Sotto a un sasso
Quando Ercole Brandelli andò a dormire era nella sua tarda adolescenza; quando si svegliò era nella seconda metà dei quaranta. Dove erano finiti gli anni nel mezzo? Li aveva vissuti, perché il mondo attorno a lui ne mostrava tutti i segni: cianfrusaglie sparse qui e là, attestati appesi al muro, vestiti di stile diverso, oggetti che prima non esistevano. Il tempo era trascorso, c’erano prove ovunque.
Ercole non ricordava di averne vissuto un solo giorno, un solo minuto.
Era stato ragazzo e adesso era di mezza età. Il resto che fine aveva fatto? Come ci era arrivato? Che aveva combinato? O meglio, cosa aveva combinato il mondo? Cosa gli aveva combinato? Che razza di scherzo era? E se era un scherzo, qualcuno ne aveva mai riso? Lui, no di sicuro.
Pure, era successo, come succedeva a tutti. Non era uno scherzo. Era la realtà. Metà della sua vita se n’era andata e gli era sembrata poco più lunga di una notte di sonno. E non era stato neppure molto riposante, come sonno. Gran bella fregatura.
Ercole si alzò e contemplò triste le frattaglie della sua esistenza, disseminate nel buco che a volte si sentiva in dovere di chiamare casa, per mancanza di alternative e per brevità. Non che ci fosse tanto da contemplare, ma lui lo contemplava ogni mattina e ogni mattina si domandava come fosse finito lì, che cosa avesse fatto di male per meritarselo. Essere nato, probabilmente. O essere stupido, o un misto di entrambe le cose. Essere nato stupido, ecco. Ed esserlo rimasto crescendo. O peggiorato.
Ercole Brandelli sospirò. Guardò nell’angolo tra il muro e l’armadio. Il ragno era sempre lì. Aveva ripulito la ragnatela, per cui doveva essergli venuta fame durante la notte. Buon per lui. Ercole non aveva molta fame al momento, ma sapeva che sarebbe andato lo stesso in cucina a fare colazione. O almeno nell’angolo cucina, giusto due passi sulla destra. Era un buco di appartamento, dopotutto.
Il computer lo attendeva poco più in là, in un altro angolo. Aggiungi un bagno e hai completato la mappa della vita di Ercole Brandelli, nonché la planimetria del suo tugurio. Triste? Forse, può darsi, ma ci si era abituato e ormai non lo notava più. E l’affitto era basso, che era la cosa più importante.
Era quello che aveva sognato da bambino? No, ma era quello che aveva ottenuto da grande.
Aprì la finestra per cambiare aria; la richiuse dopo aver annusato l’aria che sarebbe entrata. C’erano limiti che non si sentiva ancora di attraversare, ma grazie del pensiero. Tanto valeva fare l’aerosol col tubo di scappamento di un camion. Che brutto mondo. Che brutto risveglio.
Ercole sgranocchiò qualche biscotto formato super economico, mentre pensava alla giornata che gli si spalancava davanti. Per valori molto bassi di spalancarsi. Poteva trascorrerla per intero o quasi in casa, se ricordava bene le sue riserve alimentari. In frigo doveva esserci abbastanza per quel giorno, forse anche per il successivo se riduceva un poco le dosi. Non che uscire per fare la spesa gli desse tanto fastidio. Era spendere a dargli fastidio, specie adesso che le donazioni erano in calo.
Avrebbe dovuto cominciare a lavorare sul serio alla nuova versione del gioco, magari includendo i suggerimenti ricevuti. Alcuni dei suggerimenti. Quelli che era capace di programmare, per esempio, e che non avrebbero richiesto lavoro eccessivo. Ritocchi. Abbellimenti. Miglioramenti. Cose così.
E promettere, giusto. Un post sul sito in cui accennava a un progetto per una nuova espansione. Non una parola sul come e il quando, sia chiaro, ma lasciar balenare l’idea, l’immagine, la speranza, quel che vi pare. Gettare l’esca. Qualche accenno alle difficoltà, giusto di sfuggita. Sì, poteva funzionare. Poteva portare qualche donazione in più. Se era fortunato. Se lo sapeva gestire bene.
Ercole Brandelli sospirò di nuovo, guardando il computer. Che vita patetica. Poteva andare peggio, d’accordo, ed era moderatamente sicuro che ad alcuni suoi vecchi compagni di corso fosse davvero andata peggio, ma il male altrui ti consola soltanto se sei psicopatico. La sua vita rimaneva patetica.
Come aveva fatto a sprecare tutti quegli anni? Come era riuscito a lasciarseli scappare? Dove aveva tenuto la testa, mentre il tempo se ne andava? Stava venendo sera e lui quasi non se n’era accorto.
Roba da Proust. Roba da chiodi. Roba che era meglio smetterla di farsi seghe mentali e cominciare a produrre qualcosa. Qualunque cosa. Dopotutto era andata così e non è che potesse farci poi molto, a quel punto. Aveva scelto una strada, o almeno la strada aveva scelto lui, e il resto mancia. Nonché manca. Soprattutto manca. Diamoci una mossa, ok?
Breve tappa nel bagno claustrofobico per lavarsi faccia e denti, nonché per altre esigenze che non è necessario descrivere in dettaglio; annusata rapida alla specie di pigiama con cui dormiva, tanto per valutare se fosse ancora accettabile. Lo era, anche se cominciava a essere un poco vissuto. Niente di urgente. C’era tempo. La giornata di lavoro poteva cominciare. Nel bene o nel male.
Per Ercole Brandelli, il lavoro consisteva in un videogioco. Le prime righe le aveva scritte durante il suo ultimo anno di università, come scusa per non completare la tesi nei giorni in cui proprio non ne aveva voglia. Erano stati piuttosto frequenti. Quasi quotidiani, si potrebbe anche dire. Era una brutta tesi, che non interessava né a lui, né al suo relatore. La doveva scrivere per laurearsi, d’accordo, ma il dover fare una cosa non la rende mai più gradevole. Quindi Ercole la evitava.
Ma evitarla e basta era brutto. Si sentiva in colpa. Si sentiva pigro. Evitarla perché aveva altre cose da fare, ora, era molto più accettabile. Era praticamente giustificato. Un dovere morale, anche se in un senso non proprio kantiano. Oppure sì. C’erano gli estremi per renderlo imperativo categorico? A un livello magari non altissimo, ma forse, se ci pensava bene...
Ercole Brandelli ci aveva pensato bene per un poco, poi aveva smesso. Aveva cominciato invece a lavorare a un videogioco. Uno molto piccolo, chiaramente indie, e non molto complicato: giusto un paio di idee che aveva avuto mentre perdeva tempo con giochi simili. Capite anche voi. Grafica che più spartana non si poteva, regole che si complicavano sempre di più, non proprio un roguelike ma simile a sufficienza da poterlo sembrare, se non si era troppo pedanti sulle definizioni e i canoni.
Ma non era molto interessante da giocare.
Lo aveva accantonato per un poco, aveva terminato la tesi, l’aveva presentata al relatore, aveva poi riscritto i due capitoli che il relatore gli aveva perso, era arrivato alla discussione e in un caldissimo giorno di fine giugno si era persino laureato. In filosofia. Senza cantare canzoni tristi tristi tristi.
Era tornato a casa, chiedendosi per l’ultima volta perché avesse scelto di iscriversi all’università di un’altra regione, quando avrebbe potuto trovare lo stesso corso di laurea a due passi da dove viveva. Era stato un fastidio extra. Era stata una inutile complicazione.
Solo che non lo era stata. Rimettere piede in casa glielo aveva ricordato. Aveva avuto bisogno di un ambiente diverso. Aveva avuto bisogno di liberarsi. E ne avrebbe avuto bisogno di nuovo adesso. Al più presto. In mezzo alla gente che gli era capitata per famiglia non ci riusciva proprio a stare.
Era come essere rinchiuso in una vergine di Norimberga mentre qualcuno ti faceva gocciolare acido dritto sul cervello. Questo era il modo migliore per descrivere la vita a casa Brandelli. Ercole aveva pensato, studiato, analizzato, comparato e altri participi passati a vostra scelta, ma il risultato restava sempre lo stesso. Una vergine di Norimberga con acido sul cervello: la vita in casa sua.
Era stato praticamente costretto a fuggire in un’altra regione, abbandonando amici e conoscenti. Gli era costato, beh, ok, magari non molto, ma un po’ sì, era stata una scelta difficile e a volte sentiva un poco la mancanza degli ambienti familiari (ma non famigliari) e della gente che li frequentava, ma a pensarci bene era stata una mossa obbligata. Per vivere. Per salvare il poco che rimaneva della sua sanità mentale. E adesso, a università finita con lode, di nuovo in trappola. Doveva fuggire.
Ma che lavoro poteva trovare con una laurea in filosofia e nessuna capacità pratica? Un problema di quelli che si affrontano di rado nei trattati metafisici, ma molto molto urgente per Ercole. Che vale anche come esclamazione latina. Così aveva fatto quello che poteva e si era ritrovato cassiere in un supermercato. Adesso sì che avrebbe potuto cantare canzoni tristi tristi tristi, ma si era astenuto.
Era uscito di casa ed entrato in un buco, il massimo che si poteva permettere. Lo evitavano perfino gli scarafaggi, in apparenza. I ragni no. Ce n’era uno nell’angolo tra l’armadio e il muro. Ercole non lo aveva scacciato, né schiacciato. Era una specie di compagnia, a modo suo.
Aveva riesumato il videogioco nelle notti insonni vegliate al lume della depressione. Solo un modo come un altro per mantenersi sano, si era detto. Per ingannare il tempo. Per riempire la solitudine. E così via, da una giustificazione all’altra. Ma lo aveva riesumato, ricominciato, esteso, migliorato qui e là e vi trafficava attorno quasi tutti i giorni, quando non aveva altro da fare. Non aveva mai altro da fare: non aveva vita sociale. Due anni dopo aveva reso pubblica la prima versione.
Era piaciuta. Aveva raccolto qualche fan, poi altri, infine un gruppetto dignitoso. Piccolo, ovvio, ma era comunque più di zero. E anche se erano nerd allo stadio terminale, che differenza faceva? A loro piaceva il suo gioco, lo commentavano, ne discutevano, gli davano suggerimenti, segnalavano bug. Per Ercole Brandelli era stato quasi come avere di nuovo amici. Era di nuovo parte di qualcosa.
Alla fine, con un’audacia in cui quasi non si era riconosciuto, aveva aggiunto la possibilità di dare un contributo economico per lo sviluppo del gioco. Ricevere donazioni, insomma. O elemosina, se preferite metterla in questi termini. E ne aveva ricevute. La sua vita era cambiata.
Erano passati circa venti anni da allora e adesso Ercole sedeva in pigiama davanti al computer, una schermata piena di codice ad aspettarlo e tanta voglia di essere altrove nelle ossa. Ma era lì. Aveva lasciato il lavoro da cassiere, ma non il buco in cui abitava. I contributi degli utenti erano generosi, ma incostanti, e comunque non poteva permettersi molto. Sopravviveva, certo, e soprattutto non era più costretto a sopportare clienti che avrebbe garrotato con entusiasmo. Ma, come dire...
Non era un granché di vita.
Ma non ne aveva una di riserva.
Lavoricchiò al computer per buona parte della mattinata, non concludendo un granché. Aveva poche idee e ancora meno voglia. Avrebbe potuto cominciare una espansione a cui pensava da tempo e che gli avevano richiesto già in molti (beh, molti in percentuale, non in numero), ma davvero non aveva voglia. Troppo complicata. Troppo faticosa. Meglio aspettare un momento più opportuno. Intanto si poteva accontentare di piccoli ritocchi qui e là, che avrebbero accelerato un poco il programma.
Prima di pranzo controllò l’angolo tra l’armadio e il muro. La ragnatela era vuota, ma era normale. Il ragno si nascondeva quasi sempre dietro l’armadio, durante il giorno. Usciva col buio, oppure se gli lanciavi una mosca. Forse era timido, forse si divertiva così. Non erano affari suoi, dopotutto. Suoi di Ercole, dico. Affare suo era solo gettare nella tela qualunque insetto catturava o schiacciava in casa. Il ragno se li mangiava ed era un sistema ecologico per fare pulizia. Grossomodo.
Non lo stesso ragno degli esordi, quasi di sicuro. Ercole non conosceva la durata media della vita di un ragno, ma sospettava che non si avvicinasse al quarto di secolo circa. Pure, nell’angolo tra muro e armadio c’era sempre una ragnatela, nella ragnatela viveva sempre un ragno ed era sempre simile. Poteva essere lo stesso, poteva essere una dinastia. Dettagli. Il ragno c’era, Ercole divideva con lui (o con lei) alloggio e insetti nocivi e tutti erano felici, insetti nocivi a parte. Per valori molto bassi di felicità, ma era un modo come un altro di tirare avanti. C’era di peggio.
Pranzò. Nel pomeriggio riprese a lavorare per un poco, poi capì che proprio non c’era con la testa e stava solo perdendo tempo, così uscì a fare due passi e inalare un poco di aria tossica.
Faceva caldo. Peggio, era afoso. Una cappa di aria non proprio calda, ma bollita. Un clima schifoso per una passeggiata schifosa, ma passeggiare era economico, ti aiutava a perdere tempo e a volte era anche possibile che ti venisse una qualche idea. Se eri fortunato, poteva addirittura essere buona. Se non ci pensavi, beninteso. Se dimenticavi i tuoi problemi principali e lasciavi che la mente andasse a sbattere dove voleva, senza cercare di indirizzarla, a volte ti capitava un colpo di genio.
Beh, magari non proprio genio, però avevi il pensiero giusto. Un indizio. Qualcosa. Tipo, mettiamo, un buon sistema per utilizzare una rete neurale nel gioco. A Ercole Brandelli sarebbe piaciuto molto usare una rete neurale per gestire il comportamento dei personaggi. Li avrebbe resi imprevedibili e originali. Se ne sarebbe potuto vantare nei forum. Gli avrebbe fatto guadagnare punti coi fan.
Peccato che non avesse la minima idea di come fare. Era laureato in filosofia e un programmatore autodidatta, dopotutto. Era uno scoreggione che si arrabattava, non un professionista. Gran parte del tempo non aveva idea neppure lui di come fosse riuscito a far funzionare certe parti del gioco. Tipo la generazione pseudocasuale degli ambienti nel mondo, per dirne una.
Pure, funzionavano. E portavano soldi. Non molti, ma abbastanza per le sue poche pretese. Quindi a qualcosa la sua vita stava servendo, no?
