Saggezza dalle fogne
Le ultime note del Valse sentimentale di Tchaikovsky si dissolsero nell’aria da cui le mani di Pietro Sbocchi le avevano estratte poco prima. Non molto bene, come era pronto a riconoscere lui stesso, ma il Theremin era uno strumento piuttosto particolare e le sue dita non avevano ancora ottenuto la necessaria agilità per rendere scorrevole il passaggio da una posizione all’altra e l’esecuzione, nel complesso, ne risentiva. Pure, lui si divertiva e tanto bastava.
Dopotutto, non era un musicista. Né di professione, né di spirito, se così lo vogliamo definire. Pietro Sbocchi era un cartolaio a cui piaceva suonare, quando era a casa e quando era da solo. Il Theremin era la sua passione, fin da quando ne aveva scoperto l’esistenza. Sarebbe stato bello se lo strumento avesse ricambiato il suo amore, ma ancora non era accaduto. Un giorno, magari.
Non adesso. Pietro abbassò le braccia, si allontanò di qualche passo e si stiracchiò. Aveva bisogno di andare in bagno. Aveva spesso bisogno di andare in bagno, quando suonava il Theremin. Era uno strano effetto delle onde sul suo corpo? O era il suono particolare a stimolarlo? O una suggestione, già che ci siamo? Fosse come fosse, Pietro Sbocchi aveva bisogno di pisciare. Di nuovo. Ed era già la terza volta, quella sera. Fastidioso.
Oh beh, niente da fare. Si girò, infilò il corridoio, due passi fino alla porta del bagno, la aprì, accese la luce e vide la testa che sporgeva dalla tazza del gabinetto.
Per un attimo Pietro si dimenticò di respirare, poi i polmoni presero il controllo e ricominciarono in autonomia. Questo migliorava un poco le cose, ma rimaneva un problema. Era grosso e lo aveva più o meno sotto al naso. No, facciamo davanti al naso. A un paio di metri. Usciva dal cesso. Una testa.
Impossibile. Ma sotto tutti gli aspetti, proprio. Non solo non aveva senso, ma era una impossibilità fisica. Quindi non stava accadendo davvero. Era un sogno. Un’allucinazione. Qualcosa del genere.
La testa si girò a guardarlo. Era maschile, aveva un barbetta da aspirante filosofo, poteva essere sui quaranta o giù di lì. Capelli corti, un poco mossi. Naso lunghetto e mascella massiccia, ma la potevi anche descrivere come una testa piacevole, nel complesso. Ce n’erano di peggiori.
Il problema era che spuntava dal cesso di casa sua.
«Buongiorno,» disse la testa. Aveva una voce piuttosto gradevole, ma con un retrogusto saccente e un poco pomposo. Faceva pensare a un professore, di quelli molto seriosi. Se ignoravi l’asse che gli incorniciava il collo e il rotolo di carta igienica sullo sfondo. Di solito i professori non li hanno.
Pietro Sbocchi non voleva rispondere. Era pronto ad accettare tante cose strane e negli anni aveva già dovuto accettarne diverse, ma c’erano limiti a tutto. Dialogare con una testa uscita dal cesso era troppo anche per lui. Quindi sarebbe rimasto zitto. Ottimo.
Non lo fece. Fu più forte di lui.
«In realtà non è giorno. È sera,» rispose Pietro.
«La prego di scusarmi, allora. Credo di avere perso di vista l’orario.»
Ci fu un minuto di silenzio. Pietro si malediceva per avere risposto. Era stata la mossa sbagliata e lo sapeva. Significava accettare la realtà. Peggio, significava renderla normale. Avrebbe dovuto invece ignorare tutto, spegnere la luce, chiudere la porta e, se necessario, andare a pisciare nel lavandino in cucina. Non il massimo della vita, d’accordo, ma c’era di peggio.
Invece aveva risposto. E perché? Per la sua maledetta mania di correggere gli altri. Era una fatica al lavoro, dove spesso però riusciva a trattenersi quando un cliente sbagliava tempi e modi verbali, il nome o la pronuncia di qualcosa, eccetera. In privato? Quasi impossibile. E adesso...
«Mi scusi, saprebbe per caso dirmi da che parte è la stazione?» chiese la testa.
«Non siamo molto vicini,» rispose Pietro. «Saranno almeno quattro chilometri.»
