Adriano - racconti e altro

Ribelle con una causa

Tessalo entrò in paese esitando, testa lievemente abbassata e occhi puntati solo in avanti. C’era più gente di quanta se ne sarebbe aspettata, ai lati della strada, e tutta quella gente lo fissava. Lo sapeva. Fissavano sempre. Come se lui fosse una bestia rara, uno scherzo della natura o una qualche altra mostruosità. Il che, dal loro punto di vista, era probabilmente vero, ma non migliorava le cose.

Perché era brutto quando fissavano, ma a volte arrivavano anche le pietre e quello era peggio. Molto peggio. A volte non arrivavano e basta: a volte colpivano, e non erano certo carezze d'amore. Così Tessalo cercava di non incrociare i loro sguardi, procedendo per la propria strada, e ascoltava solo gli zoccoli che scalpicciavano sul selciato, nel silenzio del pomeriggio. Clop, clop, clop.

Era stata una brutta idea tornare, o almeno tornare proprio lì, con tutti i posti che c’erano, ma così avevano deciso i suoi parenti e chi era lui per disubbidire? Uno che avrebbe disubbidito volentieri, ecco chi era, ma volere non è sempre potere e così si ritrovava in quella fogna di paesino, assieme al resto della sua larga famiglia. E i parenti. E i parenti dei parenti. E tutta la tribù, insomma.

Ci accoglieranno bene, vedrai. Ci rispetteranno. È il posto da cui siamo partiti. Eccetera, eccetera. A pensarci, era affascinante il numero di balle che riuscivano a raccontare, per convincerti a mangiare una palata di sterco. Perché sterco era, poco ma sicuro. Buona accoglienza? Mugugni e occhiatacce, più insulti. Rispetto? Sputi in faccia. Se quello era davvero il posto da cui erano partiti, avrebbero di certo fatto meglio a restare partiti, invece di tornare. Ma vaglielo a spiegare, a quei vecchi testoni.

«Mezzo cavallo!»

La voce lo colpì da un qualche punto sulla destra, un punto che Tessalo preferì non guardare. Era la stessa solfa, ogni volta che scendeva in paese, ed era tempo sprecato identificare chi fosse in quella particolare occasione a insultarlo. Qualcuno c’era sempre ed erano intercambiabili. Ed erano anche stupidi, originali come una pisciata: quanto cervello ci voleva a guardare un centauro che passava e urlargli “mezzo cavallo”? Se proprio lo dovevano e volevano insultare, che almeno si inventassero qualcosa di meglio. Era deprimente, più ancora che offensivo.

Procedette a passo lento, muovendo piano la coda, per scacciare le mosche più avventurose. Clop, clop, clop, clop, nel silenzio degli spettatori, tutti umani, tutti ammassati ai lati della strada. Poteva sentire la loro presenza, anche senza girarsi a guardarli: erano lì, massa di carne compatta, a fissare lo straniero, il non umano. Il mezzo cavallo, appunto, come qualcuno borbottava. Commentavano, certo, perché gli abitanti di quel paesotto della Tessaglia commentavano sempre, a bassa voce (ma non troppo bassa, no, altrimenti non li senti), quando appariva qualcuno diverso da loro. Come un centauro, appunto.

Terra natale? Se era così, dovevano esserselo dimenticati tutti. Perché i suoi genitori avevano voluto tornare lì, con tutti i posti che c’erano? Atene, ad esempio. Ad Atene sarebbe andato volentieri. Era una grossa città, dove avrebbe potuto trovare mille volte di più di quanto offerto in quel buco. E Roma? Lì avrebbe potuto anche imparare il lavoro che voleva fare. C’erano altre creature mitiche, a Roma. C’erano abitanti di ogni forma e colore, umani e non, e nessuno, là, lo avrebbe mai chiamato “mezzo cavallo”. Invece era lì, in Tessaglia, a fare una vita da schifo.

«E mi hanno chiamato pure Tessalo,» borbottò. Ma quanta stupidità ci vuole, per andare a vivere in Tessaglia e chiamare “Tessalo” il proprio figlio? Fossero stati in Attica, lo avrebbero forse chiamato Attico? E in Beozia lo avrebbero chiamato Beota? Rabbrividì. Certi pensieri non dovevano essere pensati neppure per scherzo. E certa gente avrebbe dovuto superare un qualche esame, prima di aver il permesso di generare figli. Un esame alla testa.

