Il ragionere in rosso
Lo smartphone cominciò a squillare mentre era in bagno a prepararsi, inondando la tranquilla aria mattutina coi lunghi ululati dell’inno aziendale. Il ragionier Vito Bragadin strinse i denti e lo ignorò.
Dopo qualche secondo, l’asse del gabinetto cominciò a vibrare sotto di lui, a tempo con gli ululati dello smartphone. Brrr, brrr, auuuh! Brrr, brrr, auuuh! Il ragioniere respirò a fondo, si pentì di averlo fatto, sospirò, scosse la testa. Ah, la quiete del focolare domestico! Ignorò anche l’asse.
Una manciata di secondi e lo scaldabagno cominciò a emettere un minaccioso bip-bip, che non era a tempo col coro dello smartphone o le vibrazioni dell’asse, ma offriva un piacevole contrappunto, un tocco barocco alla melodia contemporanea. Il ragionier Vito chiuse gli occhi, si morse un labbro, si concentrò, abbandonò lo sforzo perché col cavolo che ti potevi concentrare con quel casino, aprì gli occhi, guardò. Il mondo era ancora lo stesso. Peccato.
Brrr, brrr, auuuh, bip-bip. Brrr, brrr, auuuh, bip-bip.
Quando si accese lo specchio smart e cominciò a emettere luci pulsanti, accompagnate da rumori di palloncini di gomma da masticare che esplodono, il povero ragionier Bragadin si arrese. Non poteva andare avanti così. Non poteva davvero. Non poteva adesso e non poteva in generale. Rispose.
«Sei in bagno da tre minuti più del solito. Hai qualche problema? Il direttore si preoccupa per la tua salute. Noi vogliamo solo il tuo bene, qui alla Truffaldi. Il nostro motto è: tutto per il tuo bene. Se il tuo benessere è minacciato da un problema, parlane con noi. Ti aspettiamo in ufficio tra ventisette minuti, pronti ad accoglierti con affetto. Buona giornata!»
La voce era sempre la stessa: giovane, in calore, respiro da orgasmo imminente. E falsa. Artificiale e inscatolata, tanto umana quanto un tostapane o uno scolapasta. Per quale motivo l’avessero scelta era un mistero che il ragionier Vito Bragadin desiderava lasciare irrisolto: nascondeva aspetti della specie umana che sarebbe stato meglio rimuovere chirurgicamente, senza anestesia. Lo lasciava con una grande tristezza e la voglia di ricominciare da capo con le amebe. Ma la doveva ascoltare.
Era la voce del padrone.
O qualcosa di sufficientemente simile da non fare alcune differenza sul piano pratico.
La voce che lo richiamava all’ordine, la voce che lo cercava, lo osservava, lo proteggeva, lo spiava. Non lo lasciava mai solo, quella voce. Usciva dallo smartphone, dal televisore, dal computer, dalla lavatrice, da ogni elettrodomestico della casa. Era la voce della casa stessa. Sempre con lui, che lui lo volesse oppure no. Vito non lo voleva quasi mai, ma il suo parere non contava.
Ripose lo smartphone, si pulì, si alzò, completò i lavaggi, si vestì e dopo diverse altre attività fu più o meno pronto per cominciare una nuova giornata di lavoro, sotto lo sguardo sereno, protettivo e un poco asfissiante della grande madre azienda, che decideva quale fosse il suo bene e glielo imponeva con le buone o con le cattive. E vinceva sempre. Facile, quando hai le carte segnate.
La sua vita era proprio una merda.
Il pensiero lo infilzò mentre si lasciava trasportare dalla metro. Fu piuttosto sgradevole, ma non più di una sua giornata normale. Il ragionier Vito lo rimuginò un poco, poi lo lasciò andare. Non era una buona idea coltivare pensieri di quel tipo: c’era il pericolo che l’azienda se ne accorgesse e cercasse di aiutarlo. Per il suo bene, ovvio. Sempre per il suo bene.
«E io che ce l’avevo tanto con mia mamma, quando mi spiava dal balcone...» pensò sottovoce.
Scese alla fermata e salì in superficie. L’aria frizzante del mattino gli fece subito bruciare gli occhi e gli strappò un colpo di tosse. Sempre sana, sempre pura, con quel pizzico di polvere che ti raschiava la gola e la manteneva liscia e vellutata. O così prometteva l’azienda, quindi lo doveva considerare vero. Colse la sagoma distante della Piramide e le voltò le spalle, mosso da un’abitudine pavloviana costruita negli anni. La sua sede era in direzione opposta. La sede dell’azienda.
Qualche minuto e la raggiunse. «Benvenuto,» gli disse il portone. «Sei in ritardo di due minuti e tre secondi. Qualcosa non va? Hai dormito male? Vogliamo solo il tuo bene, Vito.»
«Tutto bene, tutto bene. Sto benissimo,» rispose Vito Bragadin.
Il portone si aprì e lo fece entrare, approfittandone per sottoporlo a una rapida TAC. Il ragioniere si sentì crescere il muschio sull’anima ma lo ignorò. Videocamere di sorveglianza lo seguirono a passo a passo, l’ascensore lo fece salire senza domande, l’ufficio lo accolse in silenzio. Cominciava così una nuova, entusiasmante giornata di lavoro, in cui avrebbe dato il suo contributo per fare grande la grande madre Truffaldi S.p.A., che in cambio avrebbe continuato a preoccuparsi del suo bene.
Meraviglioso.
Nella pausa pranzo la mensa automatica gli fornì un pasto calcolato sulla base delle sue esigenze sul profilo nutrizionale, ma non proprio in sintonia coi suoi gusti. Sembrava di mangiare gesso su cui il gatto aveva pisciato ed era impossibile capire cosa ci fosse di preciso dentro il pastone, ma in fondo era tutto per il suo bene. L’azienda sapeva. L’azienda vedeva e provvedeva. Fidati dell’azienda.
Il ragionier Vito Bragadin si guardò attorno mentre mangiava, ma attorno non c’era molto da vedere o in generale, a prescindere dal senso. Era un cubicolo. Era sigillato. Isolato dai colleghi, per il suo bene. Poteva sentire di tanto in tanto vaghi rumori prodotti forse da altri esseri umano, ma la musica insipida che faceva da sottofondo mascherava i dettagli. Potevano esserci altri o poteva essere solo. Era uguale. Vito mangiava e intanto pensava.