«Sul serio? Devo avere girato dalla parte sbagliata. È un vero fastidio, sa?»
«Eh, posso immaginare.»
«Oh, guardi, non ne ha idea. Ma sa cosa trovo davvero irritante?»
«Ehm, no, non lo so.»
«Sono questi servizi di navigazione, sa? Promettono di guidarti nella direzione giusta, ma le mappe che li accompagnano non sono mai aggiornate. Mai. È così fastidioso, sa...»
Pietro Sbocchi ebbe per un momento l’immagine di un tizio che studiava lo smartphone, mentre una voce meccanica gli diceva di procedere per venticinque metri e girare a destra in via Dalle Scatole. Realistica, a modo suo, ma non spiegava cosa ci facesse una testa nel suo cesso.
«Beh, sì, posso capire il suo problema,» cominciò Pietro, senza idea di come finire la frase.
Non ce ne fu bisogno. «Guardi, potrei raccontargliene di cose, ma è meglio lasciar perdere,» disse la testa. «Anche perché vedo che lei ha molto da fare, al momento.»
«Eh, beh, più che altro avrei...»
«Già, già. È tutta una questione di mitocondri, sa?»
Pietro sorrise e annuì. Sapeva che i mitocondri avevano qualcosa a che fare con le cellule, o almeno lo sospettava, se poteva ancora fidarsi dei ricordi scolastici. Cosa avessero a che fare col resto, però, era una domanda che voleva lasciare senza risposta. Non voleva neppure chiedere, in effetti.
«Mitocondri.»
«Mitocondri, appunto. Non ha idea di che scherzi possano combinare, sa?»
Su questo bisognava proprio dare ragione alla testa: Pietro non ne aveva la minima idea. E, giusto a titolo di completezza, al momento non gliene poteva fregare di meno.
«Sì, capisco, ma vede, io avrei...»
La testa annuì. «Naturalmente, naturalmente. È la diciottesima battuta il problema. È lì che il ritmo comincia ad accelerare, almeno nella sua esecuzione. Nelle intenzioni di Tchaikovsky, invece, la sua variazione di ritmo non si presenta, non in questi termini, sa? È così, mi creda.»
«Ah. Sta parlando di quello che suonavo prima al Theremin? Non pensavo che si sentisse anche...»
«Precisamente. Una giornata terribile la attende. Farebbe meglio a riposare. L’allodola canta, sa?»
Sì, ok. Pietro Sbocchi fece un passo indietro, giusto per sicurezza. Era stata una conversazione a suo modo piacevole, o almeno era stata una conversazione insolita, ma adesso stava prendendo proprio una brutta piega. Di quelle che in genere arrivano dopo il quarto whisky liscio, specie se sei ancora a stomaco vuoto. Facciamo pure il quinto, già che ci siamo.
«La mantide sa attendere il suo turno, ma anche lei ciurlerà al crepuscolo. Domani la finanza verrà a visitare la sua cartoleria, ma il gobbo sa sempre dove andare, sa?» La testa annuì. «Sempre.»
«Cosa c’entra la finanza?»
La testa annuì di nuovo. «La guardia guarda e il formaggio frigge.»
Pietro sospirò. Doveva essere la strampalata idea di scherzo di qualcuno. Probabilmente gli avevano montato un qualche tipo di proiettore nel gabinetto, per questo vedeva la testa. Era di sicuro qualche amico di un amico, che recitava fesserie o, beh, ci siamo capiti. Uno scherzo. Tutto qui.
Però doveva davvero pisciare.
«Senta, guardi, è stato divertente ma adesso devo proprio andare, eh? Se magari vuole andare anche lei, già che c’è, poi saremo tutti più contenti.»
«Precisamente,» rispose la testa. «Non ho ancora raggiunto la stazione. Tutta colpa di queste mappe. Servono solo a farti perdere. Una multa la attende, ma deve imparare a controllare meglio il ritmo: è accelerato dove dovrebbe rimanere costante, sa?»
Pietro Sbocchi spense la luce e chiuse la porta del bagno. Si appoggiò al muro e respirò a fondo, un ritmo calmo e costante. La vescica gli pulsava, ma non aveva ancora raggiunto un livello da allarme rosso, per cui tutto era sotto controllo. Grossomodo. Per un poco.
Un sogno. Uno scherzo. O un’allucinazione. Qualcosa del genere. Sì.
