Adriano - racconti e altro

Scatti a sorpresa

Una chiesetta abbandonata da chissà quanti anni, ormai in rovina, poco più di una catapecchia. Una parete mancante, finestre frantumate, tetto sfondato, porta sfasciata, campanile che, ok, lo possiamo pure chiamare campanile, se vogliamo, ma era già poco più alto dell’edificio anche da sano, adesso è giusto un mozzicone mangiucchiato e storto. Triste. Decadente. Spettrale, volendo. Quasi in vetta alla collina, una stradina bianca che passava oltre e portava ai campi, una strada asfaltata ma disfatta che la univa al resto del mondo. Buono.

Alle sue spalle, l’appennino. Poche nuvole, giusto quel tanto che basta per fare scena. Cielo azzurro, reso ancora più azzurro dal contrasto. Nebbia assente, foschia non pervenuta. Il sole fuori dai piedi, nessun cicloamatore nei paraggi, niente auto, niente di niente. Perfetto.

Riccardo Cimice tolse di tasca lo smartphone, lo sollevò, puntò, fuoco. Guardò la foto. Sospirò.

Era triste. Ma tanto, tanto triste. Dovunque andasse, dovunque si fermasse, scopriva sempre che una qualche persona, di solito stronza, era già passata prima di lui e aveva lasciato la sua firma. A volte nel mondo reale, più spesso nella cosiddetta realtà aumentata. Piccole scemenze, oppure grandi, ma sempre e solo scemenze. Che razza di gentaglia!

Riccardo guardò di nuovo la foto. Un grosso gatto davanti alla chiesetta abbandonata, un cartellone appeso al collo, una scritta volgare. E un cuoricino. Chi poteva essere così stupido da avvertire in sé il bisogno di aggiungere certa immondizia alla realtà? Molti, d’accordo, ma questo serviva soltanto a confermare che era proprio un brutto mondo. E diventava sempre peggio.

Rimise lo smartphone in standby e lo infilò di nuovo in tasca. Oh beh, era stata solo una prova. Gli serviva per farsi una idea generale dell’inquadratura, valutare la luce, l’angolazione migliore, questo e quello. Scatti usa e getta, per prepararsi allo scatto reale. E, gatto idiota a parte, il resto della scena funzionava. Era proprio quello che voleva. Quello che gli piaceva. La sua specialità.

Riccardo Cimice sollevò la vera macchina fotografica, che portava appesa al collo. Un modello che alcuni spiritosi avrebbero forse definito preistorico, niente di digitale e tutto di chimico, con rullino e affini, ma a lui piaceva così. Era il solo modo per scattare vere fotografie, secondo il suo modesto e sobrio parere. La robaccia digitale non è fotografia. La robaccia digitale sta alla fotografia come il cosiddetto fast food sta alla cucina tradizionale casalinga. Quella delle nonne, per intenderci. Bah.

Elucubrazioni pseudofilosofiche a parte, Riccardo alzò la vera macchina fotografica (corsivo suo) e spese i successivi cinque minuti a cercare la giusta prospettiva, quella che gli avrebbe fatto scattare il clic nel cervello, da cui sarebbe seguito il clic della macchina. La trovò, ma a quel punto la nuvola di destra si era mossa e dovette aspettare altri venti minuti perché tornasse in un punto artistico. Lo fece. Riccardo respirò a fondo, si preparò, scattò. Clic!

Fatto! Ah, che soddisfazione che gli dava, quando riusciva a scattare proprio la foto che voleva lui e non quella che la realtà cercava di rifilargli. Era faticoso, ma lo ripagava sempre, ed era ancora più bello perché la sua vita non gli dava molte altre soddisfazioni. Solo le foto. Le foto giuste.

Riccardo ripose con cura la macchina nella custodia di cuoio nero, si tolse lo smartphone di tasca e guardò di nuovo quella orribile foto col gatto. Era proprio stupida. Non solo il gatto era un orrore da disegnatori falliti, ma era anche del tutto fuori posto. Che senso aveva davanti alla chiesetta? E quel cartello di insulti? Perché? Perché tanto dolore?

