Adriano - racconti e altro

Sicurezza prima di tutto

L’incubo del professor Piero Stefanni partì dallo specchio del bagno, anche se lui non se ne sarebbe accorto ancora per diverse ore. Se è per questo, non si era neppure accorto del preludio, svolto in cucina mentre consumava una colazione solitaria da insegnante crepuscolare, che contempla triste il miraggio una pensione più remota del castello di Kafka. Il frigorifero aveva dato il la e il resto della casa lo aveva seguito in una ouverture silenziosa ma intensa. Lo specchio del bagno aveva aperto il primo movimento, potremmo dire. O qualcosa del genere, ci siamo capiti.

Il punto è che Piero Stefanni si era lavato i denti, come sempre, e aveva maledetto la piorrea, ancora come sempre. Aveva sfilato e posato gli occhiali, lavato la faccia, usato l’asciugamano, che in quella occasione era stato soprattutto asciugafaccia, infine rimesso gli occhiali. Fin qui, tutto normale. Poi Piero si era studiato la barba allo specchio, grigio-biancastra e corta al punto giusto, ben tenuta e ben rifinita, quasi identica a quella dei suoi trent’anni. Colore a parte, beninteso. Adesso di anni ne aveva sessantadue e non erano stati granché piacevoli: il castano di gioventù era diventato il grigio-biancastro di oggi, come era accaduto ai capelli superstiti. Tutto molto normale.

Ma i baffi avevano bisogno di una spuntata: cominciavano a coprire la bocca e non era bene. Non lo era perché a Piero Stefanni non piaceva, ma anche perché, nel suo lavoro, era importante tenere le labbra sempre libere da intralci. Il suo lavoro era insegnante di musica alle scuole medie: anche se i mostriciattoli che aveva per alunni non ascoltavano mai una lezione, lui era comunque tenuto a dare dimostrazione di come si suonava il brano del giorno. Lo strumento da usare era il classico flauto dolce soprano, diteggiatura barocca, cioè uno strumento a fiato.

Era dunque importante che gli studenti potessero osservare la corretta embouchure; un baffo troppo lungo avrebbe potuto ostacolare la visuale. Vero, i mostriciattoli non lo guardavano mai, se non per deriderlo, ma questo era un altro discorso. Il professor Piero era consapevole di possedere l’autorità di un rubinetto e il carisma di una sedia, ma ciò non gli aveva mai impedito di svolgere il proprio lavoro con la massima serietà e senza mai arrabbiarsi. Anche perché con due pacemaker la rabbia è una emozione da controllare con cura. Ma il punto erano i baffi, da spuntare.

Piero Stefanni li spuntò con cura, osservando allo specchio il proprio lavoro. Piuttosto soddisfacente e per nulla difficile. Sullo schermo era pure apparsa la solita linea guida, per aiutarlo a ottenere baffi livellati e precisi, e Piero l’aveva seguita. Non ne aveva bisogno, dopo anni di pratica, ma la linea c’era e tanto valeva usarla, anche perché non aveva capito come toglierla. Appariva sempre quando impugnava il rasoio e spariva non appena lo spegneva. Era come se lo specchio lo vedesse.

E magari lo vedeva davvero. Era uno specchio smart, dopotutto, qualunque cosa significasse. Per il professor Stefanni significava soprattutto che costava meno di uno specchio vero: un dato di grande importanza se devi sostituire un oggetto rotto e il tuo stipendio è scabro ed essenziale. Lo specchio includeva pure una funzione “Biancaneve”, ma Piero non l’aveva mai usata. Anche il trash aveva un limite e non era il caso di superarlo. Specchio delle mie brame, ma anche no.

«Nella casa smart gli specchi guardano te,» filosofeggiò, sciacquandosi i pezzetti di peli lasciati dal rasoio. Sorrise. Che sciocchezze che ti restano impigliate nel cervello! Ma era tempo di pensare alla giornata che lo attendeva, ricca di gioie e di soddisfazioni ma non per lui.

Qualcosa lampeggiava in un angolo in basso nello specchio. Uno dei soliti messaggi stupidi, ovvio: oggi sei più pallido, vuoi salvare in memoria la nuova pettinatura, hai strofinato i denti per quindici secondi in meno rispetto alla media, eccetera. Bah! All’inizio si era pure preso la briga di toccare e leggere le notifiche; adesso le ignorava e basta. Piero uscì, lasciandola lampeggiare.

Stavolta sarebbe stato meglio leggerla, ma pazienza.

Dopo cinque minuti senza ricevere input dall’esterno, lo specchio contattò il proprio server e inviò i dati della giornata. Il server rispose. Lo specchio ricevette il codice di risposta e lo confrontò con la propria programmazione. Ci fu qualche altro scambio di messaggi, al termine del quale il profilo del professor Piero Stefanni fu aggiornato. Notifiche furono inoltrate ad altri server connessi tramite la rete dell’appartamentino. Il frigorifero smart inviò i dati della colazione e aggiornò il profilo che aveva costruito sui propri server. Altri elettrodomestici eseguirono operazioni analoghe. Varie facce del professor Stefanni, costruite da prospettive differenti su server differenti, furono aggiornate una dopo l’altra, come ogni giorno. Presto sarebbe arrivato il momento di incrociarle e a quel punto tutti i problemi sarebbero diventati un problema solo, molto più grande.