Pietro riaprì la porta e riaccese la luce. La testa era svanita. Appunto.
Entrò, raggiunse la tazza, fece ciò che doveva fare, tirò l’acqua. Controllò un poco nelle vicinanze, nel caso ci fosse segno di qualche strano aggeggio nascosto, ma non si impegnò molto, nel caso non ci fosse segno. Meglio non fare una domanda se non vuoi conoscere la risposta, ci siamo capiti.
Smise di cercare e si raddrizzò, si piantò le mani sui fianchi e scrocchiò la schiena. Si sentiva molto più leggero e non solo perché aveva appena scaricato alcuni decilitri di liquido organico di scarto. Era perché tutto era tornato normale. Anzi, lo era sempre stato. Un breve scherzo, stanchezza, roba simile. Incidenti che capitano. Meglio non pensarci più.
Su una cosa la testa aveva avuto ragione: lui doveva riposare. Non perché lo attendesse una giornata terribile o altre fesserie, ma perché se hai allucinazioni così realistiche e prolungate, chiudere gli occhi e staccare la spina per un poco era proprio ciò che ti serviva. Dormire.
Si lavò le mani e la faccia, si asciugò, si guardò per un attimo allo specchio. Non un granché, ma era una faccia normale. Nessun segno di follia, diversi segni di stanchezza, più le tracce lasciate dalla eterna lotta tra i muscoli e la gravità, che presto o tardi tutti gli umani perdevano, ma al momento non aveva importanza e comunque era un discorso diverso. Riposare, giusto.
Era sulla soglia del bagno e aveva la mano già posata sull’interruttore, pronto a spegnere la luce, ma non lo fece. Perché aveva colto un movimento, proprio nell’angolo del suo campo visivo. Una zona che al momento era occupata dalla tazza del gabinetto. Grossomodo. Pietro non si voleva girare, ma si girò lo stesso. E la vide.
La testa era tornata e lo fissava con un mezzo sorriso.
«Grazie per la doccia. Molto rinfrescante, sa? Come stavo dicendo, il suo problema è il ritmo. Lei presenta la tendenza ad accelerare dopo le prime battute, indipendentemente da cosa è indicato nello spartito. È un vizio piuttosto fastidioso, sa? Con altri strumenti potrebbe cercare di battere il tempo giusto con un piede, ma capisco che nel caso del Theremin questo tipo di approccio sia...»
Pietro Sbocchi spense la luce e chiuse la porta. Dopo una breve riflessione prese un paio di sedie e le sistemò lì davanti. Non perché sarebbero servite a qualcosa: era solo un fattore psicologico. Dava un senso di sicurezza. E comunque era tutto un brutto sogno.
Provò a suonare ancora un poco, giusto per distrarsi, ma la sua testa era altrove e il ritmo era ancora più sballato del solito, il che era tutto dire. Meglio fermarsi. Spense ogni cosa e andò a letto, senza passare dal bagno. Si sarebbe sentito più fresco e riposato, il giorno dopo. Più lucido. Ne era sicuro. Anche perché peggio di così non poteva andare.
Ma era stato solo un brutto sogno, giusto. Solo un brutto sogno.
Si svegliò poco dopo le sei, si alzò, uscì dalla camera, osservò la porta del bagno, sospirò. Rimise a posto le sedie, scosse la testa, strinse i denti, aprì, guardò.
Tutto normale. Ottimo!
Niente teste, niente stramberie, niente brutte sorprese. Tutto un sogno, appunto, ed è giusto ripeterlo perché si sa che le cose diventano più vere ogni volta che le ripeti. Le solidifichi. Aggiungi realtà. Le rafforzi. Quello che è. Soprattutto, ti autoconvinci.
Sarebbe stata una giornata fantastica, lo sentiva.
Così, quando la guardia di finanza passò nella sua cartoleria, trovò diverse irregolarità e gli fece una multa da piangere, Pietro Sbocchi decise che era stata solo una coincidenza e non era proprio il caso di pensarci troppo. Cose che capitano. E se dopo aver chiuso il negozio avesse deciso di passare dal supermercato a comprare solventi di ogni tipo per scrostare, sgorgare e disinfettare i sanitari, beh, lo avrebbe fatto solo perché il bagno aveva bisogno di una bella pulita, sapete.
La tazza, in particolare, era un vero disastro.