No.
Da adolescente aveva avuto una idea del tipo di vita che avrebbe desiderato da grande. Era vaga e in parte improbabile, ma almeno era stata una idea. Poi si era perso. In un qualche modo aveva smesso di essere in controllo e la sua vita per certi versi era andata per i fatti propri e lui era stato trascinato via. Come era successo? Non lo sapeva, ma era successo.
«Qualcun altro avrà vissuto al posto mio,» bofonchiò mentre attraversava il parco. «Avrebbe anche potuto vivere un po’ meglio, già che c’era. Ha fatto proprio uno schifo di lavoro.»
Doveva ammettere che se l’era anche andata a cercare, almeno in parte. Aveva una laurea inutile. Lo aveva soddisfatto su un piano personale, certo, ma restava sempre inutile. Se solo, per così dire, una trentina di anni prima avesse trovato interessante qualcosa di diverso, invece della filosofia, magari la vita non gli sarebbe scappata di mano. O forse sarebbe successo in ogni caso. Forse era proprio lui il problema e tutto il resto non era che una semplice...
C’era qualcuno. Lo avvertì quello che possiamo chiamare sesto senso, in mancanza di meglio. Solo che nel caso di Ercole era una facoltà che si era sviluppata in una direzione un poco diversa e spesso lo avvisava quando nei paraggi si trovava una persona di sua conoscenza.
Qualcuno da evitare, insomma.
Ercole si guardò attorno con cautela. Vecchio, vecchie che parlano, mamma e figlio, tizio col cane e lo smartphone all’orecchio, altra mamma con figlio, altro tizio con smartphone. Scene di banale vita urbana. Dove si trovava la minaccia? Per sicurezza si avvicinò a un albero che gli offriva un poco di ombra e riparo. Non c’erano umani nelle sue vicinanze, quindi era zona sicura. Probabilmente.
Gli occorsero altre tre scansioni del parco, ma alla fine lo vide. Un poco lontano, di schiena ma non del tutto; poteva vedere una scheggia della sua faccia ed era quella di un suo compagno di liceo. Al momento non si ricordava il nome, ma era irrilevante: ciò che doveva fare era allontanarsi senza che l’altro lo notasse. Svicolare via. Sgattaiolare. Filarsela. Quello che volete.
Ercole Brandelli si allontanò pian piano col passo della pantera rosa, movenze furtive che parevano studiate apposta per attirare l’attenzione di chiunque fosse girato più o meno dalla sua parte. Cioè il cane citato poco sopra, unico essere vivente che al momento lo stesse guardando. Ma il cane poteva guardare quanto voleva, non era rilevante. Era rilevante il suo ex compagno di scuola, la persona da cui stava fuggendo, e per adesso non sembrava essersi accorto di lui. Ottimo. Bastava solo che quel tizio continuasse a non accorgersene per un altro poco, facciamo mezzo minuto circa e poi Ercole si sarebbe rimosso dal suo campo visivo. Non stava chiedendo molto, no? Qualcuno lassù (o laggiù, a seconda dei gusti) poteva concedergli mezzo minuto di pietà, vero?
Il compagno delle superiori si stava girando. Si stava girando proprio verso di lui. Ercole si fermò e si finse un buffo rigonfiamento nel tronco di un albero. Era di schiena. Non si vedevano da almeno venti e più anni. Quel maledetto non lo poteva riconoscere. Sarebbe stato ingiusto. Molto ingiusto.
Per un poco non successe alcunché. Quando Ercole trovò il coraggio di girarsi lentamente per dare una occhiata, vide che il suo ex compagno si stava allontanando nella direzione opposta, assieme al tizio con cui stava parlando, chiunque fosse. Il nostro eroe si rilassò. Pericolo scampato.
Non gli piaceva incontrare abitanti dei tempi andati. Il passato era un luogo gradevole da visitare in ricordo, ogni tanto, e andava sempre bene per qualche recriminazione e per piangersi addosso, se ne avevi voglia, ma le persone no. Le persone che venivano dal passato, secondo la modesta opinione di Ercole Brandelli, erano praticamente zombie e non portavano mai niente di buono.
Cercavano solo di divorarti. A partire dal cervello.
Per prima cosa, ti ricordavano il passare del tempo e i suoi effetti sugli organismi. Se l’ultima volta che vi eravate visti non avevate ancora vent’anni e adesso siete avviati verso i cinquanta, il rischio di traumi è dietro l’angolo, capite anche voi. Per seconda cosa, cominciavano subito a parlarti degli anni che furono. Con nostalgia. Con rimpianto. Eran belli i nostri tempi, glory days e palle varie.
Terribile.
Terzo, volevano informarsi sul presente. Sul tuo presente.
E cosa avrebbe potuto raccontare Ercole? Che viveva come un cactus, mantenuto dalle donazioni di quei nerd che apprezzavano il suo videogioco? Un videogioco a cui lavorava da decenni, perlopiù in pigiama, in un autoimposto regime di ristrettezze economiche da tempo di guerra? Siamo seri.
Poteva mentire, d’accordo, ma non era mai stato molto bravo e probabilmente avrebbe peggiorato la situazione e basta. No, meglio evitare. Mantenere un sano embargo sociale nella realtà fisica era per lui la soluzione migliore, ne era certo. Lo aveva fatto per anni, dopotutto, e i risultati erano stati... scadenti, d’accordo, ma poteva andare peggio. Poteva sempre andare peggio.
Ma il mancato incontro era stato snervante ed Ercole decise che era meglio tornare nella sua tana, al sicuro. Di idee buone non ne aveva prodotte, ma qualcosa se lo sarebbe inventato. Erano anni che si inventava qualcosa, seduto al computer, e finora aveva funzionato. Perché cambiare?
Perché non hai mai avuto una vita, gli disse una voce traditrice nella sua testa. Perché tra dieci anni ti sveglierai e scoprirai di essere in picchiata verso i sessanta e non ricorderai di aver vissuto un solo giorno di quelli che hai attraversato. È davvero questo che vuoi?
Ercole Brandelli sospirò. Non era quello che voleva, ma era quello che aveva. Fine del discorso. Per favore, cara voce, cerca di non disturbarmi più. Non è stato un piacere sentirti. E ricordati che non è mai un buon segno avere voci che ti parlano dentro la testa. Alla visita di leva ti avrebbero spedito dallo psicologo, se tu avessi segnato sul questionario che c’erano voci che ti parlavano nella testa.
Effettivamente lui lo aveva segnato, per scherzo. Lo avevano spedito dallo psicologo. Due volte, per sottoporlo a test da scimpanzé: disegna un albero con molti rami, inserisci i blocchetti negli spazi di forma corretta mentre ti cronometriamo. Ahaha, che ridere. Non si era divertito per niente. Alla fine gli avevano messo un quattro nella categoria “psiche”, “mente” o quello che era. Confortante.
Ma il passato era passato. Per fortuna.
Di nuovo a casa, tornò al lavoro sul videogioco con poco entusiasmo, all’inizio. Pian piano trovò il ritmo giusto, corresse un paio di cose, sperimentò su piccolissima scala con una rete neurale e vide che sì, i risultati non erano malvagi, magari con un poco di impegno, se trovava il modo giusto, era forse possibile introdurla nei “cervelli” degli avversari dei giocatori, sia i personaggi non giocanti che i nemici. La pseudo-intelligenza artificiale che avevano adesso era davvero scadente.
Riemerse alla realtà quando era passata mezzanotte. Aveva fame e gli faceva male la schiena. Colpa della vecchiaia, probabilmente, e non era un bel pensiero, ma lo pensò lo stesso perché Ercole era il tipo di persona che pensa spesso pensieri non belli. Sgranocchiò qualcosa dalle sue scarse scorte, si lavò e si lasciò cadere sul letto. Un ultimo sguardo al ragno, che era sulla sua tela e appeso a testa in giù. Tutto regolare, tutto come sempre. Poteva anche dormire.
Sognò di quando era bambino, cinque o sei anni al massimo, e giocava nel parco. Solo che non era proprio come da bambino, perché c’era anche gente che aveva conosciuto all’università e poi perso di vista, e il parco si affacciava sul mare, che nella realtà era lontano più di cento chilometri. Ma in un sogno tutto è possibile ed Ercole non vi badò.
Giocavano a nascondino e lui era sotto.
Non avevano mai giocato a nascondino nel parco, per quanto ricordava. A calcio sì, o almeno a dare calci a un pallone, che non è proprio la stessa cosa, e spesso si erano anche inventati altri giochi, che si ispiravano a cartoni animati o film di quel periodo, oppure si erano divertiti a saltare le siepi e a sfidarsi a chi lo faceva meglio. Ma nascondino? Mai. Non c’erano molti posti dove nascondersi, nel parco. Oddio, volendo ci si poteva nascondere in una specie di bagno pubblico, ma era sconsigliato a chiunque fosse in possesso di olfatto. Pure, nel sogno ci giocavano.
Ercole era rimasto con la faccia contro un albero, a contare. Aveva contato a lungo. E quando poi si era girato, il parco era vuoto. Se n’erano andati tutti, anche i genitori. Era solo. Lo avevano lasciato da solo. Come un fesso. Come un ercolebrandelli qualunque.
Si svegliò che era ancora notte e per quasi un’ora non riuscì a riprendere sonno. Era stato un sogno del cavolo, per non dire di peggio. Davvero di cattivo gusto. Lo avrebbe potuto analizzare e trovarci riferimenti a bizzeffe, freudiani e non, allegorie e analogie, e pure le palle di suo nonno in carriola.
Non lo avrebbe mai e poi mai fatto. Piuttosto si sarebbe mangiato un calzino sporco. Senza ketchup. Se poi non fosse andato a fare la spesa, c’era il rischio che lo avrebbe dovuto mangiare davvero, ma era un altro discorso, da fare di giorno. Il punto era che i sogni erano solo sogni. Solo peti cerebrali.
Il mattino dopo lo aveva dimenticato e non ne sentì la mancanza.
Si ricordava però che il frigo era pressoché vuoto e il cibo in generale scarseggiava, così controllò le sue finanze, sospirò, le controllò di nuovo nel caso fosse avvenuta una miracolosa moltiplicazione dei pani e degli euro, si arrese alla crudele assenza di miracoli nel nostro mondo triste e si preparò a una ennesima ricerca di prodotti in offerta di qualunque tipo, indipendentemente dal loro sapore. La dura legge dell’economia, almeno applicata agli Ercole Brandelli di oggi.
Raggiunse il supermercato nella fascia oraria in cui i clienti erano in bassa marea e l’esperienza gli aveva insegnato che c’erano pochissime probabilità di incrociare conoscenti. Gli era successo solo tre volte in anni di frequentazione, e in tutti e tre i casi li aveva saputi evitare, grazie a una miscela di preveggenza e abilità nel passare inosservato. Si sentiva piuttosto al sicuro e abbassò la guardia.
E rimase fregato. Perché il bello delle probabilità è che sono solo probabili, non certe. Spesso andrà così, d’accordo, ma spesso non è sempre. Quel giorno decisamente non lo fu.
Era a due metri dall’ingresso quando la porta sulla sinistra si aprì e ne uscì una donna che spingeva un carrello. Scena comune, vista mille e più volte e mai degna di interesse, per Ercole. Solo che non era una donna anonima, quel pomeriggio. O meglio, non era una sconosciuta.
Ercole Brandelli la vide di sfuggita, fece per passare oltre, si bloccò e la guardò. Anche la donna si era fermata. Lo guardava. Sorrideva. Beh, grossomodo. Non proprio un sorriso a mille denti, carico di entusiasmo, ma quel sorriso di riconoscimento con cui ti prepari ad attaccare bottone quando vedi una faccia familiare, una che magari non si fa viva da un po’. Se è il genere di conoscente con cui tu vuoi attaccare bottone, beninteso.
Ercole non voleva mai attaccare bottone coi conoscenti.
Si fissarono in silenzio per qualche secondo oggettivo e due ere geologiche soggettive. Ercole pensò a una parola brutta, una di quelle per cui la mamma gli avrebbe mollato una sberla, se gliela avesse sentita dire quando era bambino. Adesso l’avrebbe potuta dire senza problemi, ma non gli sembrava il modo migliore per aprire una conversazione. Non che lui avesse voglia di conversare, anzi, ma al momento non vedeva alternative. Aveva incontrato una persona che conosceva, si erano riconosciuti e adesso c’era un solo possibile svolgimento.
Sperare che il suo carrello fosse pieno di surgelati, così non si sarebbe potuta fermare a lungo.
«Ercole! Da quanti anni non ti fai sentire? Non sapevo neppure che fossi ancora da queste parti.»
Il cervello di Ercole correva come un criceto su una ruota. Come si chiamava? Giulia? No, ma era qualcosa di simile. Giuliana, forse. Giada? Qualcosa con la G, ne era sicuro. Quasi sicuro. O se non era una G, doveva almeno essere una lettera simile. Nelle vicinanze. Stesso alfabeto. Quindi?
Soluzione: evitiamo di chiamarla per nome.
«Beh, sì, sono ancora da queste parti, sai com’è,» rispose, rifugiandosi nel vago e indeterminato. Se gli andava bene, magari lei avrebbe pensato che aveva fretta e avrebbe chiuso la conversazione. Per lo meno lo poteva sperare. C’era sempre spazio per la speranza, no?
No.
«Allora possiamo anche vederci ogni tanto. Tu non avrai niente da fare, no?»
Vero, ma Ercole Brandelli non se la sentiva di ammetterlo. Se si fosse riuscito a inventare una scusa, una che sembrasse accettabile, magari avrebbe potuto tagliare corto. Anche perché...
Anche perché quell’incontro era terribile sotto troppi aspetti. Ancora non era sicuro del nome della donna, ma per il resto ricordava fin troppo bene la sua identità. Si erano conosciuti quando lui aveva appena cominciato l’università, nell’estate alla fine del primo anno, e lei era verso la fine del liceo, al quarto anno o magari già al quinto, ma era storia vecchia di un quarto di secolo e più, vivaddio, mica si poteva ricordare tutti i dettagli, no? Avevano fatto grossomodo amicizia quando un amico di Ercole ci aveva provato con lei, ma gli era andata male. Il che, da un altro punto di vista, era stato un bene, anche se non era il genere di cosa che puoi dire ad alta voce, non se sei gentile.
