Questioni serie
I problemi cominciarono quando Alessio Purga uscì per andare al campo. Era domenica pomeriggio e la domenica pomeriggio usciva sempre per andare al campo. Non aveva altro da fare, in fondo. Se il tempo era buono o almeno accettabile, andare al campo gli offriva uno svago, a modo suo. Non il massimo degli svaghi, d’accordo, ma meglio di niente. Bisogna sapersi accontentare.
Il campo era un angolo di quasi campagna appena fuori paese. Terra incolta tra la ferrovia e il corso di un torrente, la tangenziale davanti e dietro altri campi, fino al comune successivo o quasi. Era un posto inutile e triste, ma andava bene per portare in giro il cane, praticare attività fisica, magari una gitarella povera con famiglia e variazioni sul tema. Per Alessio era il posto dove suonava.
Per valori molto bassi di suonare, beninteso.
Si sedeva in un angolo, al sole o all’ombra a seconda della stagione, e si esercitava col bansuri che aveva comprato sette anni prima e che un giorno avrebbe imparato a suonare bene. Quel giorno non era ancora arrivato, per questo si esercitava. Prima o poi avrebbe anche suonato. Ma con calma. Era triste e probabilmente i pochi passanti lo guardavano con compassione o pietà, magari un pizzico di curiosità davanti al suo strumento insolito. Un lauto traverso di bambù, piuttosto lungo. Non ne vedi spesso, giusto? Quando fosse riuscito a suonarlo bene, Alessio avrebbe fatto la sua figura.
Più o meno. Per adesso si accontentava e comunque c’era di peggio.
Quella domenica il peggio cominciò.
Era una persona sola, Alessio, e aveva raggiunto quel livello di solitudine in cui anche il ronzio di un insetto ti può sembrare una voce umana, per un attimo. Gli accadde quel pomeriggio, ma con una differenza notevole: il ronzio non smise di sembrare una voce umana come succedeva sempre, se si concentrava un poco sul rumore. La voce umana restava. Perché stavolta era davvero una voce, e gli parlava. Lo chiamava per nome. Gli spiegava cose.
Alessio Purga abbassò il bansuri. Possibile? Si guardò attorno, nel caso improbabile ci fosse accanto a lui qualcuno, magari un suo conoscente. Perché aveva conoscenti, Alessio. Pochi, ma li aveva. Era gente che lo conosceva e che lui conosceva. Amici no, ma non si può avere tutto dalla vita. A volte i conoscenti bastavano. Erano meglio di niente. Grossomodo.
Il campo era deserto attorno a lui. Fin dove lo sguardo poteva arrivare c’erano solo prati incolti, una fila di alberi malmessi a costeggiare il torrente, arbusti vari a ridosso della ferrovia, altra roba sparsa e vegetale. Umani no, nessuno. Solo lui. E la voce che gli parlava.
«Chi sei?» chiese Alessio.
«Sono te,» gli rispose la voce.
Ah, non un buon inizio. Stava dando di matto, forse. Se lo era aspettato, ma non così presto. Era una vita difficile, la sua, una vita con poche soddisfazioni e, ok, nessuna soddisfazione, e quasi tutto che andava male. Non è salutare per la tua mente, ma impazzire così presto? Neppure aveva raggiunto i cinquanta, che diamine! Sembrava davvero ingiusto.
Pure, la voce c’era e lui la sentiva. Assomigliava un poco alla sua, d’accordo, e adesso aveva preso a parlare di cose prive di senso. Gli parlava del passato, una sfilza di «Ricordi?» che non portavano ad alcunché di buono. Gli elencava fallimenti, scelte sbagliate, scelte non fatte e per questo ancora più sbagliate, cose che poteva, cose che non aveva, questo e quello e quell’altro ancora. Era davvero una rottura di scatole quella voce misteriosa. Peggio della zanzara alle tre di notte.
«Non potresti tacere un poco?» disse Alessio con tono seccato.
«No. Perché non taci tu.»
E questo non aveva proprio senso. Sembrava la classica risposta di un bambino offeso, che ti dice di farlo tu, per ripicca o quello che è. Cosa stava accadendo? Niente di buono, ovvio. Forse era il caso di lasciare perdere per quel pomeriggio e tornare a casa. Non che a casa avrebbe avuto qualcosa da fare, ma almeno non ci sarebbe stata quella voce lagnosa. Probabilmente. Sì, meglio andare.
