ed è libera di saltellare tra associazioni insensate, riferimenti incrociati, pattume e tutto ciò che trova nei paraggi. Ne risultò qualcosa di piuttosto interessante, a modo suo, ma anche parecchio irreale.
Lui e Piero, età presunta dodici anni o dintorni. Erano in collina, come a volte facevano quando non sapevano come passare il tempo o cosa inventarsi: mollavano tutto e salivano sulle colline dietro la casa di uno di loro, per girare, esplorare, immaginarsi cose e a volte fare qualche danno, ma nulla di serio, solo sciocchezze da bambini. Perché erano bambini, dopotutto. Quel giorno erano dietro casa di Piero, per motivi che nella realtà Andrea non ricordava e nel sogno non erano rilevanti.
Erano appena sbucati dal solito intrico di cespugli e rovi, che chissà perché a Piero piacevano tanto, ma ad Andrea piacevano come una vomitata in testa. Ti graffiavi, in mezzo ai rovi. Ti impigliavi. Ti riempivi di insetti. Una gran rottura di scatole e nessuna persona sana di mente ci si sarebbe andata a infilare di propria spontanea volontà. Non che si fosse mai lamentato. Piero guidava e lui seguiva e obbediva. Era quel genere di amicizia, capite.
Ma erano appena sbucati da cespugli e rovi, dicevamo, e davanti a loro si apriva la cima del colle, che nel sogno era molto più grande di quanto lo fosse stata nella realtà, ma erano dettagli. Il punto era che la cima appariva spianata, quasi livellata. Da un lato, sulla sinistra, il terreno saliva ancora un poco in una protuberanza che doveva essere la cima reale, ma pareva un mozzicone rosicchiato e abbandonato lì. Il lato più vicino a loro era frastagliato, scavato. Non sembrava naturale; era come se qualcosa avesse mangiato via mezza cima, la metà davanti a loro, per fare spazio a qualcos’altro.
Il qualcos’altro si era già coperto di erbacce e altri cespugli, almeno ai bordi. Al centro era visibile e vuoto. Erano due stagni, uno di fianco all’altro, uguali in apparenza, non molto grandi ma ben più regolari di quanto uno stagno naturale abbia diritto di essere. Perché non erano naturali, ovvio, ma il bambino di ieri non sapeva quello che l’adulto di oggi pensa di sapere, per cui vedeva solamente la coppia di stagni, anzi laghetti, così curiosi e così uguali.
Si erano avvicinati, lui e Piero, ma non troppo perché il terreno era molle e non sembrava proprio il posto più stabile del mondo. Esplorare poteva anche andare bene, ma nessuno dei due aveva voglia di farsi scaraventare in un laghetto da un cedimento improvviso. Anche perché, da vicino, non erano molto incoraggianti. C’erano canne o erba simile, attorno, e l’acqua era scura, quasi nera, e c’era un piccolo pontile di legno, molto corto e molto marcio, che si allungava per qualche metro sull’acqua.
Sembrava il genere di laghetto dove trovi insetti schifosi, tipo sanguisughe o peggio. E magari era fondo e non toccavi. Anzi, era il genere di posto in cui non vuoi toccare, perché chissà su cosa metti i piedi, se ci provi, ti ricordi quel film, quello della settimana scorsa, che non era proprio dell’orrore, però un po’ sì, hai presente? Non pensi che ci assomiglia? Dico, come aria. L’atmosfera, ecco.
Andrea lo pensava e concordava, tanto nel sogno come aveva fatto in una realtà lontana decenni. Il posto era bello, sì, ma allo stesso tempo non lo era, a seconda di come lo guardavi. E al centro c’era una specie di obelisco: al centro di tutti e due i laghetti, perché erano uguali, no? Ma uguali uguali. Che senso aveva? Cosa ci faceva? Era una specie di, non so, quelle pietre che metti per ricordare un qualcosa che è successo? O era proprio un obelisco? E cosa ci faceva un obelisco lì in mezzo a uno stagno, laghetto, quello che era? A due laghetti, anzi. Non aveva senso, no?
Nella realtà si erano fermati per un po’ a guardare e girare attorno, ma non troppo vicini ai bordi, in cerca di risposte che non avevano trovato e scambiandosi le spiegazioni più assurde e fantasiose che si riuscivano a inventare. Se ricordava bene, poi, si erano proprio immersi in una fantasia incentrata sui laghetti e ne avevano fatto una specie di gioco che era anche una storia, una di quelle cose che si fanno da bambini, sapete. Nella realtà. Se ricordava bene.
Nel sogno Piero si era avvicinato al laghetto di destra, dicendo che aveva trovato una traccia e c’era bisogno di seguirla. Andrea lo aveva seguito, ma solo un poco e controvoglia: non aveva trovato la traccia, lui, e un frammento collegato alla realtà gli suggeriva che stavano per succedere cose brutte, perché era quel genere di sogno ed era arrivato al punto in cui tutto si metteva male, quindi meglio salutare la compagnia e svegliarsi, o almeno cambiare sogno, grazie. Tipo, farlo subito. Adesso.
Andrea non si era svegliato e non aveva cambiato sogno. Piero aveva continuato ad avvicinarsi allo stagno, o laghetto, e ovviamente qualcosa di brutto era successo. Qualcuno era sorpreso? Andrea no, almeno nella sua versione di osservatore semiconscio del sogno. Nella sua versione di personaggio del sogno, invece, la sorpresa c’era stata, assieme a tanta paura. Non si ricordava di avere provato in altri sogni sentimenti così forti, anche se magari gli era successo, ma in quel particolare momento li provò, ed era brutto. Aveva paura, appunto. Fenomeno curioso.
Il laghetto era come esploso con un terribile boato. L’acqua era spruzzata verso il cielo, alla maniera di un geyser, e aveva continuato per parecchio, su e su, tonnellate di litri d’acqua, come se là dentro ce ne fosse un oceano. Andrea aveva chiamato, forse Piero o forse un suono a casaccio, la semplice espressione della sua sorpresa, paura, quello che era. Poi l’acqua aveva smesso di spruzzare verso il cielo ed era proprio sparita: il laghetto era un bacino vuoto, regolare, profondo forse due o tre metri. C’era erba là sotto. Andrea la vedeva così bene perché adesso si trovava sul bordo, anche se lui non si era mosso. Ma era un sogno, per cui è normale che succedano cose simili.
Piero era sparito. C’era un bacino vuoto, con la forma di un parallelepipedo smussato, ed era stato il laghetto. C’era un pilone che assomigliava un poco a un obelisco, proprio al suo centro. C’era anche il piccolo pontile diroccato, qualunque fosse il suo scopo. C’era erba sul fondo. C’era erba sui bordi. Piero non c’era più. Volatilizzato, come l’acqua del laghetto di destra.
Poi aveva sentito un rumore, una specie di gorgoglio da lavandino intasato. Andrea si era girato e il secondo laghetto, a sinistra, stava bollendo, o almeno c’erano bolle che salivano in superficie in un punto più o meno a metà strada tra il bordo e l’obelisco. Aumentavano. Si espandevano. Ad Andrea non era piaciuto per niente, così aveva voltato le spalle al laghetto ed era sprintato verso l’orizzonte, senza «Bip-bip!» ma l’idea era quella. O aveva tentato. Era un sogno e in certi momenti non riesci a correre bene, in un sogno. Corri piano, come immerso nella melassa, e qualunque cosa ci sia dietro di te, beh, puoi essere sicuro che è sempre più veloce e ti prenderà. Puoi solo cercare di svegliarti, e farlo subito. Prima che arrivi. Prima che ti prenda.
Andrea ci aveva provato, ma senza riuscirci. Una esplosione dietro di lui, un boato di acqua sparata verso le stelle, qualcosa che gli sfiorava la schiena, quasi lo afferrava, poi era scivolato in un altro sogno, che non era proprio come svegliarsi ma in certi casi poteva bastare.
Camminava in una strada nel centro di Bologna. La riconosceva dai portici, dall’architettura e dalla terribile afa estiva che soltanto la pianura padana ti sa regalare nelle sue giornate peggiori, che sono poi quasi tutte. Entrò in un negozio di strumenti musicali e il commesso che gli diede il benvenuto era il suo professore di italiano del liceo, con una piccola differenza: nel sogno aveva il pizzetto. Gli stava parecchio male. Andrea disse che voleva una quena. Il commesso annuì e lo guidò al piano di sotto, aprì uno sportello ed estrasse una specie di larga cravatta arrotolata male, fatta di argilla molle e decorata in modo molto pacchiano. Era pure crepata.
Non assomigliava a un flauto. Non assomigliava neppure a uno strumento musicale che qualcuno di forma umanoide avrebbe mai voluto suonare, o anche solo saputo suonare. In breve, non era certo la quena che cercava lui. Nonostante questo, il suo io onirico annuiva e si preparava a sputtanare cento euro per comprare quella schifezza. Quella inutile schifezza. No! Fermati!
Andrea si svegliò.
Era nel letto di una stanza triste di un alberghetto triste. Non c’erano quena, professori o laghetti che esplodevano. Non c’era neppure molta luce, per cui doveva essere ancora notte, ma gli andava bene così. Era la realtà e in quel momento la realtà gli piaceva, anche se la carta da parati di quella stanza non sarebbe mai esistita nel migliore dei mondi possibili, neanche dopo che Leibnitz si era scolato tre litri di birra a stomaco vuoto. Dunque non era il migliore dei mondi possibili. Era la realtà. Bene.
Coricato a occhi semichiusi, le mani giunte e posate sulla pancia, Andrea Molli rifletté per un poco sui sogni che aveva fatto. Quello del negozio era un delirio e lo poteva ignorare. Quello dei laghetti, invece, conteneva dosi fin troppo alte di realtà. O di ricordo, che non sempre corrisponde alla realtà reale. I laghetti erano esistiti davvero. Lui e Piero ci erano andati davvero. Non erano esplosi e nessuno era sparito, ma a modo loro erano stati un posto curioso. Un pomeriggio curioso.
Cosa poteva significare, ammesso che avesse un senso? Qualcosa di sessuale ad ascoltare Freud, ma Freud era vecchiume e lo si poteva anche saltare. Altro riferimento involontario alla psicologia. Non un bel segno, ma era di sicuro una falsa traccia e Andrea decise di ignorarla. Se poi la vita la finiva di scaricargli tra i piedi certi riferimenti, tanto di guadagnato, ma era inutile aspettarsi qualcosa di positivo. Quando mai gli era capitato? Mai, per quanto potesse ricordare. E dunque.
Andrea proseguì ancora per un poco in un gomitolo di seghe mentali, poi si riaddormentò e buona parte di quella notte si disperse al vento, come spesso succede coi sogni. Non tutto. Rimasero tracce e frammenti, indizi, scorie. E, per motivi misteriosi, una gran voglia di gelato al pistacchio che non avrebbe mai saziato. Erano anni che non comprava gelati.