Perché anche a Ercole piaceva quella ragazza. Beh, ne era attratto, quantomeno. Niente di serio, per quel che si ricordava. E infatti non ci aveva mai neppure provato, però era piacevole averla attorno, si poteva parlare più o meno di tutto, aveva gusti decenti, interessi comuni, così l’aveva considerata comunque una estate positiva, nel complesso, almeno per i suoi bassissimi standard.
Poi si erano persi di vista un poco alla volta, perché Ercole studiava lontano e non tornava quasi mai a casa, se lo poteva evitare. Si erano incontrati di nuovo ogni tanto, solo il tempo di saluti e qualche chiacchiera generica, e poi via, ognuno per la propria strada. Niente di insolito, per lui.
Il problema era rivedersi adesso. Dopo un quarto di secolo. Ricordava la faccia di lei, come era stata allora, e vedeva la faccia di lei come era adesso. Non era cambiata molto, in termini generali. Anche la pettinatura era rimasta grossomodo la stessa, capelli mossi ma non troppo e legati dietro.
Cambiava che il tempo aveva lasciato la sua impronta. Come su tutti.
Non era mai stata bella. Non convenzionalmente bella, almeno. Carina sì, rafforzato o meno in base ai gusti personali, ma non certo quel tipo di bellezza che ti fa girare quando la incroci per strada. La potevi classificare come “normale più”, secondo i canoni di Ercole, magari anche “più più” se si era impegnata a curare aspetto e abbigliamento. Di solito non lo faceva, da giovane: era quasi sempre al naturale, tendente al casual.
Lo era anche adesso, grossomodo. Casual da adulto, non da tarda adolescenza, ma comunque casual e pressoché senza trucco. Non era cambiata neppure come categoria ercoliana, nei termini generali: non bella, ma piacevole da vedere. Fosse cambiata molto, probabilmente lui non l’avrebbe neppure riconosciuta: non era mai stato molto fisionomista.
A cambiare era il quarto di secolo circa che le era piovuto addosso.
C’erano segni che una volta mancavano. Linee, rughe di espressione o come si chiamavano, Ercole non lo sapeva di sicuro, ma anche se non conosceva il nome preciso, le riconosceva bene: le vedeva anche sulla propria faccia ogni volta che gli capitava di specchiarsi. Le vedeva adesso sulla fronte di lei, attorno alla bocca, agli occhi. Non le stavano particolarmente male, ma c’erano.
Nulla di strano, nulla di anormale, ma erano un promemoria. E lo colpivano ancora di più perché le vedeva su una faccia che ricordava appena maggiorenne. Adesso era sopra i quaranta. Come lui e un paio di anni più indietro, a voler essere precisi, ma il punto non era questo. Il punto era lo shock del cambiamento, se vogliamo chiamarlo così. Lo shock della differenza. Il divario tra memoria e realtà su quella faccia. Era questo a disturbarlo, lo stesso senso di straniamento che gli faceva sembrare di non avere mai vissuto gli anni tra la fine dell’adolescenza e il presente.
Ma erano esistiti, quegli anni. Altroché se erano esistiti. Lo stavano guardando negli occhi proprio adesso, da dietro un carrello della spesa. Era come se...
«Ma mi stai ascoltando?»
Ercole Brandelli precipitò di testa dall’albero delle seghe mentali. «Eh? Cosa?»
«Ti ho chiesto se mi stavi ascoltando, ma la puoi considerare una domanda retorica, direi. Avevi una faccia da bovino al pascolo che di solito non indica grande partecipazione,» ripeté lei.
«Beh, più o meno ascoltavo. No, è che mi ero distratto, sai. Demenza senile. Sono vecchio.»
La donna lo fissò con l’espressione di paziente compatimento che Ercole ricordava bene. Pensava che non l’avrebbe rivista più, invece era proprio lì davanti a lui. Dico l’espressione, non la donna. E anche la donna, da un certo punto di vista, ma indirettamente. Al momento Ercole pensava solo alla sua espressione. Davvero.
«Non ascoltavi molto neanche quando eri giovane.»
«Demenza giovanile. Succede.»
«Lasciamo perdere. Senti, lasciami il numero, così uno di questi giorni ti chiamo. Star qui davanti al supermercato non è proprio comodo.»
Indubbiamente. Le vecchiette di passaggio (poche, ma qualcuna c’era sempre) lanciavano occhiate che a Ercole non piacevano proprio. Gli piaceva ancora di meno lasciare il numero e farsi chiamare in seguito, ma questo almeno significava guadagnare tempo e liberarsi per adesso dell’incontro. Più avanti avrebbe avuto modo di prepararsi una strategia per evitare anche telefonate o altro. Un passo alla volta. Giusto. Flettersi come il giunco e... quello che era, non se lo ricordava più.
Scrollò le spalle e si scambiarono i numeri, lei promettendo di chiamare, lui con un mugugno senza impegno, che poteva significare qualunque cosa a discrezione del destinatario, perché non aveva di per sé alcun significato. Era aperto a interpretazioni, come ogni buon messaggio.
Si salutarono, si separarono, Ercole respirò. Con cautela, perché l’aria puzzava di bruciato e non era un bel respirare. In dosi eccessive poteva causare gravi danni alla salute.
Al termine della sua parca spesa, tornò a casa sotto un cielo color candeggina sporca, cercando dopo ogni passo di guardare in ogni direzione. Aveva abbassato la guardia una volta e subito si era preso nei denti un incontro. Non avrebbe più ripetuto lo stesso errore: la prossima volta gli sarebbe potuta andare molto peggio. Quindi, massima cautela e occhi ovunque.
Non ci furono altri incontri. Rincasò, rifornì il frigorifero, stese una mosca dopo tre applausi a vuoto e la raccolse. Stordita ma ancora viva, come piacevano al ragno. Ottimo. Si avvicinò alla ragnatela e la lanciò. La mosca rimase attaccata e cominciò quasi subito a muoversi. Pessima idea. Da dietro l’armadio sbucò di corsa il ragno, che si lanciò sulla preda seguendo un percorso poco retto, ma che doveva avere un qualche tipo di senso in base alla struttura della tela. Attaccò, attaccò, la imbozzolò con un rapido movimento di zampe, l’afferrò e la trascinò via, di nuovo dietro l’armadio. Per quanto ne sapeva Ercole, doveva avere una specie di nido lì dietro, o magari solo una dispensa. Oh beh.
Riprese a lavorare al gioco, ma la concentrazione scarseggiava. Continuava a tornare all’incontro davanti al supermercato, alla faccia riemersa dal suo passato, ai segni del tempo, all’impossibilità di negare i decenni volati via. Poteva anche divertirsi a fingere che succedesse solo agli altri, che lui si era addormentato ragazzo e svegliato di mezza età, che gli anni se ne fossero andati senza lasciare il più piccolo dei segni nella sua memoria, eccetera eccetera. Fantasie, forse anche piacevoli.
Ma erano tutte cazzate.
Oh, certo, il tempo gli era scappato, più ancora di essere trascorso, ma il risultato era lo stesso. Una fregatura, un bidone, e lui era il pollo che si era lasciato fregare e bidonare. A cosa aveva pensato in quei decenni? A niente, grossomodo. Che ci sarebbe sempre stato tempo, nessuna fretta, procediamo con calma, dormiamoci sopra, domani è un altro giorno, perdindirindina. Cazzate, appunto.
Guardò il telefono, il nuovo numero in rubrica. Apparentemente si chiamava Elena. Strano. Perché si ricordava un nome con la G? Perché lui era scemo, ovvio. Ma no, adesso che ci pensava col nome davanti, era proprio così. Elena. Si chiamava Elena. Forse però aveva un’amica con la G. Sì, questo era possibile. Fortuna che i nomi lui non li usava quasi mai quando salutava o parlava. Si era appena risparmiato una pessima figura. Una delle tante.
Lo avrebbe chiamato davvero? Possibile. Lo avrebbe costretto a chiacchierate sui vecchi tempi? Più che probabile. Gli avrebbe chiesto qualcosa sul presente? Quasi di sicuro. Ercole sospirò. Il meglio che poteva fare, adesso, era di prepararsi una riserva di scuse, magari anche qualche balla, e pensare ad altro. I mali futuri li avrebbe portati il futuro; inutile anticiparli rovinandosi il presente.
Pure, da un certo punto di vista non gli dispiaceva essere tornato in contatto con Elena. Meglio, gli sarebbe dispiaciuto molto di più essere tornato in contatto con altre persone. Era una specie di male minore, insomma. Non era mai stata una ragazza invadente. Ok, non lo era stata quasi un quarto di secolo prima, ma poteva sperare che nel frattempo non lo fosse diventata. Le premesse erano buone ed era meglio di niente. Poteva appunto andare molto peggio.
Finì che quel giorno lavorò poco e fu un male. Il giorno dopo notò che le donazioni languivano e il suo conto suonava un requiem, così decise che doveva smettere di cazzeggiare e impegnarsi, ma sul serio. Tempo di procedere con le espansioni che aveva lasciato da parte per anni. Tempo di mostrare al mondo e ai suoi venticinque fan (che per fortuna erano più di venticinque, ma il riferimento deve essere rispettato nella lettera, se non nello spirito) che il gioco era vivo e vegeto e sarebbe diventato ancora più coinvolgente e interessante. Eccetera eccetera.
E avrebbe smesso di distrarsi. Ne andava della sua sopravvivenza. Davvero.
Lo distrassero altri nel primo pomeriggio. Un ronzio dal telefono gli annunciò che aveva ricevuto un messaggio. Ercole Brandelli temette il peggio, ma non lo era. Era molto più brutto. Non lo aveva spedito Elena, ma sua sorella. Sua di Ercole. Che cosa voleva da lui? Niente di buono. Non era mai qualcosa di buono, quando quella là si faceva sentire. O vedere, che era anche peggio ma anche più raro. Per fortuna. Averla attorno era sempre stato un disastro, da quando era nata.
Ercole la ignorò. Ci avrebbe pensato poi. Adesso doveva finire un algoritmo, prima di dimenticarsi quello che voleva fare. E l’algoritmo era molto più importante di sua sorella. Avrebbe migliorato il gioco e portato (forse) nuove donazioni, mentre sua sorella avrebbe solo rotto le palle. Tra i due, la differenza balza agli occhi, anche se non sono treni o bovini. Ok, a volte aveva paragonato la sorella a un bovino, anche di persona, ma questo era un altro discorso.
Lo lesse dopo mezzanotte, appena prima di andare a dormire, ed era solo una stupidaggine, come da copione. Era morto un qualche cugino remoto di cui non ricordava di aver mai sentito parlare e che di sicuro non aveva visto nel corso degli ultimi trent’anni abbondanti. Era interessato a partecipare al funerale? Ma neanche morto!
Ercole non rispose neppure. Cosa gli scriveva per una scemenza simile? Come se gliene potesse mai fregare qualcosa di un cugino ignoto. Ne avevano a decine, sparsi per tutta Italia e oltre. Uno in più o in meno non avrebbe fatto alcuna differenza. Rompiscatole di una donna.
Si coricò di malumore e sognò qualcosa di sgradevole che per sua fortuna al risveglio non ricordava più. Per una settimana non accadde alcunché e la vita di Ercole Brandelli proseguì lungo le rotaie in cui si era mossa per anni e anni. Computer, cibo, pulizie approssimative, cazzeggio rigenerante, due o tre mosche lanciate al ragno, varie ed eventuali. Quando non ne poteva fare a meno usciva per un poco, sempre selezionando orari e percorsi che avrebbero ridotto il rischio di imbattersi in qualcuno di sua conoscenza, non importa quanto remoto potesse essere. Non ci furono messaggi né telefonate e quasi si dimenticò di Elena, quello spettro del passato riemerso davanti al supermercato.
Una promessa di aggiornamenti quasi pronti, con alcune novità richieste da tempo, gli portò qualche donazione extra, per rivitalizzare un conto in agonia, ma Ercole sapeva per esperienza che il dire si doveva sempre accompagnare al dare: aveva detto e adesso doveva anche dare quanto promesso, gli aggiornamenti. Se lui avesse mancato, i suoi utenti avrebbero chiuso i rubinetti. A questo lavorò nel silenzio e isolamento della sua tana. La voglia era scarsa ma il bisogno premeva e lui obbediva, non con gioia ma con dedizione. O qualcosa di sufficientemente simile da poterlo sembrare se visto con poca luce. Fu una settimana lenta e faticosa, ma nessuno lo disturbò.
Finì col temporale.
Cominciò nel tardo pomeriggio e non fu una bomba d’acqua. Fu un vero bombardamento a tappeto, come quelli con cui gli Stati Uniti amano esportare pace e democrazia in tutto il mondo, che gli altri lo vogliano oppure no. A tratti fu temporale, vicino a sufficienza da sembrare sopra la testa, ma per lo più fu acqua, acqua e ancora acqua, forse tutta quella che non era caduta in una stagione e mezza di siccità, recapitata per direttissima in un giorno solo, ci scusiamo per il ritardo.
Ercole abitava al secondo piano e si sentiva abbastanza tranquillo in fatto di alluvioni, ma l’edificio era una catapecchia che sarebbe potuta essere sua nonna e ancora non c’erano infiltrazioni, non vere infiltrazioni, ma l’appartamento aveva un forte odore di cantina e un certo colorito più scuro in due o tre angoli delle pareti non sembrava proprio di buon auspicio.
«Ma reggerà,» si disse. «Ha retto finora...»
Lavorò fin verso le dieci di sera, salvando di continuo perché non si sa mai, poi la luce saltò e i suoi nervi quasi. Era un computer portatile, per fortuna, e la batteria era quasi piena. Poteva avere ancora due o tre ore buone di lavoro, se lo desiderava, ma al buio? Come cazzo faceva a programmare se ci vedeva come un culo fasciato? Non faceva, ovvio.
E dire che gli mancava poco. La nuova versione del gioco era quasi pronta, mancava solo un ultimo controllo, due o tre ritocchi qui e là, compilare, scrivere la presentazione e l’annuncio da pubblicare sul sito, i messaggi per i vari forum, poi... Ok, ci sarebbe voluto ancora un po’ di lavoro, ma il punto era che il grosso si poteva dire concluso. Non un aggiornamento rivoluzionario, ma lo aveva finito e gli restava giusto di infilarlo nel pacco regalo, per così dire.
Lo avrebbe dovuto rinviare al giorno dopo.