Ma tutto questo Piero non lo sa, e forse è meglio così.

Quello che Piero Stefanni sa è che desidererebbe tanto, ma proprio tanto, strozzare quel simpaticone di Giovanni Perelli, ultimo banco in seconda fila, quello contro il muro. E sì, contro il muro sarebbe proprio il posto giusto per lui. Dodici anni e un cuore pieno di bastardaggine, o così sembrava al prof. Sempre a fargli il verso, ogni volta che credeva di non essere visto. E i gesti che faceva col suo flauto e la bacchetta per pulirlo, beh, su quelli era meglio soprassedere. Piero avrebbe potuto dargli l’ennesima nota, ma a che scopo? Tanto valeva spiegare il circolo delle quinte a un tafano: non solo non ti ascolta, ma alla fine ti punge pure, quel dittero maledetto. Maledittero.

Il professor Stefanni contemplò l’infinita vanità del tutto, poi tornò a ripetere come eseguire il pezzo in programma, che aveva grossomodo lo stesso valore artistico di una gomma da masticare attaccata alla suola delle scarpe, ma in fondo quei macachi avrebbero avuto problemi a suonare un citofono e ignoravano tutto ciò che lui spiegava. Sospirò nel profondo della propria anima ferita.

Era sembrata una buona idea, all’inizio. Diventare insegnante di musica, dico. In fondo, non è che ci siano molti sbocchi professionali diretti per chi è diplomato al conservatorio e, siamo onesti, non ha proprio il talento per diventare un professionista. O insegni, oppure molli tutto e vai a cercare la tua fortuna sotto altri cieli. Piero Stefanni non aveva trovato alcun tipo di fortuna, né sotto il proprio cielo né in angoli differenti del creato. Lui e la fortuna potevano comparire assieme soltanto in frasi negative: anni di insuccessi gli avevano inculcato l’amara verità. Dunque, tanto valeva appendere al chiodo la viola (sì, era il suo strumento: una scelta che ci dice tutto ciò che serve conoscere sul suo conto, come i compagni di conservatorio gli avevano ripetuto spesso e volentieri, in modi raramente eleganti) e gettarsi nella fossa dei leoni.

Che, nel suo caso, era stata la vicina scuola media.

Osservando mogio il brodo primordiale della classe di fronte a lui, dove l’aria brulicava di stonature e pallottole di carta e saliva, Piero Stefanni si domandò per la quattrocentoquindicesima volta come sarebbe stata la sua vita, se solo avesse fatto scelte diverse. Migliore? Peggiore? O, prospettiva più orrenda di tutte, uguale? Era quello il suo destino unico, oppure era soltanto il risultato di una serie di pessime idee, che come tutte le pessime idee erano sembrate buone all’inizio?

Per esempio: se da bambino si fosse dedicato a un passatempo diverso dalla musica? O almeno a un altro strumento, più attraente sul piano sociale. Se avesse scelto scuole diverse? Fatto amicizia con persone diverse? Se questo e quello, e quell’altro ancora? Ma erano state davvero scelte, oppure era colpa del progetto iniziale, la materia prima con cui era nato, e la sua vita non era stata una catena di libere scelte, ma un percorso prefissato, l’unico binario che un pierostefanni avrebbe potuto seguire, perché lui era fatto così? Natura o educazione? Zuppa o pan bagnato? Pari o dispari?

Una pallina di carta dall’aria molto umidiccia atterrò sulla cattedra, richiamandolo al presente e alla realtà. Il professor Stefanni sospirò. «Ragazzi, per cortesia...» I ragazzi ridacchiarono. «Ma prof, noi stavamo ascoltando!» rispose Giovanni Perelli il simpaticone, braccia allargate e faccia innocente. Per valori molto bassi di innocenza e molto gluteali di faccia.

Piero immaginò per un istante quel ragazzino contro un muro assolato, con un plotone di esecuzione pronto a rendere la classe un posto leggermente migliore. Solo una fantasticheria, ma così bella. Un altro sospiro nel silenzio dell’anima. «Proviamo di nuovo il brano, forza. Continuate a sbagliarmi il do basso iniziale: dovete coprire meglio i fori coi polpastrelli. Coprirli completamente.»

Gran parte della classe lo guardava ghignando. C’erano forse due o tre che lo ascoltavano davvero e si impegnavano un poco a suonare: non per reale interesse, ma mossi da una vaga forma di pietà e umana compassione. Era ancora più deprimente, ma Piero sapeva di non potere aspirare a qualcosa di più. Lui era quel tipo di insegnante, dopotutto, e la sua materia contava più o meno come il due di bastoni quando la briscola è coppe.