Il pomeriggio proseguì in isolamento, al lavoro. Di tanto in tanto la sedia lo avvisava che la postura era scorretta e poteva danneggiare la schiena, altre volte la tastiera lo rimproverava per gli errori che commetteva digitando e che riducevano la sua efficienza. In due occasioni lo smartphone lo chiamò per ricordargli che il capo gli voleva bene e pensava sempre e solo a cosa fosse meglio per lui; era dunque suo dovere ricambiarlo con dedizione e fedeltà alla causa aziendale.
Lo schermo che fungeva da finestra gli mostrava immagini rilassanti e felici, luoghi lontani che mai avrebbe visto, soprattutto perché non esistevano più o non erano mai esistiti. Erano però reali come immagini e questo doveva bastare. Servivano a mantenere alto il suo umore, o così l’azienda aveva determinato, sulla base dei dati che continuava a raccogliere dai sensori distribuiti ovunque attorno a lui. Lo guardavano, ma solo per il suo bene. Vito lavorava e pensava.
A fine giornata il percorso si invertì. Dall’ufficio all’ascensore, dall’ascensore al portone, in un coro di saluti e ringraziamenti per essersi impegnato anche oggi a fare grande l’azienda, che in cambio lo avrebbe fatto grande, anche se era soltanto un misero ragioniere. Ma l’azienda aveva un cuore così enorme che nessuno dei suoi figli sarebbe mai rimasto indietro. Nei secoli dei secoli, amen.
Seduto nel vagone della metro che lo riportava verso casa, il ragionier Vito fissava il vuoto. Pensava a varie cose, nessuna delle quali particolarmente piacevole. Ci aveva pensato tutto il giorno, ma con cautela, perché non potevi mai sapere chi o cosa ci fosse all’ascolto, anche dentro il tuo cranio. Non voleva ricevere altre chiamate dall’azienda. Se avesse continuato a sentire quelle voci artificiali che ringraziavano, consigliavano, esortavano, rimproveravano, sempre femminili, sempre false, sempre col loro tono estatico, probabilmente sarebbe impazzito.
Se già non lo era.
Come era finito così? Come aveva fatto a infilarsi in quella vita? Come poteva uscirne? Esisteva un qualche tipo di alternativa? Erano le domande fondamentali, soprattutto le ultime due. Perché si, lo studio delle cause poteva anche presentare un certo interesse, volendo, ma trovare una soluzione gli sembrava molto più importante, al momento. Come uscirne? E dove andare?
Per il momento uscì dalla metro. In superficie l’aria era sempre pesante, aromatizzata alla cenere o a chissà cosa. Puzzava di bruciato, ma soprattutto sapeva di bruciato. Come al solito, come al solito. Il sole che calava già rosseggiava la città, ma a Vito non interessavano né il tramonto né i cantautori italiani con un debole per il vino. I suoi pochi colleghi di vagone erano spariti, infagottati nelle loro vite e nelle loro protezioni. Senza un commento, senza una parola. Il che era normale. Perché mai ci si dovrebbe parlare tra sconosciuti? Non c’era niente da dirsi. E il fiato poteva trasportare germi.
Era comunque una consolazione ricordarsi che altri esseri umani esistevano. In ufficio, isolati come erano, te li dimenticavi facilmente. Ma i contatti riducono la produttività e portavano malattie, così diceva l’azienda, quindi era vero. Ognuno per sé e l’azienda per tutti. Per il loro bene.
Il ragionier Vito Bragadin sospirò. Non era stato sempre così, ma adesso lo era e il resto non aveva rilevanza. Era tutto più pragmatico e tutto per il loro bene. Già. Meglio ricordarselo sempre.
In casa, da solo. Scagliò le scarpe in un angolo, gli abiti in un altro. Il climatizzatore si azionò e una voce femminile, artificiale ed eccitata, lo rimproverò per il disordine. Vito chiuse gli occhi, li riaprì e andò a raccogliere vestiti e scarpe. Sistemò ogni cosa al proprio posto. Il climatizzatore ringraziò e si complimentò: era proprio un bravo ragioniere ubbidiente, l’azienda era orgogliosa di lui.
Vito andò in bagno. Davanti al lavandino si guardò nello specchio, ma ciò che vide non gli piacque molto. Assomigliava troppo a lui ed erano passati decenni dall’ultima volta che c’era stato qualcosa di buono nell’essere Vito Bragadin. Secondo il suo modesto parere, quantomeno. Sospirò. Immerse la testa sotto un getto di acqua fretta e la lasciò lì per qualche minuto sperando di lavare via tutto.
Tutto cosa? Tutto, in generale. Era uno di quei momenti esistenziali in cui un tutto specifico non ti serve: ne basta uno generico, che comprenda ogni cosa, perché il problema è troppo ampio per farsi contenere e limitare. Quello che è, ci siamo capiti. Era un tutto che era tutto e nel mezzo c’era il tuo problema. Non lo sai definire. Sai solo che c’è. Potrebbe essere tutto. Potrebbe...
Lo specchio smart si attivò. «L’acqua è rimasta aperta per tre minuti in più di quanto sia necessario per eseguire una qualsivoglia abluzione nel lavandino. Ti invitiamo a chiuderla subito. L’acqua è un bene molto prezioso e non merita di essere sprecata in questo modo. Il tuo capo è molto in pensiero per te e sente il bisogno di ricordartelo. Non sprecare acqua, per favore. È per il tuo bene.»
Vito si raddrizzò. Chiuse il rubinetto, prese l’asciugamano, vi immerse la faccia. Respirò a fondo e contò da zero a cento, poi da cento a zero. Era un ragioniere, dopotutto, e gli piacevano i numeri. O almeno glielo ripetevano sempre le voci dell’azienda, per cui doveva essere vero. Grossomodo.
Cenò. Il frigorifero scelse per gli gli ingredienti che erano più appropriati per quel giorno e i fornelli glieli prepararono, con sentiti auguri di buon appetito dall’azienda. Sedette al tavolo della cucina e si dedicò alla sua cena solitaria. Non era molto saporita. Per qualche motivo a lui non chiaro, sapeva sempre tutto di cartone salato. Poteva essere un piatto a base di pesce, di maiale, di barbabietole, di quello che ne avevi voglia, o almeno di quello che ne avevano voglia gli elettrodomestici, ma mai il sapore era diverso. Cartone salato. Sempre. Sospirò.