Perché qualcuno lo aveva trovato spiritoso, molto probabilmente, e lo aveva aggiunto alla realtà del suo smartphone. E di tutti gli altri smartphone, o tablet, o altra roba che condivideva la stessa realtà o almeno le stesse app. Crealo in una e vedilo dappertutto. Che demenzialità condivisa.

Riccardo guardò l’ora. Abbastanza presto. Se si muoveva, aveva tempo per passare anche dall’altra località che si era annotato, poco più avanti, giusto un paio di colline. O erano monti? Se ricordava bene, la soglia era quota seicento metri: sotto sei collina, sopra montagna. Quanto erano alte quelle che doveva superare? Riccardo ci pensò un poco, poi scrollò le spalle. Chissenefrega, sinceramente.

Salì in auto, sistemò con cura la macchina fotografica sul sedile accanto, si assicurò che non potesse cadere o subire scossoni, controllò di essersi assicurato davvero bene, esaminò una terza volta la sua cara macchina fotografica, perché tre porta fortuna, poi si decise a partire. C’era una torre più avanti che lo attendeva. O almeno i resti di una torre. Se ci arrivava con la luce giusta e con le nuvole sullo sfondo distribuite nel modo giusto, poteva uscirne una gran foto. Se lo sentiva.

Ne era praticamente sicuro. Forse.

Doveva anche ammettere una certa curiosità. Qualche spiritoso aveva deturpato anche i resti della torre con una qualche fesseria di realtà aumentata? O non c’erano ancora arrivati? La prima, ovvio, ma poteva sempre sperare nella seconda. Anche perché, adesso, se esistono persone così malate da appiccicare un gatto gigante con un cartello di insulti davanti a una chiesetta in rovina, cosa sarebbe mai apparso accanto a una torre diroccata? Riccardo Cimice non ci voleva pensare.

Ne aveva discusso qualche tempo prima con un amico, nonché compagno spirituale di sventure. Al bar, di sera, dopo il lavoro. Riccardo aveva concluso il turno alla biglietteria della stazione locale, lo spirito a pezzi e un grave caso di orchite dell’anima. Era sempre brutto, quando finiva di lavorare. E anche mentre lavorava, in effetti, ma il poi lo feriva molto di più. Perché pensava. Ricordava. In una parola, si faceva seghe mentali, che in effetti non è una parola sola, ma ci siamo capiti.

Quel particolare giorno c’era stata la pensionata che voleva un biglietto per andare a trovare una sua nuora, quella che abitata via, hai presente? Riccardo non aveva presente, ma aveva annuito per pura cortesia. Solo che la pensionata non si ricordava più il nome della stazione. Cominciava per esse, sì. O no, magari era una emme. Era lì vicino a dove siamo andati in vacanza una volta, sai, quando mio marito c’era ancora. Osvaldo, hai presente? No? Ma lo conoscevano tutti, dai, lo avrai conosciuto di sicuro anche tu. No? Ma pensa! Roba da matti. Ma c’è una stazione, lì vicino...

Riccardo Cimice aveva ascoltato mentre la muffa gli cresceva sul cervello e attorno a lui dilagava la sesta estinzione di massa. Aveva maledetto la vecchia. Aveva maledetto il sistema. Aveva maledetto un assortimento di altre cose, tra cui il giorno della sua nascita. Sua di Riccardo, intendo. Aveva poi ricordato il sogno che raccontava a tutti, quando era bambino. Da grande farò l’astronauta, diceva. E adesso lavorava alla biglietteria di una stazioncina locale, ogni anno a un passo dal licenziamento per fare posto a un distributore automatico, ma ogni anno la scampava. Con un taglio allo stipendio.