Ma c’erano cose peggiori nella vita e alcune le avrebbe scoperte molto presto. Siccome ancora non lo sapeva, Piero Stefanni si impegnò a fare del proprio meglio in un mondo freddo e spietato, per poi concedersi un poco di riposo in sala professori durante la quarta ora, quando non aveva lezioni. Non un granché, ma piuttosto che niente era sempre meglio piuttosto, come suo nonno aveva detto spesso, a volte accompagnando la frase con una espulsione esplosiva di catarro e saliva.

Solo che anche il piuttosto gli fu negato.

In sua assenza, il piccolo appartamento in cui viveva aveva lavorato come uno schiavo cinese che assembla costosissime cianfrusaglie tecnologiche per una multinazionale americana all’avanguardia nella elusione fiscale. Dopo alcuni dialoghi coi server della casa madre ed estrapolazioni basate su algoritmi perfettamente non oggettivi, lo specchio aveva determinato che l’atteggiamento del suo utente/usato era segnale di una personalità schiva e introversa, che sa guardare solo al passato e ha ormai perso di vista il futuro.

Il successivo incrocio con le estrapolazioni del frigorifero portò a un profilo psicologico più preciso e dettagliato, in cui si dava il giusto risalto alla ossessione che l’utente/usato aveva per gli anni della propria giovinezza. I fornelli smart specificarono che era il periodo della infanzia ad avere il risalto maggiore per il loro utente/usato. Il termostato smart che controllava il climatizzatore suggeri che il suo utente/usato poteva essere afflitto dalla sindrome di Peter Pan. Le lampadine smart calcolarono che trascorreva troppo tempo al buio, sintomo di attaccamento alle fasi più turpi dell’adolescenza.

Vari elettrodomestici aggiunsero il proprio parere dopo avere consultato i rispettivi server, e il flusso di dati personali e interpretazioni algoritmicamente arbitrarie proseguì per buona parte della mattina dall’appartamento verso l’esterno, e viceversa. Il tutto anonimizzato a dovere, per tutelare la privacy dell’utente: di lui erano trasmesse soltanto età, altezza, peso, luogo di residenza, occupazione, luogo in cui la suddetta occupazione si svolgeva e relativi orari, taglia di tutti i capi di abbigliamento, orari in cui faceva la spesa, usciva a passeggiare, si lavava, pranzava, cenava, luoghi che frequentava più spesso, luoghi che frequentava più di rado, persone che incontrava (parimenti anonimizzate), siti che visitava, esatta posizione in cui si trovava in ogni momento della giornata, fotografie eseguite in più occasioni dallo specchio e altri aggeggi, e così via. Solo dettagli secondari, insomma.

Il nome, mai: inserirlo sarebbe stata una grave violazione delle leggi in vigore e del sacro diritto alla riservatezza riconosciuto a ogni persona, giuridica e in subordine fisica.

Dopo una lunga attività, gli elettrodomestici della casa e i relativi server raggiunsero una diagnosi di cui erano tutti soddisfatti: l’utente/usato era un pedofilo represso, un sovversivo con simpatie dirette ai gruppi terroristici più radicali, forse comunista, di sicuro una grave minaccia per l’armonia dello Stato. Restava solo una cosa da fare, in base alla programmazione ricevuta: denunciarlo subito a chi di dovere, fornendo anche tutte le informazioni necessarie per identificarlo al più presto e assicurare la sicurezza del paese. Nome escluso, come già detto. Il nome era sacro.

Così arrivarono quattro gendarmi, senza i pennacchi ma con le armi, ed entrarono in sala professori mentre il nostro Piero Stefanni sedeva in un angolo a leggere il giornale sullo smartphone, nei pochi minuti di pausa che ancora gli restavano. La quinta ora sarebbe stata in terza E e lui non l’attendeva con entusiasmo. Non una classe terribile, d’accordo, ma una classe che lo metteva molto, ma molto a disagio. Lo fissavano tutti con compassione, come un brutto cucciolo abbandonato in una scatola di cartone. Era... triste, sì. Molto triste. Lo feriva nel poco che restava della sua autostima.

Il lato positivo della faccenda era che quel giorno non se ne sarebbe dovuto preoccupare.

Il lato negativo della faccenda era che quel giorno non se ne sarebbe dovuto preoccupare.

Piero Stefanni si accorse che qualcosa non andava quando sentì i passi dei topi che abbandonavano la nave. Erano parecchio rapidi. Alzò la testa mentre la professoressa Sifoni, matematica e scienze, e il professor Taracchi, storia e geografia, sgattaiolavano fuori dalla stanza, occhi bassi e libri stretti al petto. Poi notò gli sbirri che avanzavano verso di lui, con pistole in vita e manganelli in mano, e il resto del mondo divenne irrilevante. Cosa stava succedendo?