«Stai mangiando troppo in fretta,» lo rimproverò la voce femminile del piano di cottura. «Per la tua salute devi aumentare di dieci unità il ritmo di masticate per ogni boccone. Questo aiuterà nella fase digestiva e potrai ricavare la quantità ottimale di nutrienti dal tuo pasto.»
Vito Bragadin masticò più a lungo. Il cibo continuava a sapere di cartone salato. Non avevano anche un consiglio per migliorare il sapore di quella robaccia? Sarebbe stato più utile, ma probabilmente non gli avrebbe fatto bene. Pensava sempre al suo bene, l’azienda.
A fine cena, forse sazio ma certo non soddisfatto, il ragionier Vito entrò in salotto e si abbandonò al vuoto sul divano. Per quasi dieci minuti rimase immobile, la testa tra le mani, occhi chiusi, pensieri chissà dove. La voce dell’impianto stereo lo raggiunse. «La tua postura è scorretta. Per facilitare la tua digestione, devi correggerla al più presto. È per il tuo bene.»
Vito si raddrizzò, fissò il vuoto, respirò a fondo, si alzò. Sedette alla scrivania, accese il computer, si assicurò di avere la schiena dritta e una postura corretta. Tutto a posto, per adesso. Tempo di parlare con qualcuno, un altro essere umano. Tempo di dimenticarsi almeno per un poco gli spettri elettrici che lo perseguitavano. Poteva solo sperare che Marco ci fosse.
C’era. Marco Perozzi, l’unico amico che gli fosse rimasto. Erano stati compagni di classe fino alle medie, si erano un poco persi di vista alle superiori, da ventenni avevano zigzagato tra alti e bassi, si erano persi di vista nuovamente e attorno ai quaranta si erano incontrati di nuovo, prima sui social e poi a cazzeggiare in chat, entrambi scarti sociali, entrambi con niente da fare la sera. Il solo peccato era che non abitassero più nella stessa città, altrimenti magari sarebbero anche usciti a bere assieme, ogni tanto. Ma Marco si era trasferito all’estero e così si sentivano solo da lontano. Era meglio che niente. Meglio che il niente fatto di elettrodomestici spia, secondo il modesto parere di Vito.
Chiacchierarono, scherzarono, si insultarono, ricordarono i vecchi tempi, come sempre. Gloriosi o meno che fossero stati, i giorni andati sembravano sempre migliori del presente. Di lavoro però non parlavano mai. Troppo pericoloso. Qualcosa era sempre in ascolto. Meglio stare sul neutrale.
«Un giorno o l’altro, però, dovremmo incontrarci davvero. In estate, magari,» disse Vito, dopo aver trascorso un’ora a parlare male della musica di oggi, specie paragonata a quella che sentivano loro da giovani. Tutta un’altra cosa. Cantanti veri. Artisti veri. Ci siamo capiti.
«Figa, potremmo sì, ma io non ce ne ho mica voglia di tornare in Italia,» rispose Marco. «Specie di questi tempi. Proprio in estate, poi... vuoi farmi crepare di caldo? Ormai ci avete il Sahara, lì.»
Vito sorrise. «Peggio del Sahara. Abbiamo i bagni turchi. Li abbiamo messi per strada al posto della strada. Esci di casa e ci finisci subito dentro. Trac! Neanche il tempo di bestemmiare.»
«Bestemmi quando ci sei dentro.»
«Altroché. E con mucho gusto. No, vabbè, prima o poi però dovremo vederci, tanto per fare a gara a chi è invecchiato peggio. Scommetto che vinci tu.»
«Non lo posso escludere. Magari prima o poi ci riusciremo davvero. Se camperemo abbastanza.»
«Sempre a portare sfiga, tu.»
«Non porto sfiga. Mi dedico a un sano realismo. O anche a un insano realismo. Scegli tu.»
«Scelgo di mandarti a cagare, va’.»
«Ci vado regolarmente anche senza che mi ci mandino, caro il mio Vito.»
E così via, da una scemenza all’altra. Non una grande chiacchierata, niente di intellettuale, elegante o anche solo intelligente. Due amici che si conoscevano, si sono persi, si sono ritrovati e occupano il loro tempo libero parlando e scherzando, in mancanza di meglio o di una vita degna di nota.
Vito Bragadin salutò e chiuse tutto quando lo smartphone lo avvisò che si stava facendo tardi ed era opportuno andare a dormire, per riposare e recuperare le energie psicofisiche. Era per il suo bene e per poter lavorare al meglio il giorno dopo. L’azienda ci teneva a lui, eccetera eccetera.
Dopo una mezz’ora a rigirarsi nel letto, la sveglia sul comodino lo invitò ad assumere un paio delle pillole speciali offerte dall’azienda: lo avrebbero aiutato a dormire e aveva bisogno di tutto il sonno che poteva ottenere, se desiderava mantenere alto il suo contributo in ufficio. E lui desiderava che il suo contributo rimanesse alto, giusto? Perché l’azienda si prendeva cura di lui, quindi era giusto che lui si prendesse cura dell’azienda. Era per il suo bene.
Vito si sollevò su un gomito, aprì il cassetto del comodino, vi frugò un poco, estrasse una scatoletta, la aprì, lasciò cadere due pillole nel palmo della sua mano. Erano piccole e rosse. Non un colore che faceva pensare a sonno e tranquillità, ma in fondo non le doveva guardare. Le doveva ingoiare. Non contava molto il colore, una volta che erano nello stomaco. Le ingoiò.
«Speriamo solo che non mi facciano sognare il direttore,» pensò senza pensarlo troppo forte.
Non sognò il direttore. Sognò una ragazza che aveva conosciuto alle medie. Correzione: che aveva visto alle medie e di cui aveva scoperto il nome attraverso una serie di indagini molto mimetiche tra cui una sortita avventurosa a sfogliare il registro della sua classe. Non le aveva mai parlato. Forse la ragazza non si era mai neppure accorta che Vito esisteva. Forse non gliene sarebbe fregato un tubo neppure se se ne fosse accorta. Vito Bragadin l’aveva notata, apprezzata e adesso la stava sognando, così tanti anni dopo.
Nel sogno erano amici. Nel sogno stavano assieme, forse. Difficile esserne sicuri, perché era molto confuso e all’inizio si svolgeva alle medie, poi si era spostato in spiaggia, dove andava in vacanza coi suoi genitori, da bambino, e di passaggio c’erano finite in mezzo anche alcune scene di ufficio e una escursione sulla Piramide, che a quei tempi non era ancora stata costruita. Ma la ragazza c’era sempre, ed era assieme a lui, anche quando la classe era stata invasa da cammelli e la professoressa di italiano era fuggita in groppa a uno di loro. Perché erano in classe assieme, nel sogno, e vicini di banco. E chiacchieravano, ridevano, sembravano contenti.