Il mattino seguente lo trovò avviato a grandi passi verso la collina, quella che un tempo si trovava dietro la casa di Piero e oggi presumibilmente si trovava dietro la casa di qualcun altro, se si erano trasferiti altrove. Andrea sperava di sì. Sarebbe stato molto sgradevole incontrare di nuovo qualcuno di quella famiglia. Non sapeva più cosa inventarsi per sfuggire alle domande più imbarazzanti, che erano poi quasi tutte, a parte forse «Scusi, che ore sono?». Ma la madre di Piero stava facendo spesa vicino alla stazione, che era a qualche chilometro da lì, quindi era ovvio che si erano trasferiti. No? Ditemi che è così, vi prego.
Nel dubbio, Andrea Molli cambiò strada. Sarebbe andato ai laghetti, ma li avrebbe raggiunti da una direzione diversa. Da sopra, invece che da sotto. Bastava salire in collina da un altro punto e fare un poco di strada, quasi tutta dritta, impossibile perdersi. Ok, magari era possibile perdersi, ma al più ci sarebbe arrivato con qualche chilometro extra, niente di grave. Era là, la maledetta collina: come si faceva a non centrarla? Non si faceva, ovvio. Quindi nessun problema. Probabilmente.
Non ne ebbe, anche se la strada che ricordava lui non era più come la ricordava lui. Nei decenni che erano passati le doveva essere capita qualcosa di molto brutto, perché l’asfalto era quasi tutto rotto o sradicato e assomigliava molto più a una carraia che a una onesta stradina di campagna. Superò un casolare sprangato e abbandonato, in mezzo a campi che i vecchi avrebbero descritto come andati in zerbi, qualunque cosa potesse significare. Alla malora, probabilmente. Il che poteva spiegare perché la strada fosse così scassata: se non ci viveva più nessuno, perché prendersi la briga di mantenerla?
Andrea proseguì in mezzo a scene che parlavano di declino e abbandono. Erano tristi, in un modo diverso da come era stato triste l’alberghetto. Sarebbe stato meglio non tornare, già. Se è questo che ti tocca vedere, molto meglio restare lontano. Sarebbe stato ancora meglio tornare indietro. Andare via, prima in stazione e poi verso la tana che a volte chiamava... beh, non proprio casa, ma almeno il posto in cui passava il tempo. Non ricordava case vere e proprie, non dopo la laurea. Non posti dove trovare calore e affetto, o roba simile. Solo edifici in cui si rintanava per adesso. A volte li chiamava “buchi”. Era una buona descrizione, migliore di molte altre, nonché più fine.
Pure, proseguì. Voleva vedere gli stagni, i laghetti, quello che erano. Non sapeva bene il perché, ma li voleva vedere. Forse dopo le cose avrebbero avuto un senso. Molto più probabilmente no, ma per un poco era bello illudersi. Andrea si illuse, per un poco.
Li raggiunse molto prima di quanto si sarebbe aspettato e per un attimo quasi non se ne accorse. Era cambiato tutto in quei decenni. Tanto per cominciare si era ristretto. E parecchio. Sia nei ricordo che nel sogno della notte prima lo spiazzo in cima alla collina gli era apparso grande, enorme, quasi una mesa da film western, uno di quei piatti altipiani desertici che fanno tanto scenografia. Li avete visti di sicuro, per cui non serve aggiungere altro. Non che il posto dei due laghetti fosse desertico, anzi: erbacce, cespugli, alberelli, insetti e tutto il resto dell’armamentario da campagna di un clima per il momento ancora temperato. Ma suggeriva un deserto. Perché era isolato, silenzioso, quasi alieno.
O così lo aveva visto il bambino e poi sognato l’adulto.
La realtà del presente era uno spicchio di campagna incolta e abbandonata. E uno spicchio alquanto piccolo, a volerla dire tutta. Uno sputacchio dimenticato. Qualcuno doveva avere scavato via giusto un angolo di collina, per chissà quale ragione, e lo spiazzo liberato era stato presto ricoperto da tutto ciò che può crescere spontaneamente su una collinetta. La cima era lì accanto e non mostrava più le tracce degli scavi, se mai le aveva mostrate davvero. I ricordi suggerivano di sì, ma i ricordi sono il più inattendibile dei testimoni, specie quando sono i nostri. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.
E i laghetti? Che poi dovevano essere stati bacini di irrigazione, altro che stagni, laghi o palle varie. Se l’abbandono generale della zona era un buon indizio, nessuno li usava più e probabilmente erano stati o svuotati, oppure abbandonati al destino. Pozzanghere inselvatichite e putride, quasi di sicuro. Valeva davvero la pena di rivederli e rovinarsi pure quell’ultimo frammento di memoria? Andrea si strinse nelle spalle e sospirò. Ormai che era arrivato lì, tanto valeva andare in fondo. E a fondo.
Con una smorfia si inoltrò tra le erbacce e l’altra roba che gli si attaccava ai pantaloni e cercava di graffiarlo. In mezzo al pattume vegetale era quasi sicuro di vedere la punta di almeno un obelisco, o forse anche di tutti e due. Chissà che cosa erano, in realtà, e a cosa erano serviti. Pali per misurare il livello dell’acqua? Forse, può darsi. Era l’unica ipotesi sensata che gli venisse, al momento, per cui la poteva anche tenere per buona. Non aveva molta importanza. Anzi, non ne aveva proprio.
Scostò l’ultimo arbusto e li vide. Anzi, quasi ci cadde dentro, perché doveva avere preso molto male le misure e si ritrovò proprio sul bordo del bacino, invece che a distanza di sicurezza. Non che una caduta lo avrebbe bagnato molto. Riempito di lividi sì, e magari ci poteva stare anche un osso rotto, ma acqua? Ritenta, sarai più fortunato. O meno fortunato, a seconda dei punti di vista.
Era il laghetto di destra ed era vuoto. Era in effetti un parallelepipedo dagli angoli arrotondati, come se li avesse progettato un designer che voleva sentirsi importante e far vedere che sì, aveva studiato tanto e wow!, guardate che fantastiche idee che gli venivano. Invidiosi, eh?
Andrea Molli non lo era. Assomigliava a quello che aveva visto nel sogno, ma la realtà indossava la maschera di abbandono e incuria che aveva caratterizzato tutta l’area. Cespugli e arbusti crescevano dove un tempo c’era stata l’acqua, e il pontile non esisteva più, crollato chissà quando. Rimaneva al centro l’obelisco, che assomigliava molto a un paletto piantato nel cuore del bacino. Fantastico.
I fianchi non erano molto ripidi e potevano essere tre metri al massimo, forse meno. Andrea sapeva che sarebbe riuscito a scendere e risalire senza troppi problemi, magari gusto un poco di fiatone e le mani sporche, se davvero lo avesse voluto. Ma lo voleva davvero? Voleva davvero scendere, magari per esplorare il fondo di quello che, anni prima, era stato un bacino idrico? Un laghetto, anzi, perché era così che lo avevano visto lui e Piero, da ragazzini.
Voleva davvero scendere?
Andrea Molli fu sorpreso di scoprire che la risposta era sì.
Voleva scendere, voleva esplorare. Voleva vedere cercare frugare. Voleva togliersi la soddisfazione, se c’era una qualche soddisfazione che ci si poteva togliere. E lo voleva perché ormai era arrivato lì e tornare indietro senza scendere sarebbe stato come, beh, come qualcosa di molto frustrante, sapete anche voi. Magari non proprio una occasione persa, ma qualcosa di simile. Quindi sarebbe sceso e lo avrebbe fatto perché gli andava così e perché non aveva voglia di pensare a una ragione migliore per farlo o non farlo. Punto.
Scese. E cadde. Poteva non esserci più acqua, ma il terreno era scivoloso, un poco viscido e anche più inclinato di quanto fosse sembrato da sopra. Così il suo piede destro perse il contatto col suolo, il sinistro non ebbe tempo per bilanciare il peso del corpo e Andrea si ritrovò seduto sul bagnato, o almeno sull’umidiccio. Nessun danno fisico, gravi danni morali. Nominò il nome di dio invano più volte mentre si rialzava e si spazzava il fondo dei pantaloni, decisamente poco asciutto.
Incidente a parte, era arrivato. Da sotto, il bacino aveva un’aria piuttosto sgradevole, non migliorata dallo scivolone. Puzzava di cantina, quell’odore stantio e umido, ma non freddo, che non fa proprio schifo, ma ti spinge comunque ad arricciare il naso. Il tipo di odore che potrebbero avere i mostri di infanzia, dimenticati nel ripostiglio della tua mente. O un vecchio sepolcro, anche. Ed era piuttosto caldo, di quello che ti resta appiccicato addosso e in estate si fa afa. Sgradevole, sì.
Andrea Molli si guardò attorno, ma non c’era alcunché di interessante. Erbacce, cespugli miserabili e molto probabilmente forniti di spine, pattume vegetale. Il terreno era molliccio, non fango ma una sua variante un poco più solida. Era spugnoso, ecco l’aggettivo che cercava. Non proprio gradevole. La sola cosa di un qualche interesse, per quanto potesse vedere lui, era il palo al centro, quello che da bambino aveva chiamato obelisco. In mancanza di meglio, Andrea lo raggiunse.
O meglio non lo raggiunse. Rimaneva ancora un poco di acqua, in apparenza, ed era proprio attorno alla base del palo, una specie di palude minuscola, dal raggio di un paio di metri al massimo. C’era da sporcarsi le scarpe, così Andrea Molli si fermò dove il terreno era ancora asciutto e si accontentò di guardare il palo da vicino, senza toccarlo. Non che fosse necessario toccare l’obelisco, ovvio, ma gli sarebbe piaciuto, per ragioni non chiare neppure a lui. Una di quelle cose che hai voglia di fare e basta, ci siamo capiti.
Qualcuno prima di lui lo doveva avere fatto.
Girando lentamente attorno al palo, e controllando sempre di mantenersi fuori della pozzanghera, il nome si cominciava a vedere quando avevi percorso circa un terzo della circonferenza, ma era solo sul retro che lo potevi ammirare in tutto il suo splendore. Per modo di dire, ovvio: era poco più di un graffito, tracciato da qualcuno che aveva o una pessima grafia, oppure poca manualità. Un nome, niente di più. Il nome di Piero.
Andrea si fermò. Così non era stato l’unico a scendere. Piero doveva essere tornato lì, in un qualche momento dopo che il bacino si era svuotato o era stato svuotato. Era tornato, era sceso proprio come lui, magari anche cadendo, aveva raggiunto il palo e aveva inciso il suo nome. Perché? Un semplice atto di vandalismo gratuito? Un modo per dire «io sono stato qui»? Un indizio? Un messaggio? Per chi? Una eventuale posterità? Altra gente con troppo tempo libero per le mani? Per lui?
Andrea scrollò le spalle. Non lo avrebbe mai saputo. O meglio, lo avrebbe potuto sapere soltanto se lo avesse chiesto a Piero, ma col cavolo che si sarebbe fatto vivo, dopo tutti quegli anni. E come lo avrebbe dovuto contattare? Cercandolo in una di quelle cloache social che tanto gli facevano schifo, per poi inviargli un messaggio? Siamo seri, per carità. Quale adulto avrebbe contattato una persona che non vedeva né sentiva da qualche decennio per chiedergli informazioni su uno scarabocchio che aveva trovato su un vecchio palo? Non certo Andrea Molli.
