Adriano - racconti e altro

La solitudine dei piedi

Davanti alla finestra, l’uomo che non si lava i piedi guarda e aspetta. Raccolto nella sua poltrona preferita, nonché unica nel piccolo appartamento di eremita urbano, si perde nella contemplazione pigra e oziosa del vuoto esterno, così simile al vuoto interno, mentre le mani scendono di tanto in tanto a ripescare una pallina nera, perla nascosta negli anfratti reconditi tra le piccole dita dei piedi. È dolce, croccante, granulosa: ha il sapore dell’infanzia, della libertà, di ciò che poteva essere e non è stato. Come il cielo.

È azzurro, di un azzurro smeraldo: un azzurro che fa male al cuore, e ai ricordi. Il cielo di quel mattino d’autunno, naturalmente, ma anche i suoi piedi presentano affascinanti striature, da dipinto astratto, o forse rupestre. Pedestre. Sono creativi, artistici, simbolici. Ma mai come lo è il cielo, quel cielo azzurro smeraldo là fuori, oltre i vetri. È un cielo che parla di compagnia, anche all’uomo che non si lava i piedi. Perché l’uomo che non si lava i piedi è un uomo solo, ma non lo sa: nessuno glielo ha mai spiegato. Altrimenti non sarebbe stato solo, giusto? Ma l’aria è fresca, oggi, o almeno lo è fuori dell’appartamento, e qualcuno sta per arrivare.

No, qualcuno è già arrivando. O qualcosa. Qualcuno o qualcosa. Arrivato per lui. L’uomo che non si lava i piedi lo sente nelle ossa, nel cuore, nei tendini, nel cerume, nelle otturazioni. Lo sente anche nel campanello, che suona da un paio di minuti. Ma non è tempo di aprire. Non ancora. Prima...

L’uomo che non si lava i piedi si alza lento, lasciando una parte di sé nella poltrona, impressa nella imbottitura ormai vecchia, vetusta, arcaica. Impronte di natiche smunte, un vago tepore, spettri di flatulenze ataviche, rimasugli di unghie tagliate, corpuscoli spalmati sotto i braccioli, dopo averli rimossi religiosamente dal naso ed esaminati con cura nella luce del mattino d’autunno. Lascia sulla poltrona il fantasma di sé, a segnare il posto, a tenergli occupato il posto, anche quando si alza.

È lì, la sua vita: è il mondo a cui appartiene, dove è sempre benvenuto e nessuno lo scaccia. Anni e anni di studio e pratica glielo avevano insegnato, proprio come gli avevano insegnato che la luce del mattino era la migliore, per valutare i frutti dei carotaggi nasali. Ma il campanello suona e suona, con la cocciuta ostinazione di tutti i campanelli del mondo, da quando l’uomo è emerso per la prima volta dagli altri primati e ha impresso il proprio nome su una targhetta, accanto a una porta. Quanta fretta che ha la gente, oggigiorno! L’uomo che non i lava i piedi non trattiene un sospiro.

Attraversa i pochi passi del suo appartamento, accosta l’occhio quasi spento allo spioncino, guarda, e lì si blocca. Qualcuno è arrivato, nessun dubbio, ma non è qualcuno. È qualcuna, e una semplice vocale può fare tutta la differenza della galassia. Migliora di un poco le tue prospettive, tanto per cominciare, ameno se sei un uomo che non si lava i piedi. E forse anche se te li lavi, ma questo lui non lo hai mai potuto appurare, non per esperienza diretta.

Ed è qualcuna giovane, non bella, no certo, ma ci si può accontentare. E indossa una gonna. Non mini, ahimè, ma non lunga, quantomeno. L’uomo che non si lava i piedi ama le gonne, o se non altro le amava, in gioventù: adesso le apprezza e basta. Perché quando ne indossi una, chiunque tu sia e dovunque tu sia, esiste sempre almeno un punto nella stanza da cui si può vedere ciò che sta sotto la gonna. Sono il nucleo ideale di una filosofia, le gonne, almeno per lui.

Così l’uomo che non si lava i piedi socchiude la porta, cauto, e sporge un occhio di benvenuto verso la visitatrice, sconosciuta ma gonnuta. La ragazza non bella, ma presumibilmente simpatica, smette di suonare il campanello e fissa la fessura, aperta nella porta, dalla cui penombra l’occhio guarda.

«Cerco il signor Guido Barzotti,» dice.

«Sì?»

«È lei il signor Guido Barzotti?»

«Sì?»

«Sono sua figlia.»

La fessura aperta nella porta si chiude. L’uomo che non si lava i piedi la contempla per due secondi esatti, dove il “la” è riferito alla porta, non alla fessura chiusa, poi gira la chiave. La gira di nuovo. La gira una terza volta, perché un terzo giro è possibile. Poi fissa la catenella. Si muove indietro di un passo, osserva il risultato, poi trascina un mobiletto e lo spinge contro la porta, con un grugnito di fatica. Non è in forma, l’uomo che non si lava i piedi, e non è più neppure giovane da anni. Ma lo era, un tempo. A volte lo ricorda anche.