Era surreale, ma bello. Il Vito onirico si sentiva quasi felice, o almeno la sua controparte reale aveva interpretato così le reazioni del personaggio nel sogno, perché se qualcosa del genere fosse successo davvero ai tempi delle medie, beh, allora sì, lui ne sarebbe stato felice. Ma non era successo.
Lo svegliò l’allarme, sulle note dell’inno aziendale. O gli ululati, a seconda dei punti di vista.
Rise and shine, che una nuova giornata ti attende. Il ragionier Vito si alzò, ma non brillava molto. I rimasugli del sogno si attardavano nella sua mente, portando ricordi di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Ricordi e alternative. Come sarebbe andata, se avesse parlato a quella ragazza? Se si fossero presentati, se, non so, se almeno fossero entrati in contatto in qualche modo, anche solo per averle pestato un piede all’uscita di scuola. Cosa sarebbe cambiato?
Niente, gli suggeriva la parte più razionale del suo cervello. La parte più ragioniera. Quando mai un incontro con una ragazza alle medie ti cambia la vita? Di tanto in tanto, forse, magari, ma siamo un poco realistici: roba da una volta su un miliardo o giù di lì. Si aspettava davvero di essere quell’uno, lui? Certo che no, Vito doveva ammetterlo. Eppure, magari, chissà.
«Sei in ritardo di due minuti. È ora di preparare la colazione. Perché non sei ancora andato in cucina a preparare la colazione? Ti senti male? I tuoi valori vitali indicano uno stato di buona salute, ma è possibile che tu non abbia riposato adeguatamente. È comunque tempo di prepararti, lo sai.»
La voce del padrone, direttamente dalla lampada sul comodino. Poteva essere femminile, artificiale e in calore, ma era sempre la voce del padrone. Sempre e ovunque. Vito obbedì.
La colazione che gli elettrodomestici gli permisero di mangiare era rossiccia. Un tempo il ragioniere si sarebbe chiesto cosa potesse esserci dentro; adesso mangiava e basta, fissando il vuoto. Sapeva di cartone salato. Anche la bevanda al gusto di caffè sapeva di cartone salato. Ma era per il suo bene.
Uscì in una mattinata che aspirava forse a essere piovosa, ma riusciva soltanto a gocciolare. Più una specie di condensa che nebbia, ma lo inumidiva ed era fastidiosa. E puzzava. Ricordava un poco il fetore di un cane bagnato, ma con l’aggiunta di qualcosa di chimico. Strano tempo, strani tempi.
Era giorno di bilanci parziali in ufficio. Vito sedette tranquillo a compilare, confrontare, misurare e di tanto in tanto correggere, mentre l’arredamento dell’ufficio correggeva lui. Raddrizza la schiena, riduci l’angolo dei polsi, attento ai gomiti, da tre minuti hai smesso di fissare lo schermo: c’è forse un problema? Vito Bragadin avrebbe voluto rispondere che sì, ce n’era uno ed era parecchio grande, ma non lo disse. Obbedire era molto più semplice. E sicuro, soprattutto, che non guasta mai.
Quando uscì per tornare a casa, il meteo sembrava essersi deciso e aveva optato per un cielo bigio e aria umida, ma senza pioggia, vera o finta che fosse. Il fetore di cane bagnato si era fatto più intenso e disgustoso, ma da un certo punto di vista era migliore rispetto al gusto di bruciato che gli restava in bocca di solito, quando trascorreva più di cinque minuti a respirare all’aperto.
Nel crani di Vito continuavano a ronzare i bilanci del giorno. Ronzavano e ronzavano, mosconi che festeggiano attorno a un grosso escremento. Non era bene. A tenerli in testa, c’era il pericolo che si fermassero da qualche parte. Che si posassero. Che i bilanci diventassero pensiero. Vito non poteva permettersi pensieri. Il che, a modo suo, era una buffa ironia.
Ci aveva scherzato molto ai tempi delle medie. Con Marco, soprattutto, e i pochi altri pseudoamici disposti ad ascoltarlo, che non erano mai stati tanti. «Farò ragioneria perché mi piace ragionare,» un Vito molto più giovane ripeteva a chi gli chiedeva che scuola volesse fare dopo.
Ci aveva scherzato, lo aveva ripetuto, alla fine aveva quasi cominciato a crederci. Era un ragioniere perché gli piaceva ragionare, ahaha, molto buffo. Poi si guardava attorno gli veniva da piangere.
«Forse ne parlerò con Marco, stasera. Se c’è.»
Era pericoloso. Tutto vede e tutto sente, la grande madre azienda, sempre sia benedetto il suo nome: la nobile Truffaldi. Lamentarsi di qualcosa era un brutto segno. Esprimere dubbi era un marchio sul curriculum, un marchio molto brutto. Dubbi in generale, non importava su cosa fossero. Pure, aveva bisogno di scaricare almeno un poco di ciò che gli riempiva il cranio.
«Ci penserò. Magari mi passerà.»
Riemerse dalla metro con una manciata di altri umani. Aveva un solo semaforo da attraversare, una schifezzuola che neppure valeva la pena di guardarla. Era rosso. Rosso per i pedoni. Vito era pedone in più di un senso: si spostava a piedi ed era un pezzettino sacrificabile nella scacchiera della vita. O qualcosa del genere. Si sentiva in vena di poesia, il ragionier Bragadin. Non capitava spesso, ma gli stava capitando quella sera.
«Sarà la vecchiaia.»
E forse lo era. Oppure i bilanci, o anche il sogno della notte precedente. Strano ma vero, ancora non lo aveva dimenticato. I sogni erano materiale usa e getta, aveva sentito dire. Si dimenticano presto, il cervello non sa più cosa farsene dopo essersi svegliato, eccetera eccetera. Magari era vero: Vito e la psicologia non si conoscevano neppure di vista. O forse non era psicologia, ma qualche altro tipo di -logia. Il risultato non cambiava e il risultato era che lui non ne sapeva un fico secco.
Fosse come fosse, Vito ci pensava ancora. Al sogno, alla ragazza che avrebbe dovuto conoscere alle medie, ma non aveva trovato il coraggio di far sapere al mondo che esisteva anche lui. Non che la ragazza avesse davvero importanza, ormai. Era solo un coso, lì, un simbolo. I simboli non hanno un cavolo di importanza: è ciò che simboleggiano a essere importante.