Un pensiero traditore gli suggerì che, se davvero voleva contattare Piero, poteva chiedere alla madre di lui. L’aveva incontrata giusto il giorno prima, dopotutto. Poteva essere un segno. Gli aveva anche detto qualcosa sul fatto che Piero non si faceva sentire da un po’, ma restavano madre e figlio, il suo recapito lo avrebbe avuto di sicuro. Volendo chiedere, beninteso.
Andrea valutò il pensiero, poi lo invitò ad andare a visitare un certo paese che conosceva lui. Se poi voleva, durante la visita poteva anche fermarsi a espletare certe funzioni fisiologica. Fissò il nome ancora per un poco, quasi invitandolo a parlargli, dargli un indizio, qualcosa, ma il maledetto nome si ostinava a rimanere zitto, semplice e rozza incisione su un vecchio palo.
Niente da fare. Completò il giro attorno all’obelisco, nel caso ci fossero altri messaggi. Non ne vide, ma un simpatico rovo gli si attaccò alla gamba sinistra dei pantaloni e quasi li bucò. Quello sì che era un chiaro segno, il segno che stava solo perdendo tempo e faceva meglio ad andarsene. Andrea lo ascoltò e uscì dal bacino. Alla fine. Col molta fatica e incalcolabili bestemmie.
Il bordo era davvero molto più inclinato di quanto gli fosse sembrato. Si era illuso di poterlo risalire in un attimo, giusto un mezzo sprint, cosa vuoi che sia, neanche tre metri, da giovane una salita così te la saresti mangiata per colazione. Da giovane, già. Da uomo di mezza età, invece, era la salita che rischiava di mangiarsi lui. Era ripida. Era scivolosa. Era piena di erbacce che non ti reggevano, se ti aggrappavi. Era... era uno schifo, ecco.
Fu quasi costretto a strisciare, ma un breve ritorno al passato evolutivo lo aiutò parecchio, anche se doversi trascinare a quattro zampe non migliorò il suo umore o le condizioni dei suoi vestiti. Pure, il nostro eroe era di nuovo in vetta e tanto gli bastava. Per il momento.
Si asciugò il sudore dalla fronte e guardò verso l’altro bacino. Voleva davvero andare a vedere pure quello? No. Lo sarebbe andato a vedere? Sì. Perché, come si diceva, ormai che era lì, che differenza faceva una fatica in più? Meglio togliersi il pensiero e basta. Soprattutto, la vista del primo bacino o laghetto, scegliete voi, non gli era piaciuta. Gli ricordava troppo il sogno sconclusionato che aveva fatto la notte precedente. Non che fosse successo qualcosa di simile, però glielo ricordava lo stesso, il che era male. Andrea Molli odiava l’idea dei sogni profetici. Non aveva senso ed era soltanto un insulto alla realtà. Non che il suo sogno fosse stato profetico. Non c’erano sogni profetici.
E non sarebbe mai andato a Bologna a comprare una quena.
Qualcosa luccicava in mezzo a erbacce e arbusti. Nel secondo bacino doveva esserci ancora acqua, e non solo in una pozzanghera attorno all’obelisco. Poteva essere un bene. Poteva essere un male. Il cuore di un impero di zanzare, per esempio, anche fuori stagione. Se c’era acqua, era stagnante di sicuro, cioè proprio il genere di brodaglia in cui gli orrendi succhiasangue brulicano e sguazzano.
Ma, come si diceva, ormai era lì...
Raggiunse il bacino di sinistra facendosi largo a manate e bracciate. Una spina che non aveva notato gli lasciò un bel graffio sul dorsi della mano destra, che non contribuì a migliorare il suo umore, ma il laghetto era lì, si apriva davanti a lui e wow!, era una schifezza di classe olimpica. Sul serio.
Lo ricordava scuro, piatto, circondato di canne palustri o come cavolo si chiamano quelle piante. Al centro l’obelisco, sulla destra il piccolo pontile e insomma più o meno uguale a come era apparso in sogno. Nulla di strano. Da qualche parte il suo cervello aveva pur dovuto recuperare il materiale con cui assemblare il sogno e lo aveva fatto dalla memoria più lontana, ritoccandolo qui e là per dare un senso al suo lavoro e far credere di essere creativo e fantasioso.
Il laghetto che vedeva adesso era scuro, su questo nessun dubbio, ma le sue acque avevano un’aria limacciosa che era rassicurante come il sorriso a pieni denti di un politico. Le canne c’erano ancora, ma sembravano smorte, forse malate. Una chiazza verdognola galleggiava più o meno a metà strada tra il bordo e l’obelisco, ma non si capiva se fosse acqua sporca o uno strano oggetto. Il pontile era affondato, crollato o altro: ne restavano due pali marci e storti, in buona parte sommersi. Su zanzare eventuali non si poteva esprimere, ma c’erano ronzii nell’aria che non gli piacevano affatto.
Il tempo aveva trattato davvero male quel povero bacino.
Andrea Molli lo contemplava con le mani in tasca. Ok, aveva rivisto i due laghetti: uno era vuoto e l’altro era una cloaca. E adesso? Aveva trovato il nome di Piero inciso nel palo al centro del bacino vuoto, una curiosità di vago interesse, ma per il resto era stata una perdita di tempo. Di nuovo. Anzi, peggio di una semplice perdita di tempo: aveva scoperto che uno dei luoghi mitici della sua infanzia (per valori molto bassi di mito, d’accordo, ma pur sempre mitico) era stato devastato dal tempo e ne restava una schifezza inguardabile. Favoloso, proprio. Il sogno di tutti.
Era deluso, d’accordo, e piuttosto scocciato, e anche questo ci stava, ma restava ancora il problema di cosa fare adesso. Tornare indietro e lasciare perdere, ecco la risposta migliore. La sola risposta al problema, se ci pensate bene. Che cosa poteva fare una nullità come lui? Niente. Quindi meglio non fare niente fin da subito e risparmiarsi fastidi in futuro. Era logico. Era coerente con la sua vita. Era inevitabile, a quel punto.
E gli bruciava. Ma tanto.
Tornare al suo paese natale era stato inutile e lo aveva appurato. Aveva pensato a un qualche livello che potesse esserci qualcosa per lui, ma non c’era o almeno non l’aveva trovato, che era lo stesso, in fin dei conti. Aveva cercato di evitare vecchi conoscenti e aveva incontrato la madre di Piero, poi la targhetta su un portone gli aveva detto che fine aveva fatto una sua cotta delle medie. Aveva scelto di fermarsi a dormire e aveva sognato i laghetti, così era venuto a rivederli e cosa aveva trovato? Un nome su un palo, un bacino vuoto e una specie di discarica liquida e fetida.
Se non lo vogliamo chiamare fallimento, come lo dovremmo chiamare?
Andrea Molli poteva pensare a diverse alternative, tutte volgari e alcune prettamente scatologiche. Meglio ignorarle. Cercò un sasso da scalciare stizzito, ma non lo trovò, così si dovette accontentare di scalciare l’aria, ma ci mise ancora più stizza, giusto per bilanciare.
Tempo di andare? Decisamente.
Voltò le spalle al laghetto e si incamminò. Per pochi passi. Un gorgoglio dietro di lui lo fece fermare malvolentieri. Se lo era sognato, giusto? No, aspettate, verbo sbagliato, rifare. Se lo era immaginato, giusto? Forse, può darsi, ma forse anche no. Merda. Si girò a guardare.
Tutto tranquillo, ma sulla superficie dell’acqua si vedevano alcune bolle. Salivano, si gonfiavano e svanivano. Poche, racchiuse in un punto vicino all’obelisco e anche alla macchia verdastra. Andrea le fissò per quasi un minuto, contò un totale di ventisette bolle emerse e svanite, poi scosse la testa e si chiese di nuovo se non stesse impazzendo. Cosa ci faceva lì impalato a contare le bolle? Con tutta la roba in decomposizione che doveva esserci dentro a quel laghetto, chissà quanti gas putrescenti si formavano e si liberavano nell’aria. Parecchi, a giudicare dal fetore.
Qualcosa in decomposizione, giusto. Semplici gas. Perfettamente naturale.
Andrea annuì. Era la spiegazione migliore e non serviva pensarci ancora. Così continuò a pensarci, ma almeno si decise a muoversi e ripartì verso il paese. Sentì un altro gorgoglio e lo ignorò, ma per qualche motivo accelerò il passo. Aveva voglia di andarsene, tutto qui. Tanta strada da fare, inutile perdere altro tempo. Ecco. Soltanto per questo cominciò a correre, poco dopo.
In stazione, in treno, via.
Il suo paese natale svaniva pian piano dietro di lui e Andrea Molli non ne sentiva la mancanza. Non che sentisse neppure il desiderio di fuggire, sia chiaro. Non sentiva alcunché, in positivo o negativo. Era stato qualcosa che aveva fatto. Adesso aveva finito di farlo e non serviva più pensarci. Proprio come non pensava più ai due laghetti, al nome di Piero, alle bolle. Cose successe, irrilevanti. Già.
Che senso aveva?
Tamburellava con le dita sul bordo del finestrino, mentre si rodeva il fegato e il suo sguardo posava sul paesaggio in allontanamento, vedendolo ma senza guardarlo. Non avrebbe avuto alcun bisogno di guardarlo. Qui e là c’erano cambiamenti, ma tutto il resto lo conosceva a memoria. Quante volte lo aveva visto, in passato? Troppe. Non lo avrebbe rivisto mai più. Se tornava con una certezza dalla pessima idea del viaggio, era proprio questa: aveva finito col suo paese natale.
Tempo di chiudere il capitolo. Niente più lo legava, solo ricordi, e i ricordi si potevano dimenticare. O si potevano autodistruggere. Era successo ai laghetti. Chissà a quante altre cose sarebbe successo ancora. Quindi non ci avrebbe più pensato. Perfetto. Una decisione sana. Per quanto sarebbe durata?
Abbastanza da portarlo a casa. Per valori molto bassi di casa. Era tardo pomeriggio quando Andrea raggiunse il monolocale sciatto dove si annidava in quel periodo. Con un poco di fortuna o sfortuna, avrebbe continuato ad annidarsi lì ancora per un pezzo. Era già durato molto più della media ed era decisamente a basso prezzo, anche perché assomigliava più a una cuccia di cane che all’abitazione di un ominide. Per Andrea Molli era sufficiente. Nessuno lo avrebbe cercato lì. Nessuno lo cercava mai, lì o altrove, ma lì c’erano ancora meno possibilità. Quando sei un nullafacente che campa sulla pensione di invalidità della madre rimbambita, hai buone ragioni per non volerti far trovare. O così la pensava Andrea e agiva di conseguenza ogni volta che poteva.
Entrò nel suo tugurio, chiuse la porta, si spogliò, gettò i vestiti infangati e macchiati sulla pila delle cose da lavare prima o poi, si concesse un facsimile di doccia, sedette. Si accorse che qualcosa non andava, così si alzò, infilò dei vestiti puliti a sufficienza e tornò a sedersi. Già meglio. Si sentiva più o meno quasi un essere umano, adesso.