Piero non lo chiese. Non ad alta voce, almeno. Rimase seduto in silenzio, telefono in pugno e occhi da animaletto sorpreso da un camion mentre cercava di attraversare la strada. Davvero: cosa cavolo stava succedendo? E perché succedeva a lui?

Chiaramente un errore. Il professor Piero Stefanni aveva sempre avuto rispetto per l’autorità, spesso accompagnato da un vago timore sacrale. Non aveva mai osato sfidarla. Se non una volta, in quarta elementare, quando aveva scritto una parolaccia nel bagno della scuola. Ma a lettere molto piccole e in un angolo dove non guardava mai nessuno. E si era pentito subito dopo. Quindi non contava.

Giusto?

Giusto o meno che fosse, gli sbirri si fermarono di fronte a lui, guardandolo dall’alto verso il basso. Il che è normale, quando sei in piedi e guardi una persona seduta. Ma lo osservavano come se fosse uno scarafaggio sul pavimento della cucina. Il che non sembrava normale. Oppure osservavano tutti in quel modo? Forse era parte del loro addestramento. Piero non ne aveva idea: poliziotti e affini li aveva visti in azione soprattutto in tv e lì erano quasi sempre impegnati a inseguire qualche presunto criminale, di solito sparando. Non faceva testo. Probabilmente.

«Posso fare qualcosa per voi?» chiese in uno squittio di voce.

«Ti dichiaro in arresto,» rispose lo sbirro che gli stava proprio davanti.

Piero Stefanni boccheggiò un poco, poi smise. Non trovava alcunché da dire, ma soprattutto non era più convinto che parlare fosse una buona idea. Poteva peggiorare la situazione. Ancora non sapeva che razza di situazione fosse, ma di sicuro poteva peggiorare: nella sua esperienza, ogni cosa poteva peggiorare e di solito lo faceva. Prima legge della entropia secondo il professor Stefanni.

Due sbirri lo afferrarono per le braccia e lo trascinarono in piedi con violenza immotivata. Già che c’erano, ne approfittarono per ruotarlo di centottanta gradi attorno all’asse verticale e ammanettarlo. «Ma...» disse Piero, poi un colpo sulla schiena lo fece tacere. Ma non un colpo forte, sia chiaro: solo una specie di pacca, del tipo che potresti rifilare a un amico. Anche se magari a un amico daresti una pacca più leggera, specie se vuoi che rimanga tuo amico.

Lo sbirro parlante riprese a parlare, col tono di un bambino che ripete una filastrocca. «Hai il diritto di tacere. Hai il diritto di cadere dalle scale se fai troppo lo spiritoso. Hai il diritto di perdere uno o più denti a nostra scelta. Hai il diritto di fratturarti un numero variabile di ossa, a nostra scelta. Hai il diritto di essere cucchizzato senza spiegazioni se riteniamo che sia utile alle indagini...»

E così via, per quasi cinque minuti e con qualche esitazione, dovuta forse a una memoria ancora in fase di riscaldamento. Piero Stefanni ascoltò a bocca aperta, poi la chiuse per prudenza. Chiuse pure gli occhi, non molto sicuro di volere vedere cosa sarebbe successo. Era tutto irreale, ma la parte più brutta era che, allo stesso tempo, tutto era fin troppo reale. A cominciare dalla pappardella che stava recitando il tizio di fronte a lui. Quella, almeno, aveva anche un senso riconoscibile.

Per evitare tutte le fastidiose polemiche e inchieste su presunte violenze delle forze dell’ordine, due anni prima un decreto del governo aveva stabilito che, durante un arresto o un fermo, la polizia e le altre divise erano autorizzate a fare qualunque cosa ritenessero opportuna al probabile criminale che avevano tra le mani, a patto che lo avessero avvisato prima. Qualcosa tipo il Miranda che mille serie americane avevano reso famoso, ma con un piccolo tocco personale. Se un poliziotto dice di poterti spezzare un braccio, e poi te lo spezza, ha agito all’interno dei propri diritti in base ai principi del levius laedit, quicquid praevidimus ante nonché praemonitus, praemunitus.

Il professor Piero Stefanni non era granché interessato al retroterra filosofico di quanto avveniva di fronte a lui: gli bastava solo che le parole non diventassero anche azioni. Non si sentiva ottimista: la sua speranza era che, seguendo la via della minore resistenza, tutto si sarebbe risolto in modo brutto ma non troppo. Chinò così la testa in atto contrito da povera pecorella e si preparò al peggio.

Che per il momento non arrivò.

Dopo avergli recitato tutto ciò che potevano fargli, gli sbirri strattonarono e spintonarono Piero fuori dalla sala professori, che per fortuna era al piano terra. Una breve camminata lo portò alla porta di ingresso, che faceva anche funzione di egresso, a seconda della direzione di percorrenza. Agli occhi appannati del reo inconsapevole gli stipiti apparivano una versione futurista delle Forche Caudine e il professor Stefanni le attraversò a capo chino da bravo vinto.