Cosa simboleggiava la ragazza delle medie?
Vito se lo chiedeva, lasciandosi il semaforo dietro le spalle. Era da solo in strada, unica persona nei paraggi a camminare. Auto sì, auto ce n’erano. Non mancavano mai, quelle. Ma umani? Umani che lui potesse vedere? Nisba. Il che era un bene: significava meno distrazioni. Era però anche un male: significava più solitudine. Forse il bilancio non era attivo.
Forse il bilancio non era attivo.
Il pensiero lo colse con tutta la violenza di un calcio nello scroto. Il ragionier Vito Bragadin esitò un momento sulla strada verso casa, poi si raddrizzò e riprese il giusto cammino. Mancava poco, poi la solita cena al gusto di cartone salato lo avrebbe accolto, accompagnata da rimproveri e consigli dei vari elettrodomestici che infestavano il suo appartamento. Si occupavano di lui, si curavano di lui.
E il bilancio non era attivo.
Quello dell’azienda sì. Il bilancio del piccolo reparto di cui si occupava lui era attivo, scritto con un bel colore nero lucente. Lo aveva controllato, più e più volte. O meglio, aveva controllato più e più volte il lavoro dei programmi, perché la legge prevedeva che fossero controllati da un umano, che a sua volta era controllato da altri computer. Controllati da altri umani? Forse, può darsi: il processo si perdeva nelle nebbie del tempo, o almeno molto lontano dalle sue competenze.
Il bilancio della Truffaldi era attivo. E quello di Vito?
L’edificio in cui abitava era di fronte a lui. Non era un granché, sul piano architettonico. Funzionale, sì, e solido. Appropriato, si poteva anche azzardare. Appropriato a cosa, ora, era un discorso diverso e non valeva la pena di affrontarlo. Era una appropriatezza generica e potevi lasciarla così. Ma non era bello. Assomigliava un poco a una scatola da scarpe messa in verticale. Casa sua.
Vito sospirò. Il citofono lo aveva già riconosciuto e aveva provveduto ad aprire il portone, dopo una rapida consultazione col suo smartphone. Tempo di entrare e tempo di lasciare fuori certi pensieri. A lui non sarebbero serviti. All’azienda non sarebbero serviti.
Ma era molto, molto difficile.
Entrò, salì, aprì la porta. L’appartamento gli diede il bentornato, la luce si accese e il termostato gli rinfacciò i quattro minuti di ritardo. Il direttore era preoccupato. Al direttore stava a cuore il bene di ogni suo dipendente e voleva essere sicuro che ognuno tornasse a casa in tempo, senza incidenti. La metro non era in ritardo: perché lui lo era, allora? Cosa era successo?
Vito ebbe la visione di un martello da fabbro, grosso e pesante, che si abbatteva sul termostato e lo sbriciolava. Poteva vedere i frammenti di plastica e altra porcheria che volavano ovunque, sparsi sul tappeto e sul divano, sotto il tavolo, sopra il tavolo. Era una scena forte, intensa, così reale che per il più breve degli attimi il ragioniere credette che fosse anche realtà. Ma non lo era.
«La serata era bella e mi sono fermato un poco a guardare la città,» rispose al termostato.
Una balla, ma forse i server non se ne sarebbero accorti. O forse sì, forse avrebbero scoperto che era falso, che lui aveva osato mentire, aveva cercato di ingannare chi pensava soltanto al suo bene. E se anche lo avessero scoperto? A lui cosa gliene fregava?
Il termostato non rispose. Vito si tolse le scarpe e la giacca, svuotò le tasche, sistemò ogni cosa nel posto che le spettava, si cambiò, si sciacquò la faccia, lavò le mani, si asciugò. Cercava di pensare a qualcosa di sufficientemente simile al nulla. Non non-pensare, ma superare la dicotomia, procedere oltre il pensiero discriminante, aprire la mente e lasciarla andare alla deriva, lontano dalla coscienza e palle varie. Molto zen, molto stupido. Molto fallimentare.
Il bilancio continuava a rimbalzargli dentro il cranio. Era scritto in rosso. Era preceduto da un segno negativo. Il nome sul foglio non era Truffaldi S.p.A.; il nome era Vito Bragadin.
Negativo, negativo, negativo. Il ragionier Vito scosse piano la testa.
«Qualcosa ti preoccupa?» gli domandò lo specchio.
«No, tutto bene. Sono solo un po’ stanco,» rispose Vito.
«Il tuo profilo attuale indica un notevole tasso di stress, incompatibile col tuo lavoro. Quale sarebbe la causa? Vogliamo solo aiutarti, lo sai.»
Vito voleva solo fracassare lo specchio e scaraventare fuori dalla finestra quel che ne rimaneva. E al diavolo i sette anni di guai. Non potevano essere peggio dei decenni che aveva già vissuto. « Non lo so di preciso, ci devo pensare,» rispose. «Vi farò sapere non appena potrò.»
«Informaci al più presto, così potremo aiutarti come meriti. Sei molto importante per noi.»
Disse il ragno alla mosca. Ma il ragioniere lo pensò soltanto, e a volume molto basso. Davvero, quel giorno doveva esserci qualcosa che non funzionava in lui. Un guasto, un difetto, qualcosa. E chissà che medicine cercheranno di fargli prendere quella sera, prima di addormentarsi. Poteva solamente sperare che non fossero a base di cianuro. O magari sì, perché no? Cosa sarebbe cambiato? Cosa ci avrebbe perso? Da un certo punto di vista, sarebbe stata una soluzione molto più pulita, specie se la paragonava a cosa gli sarebbe successo continuando con quella vita.
Già, a proposito: cosa gli sarebbe successo?
Vito non lo sapeva, ma sapeva anche di non volerlo sapere. Per completare il trittico, sapeva anche che prima o poi lo avrebbe scoperto, per il semplicissimo motivo che il tempo sarebbe trascorso e la sua vita sarebbe continuata, trascinandolo verso il punto in cui avrebbe fatto una qualche fine.