La recente esperienza nel paese natale ricominciò a colare nella sua coscienza. Andrea la scacciò. Il ricordo rimase dov’era. Andrea si arrese. Se proprio la sua testa voleva pensarci, che pensasse pure. Lui si dissociava e non intendeva partecipare. Ecco.
C’erano problemi più importanti a cui dedicarsi. I suoi fondi, per dirne uno.
La madre era ufficialmente rimbambita. Ok, il termine tecnico non era proprio quello, ma il senso sì ed è il senso a essere importante, non i tecnicismi. Era stata riconosciuta incapace di intendere e di volere, o qualcosa del genere, e lui era stato nominato suo tutore in qualità di unico figlio. Ottimo, a modo suo. Significava che lui gestiva la pensione della madre e per un poco sarebbe sopravvissuto. Non che rimanesse molto da gestire, dopo avere pagato l’ospizio e derivati, ma qualcosa rimaneva e Andrea ci campava. Non bene, ma a sufficienza. Parecchio triste, lo so, ma è la vita.
Il viaggio era costato troppo. Era costato ancora di più perché era stato inutile, un puro sperpero dei suoi miseri fondi. O dei miseri fondi della madre, d’accordo, ma siccome li gestiva lui erano di fatto suoi. Se ci pensate bene, intendo. Il punto era che aveva sprecato un sacco di soldi, tra il viaggio e la stanza, e non ne aveva ricavato alcunché. Solo domande e fastidi. Pessima mossa.
Le domande le poteva ignorare. Era un esperto nell’ignorare le cose, il nostro Andrea, specie quelle che non gli piacevano. Aveva ignorato persone, impegni, responsabilità, dignità umana. Ignorare un paio di domande era roba da dilettanti, al confronto. Il problema erano i fastidi.
La visita al paese gli aveva attaccato un prurito e adesso non riusciva a smettere di grattarsi. Almeno una parte di lui non ci riusciva; l’altra avrebbe smesso molto volentieri, ma l’altra per adesso non si trovava al comando e così doveva sopportare e subire. Subire il prurito, sopportare i fastidi.
Andrea aprì il frigo in cerca di qualcosa con cui distrarsi. Trovò praterie desolate e cibo che doveva essere ancora commestibile a sufficienza. Lo provò. Sì, commestibile a sufficienza, anche se solo un veterano tra gli scarafaggi lo avrebbe definito buono. Andrea non era un veterano tra gli scarafaggi, almeno non ancora, ma era un veterano nel mangiare quello che c’era e farselo bastare. Forse in una vita passata aveva anche posseduto papille gustative, ma ormai si erano atrofizzate di fronte ad anni di orribili abusi gastronomici. Avrebbe mangiato qualunque cosa. Aveva mangiato qualunque cosa.
Masticava e inghiottiva. L’immagine del palo al centro del bacino vuoto, patetica e forse simbolica a modo suo, continuava a tornargli davanti alla coscienza (intesa non su un piano morale, ovvio). Il palo che avevano chiamato obelisco. Il nome inciso. Il nome di Piero. Che significato aveva? Quasi di sicuro nessuno, ma cristo che fastidio non saperlo! Sarebbe stato meglio non averlo visto.
Poteva fingere di non averlo visto? Qualcosa del tipo, non so, autoconvincersi che non l’aveva visto e col tempo, magari, cestinare il tutto come un breve peto mentale? Roba da psicologi e no, ecco già un’altra strada da non percorrere, perché portava ad associazioni mentali non gradite. Cominciava a sembrare un ridicolo campo minato, quella sua breve escursione nei tempi che furono. Forse tutte le escursioni nei tempi che furono diventavano ridicoli campi minati. Ecco un pensiero interessante.
Qualche tempo dopo, sbrigata per quella sera la pratica alimentare, Andrea Molli si ritrovò davanti a un computer quasi vintage, perso in una ricerca che, davvero, non avrebbe saputo dire nemmeno lui come fosse cominciata. Era però cominciata e adesso stava proseguendo, per quanto infruttuosa e a tratti frustrante. Cercava notizie, informazioni, e cercava soprattutto di convincersi che in realtà non le stava cercando, era solo un modo per passare il tempo e invitare il sonno, perché non dormiva più molto bene e a volte gli serviva un poco di sana o insana attività mentale e, beh, palle varie. Si sa.
Partì dal nome di Piero. Non trovò alcunché, se non un paio di omonimi e forse un riferimento a lui, vecchio di alcuni anni, dove si parlava dei vincitori di un concorso. Uno di loro era un Piero e aveva il cognome giusto, ma sarà stato anche quello giusto? Non c’erano abbastanza dati per determinarlo.
Le cloache social sarebbero state il luogo dove cercare, Andrea lo sapeva, ma col cavolo che lui si sarebbe registrato. C’era il rischio che qualcuno lo trovasse e comunque non aveva alcunché da dire o da condividere col resto del mondo. Non era neppure un esibizionista. Ergo, non gli servivano e le possibili conseguenze negative superavano di gran lunga ogni ipotetico beneficio.
Si arrese.
La seconda tappa fu una ricerca di informazioni sui due bacini idrici e la zona del paese in generale. Andò ancora peggio, come era facile da intuire. Trovò immagini satellitari, d’accordo, perché potevi trovare immagini satellitari di più o meno ogni cosa, ormai, ma non sembravano granché aggiornate e non mostravano una scena diversa da quella che aveva visto di persona. D’altra parte, non pareva una zona che cambiava molto da un anno all’altro. Potevano essere vecchie o recenti.
Chissà a quando risalivano? Forse c’era un modo per scoprirlo, ma Andrea non lo conosceva e così si accontentò di fissarle un poco e poi maledirle, chiudendo la pagina. La riaprì poco dopo, salvò un paio di immagini a una qualche maniera e provò a cercare quelle, nel caso qualcuno avesse caricato foto simili, magari proprio degli stessi due bacini, non si può mai dire, c’è gente strana di ogni tipo al mondo, metti caso che. Valeva la pena di tentare, no?
Immagini grossomodo simili le trovò, ma la somiglianza diventava sempre più tenue più scendeva nella pagina dei risultati. Considerato che era già scarsa in partenza, ben presto spuntarono piscine e altra roba inutile, nonché piuttosto irritante. Altro buco nell’acqua, ahaha che battuta.
E adesso? Era una frase a cui continuava a tornare e non gli piaceva per niente. Sapeva di persona in trappola, di mosca che sbatte contro la metà chiusa di una finestra e non si accorge che l’altro lato è spalancato. Non che ci fosse un lato spalancato nella sua storia, a parte forse l’uscita.
Sì, giusto. Poteva fare come aveva deciso all’inizio: dimenticarsi tutto e proseguire con la sua, beh, non la possiamo chiamare proprio vita, ma sopravvivenza sì, ci può stare. Annidato sotto a un sasso, nascondendosi dalla luce. Una vita da scarafaggio albino.
Andrea sbuffò. Per nessuna ragione particolare, o almeno nessuna che volesse ammettere, cercò poi il nome della psicologa, tanto per completare il quadro, ovvio. A giudicare da risultati e menzioni varie, sembrava cavarsela piuttosto bene. Non certo un pezzo grosso, ma con diverse pubblicazioni e pareri positivi. Nulla che la collegasse ai bacini, ma era ovvio. Si era imbattuto nella sua targhetta per puro caso, non certo per un qualche misterioso disegno divino o per una coincidenza nello stile di Dickens. Stava camminando, aveva alzato gli occhi e si era trovato davanti il nome. Succede.
Non avrebbe avuto alcuna parte nella sua storia, ovvio. Chiunque lo poteva capire. Solo uno stupido poteva pensare, chessò, che un incontro con lei, magari travestito da seduta di analisi, gli avrebbe in qualche modo fornito la chiave per comprendere il mistero, se un mistero c’era. Andrea non era uno stupido. Ok, magari lo era, ma non uno stupido di quel tipo. Quindi non lo pensava. Ecco.
Chiuse tutto e andò a sciacquarsi la faccia, non perché ne avesse bisogno ma solo per fare qualcosa. Ne aveva spesso bisogno in estate, quando il monolocale diventava un buco asfissiante di caldo e di umidità, e il fatto che l’estate continuasse ad allungarsi a causa del risaldamento globale non era una bella cosa, ma adesso il clima era accettabile e non era sudato. Era solo confuso. Frustrato. E molto seccato. E già, dimenticavo: gli avrebbe fatto comodo poter cancellare gli ultimi due giorni. Poiché non poteva, si spazzava via sudore inesistente dalla faccia. Surrogato poco efficace, ma pazienza.
Non ne poteva più. Considerò se valesse la pena di cercare altro, decise di no, spense tutto e si ritirò nello spazio che faceva funzione di camera da letto quando non stava già facendo funzione di stanze di altro genere. Monolocale, ricordate? Era convinto che non avrebbe dormito molto, Andrea, con la quantità di pattume che gli imbottiva il cranio, e soprattutto non si sarebbe addormentato in fretta o bene, se mai si fosse addormentato. Lo attendeva una notte lunga e sgradevole.
Ma anche no. In meno di cinque minuti da quando aveva spento la luce, anche gli interruttori dentro il suo cranio scattarono e lo spedirono nel mondo dei sogni, o almeno in quello stato di incoscienza a volte beata che tendiamo a chiamare sonno. Era piuttosto stanco, dopotutto, della stanchezza fisica ordinaria che ti sa stendere come mezza bottiglia di vodka scolata d’un fiato. Così Andrea dormì e per un poco si dimenticò di fastidi e interrogativi. Per sua fortuna.
Sognò cose scombinate e sconclusionate, dove ricordi di scuola si mischiavano a fantasie perenni, a comporre una brodaglia informe e priva di trama che saltellava di luogo in luogo, di tempo in tempo e di umore in umore. C’erano professori e personaggi storici, compagni di scuola e parentame vario e dimenticato, animali domestici e frammenti di film a caso. C’era pure un orologio a cucù con una mantide religiosa al posto dell’uccellino. Questo lo avrebbe impressionato molto, se solo se ne fosse ricordato, ma erano quei sogni che si dimenticano subito e forse fu meglio così.
Il giorno seguente se ne andò per intero in fastidi di vita reale. Lo chiamarono all’ospizio perché sua madre si era messa in testa una nuova fesseria e nessuno riusciva a farla stare buona. Andrea Molli si dovette subire quasi due ore di piagnistei e lagne varie, prima di capire che la vecchiaccia era alla ricerca di qualcosa che non era mai esistito, se non forse nei suoi sogni o deliri. Le raccontò balle, le rifilò una cianfrusaglia a caso e giù con una nuova razione di balle, finché la madre si calmò, forse perché soddisfatta o forse perché le era passato di mente quello che voleva.
Fu poi la volta di un medico che lo trattenne perché voleva parlare, spiegare, aggiornare, palle varie e assortite. Andrea finse di ascoltare, annuendo quando il tono della voce sembrava richiedergli una partecipazione affermativa, mugugnando quando ci si aspettava da lui un impegno o una posizione di qualche tipo, tirando a campare in attesa di tempi migliori, come sempre aveva fatto. Ancora non si erano visti i tempi migliori, ma almeno era già riuscito a campare abbastanza.