Alessio pulì e asciugò il bansuri, lo ripose nella custodia e si caricò tutto in spalla. Il resto l’avrebbe fatto a casa. La manutenzione era importante per un flauto traverso di bambù e lui ci teneva: non lo avrebbe mai suonato bene, forse, ma non era un buon motivo per trattarlo male. Adesso però la cosa più urgente era non sentire più la voce. Andarsene. E se ne andò.
Portandosi dietro la voce. Lo seguì fino a casa e oltre, parlando del passato col suo tono lagnoso e a tratti spocchioso. Adesso non raccontava più quello che era stato, ma quel che sarebbe potuto essere stato. Lo raccontava come se fosse successo davvero, come se da qualche parte, qualche altra parte, la sua vita si fosse svolta in un modo diverso. Suonava pure convincente.
Aveva scelto altre scuole, secondo la voce, e gli era andata meglio. Aveva frequentato altre persone, secondo la voce, e gli era andata meglio. Aveva fatto questo e quello, aveva ottenuto questo e quello e adesso la sua vita era diversa, era migliore, era, nono so, tutto ciò che in realtà non era.
Alessio Purga avrebbe voluto non ascoltare e per un poco non ascoltò, ma sentiva lo stesso. Sentiva lungo la strada e sentiva ancora meglio chiuso in casa, nel suo buco miserabile in cui si annidava in un debole tentativo di ripararsi dal mondo. Poco più di un monolocale, e pure vecchio, ma bastava a chi viveva da solo. Alessio viveva da solo. Aveva sempre vissuto da solo. Ok, non sempre, nessuno vive da solo da bambino (secondo la sua esperienza), ma dopo sì. Adesso era dopo e viveva da solo.
Per valori molto bassi di vivere.
La voce gli raccontava una storia molto diversa, un passato molto più divertente e un presente tanto diverso dalla realtà quanto un bansuri è diverso da uno scacciapensieri. O qualcosa del genere, non gli venivano esempi migliori al momento, ma comunque era una differenza grande. Davvero. Così, se all’inizio l’aveva sentita e basta, alla fine Alessio Purga si ritrovò ad ascoltarla, quella voce senza corpo che gli raccontava storie che non erano state, ma che secondo lei sarebbero potute essere state davvero, se solo avesse fatto così invece di cosà.
Era piacevole ascoltare, ma era anche irritante. Alessio avrebbe voluto zittire quella voce, perché gli rovinava e avvelenava tutto, ma non ci riusciva. Neppure sapeva da dove venisse: come poteva farla tacere? Non poteva. Non in modi a lui noti. Poteva forse non sentirla, se trovava un sistema efficace per tapparsi le orecchie, ma prima o poi se le sarebbe dovute stappare e a quel punto era sicuro che la voce sarebbe stata lì, pronta ad aggredirlo di nuovo. E allora?
Allora era quasi ora di cena quando Alessio Purga esplose. Non letteralmente, ma esplose dentro. E in parte anche fuori, ma solo a parole.
«Perché continui?» gridò, «Perché non mi lasci in pace?»
«Perché non vuoi che ti lasci in pace,» gli rispose la voce.
«Certo che lo voglio! Non ne posso più di te e delle tue storie! Ti odio!»
«Se tu mi odiassi davvero, non mi sentiresti più. Invece non mi odi, per questo mi senti.»
Alessio la invitò ad andare a svolgere attività fisicamente impossibili per una voce priva di corpo. Il suo invito non ottenne alcun risultato, perché la voce continuava a raccontare la sua realtà. Non che lui si sarebbe aspettato di ottenere qualcosa, ma almeno si era sfogato un poco.
Un risultato lo ottenne, in effetti: al piano di sotto qualcuno batté contro il soffitto. Aveva urlato così forte? O al vecchia megera si era svegliata male? Nel dubbio, Alessio Purga decise che abbassare un poco il volume poteva funzionare meglio, anche perché stava comunque parlando da solo e non era il caso di condividere le sue crisi isteriche col resto dell’alveare umano.
«Ma chi sei? Puoi dirmi almeno questo? Cosa vuoi da me?» chiese poi a voce bassa.
«Davvero non lo hai ancora capito? Persino uno come te dovrebbe esserci arrivato,» disse la voce.
«No, uno come me non c’è arrivato, quindi dimmelo tu o sparisci. Grazie.»