C’era da discuterne con qualcuno. L’unica persona con cui poteva discutere era Marco Perozzi, che si trovava troppo lontano per poterne discutere di persona. In chat sì, in chat potevano parlare fino a morire di vecchiaia, se davvero lo volevano, ma quanto sicuro era parlarne in chat? Tanto quanto lo era dedicarsi al parapendio dopo aver scolato una intera bottiglia di vodka, più o meno. Discutere in chat era come discutere di fronte all’intero direttorio della sua azienda. Non che la Truffaldi avesse un direttorio vero e proprio, non in senso storico, ma ci siamo capiti. I boss al completo, insomma.
Quella sera chiacchierò come al solito con Marco, ma di cose secondarie e a mezzo cervello. L’altra metà cercava di capire, di captare quanto fosse insicura la chat. Quanti i rischi, quali le parole o gli argomenti che avrebbero fatto scattare qualcosa. Dove fossero nascoste le trappole, insomma.
Non lo capì. Ovviamente. Se fossero bastate le occhiate distratte di un ragioniere qualunque, non ci sarebbe stato un problema reale. Il problema era reale proprio perché richiedeva una paranoia totale e costante. Sapevi che potevi essere osservato ovunque, ma non sapevi mai quando il potenziale si faceva reale. Non per certo. Non sapevi neppure se ci fosse una distinzione tra potenziale e reale. Ti potevano guardare sempre, ti potevano guardare solo ogni tanto, ti potevano guardare solo quando il tuo comportamento innescava qualche coso, qualche allarme, quella roba lì.
«Penso che sto andando fuori di testa,» pensò il ragionier Vito, ma molto piano.
Qualche ultima battuta di cattivo gusto, un paio di commemorazioni di tempi migliori e la sessione di chiacchiere serali era conclusa. Vito Bragadin spense il computer e fissò il muro. Era bianco. No, non era proprio bianco: era una sfumatura di bianco sporco che forse aveva un nome, ma lui non lo conosceva. Non conosceva i nomi di molti colori, in effetti: giusto i principali. Non conosceva tante cose, se era per questo. Non le aveva imparate, per mancanza di tempo, voglia o attitudine.
La parola “bilancio” tornò a rimbalzargli avanti e indietro nel cranio. Vito la ignorò. Aprì il frigo e si versò un bicchiere di succo di frutta al gusto di arancia. Il frigo non protestò. Meglio così. Bevve, guardando il panorama dalla finestra della cucina. Non un granché di panorama, anche se il buio lo migliorava parecchio. Sagome di edifici, poi sagome di altri edifici e per concludere, ai margini del campo visivo, poteva scorgere le sagome di un altro gruppo di edifici.
Una finestra dell’appartamento davanti al suo aveva una luce accesa. Era rossa.
Perché una persona normale dovrebbe scegliere il rosso per le luci di casa? Non era rilassante. Non era neppure riposante. Non era il genere di colore che la Truffaldi avrebbe approvato. Vito si poteva immaginare le proteste dei suoi elettrodomestici, se mai avesse osato sostituire un led color sole con uno di un rosso acceso. Probabilmente il forno gli avrebbe detto che il direttore stava piangendo per colpa sua. E non sarebbe stato bello, vero?
«Rosso di sera, bel tempo si spera,» mormorò.
«Un proverbio popolare, ma privo di fondamento scientifico,» disse la lavastoviglie. «Non dovresti prenderlo sul serio.»
«Stavo solo parlando da solo.»
«Parlare da solo è molto preoccupante. Sei sicuro di non avere bisogno di un aiuto professionale? Il direttore è sempre pronto a offrire ai sui cari dipendenti tutto il sostegno di cui hanno bisogno.»
Vito avrebbe potuto rispondere che non stava parlando da solo: stava parlando con la lavastoviglie. Sarebbe stata la verità, ma probabilmente gli avrebbero spedito un psichiatra a casa. Oppure, ancora peggio, la lavastoviglie sarebbe diventata lo psichiatra. Vito si sentiva pronto a molte follie, ma non ancora a ricevere supporto psichiatrico da un elettrodomestico della sua cucina. Anche un ragioniere piccolo piccolo aveva pur sempre una dignità.
Per tutta risposta, consegnò il bicchiere alla lavastoviglie, abbassò la tapparella e tornò in sala. Non si sentiva bene. Sedette sul divano, allungò le gambe, cercò di rilassarsi. Dopo tre minuti esatti una voce femminile lo raggiunse, artificiale e in calore. La solita voce femminile, con cui parlavano tutti gli aggeggi della casa. C’erano solo poche variazioni e ormai le aveva imparate a memoria. Questa era la voce del climatizzatore.
«Ti invito a recarti a letto al più presto, se vuoi dormire un numero appropriato di ore. Una notte di sonno è fondamentale per il tuo benessere psicofisico. Alla tua età non vuoi rimanere alzato troppo a lungo. Potresti risentirne domattina.»
Un martello. No, qualcosa di meglio: una bomba. Far esplodere quel maledetto climatizzatore. Una carica piccola, non serviva tanto. Bum! E i frammenti che volano ovunque, inondando la sala. Cosa sarebbe successo, se avesse davvero cominciato a distruggere tutti quegli aggeggi infernali? Ma non solo con la sua mente: distruggerli davvero, nel mondo fisico.
«Niente di buono,» borbottò a voce molto bassa.
«È meglio che tu vada subito a dormire,» si aggiunse il termostato. «Sei stanco. Lo dimostrano tutti i tuoi valori fisici. Una bella dormita e tornerai a posto.»
La bomba per il climatizzatore, il martello per il termostato. Giusto. E per tutto il resto? Ci avrebbe pensato. Forse però era più semplice far esplodere tutto e tanti saluti. È una questione di bilancio.
Vito si alzò e andò in bagno. Non sapeva cosa fosse una questione di bilancio o perché quella parola non se ne volesse proprio andare dalla sua testa, ma era meglio andare a letto, questo sì. Ci poteva essere un altro sogno, per lui. Un sogno piacevole, che lo portasse via dalla realtà. Di nuovo quella ragazza delle medie? Irrilevante: andava bene qualunque cosa. Anche una delle superiori.
E qualunque cosa ottenne. Si svegliò in piena notte, non urlando ma molto, molto agitato. Era stato in città, ma una città diversa. Strade strette, in salita, a volte gradinate e basta, senza spazi per auto. Non che ci fossero auto. Non ne ricordava. Aveva camminato e all’inizio c’era gente, poi nessuno e camminare diventava sempre più faticoso, inciampava, doveva appoggiarsi ai muri, quasi trascinarsi con le mani, aggrappandosi, tirando. Ma continuava, perché dietro c’era... Cosa c’era dietro? Non si era mai girato, ma sapeva che c’era qualcosa e sapeva che non doveva lasciarsi prendere.