La sola cosa che lo mantenesse sano era il suo hobby, la fotografia. Poteva forse rendere gli altri un poco meno sani, dato che ne parlava spesso e volentieri, ma erano dettagli secondari. Con qualcuno si doveva pure sfogare, no? Era semplicemente umano. Quando sei infelice, distribuisci l’infelicità a chiunque ti capiti a tiro. Una specie di osmosi, o magari il principio dei vasi comunicanti. Dettagli.

Quella sera si era sfogato con Massimiliano Scamorza, il suo amico. Uno che aveva studiato per tre anni ingegneria, poi era stato costretto a mollare perché non ce la faceva proprio, né come studio né come tasse universitarie. Adesso era insegnante di educazione fisica nel vicino istituto tecnico, oltre che allenatore di una squadra giovanile di pallavolo. Sognava di diventare inventore, da bambino. E un grande inventore, a voler essere precisi. Non era andata proprio così, diciamo.

Ma il punto era che si trovavano al bar e parlavano. Riccardo raccontava di tutte le demenzialità che trovava sempre nei posti più impensati, quando usciva a fotografare, e Massimiliano ascoltava con espressione di grande interesse, in attesa che arrivasse il suo turno per lamentarsi. Facevano sempre così, prima io e poi tu: per questo erano ancora amici, nonostante tutto.

«E la chiamano realtà aumentata,» aveva pontificato Riccardo. «Come se aggiungesse qualcosa alla realtà. Ma non lo aggiunge. Non alla realtà. Solo alla finzione che trovi dentro una aggeggio, che sia uno smartphone o un altro affare smart. Smart, hah! Sono più stupidi dei miei clienti.»

«Sono solo etichette di comodo,» aveva risposto Massimiliano. «In qualche modo le devi chiamare, no? Così scelgono un nome che suoni bene e faccia vendere di più. Perché, tu come la chiameresti, scusa? Realtà diminuita? Etichettatrice virtuale?»

Riccardo ci aveva pensato per un poco, ma non gli era venuto in mente nessun nome adatto, ossia che offendesse a sufficienza sia quella tecnologia sia chi la usava. «È comunque un nome stupido,» si era dovuto accontentare di dire. «E non serve a niente. E comunque sì, da un certo punto di vista la riduce davvero, la realtà. Perché la riempie di cose che non esistono e così diventa meno reale, lo capisci? Tu metti irrealtà nella realtà e la realtà non è più reale. Chissà cosa ci va a finire in mezzo, con tutta quella roba falsa che ci butti. È come se aggiungi troppa acqua a una bevanda: poi non hai più quella bevanda, ma acqua che sa più o meno di quella bevanda. Ecco. Tu butti immondizia nella realtà e alla fine perdi la realtà. Diventa tutto irreale. Capisci? Tutto annacquato.»

«Penso che a te farebbe bene davvero un po’ di acqua in più e un po’ di bevanda in meno.»

«Non sono ubriaco. Sono perfettamente lucido.»

«Oh, sì, lo vedo. Fai praticamente luce. Mi accechi.»

Riccardo Cimice aveva agitato un dito in cerca di una risposta secca e pungente, una di quelle belle battute da film, o almeno da libro, o anche solo da barzelletta. Non ne aveva trovate, così aveva solo lasciato perdere il discorso ed era tornato a pontificare sulla fotografia e i dolori che ti causa.

«Comunque avevo ragione io,» bofonchiò in auto, mentre viaggiava verso la torre diroccata. «Non è un aumento di realtà, è una diminuzione. Ti abituano a infilare l’irreale nel reale a alla fine neanche tu lo capisci più quello che è vero e quello che non lo è. Per questo il mondo va a rotoli.»

Annuì. Sì, era ovvio. Bastava passare un’ora in biglietteria per capirlo. Non che succedesse poi così tanto in un’ora, di solito. Non succedeva proprio niente. Era un binario morto, in quasi tutti i sensi.

Incrociò due o tre panorami interessanti lungo la strada, ma nessuno aveva quello che cercava lui, il pezzo mancante del puzzle. Scorci pittoreschi, certo, e la giusta luce li avrebbe resi di sicuro ancora più affascinanti, ma un paesaggio da solo non basta. Ci voleva altro. Nell’immaginario di Riccardo, serviva anche qualcosa di umano. Meglio ancora se in rovina.