Fuori, il campanello ricomincia a suonare, ma è fuori. Bussa, e alza la voce, e chiede di aprire. Ma l’uomo che non si lava i piedi non si scompone. A passo lento, strusciando un poco le ciabatte sul pavimento polveroso, ritorna alla propria postazione davanti alla finestra, la poltrona in cui il suo corpo è impresso da anni immemorabili. Si siede. Il cielo è sempre azzurro smeraldo, oltre i vetri, ed è un cielo che chiama il passato, che parla del passato. Con una colonna sonora di campanelli e colpi alla porta, l’uomo che non si lava i piedi si abbandona alle rimembranze. Sorride, quasi.

Ricorda quel giorno di una estate lontana, remota, smarrita. Quel giorno nel parco, quando caldo e afa riempivano l’universo, ma lui non li sentiva, no, non davvero, non come li sentirebbe adesso. Il tempo era il tempo in cui non conoscevi ancora il volto dietro il caldo, il tempo in cui il caldo è solo sudore, gioia, strisce di sudiciume liquido e mondi aperti attorno a te. Il tempo in cui il caldo è la tua estate, con tutti i sapori e i colori di quella stagione. I suoi piaceri, anche. E il cocomero. Ma il cocomero è rosso.

Ricorda il suono, e il sandalo. Il sandalo scuro, dalla suola di cuoio, dura. La suola su cui la sagoma dei suoi piedi era impressa, bassorilievo contrario, nero su un fondo marroncino. Ricorda che era il sandalo destro, e questo può fare la differenza. Può fare tutta la differenza del mondo. Perché aveva alzato quel sandalo, incerto, dubbioso, ignorante, e il mondo lì sotto era rosso, rosso, tutto rosso. Il suo universo era diventato rosso. Ed era stato il suo piede. Il suo piede destro. Era stato lui.

Era solo un bambino, allora, ma era stato lui lo stesso. E lo sapeva. Da allora molto tempo è passato, molte cose sono cambiate e ha scoperto che le palline nere sono buone, croccanti, dolci. E il mondo non ha mai smesso di essere rosso.

Aveva un passato, già, ma quel passato è appunto passato e adesso è soltanto un vago ricordo dopo il risveglio, per lui, per l’uomo che non si lava i piedi. Come i rumori alla porta, che continuano, ma li puoi sempre ignorare. Perché il mondo era diventato rosso e tutto è permesso. Tutto è permesso, a te, quando il tuo mondo è rosso. Per colpa dei piedi. Per colpa sua.

Ma ha un senso? Il rosso, dico. Ha un senso. L’uomo che non si lava i piedi se lo chiede distratto, in un vago torpore da noia esistenziale, ma è una domanda inutile. Che abbia senso o meno non ha per lui la minima importanza, perché funziona. È una fantastica scusa freudiana, lo sa, la usa, e gli ha sempre permesso di lavarsi le mani di ogni azione. I piedi no: quelli non li lava.

Colpa del rosso, del sandalo rosso, la lucertola che il suo sandalo destro aveva calpestato, nel parco, da bambino, mentre portava in giro il cane di allora assieme alla mamma. Lucertola innocente, per un dato valore di innocenza. Lucertola che attraversava soltanto il marciapiede, godendosi il caldo della stagione, gioendo nei raggi del sole. E poi ciac!, il suo piede che cala, ignorante, indifferente, inconsapevole. Colpevole, anche. E se la scusa non è freudiana, non ha importanza, perché funziona lo stesso. Una scusa è una scusa, qualunque nome abbia.

E la porta continua a suonare, ma presto smetterà. Non può bussare per sempre, né può suonare per sempre il citofono. E il cielo fuori dalla finestra non è rosso, non ancora: è azzurro, di un azzurro smeraldo. Ma sarà rosso, più avanti, e l’uomo che non si lava i piedi si sente bene. Presto o tardi il rumore finirà e il suo silenzio abituale farà ritorno. E tutto sarà bene, sarà giusto.

Tornerà un uomo solo, solo un uomo, inebriato delle proprie produzioni organiche e gassose. C’è il rosso che lo perseguita, sì, ma anche quello è remoto. E poi è bello, moderatamente bello, se lo vedi da lontano, senza coinvolgimento, senza farti toccare. Il resto lo è meno. E certe storie del passato, di un passato che più non gli interessa e a malapena ricorda, restino puoi fuori dalla porta: chi le vuole? Chi le desidera, in fondo? Non lui.

Perché il passato è passato, il presente è presente e il futuro è futuro. E il marchese di Lapalisse era vivo, un quarto d’ora prima di morire. O era un conte? Ma un aristocratico vale l’altro, e neppure lui si lavava i piedi, con ogni probabilità. Raramente andavano d’accordo, aristocrazia e igiene.

Ma l’uomo che non si lava i piedi aspetta, perché qualcosa deve arrivare. Qualcosa arriva sempre e lui lo sa. Lo sente. Intanto si mangia un’altra pallina nera e sorride alla finestra. È proprio una bella giornata, là fuori. E il rosso arriverà. Perché dopotutto non c’è nebbia né foschia.

di Adriano Marchetti