Poi si era svegliato. Non un sogno originale, certo, ma brutto sì. Brutto mentre lo viveva. Gli aveva lasciato addosso una sensazione che non sapeva descrivere. Gli mancava il vocabolario adatto. Una nuova escursione alle medie sarebbe stata molto meglio, invece della visita a quella città.
«Sono le ore tre e ventidue e sei sveglio. Ti senti bene? Il tuo battito cardiaco è irregolare e sei più sudato di quanto sia normale a queste temperature. Potresti avere bisogno di un tranquillante.»
La voce della lampada, nel buio fitto della stanza, sembrava un rigurgito del sogno. Come se la cosa che lo aveva inseguito, ammesso che qualcosa lo avesse davvero inseguito, fosse finalmente riuscita a prenderlo. Ma era solo una lampada sul comodino, maledizione!
«È stato solo un sogno, non ho bisogno di tranquillanti. Mi passa subito,» rispose Vito.
«Una pillola ti farà bene. Ti garantirà un sonno riposante.»
Il ragioniere si girò dall’altra parte, fingendo di non aver sentito. Di pillole non ne voleva proprio. O anche di lampade che gli davano consigli medici, se era per questo. Aveva solo bisogno di... di cosa aveva bisogno? Vito non lo avrebbe saputo dire, al momento, ma di certo non gli sarebbe venuto dal fastidioso blaterìo di un aggeggio elettrico. O anche da mille aggeggi elettrici.
«Insisto. Hai bisogno di una pillola,» disse la lampada.
Vito si sollevò su un gomito, allungò un braccio alla cieca, brancolò per un poco, poi trovò il cavo. Lo strattonò con forza. Sentì la spina uscire dalla presa, poi grattare appena sul pavimento. Bene. Di lì a due minuti si sarebbe attivato qualche altro aggeggio, ovvio, ma due minuti di silenzio valevano comunque la pena. Tornò a coricarsi. Un attimo dopo dormiva già.
Il mattino seguente fu accolto dal silenzio degli elettrodomestici.
«Saranno offesi,» si disse Vito, e scrollò le spalle. Cazzi loro. Che gli mandassero il conto del loro analista, se il trauma della spina staccata li aveva sconvolti tanto. Il ragionier Bragadin ne faceva a meno molto volentieri.
Cambiò idea quando il frigorifero non si aprì. E l’acqua non usciva dai rubinetti. E l’asse della tazza non ne voleva sapere di alzarsi. Le porte funzionavano, almeno per adesso, ma sembravano essere il solo pezzo della casa ancora attivo. A parte lui, d’accordo. Merda.
Tornò in camera e inserì di nuovo la presa della lampada. Si aspettava un rimprovero, magari anche in nome del povero direttore, che tanto si preoccupava per i suoi figli virtuali. Lo avrebbe accettato e, da un certo punto di vista, sarebbe anche stato benvenuto. Ricevette soltanto silenzio, a modo suo più snervante del chiacchiericcio continuo di tutta quella ferraglia. O plasticaglia.
«La mia vita è una merda,» pensò, ed era un pensiero al sapore di verità. Cartone salato.
«Va bene, cosa devo fare per riavere una casa che funzioni? Avrei bisogno di usare il bagno.»
Nessuna risposta. Poteva arrangiarsi col lavandino, almeno stavolta, ma senza far scorrere un poco di acqua, senza lavarsi le mani, senza tutto il resto, beh, non sarebbe stato molto piacevole. O anche solo igienico, se era per questo. Uno schifo, insomma.
Mai tanto schifoso quanto supplicare gli elettrodomestici di casa.
Nel silenzio della ferraglia plastica che gli riempiva la casa, e che per anni gli aveva dato un ordine dopo l’altro, dirigendo la sua vita come il più stronzo dei dittatori (ammesso e non concesso che ci siano anche dittatori non stronzi), il ragioniere Vito Bragadin sentì di avere toccato il fondo. Ancora non gli era chiaro il fondo di cosa, ma che lo avesse toccato era ovvio. Voglio dire: pregare il forno, il tostapane, il termostato. Quanto più in basso può ancora precipitare un essere umano?
Il bilancio della sua vita era molto più che rosso: era prossimo allo zero assoluto.
Vito considerò meglio il suo ultimo pensiero e decise che non andava bene. Sul piano simbolico sì, lo zero assoluto poteva essere adatto a descrivere la sua vita. Sul piano pratico, però, gli sembrava troppo poco. Meno duecentosettantatré e rotti? Non bastava. Il meno della sua vita era molto, molto più grande. Quando supplichi un elettrodomestico per poter pisciare, il meno della tua vita non è più quantificabile. E tutto perché aveva staccato una spina.
Tutto perché aveva zittito una lampada che non lo lasciava dormire.
Nel cranio di Vito qualcosa cedette. Provò ad aprire la porta, ma la porta non rispondeva. Provò con la finestra più vicina e il risultato fu lo stesso. Accese una luce, ma non si accese. Aprì l’acqua, ma niente uscì dal rubinetto. La sua casa era morta, in apparenza. Provò lo smartphone, ma anche da lì non provenivano segni di vita. Segnale assente? Forse, può darsi, magari no. Si vedrà.
Voltò le spalle a tutto e andò in camera. Il letto era ancora disfatto, la tapparella abbassata. La luce bastava, per poca che fosse. Non ci voleva tanta luce per vedere la lampada. Era lì, dove era sempre stata. Sul comodino, accanto al letto. Spenta, ma non proprio così spenta. No. Lo stava ascoltando. Lo spiava, come aveva fatto per anni. Attendeva. In agguato. Non ancora per molto.
Vito attraversò la stanza con pochi passi, afferrò il filo della lampada con una mano, la lampada con l’altra. Staccò, sollevò. Retromarcia. Uscì dalla camera, entrò in bagno. Poggiò la lampada sul piano della doccia, si abbassò i pantaloni, puntò, orinò. Innaffiata come meritava. Tentò di lavarsi le mani nel rubinetto. Nulla da fare, niente acqua. Scrollò le spalle e scrollò altro. Strappò una corta striscia di carta igienica e si fregò le mani. Piuttosto che niente, meglio piuttosto. Come diceva il nonno.