Era la sua specialità. Fotografare ruderi su uno sfondo naturale peculiare. E dovevano essere tutti di un certo tipo, altrimenti non funzionava. Doveva unire il rudere che diceva lui a un paesaggio che si presentasse peculiare a sufficienza secondo la sua definizione di peculiare. Che era a propria volta molto peculiare. Lo era così tanto che non era mai riuscito a spiegarla a qualcuno, neppure quando il qualcuno era lui stesso. Ma la sapeva. Meglio ancora, la sentiva.

E quando la sentiva, clic!

Era il suo scopo di vivere e non sapeva farne a meno. La vita gli aveva dato poco e anche quel poco era stato di bassa qualità, almeno secondo il suo modesto parere di vittima perpetua, ma una cosa sì, una cosa l’aveva ottenuta. Lo strano otturatore che faceva clic nella sua testa e gli diceva che era la scena giusta da fotografare, quella che avrebbe dato senso a tutto.

Per valori molto peculiari di senso, beninteso.

Così Riccardo Cimice passava buona parte dei suoi fine settimana non lavorativi a girare qui e là in provincia e dintorni, a caccia di angoli di universo da fotografare. Angoli giusti. Quelli che nella sua testa facevano clic. Quando pioveva o quando proprio non poteva, si accontentava di cercarli seduto al computer, spulciando mappe e visualizzando le immagini raccolte da chi aveva stilato la mappa. Non era soddisfacente, ma gli forniva spunti. Idee. Posti da esplorare di persona.

Tipo la torre diroccata.

Riccardo la vide spuntare pian piano nel parabrezza, mentre il suo macinino arrancava in salita. Sì, forse era più montagna che collina, e la strada faceva davvero schifo. Che razza di comune era, per disinteressarsi così tanto di percorsi che, ok, magari erano inutili, magari ci passavano sì e no dieci o undici auto in un giorno, magari anche dieci o undici in una settimana, ma qualcuno ci passava, per la miseria! Un minimo di manutenzione costava tanto?

Probabilmente sì, ma l’indignazione era gratis e Riccardo si indignava. Lo faceva sempre sentire un poco meglio. Era come dare la colpa a qualcun altro quando sospetti che in realtà sia tua.

Un ultimo rantolo e arrivò. Costeggiò e si fermò fuori dai piedi, su una striscia di ghiaia e robaccia assortita che forse ricadeva nella categoria di strada bianca, ma che Riccardo considerava solo come una carraia schifosa, a voler essere generosi e fini. Scese, macchina fotografica al collo e un grande bisogno di clic nella sua animaccia martoriata. Ma che clic? E dove?

Squadrò la torre. Era più diroccata di quanto si fosse aspettato, ma... non troppo, no. Anzi, aveva un suo fascino vagamente gotico, un poco decadente. Era a base quadrata, o almeno quadrangolare, un pilone di sassi tenuto assieme alla meno peggio dal tempo, dall’edera e da chissà cos’altro. Sporco e guano, avrebbe detto Riccardo. Il tetto non c’era più e una parete lo aveva in gran parte seguito, ma si reggeva ancora e possedeva una sua vaga nobiltà, da gigante sconfitto e in ginocchio, ma che non si era ancora arreso, non del tutto. Che attendeva, forse per un ultimo disperato assalto.

O qualcosa del genere, ci siamo capiti.

Riccardo Cimice vi girò attorno tre volte, guardando prima la torre poi il paesaggio. Ogni tanto una pausa a studiare la luce, testa inclinata da un lato e dita alzate a inquadrare la scena, come facevano nei film e come lui aveva sempre desiderato fare nella realtà. E lo faceva, tipo adesso, ma sempre e solo in assenza di testimoni. Voleva evitare brutte figure, nel caso fosse solo una scemenza. Non che ci fosse mai qualcuno in sua compagnia, specie in quelle escursioni, ma non era un buon motivo per abbassare la guardia. Giusto per sicurezza, capite. Anche i sassi potevano sorvegliarti, di quei tempi. Era un gran brutto mondo, se ci pensavi bene.