Rientrò che era quasi sera, con una spesa scarna e in gran parte in offerta. Nella sua mente non c’era spazio per laghi, bacini, nomi o altro: era solo stanco, sfinito, con un incipiente caso di orchite dello spirito e in generale di cattivo umore. Cosa avrebbe dato per essere a diecimila chilometri da quella vita? Ben poco, d’accordo, perché non aveva granché da dare, ma su un piano metaforico, o magari simbolico, avrebbe dato parecchio anche solo per una breve pausa.
Poco prima di dormire si accorse che si era trovato proprio in uno stato d’animo del genere, quando aveva deciso di tornare a visitare il suo paese natale. Non era un’associazione tranquillizzante. Che scemenza si sarebbe potuto mettere in testa adesso? Sperava nessuna, ma chi lo poteva dire? Lui no.
Risultò che non si mise in testa altre scemenze. Per adesso.
Trascorsero alcuni giorni tranquilli, anche se non piacevoli. Non erano molti i giorni piacevoli nella vita di Andrea Molli; non negli ultimi decenni, almeno. Accettabili sì, sopportabili anche, assieme a una pletora di variazioni sul tema della sgradevolezza, ma piacevoli? Ritenta, sarai più fortunato.
L’esperienza nel paese natale non era svanita ma dormiva, giaceva da qualche parte negli strati della sua memoria. Forse covava, forse scavava e si radicalizzava, ma almeno non gli rompeva le scatole, o le palle se preferite essere meno fini. Sua madre di solito preferiva non essere fine. Ogni volta che parlava, quasi un terzo delle sue parole avevano a che fare col campo semantico degli escrementi, in un giorno buono. In un giorno meno buono si saliva alla metà circa. Aveva almeno la giustificazione di essere rimbambita, ma questo non la rendeva più gradevole come compagnia.
Andrea evitava spesso e volentieri la sua compagnia. Al di là delle visite di rito, per fortuna, in quel periodo non si dovette recare in ospizio per sopportarla, il che era un bene. Impiegò il tempo libero per fare nulla, come al solito, ma lo fece senza la soddisfazione che di solito ricavava. Non perché a infastidirlo ci fossero pensieri e preoccupazioni particolari; più che altro, era come se qualcosa in lui si fosse spento. Gli era passata la voglia, ma in termini generali, non voglia di qualcosa di specifico.
Per un poco non se ne accorse, poi la realtà lo colpì in piena fronte mentre si preparava a mangiare un formaggio appena trovato in frigo, scaduto da una settimana ma di aspetto ancora accettabile. In altre occasioni si sarebbe lamentato, anche solo come pro forma, e avrebbe sospirato pensando alla fatica di raschiare i rimasugli dai denti, se erano collosi come una caciotta di alcuni meni prima. Lo avrebbe mangiato in ogni caso, ovvio, ma almeno avrebbe fatto un poco di scena, prima.
Adesso non ne faceva. Adesso non lo percepiva neppure come un problema o un fastidio. Che cosa gli aveva rubato le reazioni? Che cosa lo aveva lasciato spento e passivo?
Forse stava solo invecchiando. Dico su un piano spirituale, perché su quello fisico era ovvio e non c’era bisogno di specificarlo. Nella sua esperienza personale, i vecchi tendevano a diventare cattivi e lagnosi, odiavano tutto e tutti, mai che fossero contenti di qualcosa. C’erano eccezioni di sicuro, è chiaro, ma lui non ne aveva mai incontrate, o almeno non le ricordava, quindi nel suo immaginario i vecchi erano tutti uguali: lagnosi, arrabbiati, pieni di odio.
Forse lui stava diventando una eccezione, un vecchio spento e passivo.
Pensiero orribile. O forse no, non così tanto, ma era comunque qualcosa che Andrea preferiva non dover pensare, soprattutto non in relazione alla propria persona. Gli altri potevano anche diventare quello che volevano, chissenefrega; lui invece sarebbe diventato...
Cosa sarebbe diventato lui?
Andrea si accorse che non aveva mai considerato seriamente la propria vecchiaia. Era qualcosa che gli sarebbe capitato, prima o poi, ma sembrava soprattutto destinata agli altri. Non poteva succedere a lui. Qualcosa lo avrebbe impedito. Ma la sola cosa che potesse impedire la vecchiaia era la morte e la morte, beh, non era proprio un miglioramento. Non quello che lui avrebbe considerato meglio.
Quindi sarebbe invecchiato anche lui. Quindi stava invecchiando. Quindi...
Andrea si fermò. Pessima strada. Pessima linea di pensiero. Pessimo anche il formaggio, ma c’era poco da fare, almeno su quel versante. Sugli altri, invece, c’era parecchio da fare. Per prima cosa, la meditazione su vecchiaia e morte doveva essere interrotta. Non serviva, non era nel suo stile e poco ma sicuro gli avrebbe rovinato la digestione, ammesso e non concesso che fosse possibile rovinarla, vista la roba che stava mangiando. Improbabile, ma non si poteva mai dire. A volte c’era qualcosa di buono nella roba andata a male, no? Certe muffe, per esempio.
Seconda cosa, darsi una regolata. La sua vita faceva piuttosto schifo, per cui era naturale sentirsi un poco giù di morale di tanto in tanto, ma non era un buon motivo per tapparsi in casa col muso lungo a indossare un cilicio e flagellarsi. Solo gli stupidi lo facevano e lui, come già appurato, non era uno stupido, o almeno non apparteneva a quella categoria di stupidi. Dunque, basta pensieri tristi.
Terminò il formaggio e avvertì subito il desiderio di dedicarsi ad altri pensieri tristi. Non faceva poi così schifo; di più. Ma il suo stomaco aveva digerito sostanze ben peggiori, che lottavano coi denti e con le unghie lungo tutto il percorso, dall’ingresso nella bocca fino all’uscita dal, beh, diciamo dalla parte opposta. Quel formaggio era un dilettante. Ciò non lo rendeva meno schifoso, ma sistemava il tutto nella giusta prospettiva. Se ci pensavi bene.
I laghetti. O bacini, stagni, quello che erano. Ecco la causa dei suoi problemi recenti. Per motivi che gli erano ancora ignoti, non li riusciva a digerire. Conficcati in gola, non andavano né su né giù, e il resto della sua vita si stava ammassando contro quel blocco, un traffico congestionato come pochi. O magari no, magari c’erano traffici molto più congestionati, ma quegli ingorghi capitavano ad altri, non a lui, il che li rendeva inferiori. Le cose che capitano a noi sono sempre le peggiori, si sa.
Andrea sgombrò la tavola e finse di sciacquare piatto e posate. Ok, aveva individuato la causa, vera o meno che fosse. Trovare qualcuno o qualcosa a cui dare la colpa è sempre il primo passo verso la soluzione di ogni problema. Il secondo passo, di solito, consiste nel trovare qualcuno o qualcosa che lo risolva per noi. Siccome Andrea si era ritirato dal mondo, per scelta propria e altrui, non c’era un fesso a cui far risolvere il problema, quindi ci avrebbe dovuto pensare lui stesso. Brutta cosa.
Contemplò un pensiero semplice e terribile. Mettiamo di accettare sul serio l’invito della madre di Piero. Un raduno, magari un pranzo, memorie dei vecchi tempi, ti ricordi, e quella volta che, questo e quello, palle varie. Da pelle d’oca anche solo a pensarci, ma è una ipotesi. Piero ci sarebbe stato di sicuro, interessato o meno che fosse. Si sarebbe presentato anche lui, avrebbero parlato, riesumato i vecchi tempi, cose che avevano fatto e Andrea avrebbe potuto casualmente, distrattamente, gettare il più piccolo degli accenni a quella volta che. La volta in questione sarebbe stata la visita ai laghetti.
Piero se la sarebbe ricordata di sicuro. Non solo: avrebbe anche aggiunto della sua visita successiva, quella in cui aveva inciso il proprio nome sul palo, l’obelisco dei tempi che furono. Sarebbe stato lo sviluppo più logico, no? Avrebbe risposto a ogni domanda. E poi chissà, a fine pranzo, magari, già che c’erano, non era poi così lontano, in memoria dei vecchi tempi, sarebbero tornati assieme ai due bacini per l’irrigazione. Giusto per dare una occhiata. Nulla di importante. Vero?
Andrea Molli fu costretto obtorto collo ad ammettere che sì, avrebbe funzionato. Probabilmente. Se non c’erano ostacoli a lui ignoti. Non sapeva perché il suo inconscio o quello che era si fosse andato ad attaccare lì, con tutta la roba a cui si sarebbe potuto attaccare, incluso niente, ma lo aveva fatto e il modo più semplice e rapido per liberarsene sarebbe stato proprio contattare Piero e chiedere.
Lo avrebbe fatto? No, mai.
Un pranzo decente era una forte tentazione e avrebbe potuto tollerare almeno in parte e per un poco una fiumana di discussioni sul passato, ma presto o tardi sarebbe arrivato il momento di parlare pure del presente, cosa stava facendo adesso, cosa aveva fatto della propria vita. Ma cosa avrebbe dovuto dire lui? Sono un fallito che vive come parassita della madre rimbambita? Poteva immaginare già le occhiate che avrebbe ricevuto. C’era sempre la possibilità di inventare, ovvio, ma sarebbe riuscito a mantenere abbastanza a lungo una qualunque finzione? Ne dubitava. Mai stato il suo forte.
Peggio: una volta riallacciati i contatti, sarebbe riuscito a tagliarli di nuovo? Difficile.
Quindi si doveva arrangiare da solo. Quindi non si sarebbe mai liberato del pensiero.
Ruminò ancora per qualche giorno l’intera situazione, di tanto in tanto cercando qualcosa in rete e non trovando mai alcunché di utile. Per un altro periodo si sforzò di ignorare ogni cosa, dimenticare laghetti, il paese natale e palle varie. Si concentrò sulla fatica quotidiana di mantenersi vivo, lontano dagli sguardi altrui. Si dedicò a passatempi affascinanti come i solitari al computer, la lettura di libri scaricati dal progetto Gutenberg attraverso la rete Tor, per aggirare i blocchi nazionali. Per un poco, e con poca voglia, contemplò anche l’ipotesi di pulire davvero, mettere in ordine e riportare almeno una parvenza di civiltà nel monolocale. Non lo fece. C’erano limiti a tutto.
Cosa lo spinse a prendere di nuovo il treno e tornare al suo paese natale, una mattina di fine maggio con temperature da luglio inoltrato e afa da strizzare il cielo? Di preciso non lo sapeva neanche lui. Avrebbe potuto dare la colpa al sogno della notte prima, ma sarebbe stato stupido. I sogni sono solo sogni. Ne aveva sempre fatti, ne avrebbe fatti sempre. Il più recente non era certo stato né migliore né peggiore di tanti che lo avevano preceduto. Poteva al massimo avergli fornito l’occasione, forse il pretesto, ma la causa? Decisamente no.
Fosse come fosse, era tornato.
Uno spreco di soldi, pensò. Uno spreco di tempo, aggiunse. Ma i soldi non erano suoi e il tempo era sempre ottimo e abbondante, o almeno abbondante anche se non proprio ottimo. E comunque ormai era andata così: inutile continuare a pensarci. Andrea non continuò.