«Guarda come muove la coda, il mezzo cavallo!»

Guarda come muove la bocca, il mezzo asino, pensò Tessalo. Non lo disse, perché a dirlo si finiva nei guai, da quelle parti. Lo sapeva. C’era già passato. I sassi non mancavano, lì, e i sassi facevano male, qualunque fosse la tua forma fisica. Aveva già provato e non avrebbe fatto il bis, no grazie. Il ruolo di bersaglio mobile lo lasciava volentieri ad altri. Così procedette, aumentando il ritmo: era già stanco di quel posto e voleva andarsene al più presto. Prima, però, avrebbe dovuto trovare lo zio Asio, che era lì di passaggio. Ordini della mamma.

La locanda era poco più avanti, ormai in vista. Asio doveva essersi fermato là, in teoria: viaggiava con un mercante, o così diceva, e di locande non è che ce ne fossero altre, nel paese. Dunque, lo zio si trovava in quell’edificio sciatto e scrostato. Posto da favola, niente da dire, ma i rari viaggiatori che vi si fermavano, a quanto pareva, non se ne lamentavano. Lui se ne sarebbe lamentato.

Raggiunse l’ingresso, sempre ignorando le occhiate della gente, e chinò la testa per scrutare fra la penombra all’interno, fermo sulla soglia. Asio era un centauro e i centauri hanno la tendenza a farsi notare, in un luogo per umani. Non sarebbe dovuto essere difficile vederlo, dunque, tra quei quattro gatti che non affollavano il locale. Eppure Tessalo non lo vedeva. C’era un tizio, cicciottello e dai capelli in estinzione, che sembrava vestito leggermente meglio e, almeno in teoria, poteva passare per un mercante, sebbene non uno di quelli che avresti invitato a pranzo, per fargli conoscere tua figlia, ma centauri? Niente, neppure uno zoccolo. Dove era lo zio, dunque?

Tessalo osservò la porta. Non era larga. Non era neppure alta. Un centauro giovane come lui, con un poco di fatica, sarebbe riuscito a entrare, ma una volta dentro avrebbe avuto la mobilità di un sasso, con tutti gli intralci che c’erano in un edifico progettato per umani. E lo zio sarebbe entrato? No, se era ancora come lo ricordava. Si sarebbe incastrato nella porta. Dunque...

Tessalo si schiarì la gola, incerto. «Scusate,» disse, chinandosi in avanti per infilare la testa tra gli stipiti. «Sto cercando Asio, mio zio. Dovrebbe essere qui con un mercante...» aggiunse, sentendosi più e più intruso a ogni parola. La poca gente all’interno si era girata a fissarlo, regalandogli quello sguardo che aveva imparato a conoscere fin troppo bene. «Oh, una bestia che parla,» diceva. «Che spettacolo! Gli avranno insegnato anche qualche giochetto?»

Un uomo di mezza età e doppio mento, dietro al bancone, lo fissò schifato per un attimo, poi si girò sbuffando. Qualcuno ridacchiò. Il tizio che poteva sembrare un mercante si voltò verso la porta, ma non proprio verso Tessalo. Sembrava infastidito a sufficienza per dieci. Posò il boccale, si asciugò la bocca col dorso della mano, e grugnì. «Il mezzo cavallo è nella stalla, con le altre bestie,» disse, con una voce più acuta di quanto chiunque si sarebbe aspettato, a vederlo così paffuto.

Tessalo chiuse gli occhi, respirò a fondo e agitò la coda, nervoso. Perché non lo avrebbe dovuto prendere a calci, fino a macellarlo? Ah, sì, perché là dentro non avrebbe avuto spazio a sufficienza per muoversi, figuriamoci per girarsi. E poi perché dovevano convivere pacificamente con le altre razze, come diceva sempre la mamma. Lo diceva anche il papà, in effetti, ma lui sembrava ripetere solo opinioni altrui. Non era mai molto convincente, né convinto. Sarebbe stato più facile, se anche le altre razze avessero cercato di convivere pacificamente con loro, ma lì, nella favolosa terra di Tessaglia, dove tutti li avrebbero accolti bene e rispettati, in memoria dei vecchi tempi, pareva che la convivenza pacifica non fosse di moda. No, decisamente no.