Dopo il terzo giro, si fermò in un punto che poteva essere promettente, anche se le nuvole non erano ancora nella posizione adatta per la foto che aveva in mente. Questione di tempo. Tanto per aiutarlo a passare più in fretta, prese lo smartphone e scattò una prima volta, in via sperimentale. Chissà che razza di assurdità avrebbe trovato addosso a quella povera torre.

Una persona. Una faccia che lo guardava da dietro la torre, sporgendosi appena, come se lo volesse spiare di nascosto, ma non troppo di nascosto. Era fatta piuttosto bene. Realistica. E sfocata, certo, i lineamenti non si distinguevano e non era neppure chiaro se ne avesse, ma l’effetto era buono. C’era un vago retrogusto da foto di fantasmi vecchia maniera.

«Potrebbe anche valere la pena di conservarla, invece di cancellarla subito,» borbottò Riccardo. «È stupido perdere tempo a fare una roba simile, ma almeno è venuta bene. Meglio di quel gatto.»

Infilò di nuovo in tasca lo smartphone e studiò le nuvole. Non stavano girando nel modo giusto, per adesso. C’era vento, sì, ma tirava dalla parte sbagliata. Quella sulla sinistra, poi, si stata deformando in una maniera vergognosa, quasi imbarazzante. Sospirò.

Era davvero una brutta storia, quando gli elementi cospiravano contro di te. Non potevi farci niente, a parte aspettare e sperare. Non che ci fosse molto da sperare, quando una nuvola diventava sempre più simile a un culo. Non puoi metterla in una foto. Non in una foto seria. Rovinava tutto.

Oh beh, niente da fare, per adesso. Riccardo Cimice segnò il posto che aveva trovato con un paio di sassi, nel caso non lo dovesse più riconoscere, poi ricominciò a girare attorno alla torre, studiando il paesaggio, la luce, la prospettiva, l’angolo, tutto quello che gli veniva in mente. Finché il cielo non si fosse deciso a mettersi in regola, non aveva altro da fare: perché non approfittarne per cercare qui e là eventuali nuovi punti interessanti?

Ne trovò uno che prometteva bene, anche se le nuvole restavano un problema. Lo fotografò come al solito con lo smartphone, guardò il risultato e si fermò. La faccia c’era ancora, ma si trovava in una posizione diversa. O meglio, si trovava ancora nella stessa posizione, grossomodo, ma non era nello stesso punto di prima. Si sporgeva da una sezione differente della torre. Interessante.

«Ne avranno messa più di una,» si disse, scrollando le spalle. «Magari la vedi diversa a seconda del punto in cui ti trovi. Simpatico, un poco barocco, ma niente di che.»

Ovvio. Doveva ammettere, però, che quel particolare tipo di realtà aumentata, abbinato a una torre a pezzi, faceva uno strano effetto. Sembrava sia appropriata, sia bizzarra. Un poco inquietante, anche.

«Maniaco dell’horror, quasi di sicuro.»

Riccardo Cimice passò oltre. Occhiata alle nuvole, scrollata di testa: continuava a peggiorare. Come si poteva fare una foto, se il cielo ce l’aveva con te? Non si poteva. E dire che quella torre in rovina era così artistica, specie con l’appennino sullo sfondo. Bastava solo girarsi nella direzione giusta e il sole non era più un problema. Peccato che lo diventassero le nuvole. Male, male, male.

Attesa, giro. Giro, attesa. Niente di nuovo sul fronte occidentale, perché le escursioni fotografiche di Riccardo Cimice si svolgevano spesso così e lui era comunque una persona paziente e non aveva problemi a proseguire con quella solfa per un’ora o più, ma le contorsioni delle nuvole lo irritavano parecchio. Sembrava quasi che fossero senzienti e ce l’avessero con lui. Pure, prima o poi si sarebbe sistemato tutto e allora clic! Una nuova, fantastica fotografia. Perché prometteva bene, il posto.