La voce sospirò. «Sono te. Guardami.» E di fronte ad Alessio prese forma dall’aria una figura poco diversa da lui, ma in meglio. Quasi fosse davanti allo specchio di uno strano luna park, si trovava a osservare una immagine di se stesso, deformata. Era un Alessio vestito meglio, conservato meglio e in forma migliore sotto tutti gli aspetti. Era anche più in carne e non sembrava uno spaventapasseri messo assieme da un incapace usando rametti, stracci e spago.
«Sono te,» disse la voce. «Il te che sarebbe potuto essere.»
«E cosa vuoi da me?»
«Mostrarti quello che saresti potuto essere.»
«Ok, adesso me lo hai mostrato. Tante grazie. Sparisci pure.»
«Non hai altro da dire?»
«Non ho altro di non volgare da dire.»
La voce sospirò. «Sei davvero una persona perduta.»
«Ecco, allora lasciami perdere. Stavo meglio prima che tu arrivassi.»
«Non stavi bene e lo sai anche tu.»
«Non ho detto che stavo bene. Ho detto che stavo meglio. Adesso sto peggio. Chiaro? Sparisci.»
«E non hai altro da dire? Tutta qui la tua reazione?»
Alessio protese una mano, che passò attraverso la figura proprio come si era aspettato. «Sì, tutta qui la mia reazione. Potessi toccarti, ti avrei buttato fuori a calci. Visto che non posso, la mia reazione è tutta qui. Sparisci, grazie. E a mai più rivederci.»
«Posso anche sparire, ma mi rivedrai lo stesso. Sono parte di te e lo resterò sempre.»
«Allora continua pure a essere una parte di me, ma da un’altra parte. Grazie.»
Per quasi un minuto non accadde alcunché, poi l’immagine cominciò a dissiparsi nell’aria, come un effetto speciale molto scadente o un miraggio venuto male. Poco dopo rimase solo la stanza, vuota e un po’ patetica come al solito. Alessio Purga sospirò.
Già meglio. Le stupidaggini che la voce gli aveva detto sarebbero rimaste più a lungo, ma almeno la loro fonte se n’era andata. Non la sentiva più, non la vedeva più e se una qualche divinità gli avesse dedicato un istante di pietà, forse una follia simile non si sarebbe mai più ripetuta. Poteva almeno sperarci. Oh beh, meglio pensare ad altro e smettere di rimuginare sulla voce odiosa.
Alessio non smise, ma cercò di orientare altrove i suoi pensieri. Era sera, aveva fame e il tempo che lo separava dal sonno si stendeva davanti a lui come una discarica sconfinata. Bella roba. Niente di diverso dal solito, d’accordo, ma questa non era certo un’attenuante, anzi. Sospirò di nuovo.
Almeno era sparita la voce. Questo sì. Almeno era sparita la voce.
Così Alessio Purga cenò con pasta e tonno, seguita da un peperone scondito e tagliato a pezzetti, un frammento di formaggio e tanto silenzio. Lavò il poco che aveva sporcato, sparecchiò, spazzò, fece scrocchiare la spina dorsale e si guardò attorno. Tutto vuoto, tutto calmo. Tutto normale.
Tempo di concludere la giornata come al solito, nell’unico modo decente.
Alessio si sdraiò sul letto, sopra le coperte, e chiuse gli occhi. Respirò a fondo, lentamente: inspira e trattieni il fiato per un istante, gonfiando il diaframma, poi espira dalla bocca a piccoli soffi. Finisci con una breve pausa, poi ricomincia inspirando dal naso, per un nuovo giro. Concentrati solo sul tuo respiro e lascia cadere tutto il resto, pian piano e senza pensarci. Svuotati. Rilassati, rallenta in parte il metabolismo. E quando sei pronto, quando senti che è il momento giusto, abbandona la realtà.
Alessio Purga abbandonò la realtà che gli faceva schifo, scivolando a poco a poco e senza sforzo in quello che da anni ormai rappresentava il suo passatempo preferito: fantasticare su tutto ciò che non era stato, ma che sarebbe potuto accadere, se. Se.
Era un lavoro serio, capite, e non lo potete svolgere come si deve quando avete una voce scomoda a ronzarvi attorno e darvi cattivi suggerimenti. Fuggire dalla realtà è una questine privata. Sono cose molto, molto serie.