Lasciamo perdere, si disse. Girando attorno all’edificio, e ignorando con deliberata cura ogni suono che sentisse, trovò una specie di catapecchia, diversamente ampia e comoda, che doveva essere la stalla, non avendo la struttura di un gabinetto esterno. Odore e pulizia, però, non cambiavano molto.

E lì, assieme a un cavallo che aveva certo visto anni migliori, stava lo zio. In piedi, sciupato, con lo sguardo vuoto fisso su paglia, che poteva essere considerata pulita solo da chi non avesse mai visto un bagno in tutta la propria vita. Lo zio Asio, che sembrava così grande e ampio, quando lui era solo un bambino, e adesso sembrava una staccionata, dopo troppe stagioni sotto la pioggia.

Lavorava con un mercante, giusto? E che razza di lavoro faceva? Tessalo si sentì di nuovo prudere gli zoccoli. Non era particolarmente affezionato a quello zio, non ricordava neppure di avergli mai parlato, era soltanto una sagoma larga nella memoria, offuscata dal tempo, e fino a una settimana prima non avrebbe neppure reagito, a sentirne il nome. Era solo una sagoma, appunto. Ma adesso gli avevano tolto anche quella sagoma. Adesso che lo rivedeva, davanti a sé, non c’era più neppure la sagoma che ricordava. C’era... un ammasso di ossa, ecco. Era un’ombra, nella realtà invece che nella memoria.

Perché doveva fare tanto schifo la vita di un centauro, da quelle parti? E forse anche da altre parti: non aveva abbastanza esperienza del mondo, per sapere come se la passassero altrove. Ma i fauni, in Italia, vivevano bene, per quanto ne sapeva lui. Pastori, certo, che non era proprio un lavoro di cui vantarsi in buona società, ma pastori rispettati. Nessuno li insultava per l’aspetto che avevano. E i tritoni, in Egitto? Pescatori, per lo più, ma pescatori ricchi, perché sapevano sempre trovare i pesci migliori, in abbondanza. Le sirene erano rispettate e anche un poco temute, perché avevano in mano il destino delle navi in mezzo mare nostrum. I centauri, invece? Nella stalla, con le altre bestie.

«Zio Asio?» chiese, avvicinandosi alla figura. Cercava di non calpestare la paglia, temendo ciò che poteva esserci in mezzo, nonché sotto. Il modo in cui alcuni punti si muovevano non era proprio incoraggiante.

Il centauro nella stalla sollevò la testa, puntandola verso il nuovo arrivato. «Sì, sono Asio. E tu?»

«Sono Tessalo, tuo nipote, ricordi?» Ma ricordava? E lo avrebbe riconosciuto. Meglio aggiungere qualche dettaglio. «Sono il figlio della...»

«Oh, sì, Tessalo. Come sei diventato grande!» Lo sguardo di Asio sembrò più presente, adesso, più a fuoco su chi gli stava di fronte. Come di ritorno da un lungo viaggio, consumato probabilmente dentro la propria testa e lontano dal presente.

«Sì, già, è un po’ che non ci vediamo...» Quanto odiava quelle chiacchiere inutili. Ma odiava ancora di più il posto in cui le stava facendo. Meglio tagliare corto, per poi andarsene. «La mamma mi ha mandato a cercarti proprio per questo. Vuoi venire a cena da noi, stasera? È da parecchio che sei lontano, per cui vorrebbe...»

«Oh, stasera...» Lo sguardo di Asio si fece di nuovo indistinto e distante. «Ripartiremo domattina presto, non so se posso venire. E sei poi facciamo tardi? Il padrone si arrabbia...»

«Il padrone.»

«Sì, il padrone. Clearco. Lavoro per lui, lo sai.»