Borbottando un rosario non convenzionale, Ercole provò comunque a scrivere la presentazione, gli occhi fissi sullo schermo e le dita che cercavano i tasti giusti, trovandoli di tanto in tanto. Non era la sua specialità. Non lo era mai stata e forse non lo sarebbe stata mai. Aveva sempre bisogno di dare una occhiata alla tastiera, quando scriveva, altrimenti il risultato era quello che leggeva adesso sullo schermo: un testo che pareva scritto da un dislessico ipovedente e ubriaco fradicio.
Sospirò e spense tutto. Ci avrebbe pensato domani, perché era un altro giorno e palle varie.
Continuò a piovere per buona parte della notte ed Ercole Brandelli fece sogni a tema incontinenza e mare, a volte assieme e a volte distinti. Il peggiore di tutti fu quello in cui era al mare coi genitori e se la faceva addosso mentre era ancora sulla spiaggia. Suo padre lo derideva, sua madre piangeva e tutti i compagni di classe, che improvvisamente erano attorno a lui, lo guardavano e fotografavano con smartphone che ai tempi non sarebbero ancora dovuti esistere. Perché era al liceo, nel sogno.
Svegliarsi fu un piacere, tutto il resto no. Trovò un altro messaggio di sua sorella: lo rimproverava e si dichiarava delusa perché lui non aveva partecipato al funerale del cugino ignoto. Ercole la mandò mentalmente a quel paese, scegliendone uno che fosse il più lontano possibile e in stato di guerra. Il resto fu solo consapevolezza del lavoro interrotto e di ciò che lo attendeva. Cioè un lavoro da finire.
Accese il computer e scoprì che ce n’era più di quanto avesse calcolato lui. Ottimo. Come si poteva ancora peggiorare la nuova giornata? Con la connessione fuori uso.
Un nuovo messaggio lo avvisò che il forte nubifragio della notte precedente aveva causato danni al pepperepé e messo fuori servizio il papparapà. La linea sarebbe stata temporaneamente sospesa per riparazioni. Ci scusiamo per il disagio. Ercole lesse e invocò una divinità a caso, accompagnata da attributi che la CEI non avrebbe forse approvato. Gran bella giornata.
Almeno il computer funzionava e c’era energia elettrica. Per adesso. Lavorò tutta mattina e di tanto in tanto controllò se la connessione fosse tornata. Non lo era, ma almeno il gioco era pronto e aveva anche scritto i vari messaggi per annunciare l’aggiornamento. Adesso restava solo da attendere che i prestigiosi tecnici della compagnia telefonica riparassero i guasti. Prima della prossima glaciazione, se possibile. Considerato il riscaldamento globale in corso, di tempo ne avrebbero avuto.
E adesso? Controllò la ragnatela e la trovò vuota. Normale, dopotutto era giorno. Finse di sistemare un poco il monolocale, poi gli passò la voglia e ciondolò avanti e indietro con movenze da re su una scacchiera. Una casella al massimo in ogni direzione, poi trovava un muro. Allegria. Che cosa fare in attesa della connessione? Poteva uscire. Tristezza.
Alla fine uscì davvero, non sapendo che altro fare con la propria vita. Il nubifragio aveva lasciato parecchi segni in città, tra alberi caduti (ma c’era stato così tanto vento? Lui non se n’era accorto) e scarichi intasati, con annesse strade allagate. Un mezzo disastro o normale amministrazione in caso di pioggia, a seconda dei punti di vista. Ercole Brandelli avrebbe scelto la seconda definizione: era in Italia, dopotutto, dove si pianifica e si progetta con parti anatomiche che si erano specializzate in altre attività. E poi gli giravano le palle per la connessione assente, per cui era ancora più cattivo del solito e con qualcuno si doveva pure sfogare, in un qualche modo.
E l’aria continuava a puzzare di bruciato. Possibile che nemmeno un nubifragio fosse servito a darle una qualche ripulita? Possibile, almeno in apparenza. Che brutta storia. Un ronzio in cielo gli disse che stavano passando droni di sicurezza, forse a fare il censimento dei danni, forse chissà perché. A lui non interessava granché. Facessero quello che volevano, purché non a lui.
Ercole contemplava il torrente che attraversava il paese senza guardarlo davvero, quando un ronzio dalla tasca gli disse che stavolta non c’erano droni in arrivo, ma una telefonata. Sospirò.
Era Elena. Lo stava chiamando davvero. Maledizione. Aveva sperato che fosse stato solo per modo di dire, come si fa di solito quando si garantisce a qualcuno che resterete in contatto, figuriamoci, ci sentiremo di sicuro, ma in realtà nessuno dei due ne ha davvero voglia e così non vi sentite più. Non stavolta. Elena aveva detto che lo avrebbe chiamato e adesso lo stava chiamando davvero. Che fare? Rispondere? Fingersi assente? Ma soprattutto, perché quei maledetti dovevano far guastare soltanto la connessione internet e la linea telefonica no? O tutto o niente. Era così difficile? Gentaglia!
Finì che rispose.
«Ah, allora sei vivo. Cominciavo a sospettare che la tua tana fosse stata spazzata via dall’alluvione. Con te dentro, come un paguro extralarge.»
«No, in realtà sono morto e ti sta rispondendo la mia animaccia dannata dall’altro mondo.»
«Questo è plausibile. Hai da fare domani sera?»
Ercole chiuse gli occhi e sospirò mentalmente. «Beh, domani avrei...» cominciò a inventare.
«Niente da fare, lo so,» lo interruppe lei, risparmiandogli una scusa poco credibile. «Come sempre ti stai preparando a uno dei tuoi “ci penserò”, “vedremo”, “può darsi” e altre storie con cui cerchi di evitare inviti e impegni vari, quando non ne hai voglia. Cioè sempre. Non sei cambiato molto, sai?»
Ercole era convinto di essere cambiato un poco, ma soprattutto lo infastidiva essere letto così bene anche a distanza. Era davvero tanto prevedibile? Si comportava davvero allo stesso modo anche nel passato remoto dell’università? E chi lo aveva conosciuto allora se lo ricordava ancora? Brutta cosa.
Significava che tutte le volte che lui si era considerato così bravo a evitare e svicolare, in realtà non lo era stato per niente. Erano stati gli altri a lasciarlo perdere, perché conoscevano i suoi modi e non avevano voglia di starlo a sentire. Non lui a liberarsi di inviti inopportuni, ma gli altri a lasciare per strada una persona inopportuna. Cioè lui, Ercole Brandelli. Il peso morto. La zavorra.
Brutto, brutto, brutto. Se era davvero andata così. Se. Ma poteva sempre sbagliare, no?
«Beh, in realtà stavolta qualcosa lo...» tentò ugualmente. Andò male.
«No che non hai niente. Sono solo scuse. Sei libero spontaneamente o dovrò passarti a prendere io a casa, magari per un orecchio? Dimmelo subito, così mi preparo.»
Orrore doppio. Passarlo a prendere? Sapeva il suo indirizzo? Ma non lo aveva mai detto a nessuno! A chi chiedeva aveva sempre dato indicazioni false e fuorvianti. Non che avessero chiesto in molti, d’accordo, ma era secondario e irrilevante. Lui non diceva mai ad altri come raggiungerlo. Beh, con una eccezione per la banca, d’accordo. E sì, anche le poche volte che ordinava qualcosa online dava il suo indirizzo reale. Doveva pur ricevere i pacchi. Ma a parte questo, il suo indirizzo era segreto.
Come lo aveva scoperto Elena? O stava solo bluffando? Era per forza un bluff, ovvio. Doveva. Non poteva essere vero. Perché se lo aveva scoperto lei, potevano averlo scoperto anche altri. Siccome a lui non erano mai arrivati visitatori o lettere, era chiaro che gli altri non conoscevano il suo indirizzo e lei stava solo bluffando. QED. Ercole si sentì un poco meglio.
«Non mi hai ancora detto dove dovrei venire, però,» disse, cercando di fingersi tranquillo e sereno.
«Non mi hai ancora detto che sarai libero. Finora hai solo finto di essere occupato. Comunque è un incontro che ti interesserà di sicuro, vedrai.»
Premessa poco incoraggiante. Non ricordava di essersi mai divertito quando altri gli avevano detto di venire perché si sarebbe divertito, di qualunque cosa si trattasse. Se cercano di incoraggiarti o di invogliarti dicendoti che una certa cosa è X, dove X è un aggettivo positivo, allora puoi essere certo che non lo sarà: è solo un trucco verbale per plagiarti e alterare il tuo stato psicologico. O tentare di.
«Non potresti fornirmi qualche informazione in più, per favore?»
«Potrei, ma so già come reagiresti, per cui è meglio dirti direttamente di venire, così mi risparmio le tue lagne. Ci sono altre persone ed è un incontro che ti interesserà. Ti riguarda anche.»
Sempre più minaccioso. Ercole pensò di poter immaginare piuttosto bene come si doveva sentire un suino quando lo conducevano in un posto che gli sarebbe piaciuto di sicuro. Il macello. Se qualcuno gli parlava, lo faceva per raccontare storie simili. Che c’erano altri come lui, che era interessante e lo riguardava molto da vicino. E sarebbe stato vero, da un certo punto di vista.
«Senti, dimmi chiaramente di cosa si tratta e prometto che non mi lagnerò.»
«E prometti anche di esserci?»
In situazioni simili c’era una sola cosa da fare: se non puoi batterli, unisciti a loro. O almeno fingi e aspetta che abbassino la guardia, per fuggire alla prima occasione utile. Aveva funzionato sempre o quasi, in passato. Avrebbe funzionato anche stavolta. Giusto?
«Va bene, va bene, ci sarò. Adesso dimmi a cosa, grazie.»
«È una specie di forum sul riscaldamento globale. Ti piacerà.»
Quella sera, nella quiete della sua stanza che fungeva anche da appartamento, Ercole Brandelli fissò il muro e pensò a cose tristi. La connessione non era ancora tornata e non aveva molto altro da fare. Leggere, certo, quella era sempre una possibilità, ma al momento non se la sentiva. Aveva soltanto voglia di autocommiserarsi e piangersi un poco addosso, passatempo non salutare ma diffuso più o meno ovunque perché costa poco, è divertente e ti fa sentire meglio. Se sei quel tipo di persona.
Ercole lo era. Non si sarebbe isolato dal mondo per più di due decenni, se non lo fosse stato. Adesso che era arrivato qualcuno a cercare di trascinarlo fuori, cosa gli era capitato? Una tizia appassionata di ambientalismo e roba simile. Una fanatica. Una che partecipava a forum, che magari ne discuteva e ci credeva davvero. E voleva far partecipare anche lui.
Era molto doloroso rompersi una gamba? O era meglio un braccio?
Sarebbe stata una buona scusa. Anzi, praticamente non sarebbe stata neppure una scusa. Scivolato, colpa del bagnato, osso rotto, sono in ospedale, niente da fare, sarà per la prossima. Ci stava. Era un buon piano. Peccato solo che lui e il dolore fisico non andassero d’accordo. Ma neanche un poco. Il forum poteva essere uno strazio psicologico, ma forse lo poteva digerire, non sarebbe durato molto.
Meno di una frattura, in ogni caso.
Perché era arrivato davanti al supermercato proprio a quell’ora? Due minuti. Sarebbero bastati due minuti in più e si sarebbe risparmiato tutto quanto. Non avrebbe incontrato Elena, non si sarebbero scambiati i numeri, non avrebbe ricevuto telefonata e invito, tanti problemi in meno. Per un paio di minuti. Anzi, forse ne sarebbe bastato uno solo. Certo che la sfiga ci vede davvero bene.
Ercole cambiò leggermente posizione. Ok, si era preso una fregatura. E adesso? Beh, poteva almeno cercare di guadagnarci qualcosa. Scoprire se Elena conosceva davvero il suo indirizzo. In che modo lo aveva saputo, nel caso. A quanti lo aveva detto. Quanti altri lo avevano scoperto. Eccetera. Forse era troppo tardi per rimediare, nella peggiore delle ipotesi, ma almeno avrebbe tappato quella falla. In ritardo, ok, ma forse non erano ancora scappati tutti i buoi. Forse ne restava qualcuno dentro.
Il forum sarebbe stato una rottura di palle. Non che i problemi ambientali non gli interessassero. Li conosceva. Ne era consapevole. Nel suo piccolo faceva il possibile per contenere i danni. Ma stare a discuterne in mezzo a un branco di fanatici, che magari si credevano in missione per conto di dio o altri, beh, questo era troppo. Era il modo giusto per invocare un’apocalisse di fuoco sul mondo.
Gli era già capitato qualcosa di simile ai tempi dell’università, quando due o tre suoi compagni di corso lo avevano trascinato a un forum su un qualche cavolo di argomento che neppure si ricordava, ma aveva avuto a che fare con la politica, l’economia o la politica economica. Roba simile: dopo un quarto di secolo circa non potevi certo sapere il tema di una discussione che neppure avevi ascoltato davvero. Era stata comunque una rottura di palle infinita, in mezzo a mille mr. So-tutto-io.
E l’entrata! Dio, quasi l’aveva rimossa dalla memoria per proteggere il poco che rimaneva della sua sanità mentale. Ma adesso tornava, tornava tutto, come una peperonata che si è piantata lì e prima o poi sai che la dovrai far uscire dall’estremità sbagliata, se vuoi sopravvivere alla notte.
Davanti all’ingresso dell’edificio in cui si era svolto quel forum universitario, tanti anni prima, c’era un comitato di benvenuto formato da due tizi in giacca jeans e zainetto, che vendevano un giornale chiamato “Lotta comunista”. E non stavano fermi e tranquilli ad attendere clienti, loro. No, mai! Ti attaccavano, ti aggredivano, ti facevano domande, cercavano di rifilarti il loro giornale e mettevano il muso se lo rifiutavi. Ti guardavano male, inveivano contro la malvagità del mondo!
Se facevi l’errore di accettare e comprarne una copia, per interesse o per pura pietà umana, quelli ti chiedevano nome cognome indirizzo telefono e ogni dato possibile e immaginabile, come i social e le altre multinazionali di oggi. Per contattarti. Per avvisarti dei prossimi incontri. Perché sapevano che volevi tenerti aggiornato, anche e soprattutto se non lo volevi.
Uno dei compagni di corso che avevano trascinato Ercole a quell’incontro aveva comprato la copia del giornale e tre mesi dopo ancora si lamentava perché continuavano a chiamarlo e insistere perché c’erano nuovi convegni e non se li poteva perdere, davvero! Ercole ne aveva riso in silenzio. Fesso tu che hai abboccato, caro mio.
Solo che adesso, uomo di mezza età, aveva abboccato lui. Lui Ercole. C’era quasi da piangere.