Fuori. La prima cosa che lo colpì fu il sole, luminoso e caldo. La seconda fu un ceffone sulla nuca, senza troppa cattiveria: semplice promemoria, per ricordargli la situazione in cui si trovava. Piero la ricordava fin troppo bene. Alzò la testa, sbatté le palpebre nella luce e si voltò per un attimo verso la scuola che stava abbandonando, occhi in cerca di un muto soccorso. O anche un soccorso parlante.

Una finestra al secondo piano si aprì. Uno studente, debole e sottile a quella distanza e altezza, si sporse di colpo e tese le braccia verso di lui. Chi era? Un amico? Un suo sostenitore? Le braccia si piegarono e si incrociarono sull’incavo del gomito, in un gesto molto famoso. Quasi a sottolineare il concetto, dalla mano sollevata e chiusa a pugno si alzò il dito medio. Ah, giusto: Giovanni Perelli, e chi altri? Che tesoro di alunno. Sempre un pensiero gentile per il suo prof preferito.

Gli sbirri lo spintonarono e strattonarono in silenzio verso l’auto di servizio, lo gettarono sui sedili posteriori, chiusero la portiera e Piero Stefanni era impacchettato a dovere, nonché arricchito da due o tre lividi extra. Gli occhiali gli caddero dal naso ma non aveva mani libere per recuperarli, così li dovette lasciare dove erano, sul pavimento dell’auto. Ammesso che pavimento sia il termine con cui descrivere il suolo di un veicolo. Piero non ne era certo, ma riteneva che al momento non fosse un problema di grande importanza. Dopotutto era insegnante di musica, non di italiano.

«Scusate, potrei sapere di cosa sono accusato?» domandò sottovoce.

«Aahh, sei pronto a confessare, eh? Pedofilo schifoso!»

Bene, una premessa per nulla incoraggiante. Piero Stefanni cercò di pensare, ma la sua mente era un abisso bianco, una lavagna vuota, era una qualunque altra immagine a vostra scelta che indichi una totale assenza di idee, informazioni o roba simile. La sola cosa a cui riuscisse a pensare, e in effetti ci pensava fin troppo, era che i battiti del suo cuore stavano accelerando. Non un buon segno, specie per chi ha due pacemaker. Tipo lui, tanto per dirne uno a caso.

«Non mi hanno detto che ho il diritto di farmi venire un infarto,» pensò. «Potrebbe essere un guaio grosso. Speriamo che non succeda.»

L’auto sfrecciava verso qualunque fosse la sua destinazione. Piero Stefanni notò che era una volante a guida esterna, uno dei nuovi modelli. Lo notò anche senza occhiali, perché lo sbirro nel posto del guidatore non stava guidando e sul cruscotto c’era un piccolo schermo che indicava la posizione del veicolo su una piccola mappa. Il secondo dettaglio, in realtà, poteva significare qualsiasi cosa, tipo un qualunque navigatore, ma il fatto che il presunto pilota avesse una mano sui testicoli e l’altra che si frugava in una narice poteva valere come indizio che l’auto era controllata da un server, invece che da un essere umano. Forse era un bene o forse non lo era.

L’altra volante era dietro di loro, giusto? Piero provò a guardare, ma senza occhiali avrebbe faticato a mettere a fuoco persino un brontosauro, figuriamoci il tipo di auto che li seguiva. Non che avesse molta importanza. Tra poco lo avrebbero scaricato alla caserma, con ogni probabilità, dopodiché gli sarebbero successe cose molto sgradevoli. Con tutta probabilità. Non era certo, d’accordo; esisteva almeno una possibilità che si sarebbe risolto per il meglio e in modo indolore. La possibilità c’era. Dopotutto non aveva fatto niente di male, lui. Doveva essere un errore.

Ma lo avevano arrestato. Secondo la legge, adesso toccava a lui dimostrare di essere innocente, e le probabilità non erano a suo favore. Se lo avevano arrestato, in fondo, era segno che qualche motivo esisteva. Qualche valido motivo. Colpevole fino a prova contraria, ed era compito suo fornire quella prova contraria. Mentre era in carcere. Allegria.

Pedofilo. Pedofilo schifoso. Era la sola informazione che avesse ricevuto dai suoi gentili compagni di viaggio. Da dove poteva essere spuntata un’accusa del genere? Piero Stefanni non ne aveva idea. Ma l’accusa c’era, apparentemente, a meno che non fosse un insulto a caso. Possibile, certo, ma non gli sembrava molto probabile. E dunque?

Il professore ammanettato proseguì lungo quella linea di pensiero per un poco ancora, nel tentativo di distrarsi da un problema più impellente: la pressione sempre più forte concentrata nella zona del suo bassoventre. Lato anteriore. Poteva essere colpa della prostata, ma Piero avrebbe puntato su una causa differente, un incrocio di tensione nervosa, aumento della pressione sanguigna, ma soprattutto paura pura e semplice, non adulterata da fantasie. La fifa del coniglio in trappola.