No, Tessalo non lo sapeva, ma sapeva che quella parola non gli piaceva. Non gli piaceva per niente. Padrone? Padrone era una parola da schiavi e adesso non c’era più la schiavitù, giusto? Era abolita, ufficialmente, e anche se le forme di lavoro che l’avevano sostituita non erano proprio il massimo... beh, almeno non era schiavitù. Eri padrone di te stesso. Trattato come uno straccio, ma padrone di te stesso. La differenza era grande, se ci pensavi bene. Da un certo punto di vista.

«E... questo Clearco... non vuole che vieni a cena da noi, stasera?»

«Oh, no posso allontanarmi troppo, lo sai. Domattina si parte presto e io devo essere pronto. Il mio è un lavoro molto impegnativo, sai.»

«Molto impegnativo.» Uno zoccolo di Tessalo batteva nervoso sul pavimento lurido della stalla. «E che tipo di lavoro sarebbe, giusto per sapere?»

«Tiro il carro di Clearco. È una grande responsabilità.»

Le labbra di Tessalo formavano una linea orizzontale quasi perfetta. «Tiri il carro. Ma non dovevi lavorare assieme a un mercante?»

«Sì, appunto. Clearco è un grande mercante e io lavoro assieme a lui. Io tiro il carro con le merci e lui le vende. È una grande responsabilità, te l’ho detto, no?»

«Quindi tu sei partito, per andare a fare il cavallo da tiro di un mercante. Sei andato in una grande città, perché qui in Tessaglia non c’era niente, e adesso lavori come cavallo da tiro per un mercante. Giusto?» Tessalo parlava molto lentamente, scandendo bene ogni parola. Cercava pure di trovare un qualche senso nascosto, lì in mezzo, che magari gli avrebbe aperto nuovi orizzonti, in cui la verità si sarebbe mostrata, nuda e lucente, in quella montagna di scemenze. Doveva esserci, no? Lo zio Asio non poteva essere impazzito così, giusto?

Asio sembrò notare qualcosa, nel modo in cui il nipote parlava, perché rispose con la stessa lentezza e scuotendo piano la testa. «Beh, ma non è poi così strano, sai. Ci sono molti centauri che lavorano così, in città. È... è come fare gli apprendisti, no? Cominci dal basso e intanto impari il mestiere.»

«E tu stai imparando a commerciare, giusto?»

«Beh, è un lavoro molto difficile e ci vogliono certe doti, sai. Certe capacità. Ci vuole esperienza. E sono tutte cose che conquisti col tempo, sai. Ma... ma è solo una cosa temporanea, vedi. Clearco mi dirà quando potrò avanzare e aiutarlo in altri modi.»

«Clearco è dentro la locanda, adesso? Magari quel tizio un po’ in carne e con pochi capelli, che non si veste molto bene... Sai, quello...» e gesticolò un poco, a rafforzare la descrizione.

«Sì, è lui, è il mio padrone,» annuì Asio, invertendo così il movimento della testa, che dal piano orizzontale passò a quello verticale. «È un grande uomo, sai. Gli devo molto.»

Era questa la fine che facevano i centauri, in città? Non ci voleva credere. Non ci voleva credere, perché aveva un sogno e un progetto: studiare l’arte medica e diventare come Chirone, il mito della sua infanzia. E aveva bisogno di raggiungere una grande città, per farcela, e guadagnare abbastanza da potersi far prendere come apprendista da un altro medico, uno affermato. Il che sarebbe stato già difficile, col corpo di centauro che si ritrovava, ma se per questo si doveva ridurre a fare il cavallo da tiro per un umano ritardato... No, non lo poteva accettare. Non lo poteva credere. Doveva esserci un errore, da qualche parte.

«Stai dicendo che, in città, tutti i centauri lavorano come te?»

«Beh, no, non tutti, sai. Molti, ma non tutti. Puoi fare il soldato, anche. Molti lo fanno. C’è grande richiesta per i centauri, nelle legioni. Siamo moto bravi a combattere, sai. Siamo famosi,» aggiunse, quasi a cercare un poco di orgoglio per interposta persona.

«Ah. Fantastico. Splendido...» Tessalo sospirò, lasciando cadere le spalle. «È proprio una bella vita, niente da dire. La vita che ho sempre sognato, direi.»