Pure, la sera seguente si presentò puntuale sul luogo del delitto, o almeno del forum. Era un cinema poco usato per i film ma molto per convegni e variazioni sul tema. O meglio, era poco usato anche per i convegni, ma erano comunque più frequenti delle proiezioni, per cui possiamo dire che il ruolo principale dell’edificio, al momento, era quello di sala dei congressi. Ma molto in piccolo.
Qualche minuto dopo arrivò anche Elena. Si salutarono, scambiarono un paio di frasi di circostanza ed entrarono, unendosi a uno sgocciolio piuttosto misero di altre persone. Ercole si aspettava una di quelle serate che ricordi con una smorfia anche a distanza di anni e la prima impressione confermò i suoi timori. Ad aprire la serata c’era un tizio che poteva essere stato impalato con un rastrello. Anzi, un fossile, più che un tizio. E conservato pure parecchio male. Ercole aveva visto reperti al museo egizio di Torino che erano molto più in forma di lui.
Poi il tizio cedette la parola a una seconda persona, che doveva essersi vestita a occhi chiusi, perché i suoi abbinamenti riuscivano a essere addirittura peggiori di quelli di Ercole stesso, che era maestro in questa particolare disciplina antiestetica. Roba da farti decomporre gli occhi.
Com’era il resto della sala? Ercole Brandelli si guardò attorno con tutto il mimetismo possibile a chi conosce la parola solo per sentito dire. Erano una ventina, forse. Qualche giovane, o giovanile, ma il grosso era formato da gente che poteva essere descritta come adulta, in mancanza di meglio. Gente sperduta nel limbo tra studio e pensione, anime smarrite che vagavano in cerca di qualcosa con cui riempire giornate tristi e scialbe, forse altri tizi solitari che non avevano di meglio da fare di sera e si raggruppavano per fingersi in compagnia. Desolante.
«Fai almeno finta di seguire, invece di guardare in giro,» gli sussurrò Elena.
Ercole sospirò e finse di seguire. Le presentazioni erano finite, il tizio col microfono si preparava a lanciarsi sul serio nel suo discorso, la mummia si era accartocciata in una sedia d’angolo e lo fissava con una specie di sorriso, o almeno con un solco lungo il viso. E adesso? Ercole si sistemò con la sua migliore maschera di placido interesse e si preparò al peggio.
Che non accadde. Non come se lo aspettava lui.
Il tizio malvestito disse una prima cosa interessante. Ne disse una seconda. Alla terza, Ercole smise di guardarlo e cominciò ad ascoltarlo davvero. Le premesse non erano un granché, il contesto anche peggio, ma il discorso era sensato. Era comprensibile. Intelligente. Con un poco di buona volontà, era a modo suo perfino divertente. Potevi non condividerlo, ovvio, ma eri costretto a concedere che la logica c’era ed era solida. Ti veniva quasi voglia di prendere appunti, come a una buona lezione.
Dopo di lui la qualità calò un poco, ma i conferenzieri (se così li potevi chiamare) rimanevano bene al di sopra delle aspettative bassissime di Ercole Brandelli. Era arrivato immaginandosi un ambiente pieno di fricchettoni deliranti e invece stava ascoltando persone che parevano razionali e sensate. E affette da qualche disturbo, d’accordo, alcuni sembravano voler usare il loro aspetto come una sorta di provocazione demenziale e infantile, vestendosi o pettinandosi da cretini, ma nel complesso c’era il rischio che la serata fosse quasi non del tutto negativa. Davvero inaspettato.
«Pensavo peggio,» sussurrò a Elena durante la breve pausa mentre un tizio taceva e il successivo si preparava a parlare.
«Ti avevo detto che ti sarebbe piaciuto.»
«Per questo mi aspettavo peggio.»
«Grazie per il pessimismo.»
«Niente di personale, semplice esperienza. Che è personale, ok, ma in un altro senso.»
Dopo quasi due ore venne la fase delle domande e del dibattito. Quella fu terribile. Ercole spense il cervello e si rifugiò nel magico mondo della fantasia, aspettando la fine del supplizio per tornare a casa. Sarebbe stato difficile rimanere svegli, se il posto non fosse stato così rumoroso e scomodo.
Erano passate le ventitré quando ci fu il rompete le righe. Ercole sarebbe partito come un tappo per il brindisi di fine anno, ma Elena si attardò a chiacchierare con alcuni tizi e sarebbe stato scortese se lui se ne fosse andato prima, probabilmente, così si dovette fermare a girare i pollici per un poco. Si sentiva piuttosto fesso, ma non più del solito, anche se non gli era chiaro il perché. Forse era solo la sua scarsa socievolezza o la sua incapacità quasi patologica di stare in mezzo agli altri. Fosse come fosse, si sentiva un vaso di fiori, come durante le feste ai tempi della scuola.
Respirò meglio quando furono usciti, anche se non a lungo perché l’aria puzzata di bruciato. Anche a quell’ora. Forse i tizi della conferenza non avevano ragione su tutto, ma su certe cose pareva di sì. Elena gli propose di andare a bere qualcosa, ma Ercole rifiutò. Aveva solo voglia di tornare a casa e magari dormire. Era stata una giornata lunga.
«Ti metterai al computer, lo so,» disse lei.
«No, andrò a letto sul serio. Non ho dormito molto bene la notte scorsa.»
«Incubi da forum?»
«No, ho solo dormito male. Succede.»
«Vita sedentaria e pessime abitudini. Allora ti accompagnerò io, così non ti dovrai stancare troppo a camminare. Alla tua età...»
«Che non è molto lontana dalla tua, anzi.»
Ma Ercole non obiettò. O meglio, non a voce. Era spiacevole, ma era anche l’occasione per scoprire se davvero sapesse dove abitava e magari da dove le venisse l’informazione. Fu solo in un secondo momento che si accorse di una piccola pecca nel ragionamento: era possibile che lei non lo sapesse, nel qual caso si aspettava che fosse lui a dirle dove portarlo. Nulla di strano nel dare un passaggio a qualcuno e poi chiedergli «Dove ti devo lasciare?» mentre siete per strada.
Perché non ci aveva pensato prima? Perché era stupido, ovvio. E perché erano anni che nessuno gli dava un passaggio. O che lui ne chiedeva uno, in effetti. Arrangiarsi da solo era sempre stata la sua filosofia di vita, o qualcosa del genere. Un vizio, magari, o una mania. Una cosa che faceva, in ogni caso. Come poteva risolvere il problema, adesso? Poteva cominciare con una domanda diretta.
«Ma lo sai dove abito?» le chiese, mentre la seguiva verso l’auto.
«Certo che lo so. Te l’ho già detto.» E aggiunse l’indirizzo. Che era corretto.
«Ah. Ma...»
«Come faccio a saperlo?» Elena gli sorrise. «Scoprilo da solo, se ci tieni tanto.»
Ercole Brandelli non era sicuro di tenerci tanto a saperlo. Per precauzione cambiò argomento e nel breve viaggio verso la sua tana parlarono della conferenza. O meglio, Elena parlò e lui si comportò da interlocutore di Socrate in un dialogo platonico. Molto meno rischioso che esprimere opinioni.
En passant, notò che Elena non aveva anelli alle dita. Poteva spiegare perché si dedicasse a forum e affini, la sera. O forse era soltanto una sua cattiva idea. Scrollò le spalle.
A casa da solo, nella quiete del suo monolocale, Ercole sedette al computer e controllò gli eventuali commenti alla nuova versione del suo gioco. Era riuscito a caricare tutto nel primo pomeriggio, non appena la connessione aveva ripreso a funzionare, e adesso si aspettava un incremento delle offerte e donazioni. Ce n’era sempre uno, subito dopo un aggiornamento, e il suo conto lo avrebbe gradito molto. Lo avrebbe gradito anche il suo stomaco, se desiderava continuare a essere riempito.
Non trovò né commenti né donazioni.
«Sarà per domani,» si disse. «È ancora presto, è il fuso orario.» Ma non andò a dormire tranquillo.
Il giorno seguente cazzeggiò per la maggior parte del tempo, incapace di concentrarsi su qualcosa e di essere anche solo vagamente produttivo. Non che avesse qualcosa da produrre. Il gioco lo aveva appena aggiornato e per un poco non avrebbe avuto bisogno di metterci mano, salvo imprevisti. Il che era parte del problema: troppo tempo vuoto, troppo poco da fare. Erano i periodi in cui Ercole si sentiva più inutile. Che fossero i periodi più frequenti era ancora peggio.
Poi c’era il resto.
La conferenza, forum, chiamatelo come vi pare, che lo aveva tanto preoccupato, alla fine era stata la parte migliore. Non si era proprio divertito ma quasi. La si poteva pure etichettare e archiviare come evento positivo, volendo. Ercole non era sicuro di volerlo, ma lo avrebbe potuto fare.
Peccato che fosse stato l’unico evento positivo.
La nuova versione del gioco continuava a non ricevere né commenti né donazioni. Brutta media. Se la confrontavi con le precedenti nuove versioni, si faceva quasi preoccupante. Non ancora ma quasi, e un quasi era quasi come una certezza nel vocabolario del suo pessimismo cosmico. Dopotutto, se la tua prima fonte di reddito comincia ad asciugarsi, le prospettive sono miserabili.
C’era poi la questione del suo indirizzo. Come aveva fatto Elena a scoprirlo? Ercole aveva preso in esame varie possibilità, ma nessuna lo aveva convinto. Per cominciare, non avevano senso. Quindi ne doveva trovare una che avesse senso e lo convincesse. L’eventuale correttezza era un bonus.
Come spesso quando si ingarbugliava da solo nei suoi pensieri, Ercole uscì a camminare. Serviva a cambiare aria, distrarsi e sperare che il cervello raccogliesse nuovi input dall’ambiente; se poi erano proprio quelli che gli servivano a risolvere un dato problema, tanto meglio. Di rado funzionava.
Non andò proprio a misurare i più deserti campi, ma gli occhi erano attenti a sfuggire gli eventuali conoscenti che avrebbe potuto incrociare per strada. Di solito non ce n’erano a quell’ora, ma sempre meglio stare in guardia. E mentre stava in guardia, guardava. E pensava.
Il ronzio di un drone di sicurezza sorvolò il quartiere. Niente di strano, ce n’erano di continuo. Gran parte dei danni causati dal nubifragio era sparita, forse riparati o forse coperti. Ercole propendeva per la seconda. Il cielo era tornato il solito color candeggina usata, l’aria puzzava e il mondo era più o meno quello di sempre. Il che era bene, per chi come lui amava le abitudini, ma era anche un male perché faceva un poco schifo. Oh beh, pazienza.
Come era possibile scoprire l’indirizzo di una persona? Chiedendo a qualcuno che lo sapeva, ovvio. A una persona o a una cosa, tipo gli elenchi del telefono di un tempo. Ercole non aveva linea fissa e non aveva mai registrato il proprio numero di cellulare in nessun tipo di archivio, quindi lo si poteva escludere. Correzione: non lo aveva mai registrato intenzionalmente.
Che il trucco fosse quello? Il suo numero succhiato da un qualche servizio, invocando una clausola microscopica a pagina 4739 del contratto d’uso? Realistico. Anzi, probabile.
Poi notò che quasi tutte le case che superava montavano all’ingresso un citofono smart, che poteva identificare all’istante o quasi chiunque suonasse o anche solo passasse di lì. Notò i semafori smart, che lavoravano assieme ai passaggi pedonali smart per regolare il traffico in tempo reale in base alle esigenze di pedoni e auto. I lampioni smart, che regolavano l’intensità della luce in tempo reale in base a quanti fossero i frequentatori della strada a un dato momento. Ripensò ai droni di sicurezza, che monitoravano dall’alto il paese, per individuare possibili problemi e cercare di intervenire prima che si potessero aggravare. Per valori molto arbitrari di problemi, beninteso.
Era davvero necessario prendersi la briga di cercare un numero di telefono, quando si viveva in una specie di carcere di massima sicurezza ventiquattr’ore su ventiquattro? Con la tua vita inviata a ogni istante ai server di varie multinazionali, trovare qualcuno doveva essere una passeggiata. Pesci rossi in una boccia di vetro. Scemo lui a non averci mai pensato.
Di ritorno a casa, stordì una mosca e la gettò al ragno. Sembravano non finire mai, le mosche. Anzi, era la loro stagione che sembrava non finire mai. Non dovrebbero andare in letargo, prima o poi? O in qualunque altro modo si chiamasse per gli insetti. Ercole era moderatamente convinto che in certi periodi dell’anno sparissero, anche se non sapeva bene perché o come. Adesso sembravano sempre attorno a ronzare e rompere. Buon per il ragno, ok, ma molto meno per lui.
Irrilevante. Il problema era che al ragno arrivavano le mosche ma a lui nessuna donazione. Ingiusto. E spietato, perché Ercole almeno faceva qualcosa, ogni tanto, mentre il ragno stava solo appeso alla sua tela a grattarsi. Doveva essere una specie di metafora delle disuguaglianze sociali. O giù di lì.
Gli arrivò però una telefonata: Elena che lo informava del prossimo incontro. Era interessato? Visto che al primo si era divertito, no? Quindi non si poteva perdere il nuovo.
Ercole Brandelli non era così convinto dalla logica, ma accettò. Non aveva granché da fare e c’era tempo per cambiare idea, nel caso. Una settimana circa. Sarebbe stata comunque una occasione per verificare i suoi sospetti sui sistemi di sorveglianza e su come usarli per arraffare informazioni.
Passò a prenderlo poco dopo cena, che per Ercole Brandelli fu moderatamente abbondante. Alla fine erano cominciati ad arrivare i contributi degli utenti, che dovevano averci pensato un poco prima di decidersi a scucire. Che l’ultimo aggiornamento del gioco fosse una delusione? Ma non c’era tempo di pensarci, non adesso. Scese e salì in auto.
Non era molto sicuro di quale fosse il modo migliore per introdurre l’argomento, così ripiegò su un approccio diretto, che di solito funzionava. Male, d’accordo, ma l’avverbio era secondario. Espose la sua teoria su come Elena avesse scoperto il suo indirizzo di casa. Lei sbuffò.
«Un hacker? Ti pare davvero che io sia un hacker?»
«Hacker non è il termine corretto. In questi casi...»
Elena lo zittì agitando una mano. «Ci siamo capiti, dai. Hacker, cracker, biscotto, quello che ti pare. No, non lo sono. Non saprei neanche da dove cominciare. Comunque sì, è vero che il tuo indirizzo l’ho ottenuto dalle registrazioni sul tuo conto.»