Emerse dalla penombra della stazione e si trovò davanti l’aiuola triste, che si sforzava di dare agli ospiti una specie di benvenuto. Sembrava un poco più triste della volta precedente, ma forse era la stagione, il caldo, il clima, quello che volete. Magari solo l’occhio dello spettatore, che proiettava la propria infelicità su cose, oggetti, luoghi. Esisteva probabilmente un nome per quella figura retorica e magari ai tempi della scuola lo aveva anche conosciuto. Adesso non più. Irrilevante.
La volta precedente aveva incontrato la madre di Piero che usciva da quel supermercato, più avanti sulla sinistra. O meglio, l’aveva vista con una borsa della spesa, per cui era probabilmente uscita da là. Sarebbe successo di nuovo? Andrea non lo sapeva. Non sapeva neppure cosa sperare, cosa fosse meglio. Un incontro volontario? Casuale? O nessun incontro?
Qualche preparativo lo aveva fatto, stavolta. Aveva cercato e trovato i recapiti dei genitori di Piero, anche se non quelli di Piero stesso. Si era documentato sugli orari di ambulatorio della psicologa, in caso di bisogno. O forse non si doveva parlare di ambulatorio, per gli psicologi. Ma come cavolo si chiamava il loro ufficio? Beh, quello che era. Orari di ricevimento, insomma. Non ci avrebbe mai e poi mai messo piede, ma per ogni evenienza, metti che, non si sa mai, meglio prevenire che curare e così via. Era sempre convinto che fosse una falsa traccia, una coincidenza vera, ma... Ma.
Aveva deciso, ma non si era ancora deciso. Prese tempo camminando e cazzeggiando nel parco, uno sguardo al laghetto, un altro alle vecchie altalene che forse però non erano poi così vecchie, è ovvio, non potevano essere le stesse dei suoi tempi, anche se ci assomigliavano parecchio. Passò vicino al centro, ma non lo attraversò. Guardò il municipio da lontano, la gelateria dove spesso si era fermato da bambino e che stranamente sembrava ancora viva, il negozio di una casta di ottici che invece non lo era più, vuoto e sbarrato. Metteva tristezza. Meglio smettere di girare e passare ai fatti.
Pure, ancora esitava.
Aveva sognato più di una volta i due laghetti e nei sogni c’era spesso un’altra persona. Piero, quasi sempre, ma ancora ragazzino perché, dopotutto, mica poteva sapere che faccia avesse oggi, no? Era da circa tre decenni che non si vedevano. Per quanto ne sapeva Andrea, il suo vecchio amico poteva assomigliare a qualunque cosa, adesso. Grasso, magro, invecchiato, plastificato, calvo, trapiantato o anche, perché no?, quasi al naturale. Ce n’erano di tutti i tipi, nel mondo.
Non era sempre Piero, però. Altre volte aveva trovato uno sconosciuto girato di schiena, lui stesso a dodici anni o dintorni, un pastore tedesco che beveva e una volta addirittura i suoi compagni di terza media che facevano il bagno. Quello era stato un sogno parecchio assurdo, specie quando il terreno si era aperto ed era uscito il suo vecchio relatore, arrabbiato perché aveva sbagliato un congiuntivo in un capitolo della tesi sui cormorani. Fortuna non si era ripetuto. Andrea non aveva mai fatto tesi sui cormorani, dopotutto. Non sapeva neppure come fossero fatti di preciso, i cormorani.
Ridendo e scherzando, i suoi piedi lo avevano portato davanti alla casa dove vivevano i genitori di Piero. Avrebbe potuto suonare il citofono. La madre lo aveva anche invitato. Sarebbe stato naturale, normale. Mi è capitato di nuovo di passare di qui, ho pensato di fermarmi a salutare, giusto così, per vedere come andavano le cose. O magari no, magari una frase migliore, ma il senso era che sarebbe stato facile trovare una scusa per attaccare bottone, fermarsi, chiedere notizie. La madre lo aveva di fatto invitato a farsi sentire. Era autorizzato, come un vampiro.
Non lo fece.
Guardò un’ultima volta la casa, il citofono. Voltò le spalle e tornò verso il centro, senza attraversarlo e senza fermarsi. Poca gente in giro, ma comunque troppa. Potevano conoscerlo. Riconoscerlo. Fare domande. Brutta storia. Meglio evitare tutto.
Sempre più traditori, i suoi piedi lo portarono davanti all’edificio con la targhetta della psicologa. Il suo nome era lì ed era chiaramente il suo, ma non lo voleva pronunciare, o anche solo pensare. Non che ci fosse un motivo preciso. Era stata una cotta passeggera. Non le aveva mai neppure parlato, ai tempi, e anche adesso era stato solo un incidente a disseppellire dalla memoria l’esistenza di lei, ma non ci voleva pensare lo stesso. Era una questione simbolica. Rappresentava, boh, tutte le occasioni perse, roba del genere. Ci siamo capiti. Come rileggere un tema delle elementari in cui dicevi che da grande saresti diventato un astronauta, quando adesso sei un fattorino precario di cinquant’anni.
Non è bello. Ti fa pensare a cose tristi.
Avrebbe potuto suonare il citofono della psicologa. Meglio ancora, le avrebbe potuto telefonare per fissare una seduta. Avrebbe risposto una segretaria, probabilmente, rinviando ancora di più il tempo del faccia a faccia. Avrebbe potuto fare tante cose, in effetti.
Andrea non le fece.
Guardò la targhetta ancora una volta, scrollò le spalle e si allontanò a testa bassa. Di nuovo. Tornato indietro per agire, per cambiare qualcosa, finora aveva ripetuto soltanto il passato. Passato recente, è vero, ma pur sempre passato e pur sempre ripetuto. Quando si sarebbe deciso ad agire? Forse mai. E forse era meglio così. Che avrebbe potuto combinare uno come lui, incapace persino di guardarsi in uno specchio senza avvertire il bisogno di sputarsi in faccia?
Ok, magari la realtà non era così drammatica, magari si vergognava solo un poco e poi si inventava una buona ragione per assolversi, ma la sua non era proprio una vita di cui essere orgogliosi. Non la potevi proprio chiamare vita, in effetti: era tirare avanti, come aveva già appurato e ammesso. Quale fosse il legame dei laghetti con tutto questo, poi, era un altro paio di maniche. Forse erano soltanto un altro simbolo. La sua testa li aveva scelti per rappresentare, uhm, qualcos’altro. O giù di lì.
Aveva senso. Per valori molto bassi di senso, d’accordo, ma bisogna sapersi accontentare. Andrea si sapeva accontentare. Ne aveva fatto una professione, uno stile di vita. Accontentarsi e tirare avanti, raschiando il fondo ma senza affondare. Giusto.
Che schifo.
Non ne poteva più. Non ne poteva più in generale. Soprattutto, non ne poteva più di quel paese. Se ci avesse dovuto passare un’altra ora sarebbe andato fuori di testa, ammesso e non concesso che non ci fosse già andato. Era possibile. Avrebbe spiegato molte cose.
Andrea Molli alzò la testa, respirò a fondo e si avviò verso la collina coi due laghetti. Stavolta si era preparato al pessimo stato della strada, con pantaloni robusti e scarponi che sì, d’accordo, avevano visto anni migliori, ma reggevano ancora ed erano abbastanza affidabili. Poteva quasi dire di essere pronto a tutto, anche se non era vero. Il terreno non gli avrebbe dato pensieri. Tutto il resto magari sì e forse anche brutti pensieri, ma se ne sarebbe preoccupato poi.
Se c’era davvero qualcosa di cui preoccuparsi.
Era sudato e fetido quando arrivò. Si fermò davanti al primo laghetto, ora vuoto. Valutò se scendere di nuovo. Era ripido. Faceva caldo. «Magari dopo,» si disse, e si accontentò di un giro completo sul bordo, per osservare il bacino abbandonato da ogni angolo. Nessuna illuminazione, nessuna grande rivelazione, ma almeno fece passare una decina di minuti, camminando piano e stando ben attento a dove posasse i piedi. Potevano esserci brutte sorprese. Meglio evitare incidenti.
Il graffito sul palo non si vedeva, non da lì. Troppo lontano lui e troppo piccolo il nome, ma sapeva che c’era e tanto gli bastava. Più tardi, forse, sarebbe sceso a esaminarlo di nuovo. O forse no. Cosa ci poteva essere di diverso rispetto all’ultima volta? Niente, ovvio. Scendere a controllare sarebbe al massimo comportamento ossessivo compulsivo, forse blando, simile a quello che ti induce prima a chiudere una porta e subito dopo a controllare che sia chiusa davvero.
Stava cazzeggiando. Cazzeggiando e perdendo tempo. Perché?
Scrollò le spalle. Irrilevante, per adesso. Completò il giro e si spostò sul secondo bacino, quello che era ancora pieno, anche se molto probabilmente non in uso. Non c’erano campi da irrigare, attorno. O meglio, i campi c’erano, ma abbandonati. Sterpaglie, erbacce; niente coltivazioni, niente segni di attività umana. Solo le memorie di vecchie attività, ormai abbandonate. Come i due bacini.
Il secondo, adesso. Il laghetto di sinistra. Acqua c’era, anche se lurida, e la strana chiazza verdastra era sempre lì, forse non proprio nello stesso punto. O forse sì. Perché si sarebbe dovuta spostare? Il lavoro di una qualche corrente? Sì certo, come se ce ne fossero, in quello sputo di stagno.
Però sembrava un poco spostata. Il vento, forse, o al massimo un cane randagio si era tuffato a fare il bagno e aveva smosso l’acqua. Nulla di rilevante nel suo caso. Una cosa rilevante era l’obelisco al centro del bacino. Quello sì che lo avrebbe voluto vedere da vicino. Non si aspettava di trovarci una incisione, nome o messaggio che fosse, ma... chissà. Non ne sarebbe stato troppo sorpreso. Poche le probabilità, ma non nulle: quel genere di situazione, capite.
Non lo avrebbe mai scoperto. Un cane randagio poteva anche essere stupido a sufficienza da tuffarsi in quella schifezza, ma lui no, mai e poi mai. E non c’erano strade per raggiungere l’obelisco, se tra le tue abilità speciali non rientrava anche il camminare sulle acque. Siccome camminare sulle acque non rientrava nel curriculum di Andrea, si sarebbe dovuto tenere la curiosità. Oh beh, pazienza. Era sicuro di poter sopravvivere alla delusione. Gli succedeva da anni.
Fece un giro completo anche attorno al secondo bacino, fissando le acque e sfidandole a gorgogliare come la volta precedente. Non che la volta precedente lui le avesse sfidate a gorgogliare, sia chiaro: avevano fatto tutto da sole, producendo anche un discreto numero di bolle. Era scappato, Andrea. Si era lasciato impressionare. Da cosa? Da qualche gas, prodotto dai rifiuti che si decomponevano sul fondo. O variazioni sul tema. Qualcosa di naturale, in ogni caso, che si poteva spiegare senza alcun problema. Nulla di spaventoso. Nulla da cui fuggire,
Perché non c’era alcunché di spaventoso in generale, lì. Un tempo potevano anche aver fantasticato su mostri nascosti nelle acque, magari serpenti, uomini pesce, roba del genere, ma era stato solo per gioco. Erano poco più che bambini, e fantasiosi. Era normale immaginarsi scenari più interessanti e coinvolgenti della realtà normale. Era praticamente un lavoro quotidiano, a quella età.