Per distrarsi scattò un altro paio di volte con lo smartphone, testando la qualità della luce e a modo suo sperimentando nuovi angoli e nuove prospettive. Fu divertito e irritato nel vedere che la figura era sempre lì, quella specie di umanoide spettrale che spiava da dietro la torre. Chiunque fosse stato a infilarcela come realtà aumentata si doveva essere impegnato parecchio. Un perfezionista. Sorrise.

Alla fine, dopo tanta attesa e tanti giri, il miracolo. Nuvole allineate nel modo giusto, una scheggia di appennino illuminata nel modo giusto, torre che si staglia nel modo giusto, ombra proiettata nel modo giusto. Riccardo sollevò la macchina fotografica. Clic!

Gli avanzava ancora uno scatto prima di avere riempito il rullino, così approfittò della luce giusta e del momento magico per scattare di nuovo da un’angolazione diversa, che gli era sembrata piuttosto promettente anche se non proprio perfetta. Magari ne sarebbe uscita una buona foto, magari no. Era giusto concedersi qualche piccolo esperimento coraggioso, di tanto in tanto.

Fine. Rullino pieno e giornata completa. Rimise con cura la macchina fotografica nella custodia, la posò sul sedile accanto, ripeté il solito rituale dei controlli multipli, infine partì. Pomeriggio faticoso ma soddisfacente. Non se ne poteva lamentare. Per adesso. Restava solo da sviluppare le fotografie e verificare il risultato del suo lavoro, ma era fiducioso. Andavano quasi sempre bene, di solito.

Quando ebbe ritirato le foto, qualche giorno dopo, Riccardo vide che era tutto a posto, come sempre o quasi. Scatto del casolare abbandonato, scatto della villa di periferia diroccata, scatto del vecchio inceneritore arrugginito e abbandonato, scatto della chiesetta sfasciata, scatto della torre. Si fermò.

La prima foto era ok. Anzi, era ottima, era uscita ancora meglio di come l’aveva visualizzata nella sua mente, prima di scattare. La seconda invece, l’esperimento...

La foto in sé non era male. Aveva un suo fascino. Un suo perché.

Aveva anche una figura umanoide che spiava da dietro la torre.

Questo non era giusto. Era così non giusto che avvicinava la giustezza dall’estremità opposta, dopo aver attraversato anni luce di non giusto. Cosa ci faceva quello sgorbio? Come era finito nella foto? Nella foto vera, intendo. Che fosse nelle foto digitali, beh, quello ci stava. Era realtà aumentata. Tu aggiungi una scemenza al mondo e quella scemenza sarà riprodotta in tutti gli altri dispositivi che si trovano nello stesso ambiente, che condividono le stesse app e risorse cloud, o quel cavolo che era, Riccardo non lo sapeva di preciso e non gli interessava proprio.

Come era finito nella foto vera?

Un errore di chi l’aveva sviluppata, forse. O una sua spiritosaggine. Roba simile. Di pessimo gusto e molto stupido, d’accordo, ma plausibile. Sensato. Realistico. Riccardo controllò il negativo.

La figura compariva anche lì. Houston, potremmo avere un problema.

Oppure no. Bastava ragionare, ragionare a mente fredda. Si trova sempre una soluzione, anche per i clienti terribili che si presentano in biglietteria chiedendoti percorsi assurdi e pretendendo incastri e combinazioni ferroviarie da tirare scemo perfino Escher. Bastava solo pensarci con calma.

Riccardo controllò di nuovo il negativo. L’umanoide si ostinava a rimanere lì, dietro la torre. Ma, e questo era il punto, non del tutto dietro la torre. Si sporgeva per guardarti di nascosto, ma come se ti volesse farti vedere che era li a guardarti. Di nascosto. O qualcosa del genere, ci siamo capiti.