Gli avrebbero permesso di andare in bagno, una volta in caserma? O in centrale. O qualunque nome avesse il posto in cui lo stavano portando. Piero sperava di sì. Il diritto di pisciarsi addosso era stato escluso da quelli che gli avevano recitato. Se non arrivavano in fretta, però, c’era il rischio che un reato lo avrebbe commesso di sicuro. Vilipendio di mezzo pubblico? O una volante contava adesso come veicolo militare? Veicolo da guerra, già che ci siamo. Diventavano sempre più bizzarri i nuovi decreti sicurezza ed era difficile tenere il passo. Poteva addirittura essere alto tradimento, ormai.

Piero Stefanni sperava di non doverlo scoprire. Se avessero accelerato un poco, magari...

Da un certo punto di vista fu accontentato: l’auto accelerò. Da un altro e più fondamentale punto di vista, invece, non fu accontentato: l’auto sbandò e andò a sbattere dolorosamente contro qualcosa di molto duro. Un attimo dopo, la seconda auto li tamponò, spedendo Piero contro il sedile anteriore. Il suo naso fece crack e cominciò a perdere liquido caldo. Per puro miracolo, un altro suo orifizio che si trovava più in basso riuscì a resistere e non perse liquido caldo. Ma adesso era proprio al limite e non avrebbe retto a lungo. Forse neanche a corto.

Piero Stefanni sollevò a fatica la testa. La parte anteriore dell’auto era accartocciata, i due sbirri di fronte erano un poco accartocciati e sparsi di frammenti di vetro (o qualunque altro materiale fosse usato per il parabrezza). Non si muovevano. Il solo chiaro segno di vita veniva dal piccolo schermo sul cruscotto: gracchiava a basso volume di un imprevisto nel calcolo del percorso e la necessità di riavviare. Poteva anche esserci qualche scritta, ma senza occhiali Piero non l’avrebbe riconosciuta.

E adesso? La cosa più saggia sarebbe stata rimanere tranquillo e pacifico sul sedile e aspettare che i soccorsi arrivassero. Fare il bravo bambino, insomma. Piero non avrebbe avuto obiezioni, ma la sua vescica ne aveva parecchie e le segnalava ad alta voce. Era una questione urgente. Guardando dietro poteva vedere il cofano della seconda volante accartocciato contro di loro. Nessun segno di vita o di attività in generale dagli sbirri a bordo. Potevano essere fuori combattimento pure loro.

No, seriamente: e adesso?

Il naso continuava a gocciolargli allegro sulla camicia e sui pantaloni. Lo avrebbe pulito volentieri e magari avrebbe anche cercato di fermare il sangue, ma sono operazioni alquanto difficili quando sei ammanettato con le braccia dietro la schiena, quindi poteva solo aspettare che provvedesse la natura in un modo o nell’altro. Poteva ancora cercare di evitare che la natura facesse il proprio corso in un settore al di sotto della cintura, ma le sue opzioni erano scarse. Attendere o agire?

Piero Stefanni si sforzò di mettere a fuoco il mondo oltre il finestrino. Non sembrava un paesaggio molto urbano. Bizzarro. Per quanto ne sapeva lui, la tana di chi lo aveva arrestato si trovava a circa due chilometri dalla scuola. Era anche piuttosto vicina al centro della città. Perché allora vedeva una serie di campi incolti? E perché erano andati a sbattere contro qualcosa che assomigliava fin troppo al pilone di un cavalcavia? D’accordo, i suoi occhi disocchialati lo potevano tradire e fargli vedere scene che non esistevano nella realtà, ma per allucinazioni di questo livello servivano come minimo sostanze parecchio illegali. Siccome la cosa più pesante che aveva assunto era un pezzo di strudel, ciò che vedeva doveva essere la realtà.

Dove lo stavano portando gli sbirri?

Ma anche questo poteva attendere. Era la vescica che non lo poteva più fare, dunque la priorità era svuotarla. Con le buone o con le cattive. Si sarebbero arrabbiati molto se fosse uscito un pochettino, giusto un paio di passi, fino al primo albero o ad altra superficie equipollente? La risposta era sì, lo sapeva senza bisogno di chiederlo, ma accidenti! Gli scappava davvero.

«Scusate?» Ma nessuno gli rispose.

«Scusate? Avrei un piccolo problema.» Ma il silenzio perdurava.

«Scusate? Va tutto bene?» Ma i suoi compagni di viaggio continuavano a tacere.

Piero Stefanni avvicinò il più possibile la faccia alla griglia che lo separava dai sedili anteriori. I due sbirri non sembravano essersi mossi: uno era riverso sul volante e il secondo copriva una bella fetta di cruscotto. Non il piccolo schermo del navigatore, o qualunque altra roba fosse. Da lì proveniva la solita richiesta di riavvio, per risolvere un piccolo imprevisto nel calcolo del percorso. Poteva anche sentire un respiro rantoloso che proveniva dai corpi, ma poteva pure essere un pio desiderio.