«Beh, è difficile, sai, ma è sempre difficile, quando sei adulto. Devi... devi misurarti con la realtà, sai. E comunque Clearco è un bravo padrone, molto comprensivo. Severo, ma comprensivo.»

Sì, certo: un bravo padrone che sistema il mezzo cavallo nella stalla, assieme agli altri animali. Un dono di Zeus al mondo, proprio. Tessalo sospirò di nuovo. Doveva chiudere in fretta, non ne poteva più di stare li dentro a deprimersi, guardando come si era ridotto lo zio grosso e forte, che ricordava vagamente, se si concentrava a fondo. Un altro minuto lì dentro e avrebbe finito per fare qualcosa di molto stupido, lo sapeva. Lo sentiva. Un ferreo controllo della propria rabbia non era mai stato un dono dei centauri, dopotutto, e lui era ancora giovane. Doveva concludere, sì. «Quindi, per stasera, vieni a cena da noi? La mamma ci teneva, è da tanto che non vi vedete...»

«Eh, sì, mi piacerebbe, ma proprio non posso. Domani partiremo presto, sai, e io devo tenermi qui pronto. È un compito molto importante, il mio, non posso deludere il padrone.»

E giù con lo stesso ritornello. Avrebbe scalciato volentieri anche lo zio, per vedere di svegliarlo un poco. «Senti, io adesso devo rientrare. Se cambi idea, vieni pure quando puoi, sarai il benvenuto. Sai dove trovarci, vero?»

«Beh, ecco...»

Tessalo glielo spiegò. Si salutarono, con l’allegria e l’entusiasmo di una pecora davanti al macello, e lo zio Asio sembrò un poco più spento, più distante, ammesso e non concesso che fosse possibile. Il suo volto era bianco e smunto, ma soprattutto sembrava aver perso qualcosa, che prima c’era, anche se in minuscole quantità. Tessalo vi rifletté, uscendo dalla stalla fetida. Che cosa era cambiato?

«Perché adesso lo so,» si disse. «Perché adesso so quanto fa schifo la sua vita.»

Possibile. Prima, almeno, i suoi parenti non vedevano quanto si fosse ridotto male, non sapevano delle umiliazioni quotidiane, a cui quel grande padrone di Clearco lo costringeva. Ma adesso sì, suo nipote lo sapeva e ne avrebbe parlato al resto della famiglia. Adesso anche i frammenti superstiti del suo orgoglio di centauro sarebbero stati spazzati via. Adesso la sua vergogna era pubblica, non solo tra gli umani ma anche tra i centauri. Bel risultato che aveva ottenuto, andandolo a cercare.

Ma non doveva essere così. Non doveva andare così. Non era quello il mondo a cui loro avevano acconsentito, entrando nella realtà. Non era quello che lui avrebbe accettato, no di certo. Ma perché Asio non faceva niente? Se fosse stato lui, invece...

«Guarda là, quel mezzo caval...» E il mezzo cavallo scalciò.

Era la reazione sbagliata, lo sapeva. Era il comportamento che si aspettavano, da una mezza bestia. Era un gesto che accresceva l’odio, la distanza tra le razze. Era un gesto impulsivo, uno degli scatti di violenza che avevano reso così famosa la sua gente, in tempi mitici. Era stupido. Era la risposta sbagliata a un problema serio e reale. La risposta di un bambino. Di un selvaggio. Era anche tante altre cose, sì, d’accordo, obbedisco. Ma per Zeus, che soddisfazione che era!

Tessalo si voltò, in tempo per vedere la sua vittima a terra e la gente che si scansava, spaventata. La vittima era un ragazzo, poco più vecchio di lui, con sangue che gli usciva dalla bocca e un petto dall’aria piuttosto ammaccata. Piuttosto rimodellata, anzi, dove gli zoccoli lo avevano colpito. Non che quell’imbecille potesse passare per un marmo di Prassitele, prima, ma adesso sembrava soltanto una cassa sfasciata. Sfasciata male, per giunta.