Guardò la foto di prova sullo smartphone. L’umanoide era lì. Guardò la foto vera appena sviluppata. L’umanoide era anche lì. Probabilmente lo stesso, anche se non aveva contorni così netti e nitidi, si faceva fatica a vedere cosa fosse di preciso. I due intrusi, però, si assomigliavano abbastanza, quindi si poteva anche dire che fossero la stessa... beh, non proprio “persona”, ma quello che era.

Era impossibile. La realtà cosiddetta “aumentata” del mondo digitale non poteva filtrare nel mondo reale, giusto? Ovvio che era giusto. Quindi doveva esserci un’altra spiegazione. Pensiamone una.

Che quel coso fosse reale, ma non si poteva vedere a occhio nudo? Era una ipotesi plausibile, più o meno, ma andava contro tutto ciò che Riccardo aveva sempre accettato di pensare come vero. Erano foto normali, scattate da macchine normali: se una cosa la potevi fotografare, la potevi anche vedere a occhio nudo. Filtri speciali potevano farti vedere di più o di meno, d’accordo, ma lui non ne aveva e non ne avrebbe comunque usati. Dunque?

Riccardo Cimice si sentiva osservato.

Si girò. Il suo piccolo appartamento era vuoto, vuoto in ogni direzione. Ok, magari non del tutto, ma era vuoto in termini di altre forme di vita di grandezza superiore a uno scarafaggio, ecco. C’erano sì i mobili, non molti, e un tappeto, vecchio e sfilacciato, e libri sugli scaffali, un paio di soprammobili e persino alcune sue foto ingrandite e pseudoincorniciate. Paccottiglia raccolta qui e là nella vita, in seguito stratificata nel tugurio che abitava. Normale. Succede a tutti.

Non c’era niente che lo potesse osservare. Pure, si sentiva osservato.

Più per uno strano scrupolo che per una ragione concreta, Riccardo controllò tutte le foto che aveva scattato alla torre con lo smartphone. La prima era normale e l’aveva già verificato. La seconda pure e la terza... un attimo, guardiamo meglio. Sì, la faccia c’era anche nella terza, ma era più sfocata che nelle altre due. O no, non più sfocata. Era più... traslucida? Forse, o forse neppure quello era giusto. Un aggettivo ci doveva essere, ma al momento non gli veniva. Meno presente, insomma.

Nella quarta e ultima foto digitale, la faccia non c’era più. Ma c’era stata, quando aveva scattato. Lo ricordava. Adesso però non c’era più. Solo la torre diroccata, lo sfondo, una scena normale.

Possibile che...

Era un pensiero orribile, ma fu costretto a pensarlo lo stesso. Maledetto cervello traditore!

Riccardo Cimice strinse lo smartphone, arretrò fino ad avere le spalle contro il muro, che non era un grande arretramento viste le dimensioni della stanza, ma era importante lo stesso. Lo era per lui, su un piano che andava al di là della pura planimetria da geometra o architetto. Schiena contro il muro, salotto aperto davanti a lui. Ottimo. Poteva avere un valore metaforico, ma Riccardo lo rifiutò.

Tempo di un sano test, forse non proprio scientifico ma un test lo stesso. Al resto avrebbe pensato in un secondo momento, se necessario. Sollevò lo smartphone e scattò.

Aveva una idea di cosa avrebbe visto, ma sperava che fosse sbagliata. Non lo era. Uno sgorbio più o meno umanoide lo spiava da dietro il divano. Lui non lo aveva mai aggiunto alla realtà aumentata.

Come ci era finito lì? Chi lo aveva aggiunto? O, magari, si era aggiunto da solo? Ma era secondario. La vera domanda era: cosa farci, adesso? Riccardo Cimice non lo sapeva.

Scattò di nuovo. Controllò. L’intruso era ancora lì, ma... non proprio . Si stava avvicinando.

Houston, abbiamo davvero un problema.

Uno bello grosso.

di Adriano Marchetti