«Registrazioni?»
«Preferisci dossier? Il risultato non cambia.»
«Dossier? Lavori per la Gestapo?»
«Ma no, stupido,» gli rispose lei, con un sbuffo che era metà derisione e metà divertimento. «Una cosa giusta l’hai detta: i dispositivi smart sparpagliati per la città, per tutte le città, raccolgono molti dati personali sugli abitanti. Diciamo pure una marea, già che ci siamo. Ma non finiscono certo alla Gestapo o a qualche altro servizio segreto di stato. Finiscono tutti alle aziende che li sviluppano e li vendono, ovvio. Che vendono i prodotti, non i dati. I dati li tengono e al massimo li affittano.»
«E tu lavori per una di quelle?»
«No. Le aziende principali, che in modo o nell’altro controllano tutte le altre, hanno accordi coi vari governi: in cambio di una esenzione totale dalle tasse e qualche finanziamento pubblico di tanto in tanto, condividono coi governi alcuni dati sui rispettivi cittadini. Cose che possono far comodo a un governo, ma da cui un’azienda privata non può ricavare molti soldi.»
«Tutto questo non mi piace.»
«È la vita. A ogni modo, esistono archivi sui cittadini, sempre aggiornati. Le amministrazioni di un comune hanno accesso ai dati sugli abitanti di quel comune, le province ai dati sugli abitanti della provincia e così via, a piramide. Chiaro fin qua?»
«Chiaro ma non bello. Continua pure.»
«C’è poco da continuare. Il nostro comune ha i dati su di noi. Un rapido controllo ed ecco trovato il tuo indirizzo. Giusto il tempo di identificarsi e inserire il tuo none nella ricerca. Escono la tua età. Il tuo reddito, i tuoi titoli, altra roba che non ci interessa e il tuo indirizzo, che invece ci interessa.»
Ercole Brandelli lo trovava orrendo. Ancora più orrenda era la naturalezza con cui Elena spiegava la storia. Come se stesse parlando del tempo. «E tu come fai ad avere accesso all’archivio, scusa?»
Elena parcheggiò e si girò a guardarlo. «Perché lavoro in comune, fesso. E prima della tua prossima obiezione,» aggiunse, «lasciami specificare che non passo le mie giornate a farmi gli affari altrui o a copiare e trafugare dati e così via. Ho solo cercato te per farmi una idea di cosa tu avessi combinato in questi anni e sotto quale sasso ti fossi andato a nascondere. E anche questa ricerca l’ho fatta solo dopo che ci eravamo già incontrati di persona, davanti al supermercato, e perché sapevo che tu non mi avresti mai detto niente su di te, come è tua abitudine.»
«Io non mi sono andato a nascondere sotto a un sasso...» borbottò.
Elena non si prese neppure la briga di rispondere. Raggiunsero l’ingresso del cinema in disuso dove altri erano già in attesa. Ercole ne riconobbe qualcuno, ma il suo interesse per forum e discussioni si era disperso in Russia o giù di lì. Pensava ai dossier. Su di lui. Su tutti. Che razza di società era? Un cesso di società, ovvio. E chiunque poteva accedervi. Beh, chi lavorava nell’amministrazione. E le aziende che li avevano raccolti. E i loro clienti che pagavano per le informazioni. E insomma molta più gente di quanto a lui piacesse. Brutta, brutta società.
C’era qualche modo di inserire una campagna del genere nel suo gioco? Agli utenti sarebbe piaciuta e aveva anche un gradevole gusto di protesta, che è buono per coinvolgere un certo tipo di gente. Di cosa si discusse durante la riunione colse solo qualche frammento, frasi circa l’inquinamento e forse l’estinzione di insetti, o magari non erano insetti ma roba simile. Cose che si estinguevano per una ragione o per l’altra. Poco interessante.
Di nuovo rifiutò l’invito ad andare a bere qualcosa e di nuovo divenne un personaggio da dialogo di Platone mentre Elena lo riaccompagnava a casa, riepilogando gli argomenti della serata e chiedendo di tanto in tanto la sua opinione. Che arrivava in monosillabi o frasi di tre parole al massimo.
«Cos’è, sei arrabbiato per la storia dei dossier?» gli chiese Elena, fermandosi davanti all’edificio in cui si trovava la tana di Ercole. «Non ha senso che te la prendi con me. Non sono io a compilarli.»
«No, non sono arrabbiato. Stavo solo...»
«...tenendo il muso, sì, me ne sono accorta.»
«Non stavo tenendo il muso. Sto solo cercando di abituarmi all’idea di società che mi hai descritto stasera. Al fatto di vivere in una boccia per pesci rossi, insomma. Non è quello che io definirei un pensiero felice, scusa se te lo faccio notare. È anche peggio di quanto immaginassi.»
«E non ci avevi mai pensato? Non ci avevi mai badato? Passerai ogni giorno davanti a citofoni che guardano i passanti, semafori che guardano le auto, strisce pedonali che studiano i pedoni, lampioni che osservano se c’è qualcuno nei paraggi, e non avevi mai pensato che qualcuno da qualche parte li avrebbe raccolti e usati, tutti quei dati? Che magari l’idea era proprio questa, cioè raccogliere dati e spiare, mentre i servizi offerti erano solo un piccolo extra, l’esca che copre l’amo?»
«Beh, se la metti così...»
«E in quale altro modo la vorresti mettere, scusa? Giusto per curiosità, dico.»
«Eh, beh, diciamo che, ecco, non avevo mai preso in considerazione il quadro nell’insieme. Ecco. Il coso, la prospettiva generale, insomma. La portata del fenomeno. Le dimensioni.»
Elena sospirò. «Sotto un sasso, appunto.»
Si salutarono con la promessa di incontrarsi al seguente forum. O convegno. O raduno. Ercole non aveva ancora idea di quale fosse il termine giusto per descrivere quelle piccole adunate, ma era solo un problema di vocabolario, dunque irrilevante. Semmai...
Sotto un sasso. E va bene, d’accordo, magari aveva trascorso la sua vita nascosto sotto a un sasso, lo stava ancora facendo e l’avrebbe fatto per il resto dei suoi giorni, ma anche lui aveva le sue ragioni, no? Sarebbe stato solo giusto prenderle in considerazione, prima di sputare sentenze.
Sarebbe stato solo giusto spiegare quelle ragioni, prima di fare l’offeso perché nessuno le capiva.
Quel pensiero non gli piacque per niente. Era un tradimento. La sua coscienza doveva collaborare, e collaborare con lui, non col nemico. Ammesso che ci fosse un nemico. Ok, allora diciamo con quelli che avevano opinioni diverse dalle sue. Non nemici, d’accordo, ma comunque oppositori, anche se su una scala estremamente piccola e insignificante.
Che poi, a volerla dire tutta, non aveva proprio trascorso tutta la sua vita sotto a un sasso. Ogni tanto era anche strisciato fuori. Si era mescolato agli altri. Ci aveva provato, almeno. Come ai tempi della scuola, per esempio. Era solo che, in un modo o nell’altro, finiva sempre per tornare sotto al sasso e nel suo magico isolamento. Per scelta sua o altrui, ancora non lo aveva capito bene. E comunque era un problema suo, no? Poteva volerne discutere, poteva non volerne discutere, ma il problema era in ogni caso suo e, ecco. Appunto. Sì.
Meglio andare a letto.
Così non fece. Nell’aria viziata del suo monolocale Ercole Brandelli accese il computer e cazzeggiò fin verso le due di notte, non perché avesse qualcosa da fare ma solo per il puro piacere di starsene al computer a cazzeggiare. Era uno di quei momenti in cui gli andava così. Aveva tanto per la testa e poca voglia di pensare, così si doveva tenere occupato in un qualche modo. Lo avrebbe aiutato poi a dormire, o forse no, ma di certo lo aiutava adesso a distrarsi.
Quando finalmente si coricò, rimase a rigirare come un lombrico per un’altra ora, prima di affogare in quello che doveva essere un sonno ristoratore. Non lo fu molto.
Sognò che era un ragazzino e tornava da scuola, ma c’era sua mamma sul balcone e lui non voleva farsi vedere, così faceva il giro sull’altro lato della casa, ma da quella parte c’era sua nonna davanti alla finestra, così aveva dovuto prendere un’altra strada ancora, ma dietro a ogni angolo trovava sua mamma al balcone o sua nonna alla finestra, oppure sua nonna al balcone o sua mamma alla finestra e lo guardavano, lo cercavano, così correva in collina e alla fine trovava un tunnel e il tunnel faceva tanti giri, si contorceva, ed era buio, ma in fondo al tunnel c’era una porta e dietro la porta casa sua.
Che era sotto a un sasso.
Al risveglio trovò un messaggio sul cellulare: sua sorella si lamentava perché lui non si faceva mai sentire. Ercole la invitò mentalmente a espletare certe necessità fisiologiche, chiedendosi poi quanto ci avrebbe messo quella rompiballe a capire che non si faceva sentire perché non la voleva sentire. Il sospetto le doveva pur essere venuto ormai, no? Ma non mollava, la piaga in culo umana.
Almeno lei non lavorava in comune. Se avesse mai scoperto il suo indirizzo, quella era capace come minimo di presentarsi sotto casa sua e suonare il citofono fino a slogarsi un dito. Orrore. Citofono non smart, ovvio: era tanto se quella topaia aveva un tetto, figurarsi aggeggi tecnologici.
Il ragno era appeso sotto la sua tela, come al solito. Doveva essere una posizione comoda, perché lo vedevi sempre così. De gustibus. «Niente mosche, mi spiace,» disse Ercole. Il ragno lo ignorò.
La notte aveva portato almeno un qualche tipo di consiglio, perché adesso aveva deciso quale fosse la posizione migliore da adottare di fronte alle notizie raccolte la sera prima. Lo spiavano ovunque? E lui li avrebbe ignorati. Non poteva farci niente ed era inutile guastarsi il sangue per qualcosa che era fuori della sua portata. Certo, avrebbe cercato di ridurre la propria esposizione, rendere magari più difficile mappare i suoi ritmi o roba simile, ma niente altro. Tanto ormai il danno era fatto.
Sì, si era lasciato disturbare troppo da quello che aveva sentito e aveva fatto pure la figura del fesso, come al solito. Niente più distrazioni del genere. Al prossimo incontro avrebbe ascoltato i discorsi e magari avrebbe anche partecipato al dibattito finale. Beh, diciamo solo alla chiacchierata in auto nel viaggio di ritorno, per cominciare. Era meglio procedere per gradi, un passo alla volta, con metodo.
E spiegare le ragioni per cui viveva sotto a un sasso?
Questo magari era troppo. Si diceva per gradi, no? Senza esagerare. E poi prima di spiegarle ad altri le avrebbe dovute capire lui stesso e, beh, questo poteva essere un problema. Aveva un sospetto, sì, e una idea generale che poteva essere o non essere corretta, ma di preciso, se proprio volete andare al punto, beh, non lo sapeva bene neanche lui. Lo faceva perché lo aveva sempre fatto.
E perché era più comodo. Meno contatti, meno problemi.
No, non è vero: era solo abitudine. Avrebbe potuto smettere quando voleva. Non aveva forse già un nuovo contatto? Una persona che vedeva? Con cui parlava e discuteva?
Se vuoi considerarlo parlare e discutere...
E va bene, ma in quale altro modo lo avrebbe dovuto considerare?
Come un atto di misericordia da parte di lei. Ha incontrato un vecchio amico, ha notato come si era ridotto, ha avuto compassione e adesso sta cercando di fare un poco di volontariato. Come lavorare alla mensa dei poveri, insomma, o aiutare all’ospizio.
Grazie della considerazione, eh? Mi ritieni davvero così ridotto male? Così pietoso?
Ercole Brandelli interruppe il dialogo interiore. Sì, si considerava davvero così ridotto male. Era un brutto pensiero, un pensiero triste, ma non poteva evitare di pensarlo. Perché era la realtà. O almeno vi assomigliava abbastanza da non fare alcune differenza concreta.
Rimase in casa per quasi tutta la settimana seguente, uscendo solo quando il frigo era vuoto o aveva altre necessità che lo obbligavano a uscire. Non erano molte. Adesso che ci pensava e si guardava in parte attorno, doveva ammettere che non conduceva una vita molto diversa da quella del ragno. Era triste, ma triste sul serio. Non che lui si sentisse triste, ma era triste pensare a qualcuno che viveva in quel modo. Soprattutto quando quel qualcuno eri proprio tu.
Il giorno della terza riunione si presentò sotto casa ad attendere con cinque minuti di anticipo. Elena ne fu sorpresa quando arrivò. «Come mai tanto entusiasmo? Sei caduto di testa dal letto?»
«Ho solo pensato che potrebbe essere utile allargare le mie prospettive.»
Lei lo guardò con molto sospetto, ma non rispose. Quella sera seguì l’intero dibattito senza badare a come erano vestiti o pettinati i tizi che prendevano la parola. Cercò anche di concentrarsi e capire di che stessero parlando, cosa non sempre facile perché spesso sembravano dare per scontato che tutti gli ascoltatori fossero già in possesso di certe informazioni che a Ercole mancavano. Non per questo si arrese. Usò il ragionamento e la logica per completare i discorsi frammentari, e la fantasia dove le prime due risorse non bastavano. Nel complesso, alla fine si sentiva di avere ottenuto risultati.
Il dibattito però non lo riuscì proprio a seguire. C’erano limiti a tutto.
Stavolta accettò l’invito a bere qualcosa, anche se le sue finanze e il suo scarso rapporto con l’alcool lo spinsero a orientarsi su una birra piccola. Elena lo guardò con una certa pietà ma non commentò.
Discussero dell’incontro a cui avevano appena assistito. Ercole cercò di dimostrare che stavolta era stato attento e aveva ascoltato tutto, ma indirettamente dimostrò anche di non avere capito tutto. Per essere generosi. Elena lo assecondò, intervenendo per integrare e spiegare ogni volta che non poteva farne a meno. Molto spesso, in altri termini.
«Stai cominciando davvero a interessarti, oppure hai proprio battuto la testa?» gli chiese poi.
«Sto cominciando davvero a interessarmi. Visto che devo assistere, tanto vale ascoltare e cercare di ricavarne qualcosa, no?»
«Non è che devi assistere. Se non ti interessa, basta dirlo. Nessuno ti costringe.»
«Tu mi hai praticamente costretto a partecipare, la prima volta. Lo hai già dimenticato?»