Immaginarsi le stesse cose quando era un uomo di mezza età, ora, quello sì che era preoccupante. O magari non preoccupante, parola troppo forte, però era segno che qualcosa non andava. Quindi non si stava immaginando alcunché. O forse qualcosa non andava. A lui la scelta.
Andrea scelse che non si stava immaginando alcunché. Il bacino era tranquillo, adesso, e non aveva l’aria di potere ospitare forme di vita superiori a batteri e amebe. E zanzare, magari. Roba piccola e schifosa, magari dannosa ma non minacciosa. Niente di cui preoccuparsi.
Concluse il giro, inciampando un paio di volte nelle erbacce, incespicando senza cadere. Tutto qui. Il laghetto era un laghetto, l’acqua era... acqua, grossomodo, il passato era il passato e così via, nei secoli dei secoli amen. Restavano domande, ovvio, ma erano piccole, irrilevanti, e dopotutto non ti mancavano mai le domande, se ti guardavi attorno e pensavi un poco, ma solo alcune ti erano utili o avevano importanza. Finché sapevi distinguere le domande importanti dalle curiosità più volatili, il resto si sarebbe sistemato da solo. O giù di lì, ci siamo capiti. Andrea sapeva cosa volesse dire, ma non sapeva il modo giusto per dirlo. Non parlava molto, se non da solo.
Guardò il laghetto pieno. Guardò il laghetto vuoto. Curiosità oziosa, appunto. Piero era passato di lì anni fa, aveva visto che uno dei due bacini era vuoto, aveva inciso il proprio nome sul palo, magari alla maniera di un cane che piscia per marcare il territorio, poi se n’era andato. Logico. Elementare.
Tutto il resto era coincidenza e le coincidenze non contano. E lui, lui Andrea Molli, non era affatto spaventato, intimorito o preoccupato da quei due stupidi bacini per l’irrigazione, abbandonati ormai da anni. Figuriamoci se lo era! Per dimostrare di non esserlo, cercò un tratto di terreno su cui potersi sedere senza troppi effetti spiacevoli su di sé o sui pantaloni, lo trovò e sedette a gambe incrociate a fissare il bacino ancora pieno.
Là! E adesso mostratemi pure di cosa siete capaci, stupidi laghetti.
Cominciò ad annoiarsi cinque minuti dopo, ma ci volle mezz’ora prima di rompersi davvero le palle e riflettere a mente fredda, o almeno temperatura ambiente, che si stava comportando da stupido. La consapevolezza che era vero non migliorò il suo umore.
Ok, si stava comportando da stupido. E allora? Tutti si comportano da stupidi, e in ogni caso lì non c’era nessuno che lo potesse vedere, quindi era praticamente come se non stesse facendo alcunché di strano, albero che cade in mezzo al bosco e palle varie, quella storia lì. E comunque era comodo. Giusto. Si stava solo riposando. Non era più giovane e aveva bisogno di riposare. Anzi, riposiamoci di più e meglio, già che ci siamo. Perché sedersi e basta?
Così si distese con le mani dietro la nuca, si alzò, appiattì un poco le erbacce, tolse un sasso, si stese di nuovo, verificò che meglio di così non poteva fare, non senza un tosaerba, sospirò, si accomodò, si autoconvinse di essere davvero comodo e guardò il cielo. Ecco come ci si riposava in un prato.
Andrea respirò a fondo. Da quanto tempo non si coricava in un prato in quel modo? Anni, almeno, e forse decenni era più accurato. Non era male, nel complesso. Anzi, era una sensazione piacevole. Di certo non la potevi descrivere come comoda, almeno non in quel particolare prato, che era un cesso, ma c’era qualcosa di primordiale, di primitivo, che sembrava scavare attraverso varie stratificazioni sociali e culturali, per riportare alla luce porzioni di te che non sapevi nemmeno di possedere. Certo, in un posto migliore avrebbe ottenuto risultati migliori, ma persino lì, in mezzo a quell’abbandono fetido e triste, potevi ritrovare qualcosa di prezioso, che era come...
Andrea si addormentò. Il pensiero razionale divenne pensiero confuso, il pensiero confuso divenne gomitolo di parole a casaccio, il gomitolo di parole a casaccio si dissolse a poco a poco nella nebbia e alla fine non rimase che un corpo, appisolato per terra sotto a un cielo color candeggina sporca, la tinta di mille estati nella pianura padana, anche se tecnicamente non era ancora estate, ma solo fine maggio. Faceva però caldo a sufficienza per essere estate, il che poteva bastare.
Si addormentò o credette di addormentarsi? Lo stesso Andrea non lo avrebbe saputo dire per certo, se mai qualcuno glielo avesse domandato. Perché nel sogno era coricato sull’erba, ed era scomodo, e davanti a lui c’erano i due laghetti. Ne sentiva anche l’odore, o il fetore. Si sentiva osservato, nel sogno, e non era una bella sensazione. L’aveva letta spesso, l’aveva trovata in mille e più storie, ma non gli era mai capitata dal vero, forse perché era una persona distratta o forse perché nessuno si era mai interessato abbastanza a lui da fissarlo per strada. Stava succedendo adesso.
Andrea si raddrizzò e vide che non era più solo. Davanti a lui, di fronte al laghetto di sinistra, quello non ancora prosciugato, c’era una persona. Probabilmente una persona. Era umanoide, ma gli girava le spalle e sul davanti poteva essere fatta chissà come. Nei sogni capita di tutto. Che poi, a pensarci, come faceva a sentirsi osservato, se l’unica altra persona presente gli voltava le spalle? Era un bel mistero di sicuro. Forse non era quella persona a osservarlo.
Andrea si guardò attorno, ma non vide nessun altro.
«Non c’è nessun altro,» confermò una voce.
Era la persona davanti al laghetto, che adesso era girata verso di lui e sì, sembrava davvero umana e dunque una persona. Una persona strana, d’accordo, ma era già più rassicurante.
Era alta e aveva il fisico di uno sportivo che si è stancato dello sport e ha deciso di dedicarsi di più a frigoriferi e take-away, ma sul versante meno salutare possibile. Era in camicia e cravatta, ma sopra indossava un ridicolo impermeabile da parodia di investigatore privato. Aveva le mani in tasca e la faccia in ombra, anche se fisicamente non era possibile, perché non c’era niente a proiettare l’ombra e il sole lo avrebbe dovuto colpire di lato, illuminando una parte della sua faccia. Ma non accadeva. Era un sogno, dopotutto. I sogni non sono tenuti ad avere senso o seguire leggi fisiche.
«Mi sentivo osservato,» spiegò Andrea, senza sapere bene perché lo stesse spiegando.
«Succede,» rispose lo straniero.
Conversazione molto interessante. «Pensavo di essere solo,» spiegò di nuovo Andrea.
Lo straniero scosse leggermente le spalle.
«Dico, mi ero coricato per un momento, sa. Per riposare.»
Altra leggera scrollata di spalle.
Ad Andrea cominciarono a girare. «Potrei sapere con chi sto parlando?»
Lo straniero sembrò pensarci per un secondo. «Sì,» rispose.
«Sì cosa?»
«Sì, lo potresti sapere.»
Andrea trattenne una risposta molto, molto volgare.
Era come parlare con Piero nei suoi momenti peggiori, quando credeva di fare lo spiritoso e ti dava risposte letterali o insensate, fino a farti venire voglia di causargli la maggiore quantità possibile di dolore fisico, meglio ancora se abbinata a danni curabili soltanto con un soggiorno in ospedale. Non che Andrea gli avesse mai causato dolore fisico, ma certe volte lo aveva desiderato davvero. Poi non lo aveva fatto. Storia della sua vita.
«Sei per caso Piero?» chiese allo sconosciuto. Improbabile, ma non si sa mai, no? Dopotutto era un sogno e nei sogni le persone possono avere facce diverse. Non che il tizio avesse una faccia, adesso.
«No, ma non ho voglia di giocare agli indovinelli, per cui ti dirò che sono una semplice immagine prodotta dalla tua mente. Potrei assomigliare a qualcuno, ma è puramente casuale. In concreto, puoi considerarlo come un dialogo con te stesso. Dovresti esserci abituato,» aggiunse poi. «È tutta la vita che non fai altro.»
Ok, tutto questo non aveva senso, ma era un sogno, ricordiamolo, era un sogno. Nei sogni ti poteva succedere di tutto. Era parecchio fastidioso che un prodotto della sua mente lo insultasse, ma questo era un altro discorso e chissà, magari prima del risveglio sarebbe successo qualcosa di brutto a quel tizio. Lo poteva almeno sperare, giusto?
«Quindi sto parlando con me stesso,» disse Andrea.
«Praticamente sì.»
«Cosa sarebbe? Una specie di seduta analitica per fricchettoni? Autoanalisi allo specchio? Fatti una domanda e datti una risposta? Trovati un problema e curatelo da solo?»
«Ti piace molto parlare di psicologia, adesso. Curioso.»
Andrea non rispose. Si morse le labbra. No, non gli piaceva per niente quel sogno. Meglio svegliarsi e magari in fretta, già che ci siamo. Tipo cinque minuti fa, ecco.
«Ti consiglio di non pensarci troppo,» disse lo sconosciuto. «Avevi ragione tu, non è importante di per sé. È solo un simbolo, quello che consideri il tuo primo vero fallimento. Fallimento perché non hai neppure tentato. Ti sei arreso e basta. Il primo di una lunga serie, puoi dire.»
«Lo sai che non mi sei simpatico? Ma proprio per niente.»
«Lo so.»
Andrea si alzò, si spazzò i pantaloni e voltò le palle allo sconosciuto. Si guardò attorno in cerca di qualcosa di meglio, ma intorno non c’era niente. Alla lettera. Dietro di lui il mondo non esisteva. La collina era normale ai lati e in direzione dei laghetti, ma dietro, lungo il percorso che un tempo lui e Piero avevano percorso per salire, adesso c’era solo nero.
Si girò verso lo sconosciuto. «E questo che significa?» chiese, puntando indietro col pollice.
«Significa che non è importante. Una distrazione in meno, se preferisci.»
«Molto comodo, proprio. Quando mi sveglio?»
«Quando ti svegli.»
Il bisogno di causare dolore fisico a quel tizio diventava sempre più forte. «Senti, dimmi quello che mi devi dire, una profezia, una previsione, una minaccia, un oracolo, lo spirito di tuo nonno in sella al papa, quello che ti pare. Basta che poi ci diamo un taglio. Non mi piacciono queste scemenze.»
«Neppure a me. In questo ci assomigliamo. Possiamo anche non parlare, se preferisci. Dopotutto sto solo facendo passare il tempo, aspettando che tu ti decida.»
«E cosa dovrei decidere?»
«Se non lo sai tu...»