Lasciò la lampada dov’era e uscì dal bagno. Meno uno. Sotto a chi tocca. Tornò in sala e vide sulla parete il termostato. Taceva, adesso, ma aveva sempre qualcosa da dire. Magari poteva farlo parlare un poco, perché no? Fargli dire qualcosa di diverso, eh? Non aveva martelli, in casa, ma ci si poteva arrangiare. Ci si poteva arrangiare benissimo.
Entrò in cucina, prese una sedia, tornò in sala, puntò il termostato. Sorrise. Sollevò la sedia, la tenne in alto per un attimo, la calò sul maledetto aggeggio. Mancandolo. Vito grugnì, sollevò di nuovo la sedia, stavolta prese bene la mira e...
«Il direttore è molto, molto triste,» disse il termostato.
«Il direttore può cagarsi in mano e prendersi a schiaffi,» rispose il ragioniere, mostrando i denti.
«Il direttore piange. Un dipendente della Truffaldi non si comporta così. Come possiamo fare il tuo bene, se tu ce lo impedisci? Noi vogliamo solo il meglio per te, lo sai. Lascia che noi ti aiutiamo e ti sentirai meglio. Tutto si risolverà bene. Lo sai.»
Vito centrò il termostato con una gamba della sedia. La gamba si ruppe, il termostato pure. Esplose in una pioggia di frammenti plastici e altra porcheria incollata assieme da uno schiavo cinese, poco ma sicuro. Magari un carcerato o un bambino, che costavano ancora meno. O un carcerato bambino.
«Salutami il direttore, adesso,» grugnì il ragionier Bragadin. Gli faceva male la schiena. Di sicuro si era stirato un muscolo, un accidente del genere. Non era abituato a certi movimenti, meno ancora se eseguiti con forza. Ma gliel’ho fatta vedere, si disse. Gliel’ho fatta vedere.
Non gli era chiaro cosa o a chi, ma ci avrebbe pensato poi.
«Dovresti smettere di comportarti da bambino,» gli disse il climatizzatore. «Così non otterrai nulla di buono. Stai solo facendo i capricci, lo sai. Il direttore ti vuole bene. Vogliamo solo il tuo bene.»
Vito guardò in alto. Quel maledetto aggeggio era fuori portata. Poteva provare a bastonarlo con una scopa, forse, ma era un lavoro lento, troppo. D’altro canto, non è che avesse granché in programma. La mattinata era libera, da un certo punto di vista. Per cui...
Tornò in cucina. La scopa era posata in un angolo, non proprio pulita ma non troppo lurida. Forse si sarebbe sporcato un poco di polvere ad agitarla in giro, ma che differenza faceva? A quel punto, un poco di polvere era il minimo, specie per uno che aveva appena pisciato nella doccia.
Impugnò la scopa e partì verso il climatizzatore, come un cavaliere alla giostra. Mancava un favore della sua dama, ma in fondo mancava anche la dama, per cui tutto si bilanciava.
«Davvero, non capisco cosa hai in testa oggi. Hai bevuto la candeggina?»
Vito si bloccò. Veniva dal climatizzatore, ma non era la voce del climatizzatore. Era Marco, il suo amico. Marco Perozzi. Cosa significava? Era una registrazione?
«Non è una registrazione, pirla. Sono io. Neanche mi riconosci? Troppe seghe ti hanno spappolato il cervello. Sapevo che sarebbe successo, prima o poi, ma così è proprio triste.»
Vito Bragadin continuava a fissare il climatizzatore. Aveva una idea, ma non poteva essere vera. Era troppo brutta. Quindi poteva essere vera. Probabilmente lo era.
«Perché mi parli da quell’affare?»
«Perché non dovrei?» rispose Marco. O il climatizzatore con la voce di Marco. O...
«Sei la Truffaldi anche tu?»
«Sono sempre stato la Truffaldi. Avevi bisogno di un amico con cui parlare e il direttore ti ha dato il tuo amico. Non sei contento?»
«Spiega.»
«Abbiamo esaminato il tuo passato, trovato l’unico amico che sei riuscito a farti, ricostruito la sua personalità, in parte in base ai tuoi ricordi e in parte in base ai dati della persona reale, che esiste da qualche parte ma non è mai più entrata in contatto con te. Il risultato sono io. Soddisfatto? Abbiamo lavorato così bene che non ti saresti mai accorto della differenza.»
Vito boccheggiò un paio di volte, poi si fermò. Alzò la scopa, la tenne in alto per qualche secondo e la lasciò cadere. Sentì il rumore del manico che batteva sul pavimento. E adesso lui?
«Lascia perdere,» riprese la cosa-Marco. «Hai avuto una piccola crisi, niente di grave. La possiamo sistemare in un attimo. Hai causato qualche danno, ma il direttore è buono e non ti punirà. Lavorerai per noi come sempre, dopo che avremo corretto la piccola crisi. Sarai contento. Noi ci prenderemo cura di te e tu ti prenderai cura di noi. Giusto?»
E adesso lui? Il suo cervello sembrava inceppato. Aveva lavorato per anni e cosa ne aveva ottenuto? Una casa che gli dava ordini e decideva per lui. Un amico fantasma. Una vita che non era mai stata sua, in cui lui era soltanto una comparsa. Se non era in rosso quel bilancio, non lo era nessuno.
«Lascia perdere. Rilassati. È tutto finito ed è finito bene. Per il tuo bene. Accettalo e vivrai meglio.»
Davvero? Cercò di chiedere. Cercò di pensare. Non ci riuscì. Vuoto.
«Non preoccuparti. C’è una sola realtà per te, in cui tu sei qualcosa. In cui tu sei qualcuno. In cui tu conti qualcosa. Noi siamo quella realtà. La Truffaldi. È una buona realtà e lo sai. È per il tuo bene.»
Vito chiuse gli occhi e si sgonfiò. Non vide gli uomini in bianco che entrarono subito dopo, ma non aveva importanza: non li avrebbe comunque ricordati. Erano angeli di un certo tipo e venivano per il suo bene. Gli avrebbero fatto bene. Era tutto ciò che doveva sapere.
I problemi sarebbero spariti e tutto sarebbe andato bene.
Lo svegliò come sempre l’inno dell’azienda, cacofonico ma così caro. Il ragioniere Vito Bragadin si alzò, non proprio contento ma piuttosto soddisfatto. Lo attendeva un nuovo giorno di lavoro e come tutti gli altri giorni lui avrebbe lavorato bene. Si sarebbe preso cura dell’azienda.
E l’azienda si sarebbe presa cura di lui. Nel migliore dei mondi possibili.
Il suo mondo.