Brutta storia. Bruttissima storia. Le altre persone si spostavano, adesso, e sembravano spaventate, adesso, ma non lo sarebbero rimaste a lungo. Presto, molto presto si sarebbero ricordate delle armi, e di cosa si doveva fare con una bestia imbizzarrita. O una mezza bestia. Non che cambiasse molto, per lui. Lo avevano provocato, certo, ma nessuno si sarebbe fermato ad ascoltare le sue ragioni. Non prima di aver finito il lavoro, almeno. Dopo si sarebbe parlato, dopo ci sarebbero state tante parole, e forse anche qualche punizione per i colpevoli, ma dopo sarebbe stato tardi. E dunque...

Mentre gli altri erano ancora confusi, Tessalo fuggì.

Galoppò verso casa, la testa che percorreva tutto lo spettro tra la vergogna, la rabbia e la gioia. Che stupidata aveva fatto. Che soddisfazione gli aveva dato. Forse erano così i centauri di un tempo, ma senza la parte di vergogna. E forse per questo erano temuti, in passato, e forse era sempre per questo che la gente non aveva dimenticato, nel presente. Non del tutto, almeno. Non lì, in Tessaglia. Sì, la scelta di tornare a vivere in quella regione era stata davvero stupida. Con tutto lo spazio che c’era al mondo, o almeno nell’impero, avevano scelto il posto peggiore. Proprio furbi, i suoi parenti.

Una questione che ancora non voleva sfiorare, mentre fuggiva, era il futuro: cosa avrebbe fatto, adesso? Come lo avrebbero accolto a casa, una volta saputo del calcio? E come avrebbe reagito il paese? E l’ironia di fondo, terribile in tutta quella storia: un ragazzo che voleva diventare medico aveva appena steso una persona. Ferita gravemente, se era fortunato. Uccisa, se non lo era. Questo sì che lo avrebbe aiutato, nel trovare un maestro che lo accettasse come apprendista.

Tessalo si fermò. Perché galoppare verso casa? Che cosa ne avrebbe ricavato? Sgridate, punizioni, e di sicuro lo avrebbero poi costretto a tornare in paese, per scusarsi, per umiliarsi davanti a quelli che lo insultavano a vista, per nessuna ragione. E alla fine sarebbe diventato come lo zio Asio, il mulo di un qualche fetido mercante, a tirare un carro e dormire nello sterco. Non era quello che voleva. Non era quella la strada che avrebbe accettato di percorrere. No. No e poi no. Non lui. Se gli altri non si volevano svegliare, e continuavano a vivere in quella cloaca del passato, lui non sarebbe stato come loro. Lui avrebbe scelto un’altra via, diversa da quella che lo riportava a casa.

Il mondo era vasto e lui aveva buone zampe, giusto?

Così abbandonò la strada e si lanciò tra gli alberi, verso i rilievi. C’erano montagne, da quella parte, ma dopo le montagne c’erano anche altre zone, altri paesi, altre persone. Persone che non odiavano necessariamente i centauri, in nome di memorie confuse, vecchie di secoli. Poteva esserci spazio anche per lui, laggiù. Spazio per il suo sogno, magari. E là, distante a occidente, la città di Roma, dove dicevano che potevi trovare più o meno di tutto. Incluso un maestro, se ti andava bene.

Tanti saluti al resto della compagnia. Qualunque cosa il fato avesse in serbo per lui, bello o brutto che fosse, Tessalo lo avrebbe scoperto da solo. Avrebbe trovato un posto in cui studiare come medico, se così era destino. E se non lo era, avrebbe studiato come medico da solo. In fondo, anche Chirone era diventato un grande medico vivendo nei boschi, giusto? Quello che conosceva lo aveva appreso da solo, con le proprie forze e la propria mente, senza bisogno di maestri umani. Quindi, nel peggiore dei casi ce l’avrebbe potuta fare anche lui. Forse. A ogni modo, una cosa era certa: nel suo futuro non ci sarebbe stata una stalla lurida in cui vivere, né un carro da tirare.

Galoppando verso un simbolico tramonto, sempre più lontano dalla propria famiglia, Tessalo se ne andò dal suo paese, in cerca di qualunque cosa il mondo avesse da offrirgli. E con zampe sempre pronte a scalciare, se necessario.

di Adriano Marchetti