Elena sospirò. «Dicevo solo per scherzo. Ed era solo un modo per trascinarti all’aperto e ricordarti che esiste un mondo reale, qui fuori. Per quanti anni sei rimasto rinchiuso nella tua tana?»
«È una casa, non è una tana.»
«È una tana, perché ti ci rintani e ti nascondi dal mondo. D’accordo che hai studiato fuori sede, ma hai tagliato con tutti gli amici che avevi. E non erano molti. Non potevi riallacciare almeno qualche contatto, una volta laureato? O avevi così tanto da fare?»
E il discorso aveva già preso una piega pessima. Come raddrizzarlo? Ercole non lo sapeva, così aprì la bocca e rimase ad ascoltare cosa ne sarebbe uscito. A volte funzionava. Nei libri, almeno.
«Non l’ho fatto proprio apposta. È più, beh, andata così, capisci? Tipo palla di neve che rotola giù e crea una valanga, quel genere di cose. Tu fai solo il primo gesto, che magari è molto piccolo e tutto il resto viene da solo, per inerzia. E dopo un po’ non sapevo come rimediare o se ne valesse davvero la pena, per cui ho semplicemente lasciato che tutto rimanesse così. Era più semplice, no? O almeno a me lo sembrava. Più semplice per tutti, intendo.»
«E in tutti questi anni non hai mai fatto neppure un tentativo di contattare qualcuno di noi.»
«Beh, voglio dire, ormai avevate la vostra vita, no? Un mio ritorno non serviva più. Magari avrebbe anche dato fastidio, non so. E poi mi vergognavo.»
Elena lo guardava come se fosse uno spettacolo molto pietoso. Probabilmente lo era. Ma cos’altro si sarebbe dovuto inventare adesso? Era anche stato moderatamente sincero! Non poteva solo far finta di niente e lasciar cadere l’argomento? Parlare di quel che voleva, riscaldamento globale, estinzione degli insetti, il morbo dell’evasione fiscale, invasioni di locuste, altro ancora. Era davvero ingiusto.
«Comunque ormai è andata così e non ha più senso pensarci.»
Elena continuò a fissarlo ancora per un poco con una espressione di compatimento, poi si rassegnò. «Torniamo pure a parlare dell’incontro. È meglio.»
Tornarono pure a parlare degli incontri e dei partecipanti.
Elena gli spiegò che il tizio malvestito, che a quanto pare era stato condannato al nome di Riccardo Sgozzi e che al primo incontro aveva impressionato tanto Ercole, quella sera non aveva partecipato perché era impegnato con le prove di un nuovo lavoro che avrebbero portato in scena a breve. Forse avrebbe dovuto saltare anche il prossimo incontro ed era un peccato.
«Portare in scena? Cos’è, una specie di attore?»
«Riccardo è un attore, sì. Attore teatrale,» specificò Elena. «Presente il teatro?»
«Sì, ce l’ho presente. È questo il motivo per cui è vestito sempre così male? Pensavo di fare schifo io, ma lui mi batte. O non fa mai in tempo a cambiarsi e viene con gli abiti di scena?»
«Non lo so, immagino che sia un qualche vezzo da artista.»
«Artista, sì. Mettiamola così.»
«Guarda che è davvero un attore e anche piuttosto bravo. È stato anche il protagonista dell’ultimo lavoro che la sua compagnia ha portato in scena. Beh, coprotagonista, perché erano in due.»
«E che lavoro sarebbe stato? Giusto per curiosità, dico.»
Elena abbassò lo sguardo con aria rassegnata. «Inculerò il parroco.»
Ercole si prese un attimo di riflessione. «Come, scusa?»
«È il titolo dell’opera. Si chiama “Inculerò il parroco”. È un lavoro serio. Drammatico.»
«Per il parroco sicuramente.»
«Sei uno stupido. Il titolo fa schifo, lo so, ma la storia è interessante. È un dramma psicologico.»
«Dramma psicologico. Sì, beh, il titolo lo rende molto chiaro. Come avrò fatto a non pensarci?»
«Ascolta, è la storia di un uomo, chiamiamolo pure A, che ha avuto una infanzia terribile a causa di un bullo, chiamiamolo pure B, ok? Piena di traumi, umiliazioni, tormenti, eccetera. A abbandona il suo paese natale, studia, lavora, ha una vita di successo ma ancora non è riuscito a superare il suo passato. È incatenato ai traumi della sua infanzia.»
«Ok, fin qui niente di strano.»
«Quando A è sui cinquanta, uomo affermato e benestante, deve tornare al suo paese natale e scopre che il bullo di un tempo, B, vive ancora lì, ma adesso è diventato sacerdote, è il parroco della chiesa che avevano frequentato da bambini e nel cui oratorio B era solito tormentare A. Tutti rispettano B e sembra che abbia davvero cambiato vita, eccetera.»
«Ma A non gli crede.»
«Non è tanto che non gli crede. Non lo accetta proprio. A si trova davanti il bullo che gli ha rovinato l’infanzia e non vede neanche che è un uomo diverso. Vede solo il bullo, la causa di tutti i suoi mali. E decide di vendicarsi, di ricambiarlo.»
«Inculandolo?»
«Fammi continuare. A sequestra B e lo tiene prigioniero in un casolare abbandonato. Lo incatena. Si vuole vendicare e lo vuole umiliare il più possibile, ma non sa bene neanche lui cosa fare. Il grosso del lavoro si svolge lì: i due personaggi assieme nel casolare, uno carceriere e l’altro prigioniero, ed è uno scontro di volontà e personalità. L’uomo di successo diventa vendicatore, il bullo riformato è adesso la vittima, ma poi tutto si complica perché il lato violento di B pian piano riemerge, mentre A sembra sempre più vicino al collasso nervoso e... Beh, è un casino, davvero.»
«E tu lo sei andata a guardare? Sei veramente andata a comprare un biglietto per uno spettacolo che si chiama “Inculerò il parroco”? E hai portato qualche amica, già che c’eri? Oppure, non so, magari poteva essere appropriato per un appuntamento, non trovi? Per creare la giusta atmosfera.»
«Ahaha, spiritoso. No, ci sono andata da sola e, ok, lo spettacolo ha fatto schifo, ma solo perché lo hanno recitato male. Di per sé, l’idea è interessante.»
Ercole sospirò. «Penso che sia meglio cambiare di nuovo argomento.»
Lo cambiarono ed Elena gli raccontò che Oscar Damprè, un tizio che quella sera aveva parlato delle truffe praticate nel calcolo del carbonio prodotto, era anche un poeta dilettante e componeva sonetti sulla vita delle piccole e medie imprese in una società globalizzata sull’orlo del collasso ambientale e sociale, con un taglio decisamente cyberpunk.
Ercole provò a immaginare cosa ne potesse uscire, ma la sua fantasia chiuse e fuggì all’estero sotto falso nome, disperata. Non osò fare domande. Aveva il terrore delle risposte. C’era poi Gabriela Bo, che dipingeva parodie tragiche di opere famose, e Anita Ciuffi, che scolpiva scene della propria vita usando immondizia raccolta per strada. E altri, tanti altri. Troppi altri. La gente che frequentava gli incontri gli sembrava sempre più una collezione di casi umani all’ultimo stadio. Che fosse anche lui ridotto come loro? Era un pensiero terribile. Decise di non pensarlo più.
Era brutta l’idea di poter diventare così, se non lo era già. Forse era contagioso. Speriamo di no.
Nell’insieme, però, si divertì abbastanza a chiacchierare, anche se non tutti gli argomenti erano stati buoni o anche solo decenti. Aveva fatto bene ad accettare l’invito. Grossomodo. Soprattutto, doveva ammettere che era piacevole avere qualcuno con cui parlare. Anche solo di stupidaggini, per passare il tempo. Era un cambiamento. In meglio? Forse, ma era presto per dirlo.
Quella notte, di ritorno a casa, Ercole Brandelli fu accolto dall’inconfondibile ronzio di una cimice in libertà. Non fu un gran benvenuto, ma fu quello che ricevette. Dopo diversi tentativi a vuoto, la colpì al volo con una ciabatta e la spedì a sbattere contro il muro. Cadde a terra stordita, ma viva. Ercole la raccolse e la gettò nella ragnatela. Avrebbe avuto problemi con prede così grandi?
Non ne ebbe. Il ragno trafficò un poco all’inizio per morderla e imbozzolarla, ma alla fine cominciò pian piano a trascinare la cimice dietro l’armadio. Missione compiuta, si poteva dire. Ottimo. Tutto ciò gli aveva permesso di non pensare per quasi un quarto d’ora. Cosa poteva chiedere di più?
Beh, parecchie cose, in effetti, ma bisognava sapersi accontentare.
Non aveva voglia di sedersi al computer, così se ne andò a letto direttamente e senza passare dal via come gli capitava di rado. Magari avrebbe dormito. Magari avrebbe riposato. Magari il suo cervello sarebbe riuscito a produrre qualcosa di utile, invece della solita immondizia. Magari. E magari no.
Quando riuscì ad addormentarsi, sognò di essere al mare coi genitori. Era bambino, ma c’erano cose strane, tipo la scuola media costruita proprio sul bagnasciuga, come una villa abusiva qualunque, o la pista ciclabile che conduceva agli scogli. O il fatto che si fosse dimenticato il costume e cercava di coprirsi in un qualche modo, ma questo è un evento piuttosto comune in molti sogni, per cui non è il caso di darvi troppa importanza. Sono cose che capitano. Poi suonò la campanella, tutti corsero in classe e adesso lui aveva il suo bel costume, tutto a posto, solo che era l’unico in costume, i suoi compagni indossavano vestiti normali. E lo guardavano. E ridevano. Anzi, sghignazzavano.
Si svegliò con un vago aroma di cimice nelle narici. Ma lui non l’aveva spiaccicata: l’aveva presa e data al ragno ancora viva. Perché puzzava, allora? Perché probabilmente il ragno l’aveva uccisa e in parte mangiata? Ma non era giusto! Non dovevano puzzare se le uccideva un altro insetto. Era una mossa molto, molto sleale, ecco! Pure, l’aroma di cimice si sentiva. Fantastico.
Ercole infilò la testa sotto le lenzuola e provò a girarsi dall’altra parte, ma il sonno non tornò. Per un poco ancora rimase lì, sperando senza speranza, poi dovette arrendersi, alzarsi e aprire la finestra. Il fetore di cimice fu subito sostituito dal fetore di bruciato. Ma perché doveva esserci sempre puzza di bruciato? Cosa era che continuava a bruciare? Il culo di qualcuno?
Ricordò la conversazione della sera precedente e fu un brutto ricordare. La parte in cui Elena aveva parlato di lui e della sua decisione di nascondersi ed evitare gli altri, ovvio. La parte su stramberie e discutibili doti artistiche di altre persone era stata divertente. Quella su di lui, non proprio. Ma era a questa che pensava adesso. Alle critiche al suo modo di vivere. O non vivere.
Era un discorso che lo metteva a disagio. Lo faceva sentire in imbarazzo. Perché? Non lo sapeva di preciso, ma sapeva che per il futuro avrebbe fatto meglio a tenersi il più possibile lontano da certi argomenti. Che erano quasi tutti gli argomenti personali, in effetti. Meglio parlare di cose neutrali, inondazioni e disastri, scioglimento dei ghiacci, crisi alimentari e palle varie. Meglio quei problemi che questioni sue personali. Erano meno importanti.
Sì, ecco il profilo che avrebbe tenuto in futuro. Parlare di ambiente, sparlare di conferenzieri, una o due battute a casaccio, purché non avessero a che fare con lui, con Ercole. Ottimo proposito. Finché si manteneva su quella linea, nulla sarebbe potuto andare male. Era ovvio.
Lo fece, almeno per un poco. Tempo passò; gli utenti gli segnalarono errori nel suo gioco ed Ercole li corresse, trafficò attorno a una vaga idea di espansione che forse si sarebbe persa come le lacrime nella pioggia, alternò gioie e dolori davanti all’andamento delle donazioni, assistette ad altri incontri e di tanto in tanto si fermò a bere con Elena, ma sempre discutendo di argomenti innocui.
Non era un granché di vita, ma era la sua vita. Aveva aggiunto una espansione, ok, gli incontri con il gruppo una volta alla settimana o giù di lì, ma per il resto non sembrava cambiata tanto. Era un bene o un male? Ercole non lo sapeva e non gli interessava. Era tranquilla e prevedibile e tanto bastava al momento. Si accontentava. I grandi sommovimenti li lasciava volentieri ad altri.
Nel complesso, però, se costretto con una pistola alla tempia, Ercole Brandelli sarebbe stato prima o poi costretto ad ammettere che un poco era migliorata. La compagnia di un altro essere umano, per quanto sporadica, gli faceva bene. Produceva nuovi pensieri. Aveva idee diverse. Rispetto a infiniti monologhi, sentire una seconda voce era meglio. Almeno lo sembrava. E sì, doveva mmettere che Elena non gli dispiaceva neppure come persona. Da un certo punto di vista.
Per un poco nulla cambiò ed Ercole sentiva di aver quasi raggiunto una specie di equilibrio.
La quiete si interruppe verso la fine di un incontro, appena prima del dibattito finale a cui lui non aveva mai partecipato e non aveva la minima intenzione di partecipare mai. Poteva accettare di farsi vedere in mezzo a quella gente, alcuni erano intelligenti e interessanti da ascoltare, ma mischiarsi ai tizi invasati che sparavano domande di ogni tipo, in gran parte prive di senso? No. E ancora no.
Alla fine del suo discorso, un oratore (o conferenziere, o quello che era) annunciò un programma di azione diretta, perché informarsi era sacrosanto e sapere indispensabile, ma prima o poi bisognava anche fare. Non potevano restare seduti a guardare, giusto?
Ercole sarebbe rimasto molto volentieri seduto a guardare. La sua intera esistenza era stata costruita attorno alla idea di restare seduti a guardare. Perché mai avrebbe dovuto cambiare proprio adesso? E poi, cosa c’era di tanto male nel restare seduti a guardare? Milioni di persone ogni anno lo fanno nei cinema, negli stadi, nei palazzetti e così via. Era praticamente una professione. Era la base per la maggior parte delle professioni, almeno nel campo dello sport, delle arti, dello spettacolo e varianti sul tema del superfluo o dell’intrattenimento, a seconda dei punti di vista.
Che poi, cosa volevano fare di preciso quei tizi? Erano quattro gatti!