Il professore ammanettato si guardò attorno. Gli sportelli non avevano maniglia all’interno, quindi non poteva aprirli e uscire. Il che era ovvio e sensato: in condizioni normali non vuoi che la persona in arresto apra la porta e se ne vada per conto proprio. In condizioni anormali, quando ad esempio la persona arrestata sei tu, magari preferiresti poter aprire e uscire. Anche senza salutare.

A guardare meglio, però, lo sportello pareva socchiuso. Che fosse stato l’urto? Ma quale dei due? Il particolare non aveva molta importanza al momento, ma Piero Stefanni era quel genere di persona e non poteva evitare di domandarselo, anche solo di passaggio.

Che fare adesso? Ma la domanda fu tranciata ancora prima di concludersi. A tranciarla fu la vescica sovrana, il cui peso continuava a crescere, anche in senso non figurato. La vescica diceva che ormai il tempo era agli sgoccioli e a breve anche qualcos’altro avrebbe cominciato a sgocciolare. O anche a scrosciare, date le condizioni generali. Era il momento delle scelte, del coraggio, il momento di affermare la propria volontà di fronte ai soprusi di un sistema senza volto, quando la legge morale si erge in opposizione a tutto il resto, per far trionfare il suo supremo mandato, il momento di essere un io autonomo e non solo un numero in una tabella.

Era soprattutto il momento di trovare un albero. O, in alternativa, anche un muretto.

Piero Stefanni guardò per l’ultima volta i suoi compagni di viaggio sui sedili anteriori. Ancora fuori combattimento. Guardò l’auto dietro: nessun segno di vita neppure su quel fronte. Era da solo. Nel mondo dei coscienti, quantomeno. Non aveva alternative. Respirò a fondo, allungò la gamba verso la portiera e spinse col piede. La portiera si aprì in silenzio.

Il professore ammanettato uscì alla meno peggio, un poco strisciando sulle natiche smunte, la testa protesa in avanti a evitare impatti col soffitto. Qualche ultima contorsione ed era fuori. Fuori!

Strinse le palpebre e cercò di scrutare l’orizzonte. Tutto quieto. Nessun veicolo di passaggio, per il poco che poteva vedere, ma anche nessun albero. C’era però il cavalcavia. Quello lo poteva vedere bene anche senza occhiali: era così grande e grigio che riempiva la maggior parte del mondo sopra e attorno a loro. Usarlo come vespasiano di emergenza non sembrava bello o rispettoso, però aveva i suoi vantaggi: sarebbe rimasto a due passi dalle auto ed era questione di un attimo tornare a bordo.

«A mali estremi, estremi rimedi,» filosofeggiò. Si fermò davanti a una superficie che lo ispirava, un pilone a garantirgli una copertura minima, e si preparò a puntare. Fu solo allora che Piero Stefanni si accorse di un problema molto serio, che minacciava di sprofondarlo nel più basso cerchio degli inferi: era ammanettato. Dietro la schiena. E adesso?

Il povero professore si contorse più di un tarantolato sotto anfetamine, cercando di raggiungere con qualunque mezzo la cerniera dei pantaloni prima che accadesse l’inenarrabile. Non che avesse molti mezzi a propria disposizione. La sua vescica ululava ormai come una sirena dell’acqua alta: a breve sarebbe accaduto e Piero lo sapeva benissimo. Ma non poteva, non così! Un arresto immotivato era già una vergogna sufficiente: doverlo affrontare infradiciato dalla vita in giù sarebbe stato un colpo quasi mortale. E si sentiva pure il rombo di un veicolo in avvicinamento.

Poteva essere un soccorso? Avrebbe osato chiedere un aiuto di quel genere? Lui, un maschio adulto, veterano di tante ore infelici di lezione, zerbino su cui tutti i colleghi e parecchi alunni erano passati felici pulendosi le scarpe senza pietà, qualunque cosa avessero calpestato prima?

A metterla in quei termini, in effetti, non aveva poi molta dignità da difendere.

Si voltò verso l’auto in arrivo, sul volto una smorfia imbarazzata. Che morì. A rombare verso di loro era una camionetta della polizia. Inchiodò quasi di fronte a lui: un’orda di poliziotti armati si riversò all’esterno al galoppo. Piero Stefanni vide pistole puntate al suo petto da pollo mummificato. Vide una faccia paonazza dietro la visiera di un elmetto: gli gridava qualcosa sputacchiando sottili gocce di saliva. Vide scudi traslucidi e manganelli. Vide...

Un urlaccio da troglodita con emorroidi a grappoli e mal di denti lo assalì da dietro, rendendo quasi vano il lavoro dei due pacemaker. Fu più o meno a quel punto che la vescica issò bandiera bianca e si liberò della zavorra, con conseguenze facili da immaginare. Altre voci si alzavano, ma Piero ne colse soltanto poche parole, e confuse. Evaso, criminale, pericolo, tutti e quattro, bestia, dirottato, fermare. Poi una manata lo spinse a terra e i poliziotti si chiusero sopra di lui.