«No che non lo so.»
«Invece lo sai, ma non ti piace. Se venuto qui apposta. Levati il dito dal culo, decidi e tanti saluti.»
«Ti ho detto che non so di cosa stai parlando!»
Ma il tizio era svanito. Davanti ad Andrea restavano solo i due laghetti, o bacini, o quello che erano. Non un segno che ci fosse stato qualcuno. Oh beh, meglio così. Stava diventando irritante, davvero. Adesso probabilmente sarebbe cominciata la seconda fase del sogno, magari in un altro luogo, o il sogno era finito e ne sarebbe arrivato un altro, quello che era. Si sarebbe anche potuto svegliare. Sì, questa opzione lo ispirava di più. Svegliarsi, alzarsi, tornarsene a casa. Cercò di farlo.
Era già sveglio. Era in piedi, girato verso i laghetti, ed era solo. Giusto per curiosità guardò dietro di sé: la collina continuava normalmente, come aveva sempre fatto. Ok, almeno quella parte era stata un vero sogno. Il resto... il resto anche, quasi di sicuro, ma poteva essere stata pure un’allucinazione causata dalle schifezze che mangiava ogni giorno. Dormire in mezzo a un prato non era sano, specie se il prato era quello. Aggiungiamo qualunque gas schifoso potesse uscire dal laghetto, magari una punta di influenza o altra malattia, un poco di stress, stanchezza, palle varie. Ricetta giusta per dare di matto, anche solo per un breve periodo. Niente di cui preoccuparsi. Bene.
Sì che si preoccupava. Perché quel tizio, sogno o realtà che fosse, gli aveva detto qualcosa di vero, forse anche più di qualcosa, forse tante cose. La psicologa, per esempio. Era stata davvero il primo fallimento per inazione. Aveva deciso di non avere possibilità e non le aveva avute. Vero, era quasi certo che non le avrebbe avute in ogni caso, ma provare e fallire è comunque meglio di fallire per non averci provato. Più dignitoso. Più nobile. Puoi dire «Ho combattuto e perso,» invece di «Me ne sono tornato a casa per non farmi la bua.» Quindi sì, poteva accettare che lei non fosse rilevante nel suo presente in quanto persona, ma solo come simbolo. Rappresentava un suo difetto fondamentale.
E lui lo aveva saputo fin dall’inizio, a un certo livello. Per questo non aveva mai usato il suo nome: perché a contare non era stata lei come persona, come individualità, ma solo come ruolo. O giù di lì, ci siamo capiti. Forse si sarebbe dovuto rivolgere a uno psicologo per farselo spiegare bene, ahaha.
No, sul serio. Sogno o allucinazione che fosse, aveva parlato da solo. Come sempre. Se poi si fosse lasciato anche un appunto con la risposta finale sarebbe stato molto meglio. La cosa che lui avrebbe dovuto decidere, insomma. Non ne aveva la minima idea.
Non aveva neppure idea che ci fosse davvero qualcosa da decidere, per lui. Era tornato al suo paese la prima volta per una sorta di sfizio. Ne aveva ricavato solo domande. Adesso era venuto a cercare risposte, o almeno a cancellare le domande, se di risposte non ce n’erano. Per il momento non aveva trovato granché, ma questo ci poteva stare. Bastava cancellare le domande, no? Dimenticare.
Che decisione doveva prendere?
Per distrarsi, ma anche perché non aveva di meglio da fare, Andrea Molli tornò al primo bacino e si fermò sul bordo. Dopo una breve lotta interiore, persa come da tradizione, scese lungo il pendio con tutta la cautela di anziano che rischia di farsela addosso al primo gesto troppo brusco. Gli andò bene e non cadde, stavolta. Proseguì verso il palo al centro, girò attorno, raggiunse la parte su cui il nome di Piero era inciso. Guardò.
Era ancora lì. Ok, questo dubbio se lo era tolto. Il suo vecchio amico di infanzia era sceso davvero lì sotto a scrivere il proprio nome. Perché? Probabilmente perché ne aveva voglia, era irrilevante. Per completezza avrebbe dovuto guardare anche sul palo nell’altro bacino, ma come abbiamo già detto non aveva alcuna intenzione di tuffarsi in acqua e non c’erano altri modi per raggiungerlo. Guardare dal bordo non sarebbe bastato: se un eventuale nome era scritto in piccolo, come quello di Piero, dal bordo non lo avrebbe mai visto, se non con un binocolo. Che non aveva. Rien à faire, dunque.
Per un poco ciondolò avanti e indietro sul fondo del bacino, mentre pensava alla prossima mossa e, nel caso, a che razza di decisione avrebbe dovuto prendere. Cosa mangiare a cena? Se comprare un nuovo accappatoio o farsi durare quello vecchio per qualche altro mese, finché ne restava un pezzo?Erano decisioni, certo, e le avrebbe dovute prendere, ma non sembravano appropriate al contesto.
Andrea pensava. Due bacini d’irrigazione, noti anche come laghetti, stagni o chissà che altro. Due ragazzini li avevano esplorati molti anni prima. Sul palo/obelisco al centro di un bacino era inciso il nome di uno dei due ragazzini. Per bilanciarlo, bisognerebbe scrivere il nome del secondo ragazzino sul secondo palo. Era il genere di cose che ti potevi aspettare in una fantasia, no?
Stai veramente pensando di andare a scrivere il tuo nome su quel palo in mezzo all’acqua? No. Ah, bene, perché ero già pronto a chiamare un’ambulanza per farti portare via. Portare dove, scusa? Nel più vicino reparto psichiatrico. Ah, capisco.
Era una idea molto stupida e non valeva neppure la pena di sprecarci un neurone avariato. Anzi, non era nemmeno una idea. Non si meritava un nome così serio. Era una follia da malati di mente. E di quelli pericolosi, per sé e per gli altri. Ancora più rimbambiti di sua madre. Lasciamo perdere.
Andrea lasciò perdere. Dopo un ultimo giro a vuoto, raggiunse la parete del bacino, la fissò a lungo, sospirò e si arrampicò alla meglio, tra sudore, fatica e bestemmie. Era tempo di guardare in faccia la realtà e tornare indietro, battuto. Non aveva ottenuto alcunché, buttato via altri soldi per il viaggio e ne sapeva tanto come prima. Poteva solo dimenticarsi dei laghetti. Erano un vicolo cieco.
Sì, ecco cosa aveva deciso. Andarsene. E dimenticare tutto.
Così si mosse e si fermò quasi subito sul bordo del laghetto pieno d’acqua. C’erano bolle. Salivano piano in un punto vicino alla chiazza verdastra. Andrea le guardò per un poco, poi sospirò e distolse lo sguardo. Si concentrò sull’acqua proprio di fronte a sé. In quel tratto della riva le canne erano un poco meno dense. Si vedeva meglio. Non c’era molto da vedere, d’accordo, ma lo si vedeva meglio.
Eppure c’era qualcosa da vedere.
Forse se lo stava immaginando, forse lo stava sognando, ma nell’acqua gli sembrò di intravedere il riflesso di qualcosa. Di qualcuno, anzi. Un bambino che odiava sentirsi chiamare bambino, perché ormai era alle medie, aveva quasi dodici anni e non era più un bambino. E se non lo imparavano da soli, un giorno glielo avrebbe fatto capire lui. Lo avrebbe dimostrato lui. E poi se ne sarebbe andato da quel paese del cavolo, avrebbe fatto tutto quello che voleva, e poi sarebbe diventato una persona importante, uno dei grandi, e...
E avrebbe vissuto con la pensione della madre rimbambita, un esempio da manuale di fallito, inutile a tutti e incapace patologico. Lo aveva proprio dimostrato, sì. Che lavoro fantastico aveva fatto, eh?
C’era un modo per tornare indietro? Tornare indietro e rifare tutto da capo, ma diverso, meglio? Lo avrebbero voluto in tanti, ma nessuno lo aveva mai ottenuto, per quanto ne sapeva lui. Eppure...
Eppure il passato che vedeva riflesso nell’acqua sembrava così vicino, giusto un passo più in là. Lo potevi raggiungere con un gesto, se volevi. Dietro di sé, dall’altra parte, la strada che conduceva giù al paese, dal paese alla stazione, dalla stazione a un’altra stazione e così via, fino al monolocale in cui si annidava. Era distante un passo anche quello, da un certo punto di vista: il primo passo, da cui ogni viaggio comincia. Anche i più lunghi, anche i più disperati. Tu fai il primo passo e tutti gli altri verranno da sé, uno dopo l’altro. Tutti brevi, tutti facili. Dopo il primo.
Questione di un passo, già. Ma quale?
Andrea Molli pensò alla sua vita attuale, alla vita che aveva conosciuto nella sua infanzia, a questo e a quello. Guardò dietro di sé, poi il laghetto. Il riflesso nell’acqua. Sembrava chiamarlo, invitarlo. Ma l’acqua era scura, molto scura. Poteva essere quasi una succursale dello Stige, volendo. O anche non volendo. Non un posto attraente. Anche se.
Poteva quasi vedersi riflesso nell’acqua. Vedersi bambino, come lo era stato la prima volta che era stato lì. Assieme a Piero. Sempre assieme a Piero, in quegli anni. Gli anni che avevano preceduto la sua vita, i suoi grandi errori, tutto. E per un attimo li vide.
Due bambini, o ragazzini, se preferite. Loro preferivano, meglio ancora senza il “ni” finale. Piero si trovava sul bordo del laghetto, la testa girata, un braccio alzato a chiamare qualcuno che ancora non si vedeva. Stava arrivando. Lo stava raggiungendo. Il qualcuno entrò di corsa nella scena, la schiena rivolta allo spettatore, ma lo spettatore Andrea lo avrebbe riconosciuto dovunque. Come si fa a non riconoscere se stessi? Non si fa, ovvio. Adesso i due ragazzini erano fermi sul bordo. Guardavano in acqua, come Andrea Molli li guardava guardare in acqua.
Si girò. Era da solo, ovvio. Per un momento, però, avrebbe quasi giurato che. Che. Una suggestione, niente di importante. Era importante decidere. Andrea respirò a fondo e si preparò.
Il laghetto, la strada. La strada, il laghetto. La vita normale, da fallito. O il laghetto. Tornare indietro o... cosa? Tornare indietro in un altro senso? Diciamo l’ignoto come alternativa al noto. L’ignoto e il laghetto, il noto e la strada. Tornare ai suoi binari, oppure buttarsi verso qualunque cosa ci fosse là.
Bolle. Un punto del laghetto ribolliva piano, in silenzio. Un buon segno? O un cattivo segno? Stai lontano o vieni anche tu? O forse era solo un generico «Muoviti!» Da una parte o dall’altra, ma per una volta nella tua vita cerca di muoverti. E decidi. Sai anche tu cosa significa, vero?
Vero. Lo sapeva anche lui. Andrea Molli pensò. Valutò. Esaminò. Soppesò. Considerò. Poi mandò a quel paese tutto quanto. Basta seghe mentali. Era stanco. Di tutto.
Ora di andare, già. Meglio non fare tardi. Aveva perso fin troppo tempo.
Andrea respirò a fondo. Decise. E fece un passo.