Ci fu dolore e durò a lungo. In seguito, il professor Stefanni avrebbe ricordato solo forme confuse di manganelli, scarponi e il suono di rami secchi calpestati. Il che era piuttosto strano, dato che in zona non aveva visto rami secchi. Dovevano essergli sfuggiti. Succede. Buonanotte.

La piena coscienza lo passò a visitare tempo dopo, trovandolo in un letto di ospedale. Piero non fu felice della visita. Si stava meglio al buio. Non c’erano dolori e soprattutto non c’era il fastidio di pensieri e domande. Ma adesso era sveglio, nonché molto più rigido di quanto si fosse mai sentito in sessantadue anni di vita. Ok, diciamo cinquantotto: non aveva ricordi nitidi dei suoi primi quattro anni, per cui non poteva escludere a priori di essere stato più rigido in un qualche momento durante la ouverture della sua esistenza. Ma ne dubitava.

A Piero Stefanni sembrava di abitare in un nuovo corpo, uno fatto di gesso e stecchi. «È solo perché l’abbiamo dovuta ingessare in più parti, e steccarne altre,» gli spiegò il medico durante la visita di controllo. Piero annuì. Avrebbe preferito una risposta più precisa, ma forse era meglio una vaga. Per la sua pace interiore, quantomeno. Avrebbe scoperto i dettagli fin troppo presto, in prima persona.

Verso la fine del periodo di ricovero ricevette anche una visita da un tizio in divisa. Ma non era una divisa bianca e questo lo preoccupò. Assomigliava alle divise che gli avevano fatto gentile omaggio del soggiorno in ospedale. L’unico aspetto rassicurante era che non si vedevano armi.

Per adesso. Non armi che Piero riconoscesse.

Ma il tizio in divisa sembrava voler soltanto parlare e parlò parecchio, spiegò che l’incidente che lo aveva coinvolto era stato causato da un deplorevole malinteso e comunque non era una cosa seria. I dati erano stati interpretati in un modo leggermente approssimativo e forse con eccessiva fretta, ma erano piccoli inciampi sulla strada maestra che avrebbe garantito la sicurezza dei cittadini. Meglio un arresto affrettato che aspettare troppo, giusto? Se poi di tanto in tanto qualcuno non ha proprio commesso il reato di cui è accusato, beh, sono cose che capitano. Un piccolo prezzo da pagare per il bene supremo della sicurezza. Niente di personale, sa. Meglio affrettarsi che ritardare. Il bene della collettività viene prima di ogni considerazione personale. Eccetera eccetera.

E lo schianto? Solo un piccolo singhiozzo del sistema di guida a distanza delle volanti, ma nessuno dei quattro poliziotti ha riportato danni seri, solo qualche contusione e un poco di mal di testa. Tutto è bene quel che finisce bene, e gli agenti sono stati così gentili da non farle causa per le ferite che hanno subito durante l’arresto. Sì, è un peccato per le auto da riparare, ma non c’è da preoccuparsi: le addebiteremo i costi di officina, ma li potrà pagare a rate, noi non siamo esosi. Dopotutto stavano lavorando per il suo bene ed è solo giusto che lei si faccia carico delle spese. Non trova?

Piero Stefanni non trovava, ma trovava che il silenzio fosse molto più sicuro. Specie quando hai una mandibola fratturata. Per quanto aveva capito, i suoi elettrodomestici avevano deciso che lui era una minaccia per la società e tutto il resto era seguito a valanga. Ma erano cose che potevano capitare a tutti e nessuno ne aveva colpa. A parte lui, che aveva causato il falso allarme con un comportamento troppo ambiguo e fraintendibile. Mentre era in casa. Da solo. Già.

Piero Stefanni sospirò nel profondo del proprio animo.

Si guardò le dita, fasciate e steccate. Quattro rotte, due distorte. Sarebbe riuscito a suonare di nuovo la viola, un giorno? O un qualunque strumento che richiedesse l’uso delle mani, in effetti. Non lo sapeva, ma era una domanda piuttosto importante per un professore di musica, anche se forse prima avrebbe dovuto verificare in che forma e condizioni sarebbe stato dimesso.

E magari scoprire se ci sarebbe stato ancora un lavoro ad attenderlo. Di passaggio, si augurò che il caro Giovanni Perelli stesse tormentando il supplente come aveva tormentato lui in ogni lezione, e magari anche un poco di più. Sarebbe stato karmicamente giusto.

Sarebbe stato bello anche avere con sé la sua viola, assieme a dita sane per suonarla, ma era andata così. Oh beh. Cose che capitano. A lui.

In fondo, era stato solo per garantire la sua sicurezza e in effetti adesso era al sicuro, nel letto di un ospedale con infermieri che lo controllato regolarmente. «Più al sicuro di così si muore,» pensò.

Ma non lo pensò troppo forte. E se lo avessero sentito e preso alla lettera?

di Adriano Marchetti