Risultò che non lo sapevano neppure loro. Il tizio che aveva aperto il discorso non lo disse e anche i partecipanti alla discussione successiva non avevano idee molto chiare. Si andava dalle proposte di scioperi a quelle di manifestazioni in piazza, passando per boicottaggi, picchetti (picchetti? Ancora li facevano da qualche parte? Incredibile), volantinaggio, piazze da prenotare, ponti da occupare e il menu poteva continuare ancora per almeno due pagine, senza esaurirsi.
La sola certezza era che nessuno ne aveva idea. Era rassicurante. Significava che stavano soltanto dando aria ai denti e in realtà non volevano fare davvero qualcosa. Potevano andare d’accordo per un altro po’, in apparenza. Nessun problema. Tutto come sempre. L’equilibrio poteva restare.
«Stai pensando che non si farà nulla, vero?» gli chiese Elena più tardi, mentre bevevano insieme.
«Sto solo pensando che non se ne farà nulla nell’immediato futuro,» specificò Ercole, con cautela.
«E la cosa ti fa sentire tranquillo, giusto? Avevi paura di essere costretto a prendere una posizione, a decidere. A impegnarti, magari.»
«Penso solo che sia meglio riflettere bene prima di agire, per non commettere errori.»
«Parli come se avessi una scopa infilata nel culo.»
«Ti garantisco che non ce l’ho. Ho controllato.»
«Ti credo sulla parola e non sono interessata a verificare o anche solo a conoscere altri dettagli.»
«Non avevo in programma di fornire altri dettagli, non ti preoccupare.»
Ci fu una pausa di silenzio. «Tu hai in programma di partecipare, se progetteranno qualcosa. Vero?» chiese poi Ercole. «Dico, se ci sarà qualcosa di concreto oltre le chiacchiere.»
Elena scrollò una spalla. «Probabile. Dipende da cosa sarà, ovvio. Agire mi interessa, purché sia una cosa utile, seria. Fare confusione e basta è una perdita di tempo.»
«Posizione condivisibile, in linea di massima.»
«Ma tu non parteciperai ugualmente, vero?»
«Vedremo.»
Che era da sempre la risposta standard di Ercole a ogni richiesta di impegno, anche solo per trovarsi e andare al cinema quando erano ragazzi. Lo sapevano entrambi e sorrisero senza commentare.
Al ritorno a casa, Ercole Brandelli trovò il ragno ad aspettarlo. O forse non lo stava aspettando, ma era appeso alla sua tela e rivolto grossomodo nella direzione della porta, per cui c’erano almeno gli estremi per immaginare che lo stesse aspettando. Soprattutto per una persona molto solitaria e sola.
«Non ho insetti per te, mi spiace.»
Si lavò, infilò il pigiama e sedette al computer. Che razza di manifestazioni poteva organizzare una combriccola di gente malmessa come quella? Poesie satiriche cyberpunk? Opere teatrali con titoli che non si potevano pronunciare in pubblico? Era curioso e cercò. Non informazioni su quel gruppo nello specifico, ovvio, ma sulle azioni compiute da gruppi analoghi in giro per il mondo. Non si era mai interessato a proteste e roba simile e poteva anche essere istruttivo. Giusto per farsi una idea, in linea di massima e di minima. Per sapere cosa aspettarsi realisticamente.
Non trovò molti articoli sulle azioni commesse, ma ce n’erano parecchi sulle reazioni ricevute. Solo per cominciare, erano molto più coloriti. Non solo in senso figurato. Li avevano colorati. Fatti neri.
Per quanto poteva vedere, ogni tipo di protesta sembrava concludersi con manganellate e arresti. Se tutto si risolveva per il meglio. Se non si risolveva per il meglio, intervenivano spesso i droni. C’era qualche video, ripreso da lontano. C’erano foto. Non erano una bella vista, anche se probabilmente sarebbero piaciute a un Bava Beccaris di passaggio. Era roba da medaglia, dopotutto.
Ercole non aveva mai pensato che i droni di sicurezza si potessero anche utilizzare in quel modo. La colpa era sua, che non aveva avuto abbastanza immaginazione e non si era ricordato dei loro cugini, che non erano proprio “di sicurezza” ed erano usati con allegria in mezzo mondo, per donare a tutti democrazia e una morte rapida. Almeno ai più fortunati. Ma viveva sotto a un sasso, lui: è sempre bene ricordarlo. Non c’erano molti droni sotto i sassi.
Non ancora.
Aveva cercato rassicurazioni, ma la ricerca era servita solo a spaventarlo. Ma erano tutte cose che accadevano altrove, non certo dalle sue parti e non certo per un gruppo di scalcagnati come quello attorno a cui gli era capitato di gravitare, di tanto in tanto (stava già prendendo le distanze, giusto per sicurezza), ma il fatto che potessero accadere era una pessima notizia.
Beh, non che lui avesse ragione di preoccuparsene, visto che non sarebbe mai andato alle iniziative che qualcuno poteva decidere di progettare. Ascoltarli sì, questo non era un problema, ma agire? Lo lasciava volentieri ad altri. La sua vita poteva non essere un granché e poteva averla sprecata quasi tutta, senza ricavarne neppure un ricordo decente, ma almeno era ancora intero e ci teneva a restarlo il più a lungo possibile. Grazie del pensiero.
Adesso avrebbe solo dovuto convincere Elena a lasciare perdere e tutto si sarebbe risolto bene.
Non avrebbe mai convinto Elena a lasciare perdere. Non se lei aveva già deciso di fare una cosa. Se era ancora in dubbio, invece, qualche piccola possibilità c’era. Magari non fermarla, ma correggere un poco la sua traiettoria? Sì, probabilmente ci sarebbe riuscito. Se. Se.
Non era una testona, Elena. Non lo era stata quando si erano conosciuti da giovani e non sembrava esserlo diventata adesso. Era però una persona molto decisa. Risoluta. A volte caparbia. Eufemismi vari che servivano a trasformare un difetto in un pregio, insomma. No, davvero: l’Elena che aveva conosciuto lui sapeva ciò che voleva, anche se poteva essere meno sicura sulla strada migliore per arrivarci. L’Elena attuale sembrava essere rimasta più o meno così, almeno in superficie. Se provava a parlarle razionalmente, con calma e preparando con cura il discorso, aveva almeno una possibilità di essere ascoltato e preso sul serio. Era un inizio. Valeva la pena di provare.
Con questa risoluzione, Ercole Brandelli spense tutto e andò a dormire. Nei giorni seguenti avrebbe dovuto cominciare a preparare il discorso, ma era spuntato un bug piuttosto grosso nel gioco e c’era voluto parecchio per localizzarlo e correggerlo, poi aveva dovuto rispondere a certi commenti, e una richiesta di aggiungere una nuova funzione era stata molto interessante e aveva dovuto studiare se ci fosse la possibilità di introdurla senza grandi modifiche al codice, e una cosa e l’altra e alla fine non ne fece alcunché. Ma non era un problema, il tempo non mancava.
Il loro progetto era ancora campato in aria, giusto?
Lo era e non lo era. All’incontro successivo nessuno aveva ancora proposto qualcosa di fattibile, ma il moderatore della serata, nientemeno che il celeberrimo attore teatrale Riccardo Sgozzi, vestito da imbecille come sempre, aveva formato quattro gruppi di discussione e affidato a ognuno l’incarico di presentare un programma quanto più dettagliato possibile per il tipo di azione che aveva deciso di eseguire. Parlatene tra voi, dateci dentro di brainstorming e fateci sapere.
Praticamente comitati. Ercole sorrise. Sarebbe finito tutto con un nulla di fatto, ovvio. Stupido lui a prenderli sul serio e preoccuparsi davvero. D’accordo, esisteva almeno una remota possibilità che i gruppi producessero un progetto che poteva davvero essere messo in pratica, prima o poi, ma non ci si poteva davvero spaventare per probabilità che erano una su un milione, anzi su un miliardo. Tanto valeva temere di essere ucciso da un meteorite in testa mentre si era in bagno. Era stupido. Davvero.
A volte però il meteorite ti colpisce davvero.
Giusto una settimana dopo arrivò la prima proposta. Era dettagliata. Era fattibile. Era semplice. Era anche fuori di testa, un piccolo dettaglio che in apparenza non disturbava nessuno. Almeno, nessuno disse di essere disturbato. Cosa pensassero davvero, poi, era un altro paio di maniche. Legate dietro la schiena, con ogni probabilità, secondo il modestissimo parere di Ercole.
La proposta si poteva riassumere così: bloccare la circolazione sulla A1, più o meno all’altezza del punto in cui l’Autobrennero vi si immetteva. In segno di protesta. Forte protesta. Per manifestare in modo chiaro e indubitabile tutto il nostro dissenso. Per causare danni senza danneggiare davvero. E così via, da un luogo comune all’altro. A volte poco comuni, ma sempre luoghi. Aria fritta. Fuffa.
A presentarla era stata Anita Ciuffi in persona, quella che scolpiva con l’immondizia. Portavoce del suo gruppo di discussione, formato da altri tre. Erano due gruppi da quattro e due da tre, il massimo che si potesse fare con una ventina di individui circa, non tutti con tempo libero o voglia di pensare a certa roba. Era molto triste. Ancora più triste perché Anita aveva portato una specie di bassorilievo scolpito su un rifiuto di plastica, per illustrare come immaginava si sarebbe svolta la loro azione.
Aveva molta fantasia, Ercole non lo poteva negare. E tantissimo ottimismo.
Agli ascoltatori sembrava piacere. Ne discussero a lungo, confrontando opinioni e proponendo qui e là qualche ritocco al programma, agli slogan, a questo e quello. Ercole Brandelli ascoltava incapace di credere davvero alle proprie orecchie. Pure, questi erano i suoni che raccoglievano, per cui c’era almeno una possibilità che stesse accadendo sul serio. No, cancella l’ultima parola: non c’era niente a cui si potesse appiccicare la parola “serio”, se non in forma strettamente negativa.
Si girò verso Elena, con la mezza idea di sussurrare un commento, ma non lo fece. Perché anche lei stava ascoltando. Non partecipava alla discussione, ma ascoltava. Sembrava quasi interessata. Poco convinta, grazie al cielo o a qualunque altra cosa ci sia, ma pur sempre interessata. Non era bene.
«Stai pensando davvero di partecipare?» le chiese sottovoce.
Elena non rispose, ma gli fece cenno di tacere. Pessimo segno. Ercole si guardò attorno, cercando di capire dalle facce degli altri quale fosse la loro opinione. Alcuni sembravano rapiti, altri perplessi e altri ancora increduli. Era già più incoraggiante. Finché le reazioni rimanevano diverse c’era sempre la possibilità che abbandonassero la follia. Il problema cominciava quando tutti erano ipnotizzati da una scemenza e decidevano di trasformarla in realtà. A quel punto potevi solo scappare.
C’era ancora spazio di manovra, per adesso. Respirò meglio.
Il dibattito proseguì, si infiammò, si calmò, si infiammò di nuovo. Avevano presentato soltanto uno dei piani di azione, soltanto il prodotto di un comitato. Cosa si sarebbero inventati gli altri? Peggio, Ercole non ne dubitava. Per dimostrarsi migliori dei primi, gli altri avrebbero sfornato qualcosa che sarebbe stato inimmaginabilmente peggiore. Pure, avrebbe fatto meglio a ricordare che lui, in realtà, non era parte di quella banda di scriteriati. Era un semplice spettatore: magari interessato, ma niente di più. Poteva tirarsi indietro in ogni momento e lo avrebbe fatto di sicuro.
«Stai pensando che il progetto è pazzo, ma sei tranquillo perché puoi tirarti indietro quando vuoi, ho ragione?» disse Elena, mentre lo riaccompagnava a casa a riunione conclusa.
Ercole trovava molto fastidioso essere letto così facilmente e di continuo, ma scrollò le spalle. «Più o meno così, qualcosa del genere. Il progetto è pazzo, ma nessuno mi costringerà a partecipare.»
«Questo no, io non ti costringerei mai. Ti ho invitato a venire alle riunioni per cercare di tirarti fuori dal guscio, ma partecipare a una manifestazione è altra cosa. Lo fai solo se lo desideri tu, nessuno di noi ha il diritto di costringerti e nessuno di noi lo farà.»
«Quindi tu andrai?»
Elena scrollò una spalla. «Può essere. Dipende da come si metterà. Il programma attuale è fumoso e mi convince poco. Se uscirà qualcosa di meglio, o se lo aggiusteranno, allora ci penserò.»
«Però non hai ancora deciso.»
«No, non ho ancora deciso. Perché ti interessa tanto?»
«Curiosità,» rispose. Ercole Brandelli avrebbe voluto dire che gli interessava tanto perché lei era la cosa più vicina a un’amica (o amico in generale, a prescindere dal genere) che lui avesse. Sempre se non voleva contare un ragno, ma quello lo avrebbe fatto sentire pazzo, oltre che patetico. Comunque loro erano amici, grossomodo, e lo disturbava molto l’idea che un’amica si andasse a infilare in quel casino, in compagnia di gente fuori di testa, rischiando chissà cosa.
Avrebbe poi potuto proseguire la spiegazione, aggiungendo altri dettagli che andavano a ripescare il passato lontano circa un quarto di secolo, metterli a confronto del presente e lanciarsi in un gioco di trova le differenze che, in concreto, sarebbe servito soltanto a sollevare una cortina fumogena dietro a cui nascondere certe cose che sì, magari avrebbe anche potuto dirle, però non gli sembrava il caso.
Avrebbe potuto in effetti lanciarsi in un monologo che li avrebbe tenuti occupati per qualche decina di chilometri, invece dei tre o quattro che dovevano percorrere. Ma non lo fece. Curiosità, disse.
Elena non insistette. Puntò invece in una direzione diversa. «Non è che stai facendo come i bambini che prima vogliono sapere se ci andrà il loro amico e poi decidono se andarci anche loro, per paura di rimanere da soli in un angolino?»
«Non sono un bambino,» bofonchiò Ercole.
«Il resto però non lo neghi.»
«Il resto lo ignoro e basta. Non ho intenzione di partecipare indipendentemente dalle tue scelte. Mi preoccupavo solo per te. Nel caso dovesse succedere qualcosa. Sai.»
«Fammi indovinare. Hai cercato informazioni su manifestazioni e proteste di questo genere, poi hai visto che molte si sono concluse con incidenti vari e così hai deciso che era pericoloso e non volevi farti male, quindi avresti girato alla larga da ogni attività.»
Ma era davvero così trasparente? O tutti sapevano già come avrebbe reagito in ogni situazione? Era molto frustrante. «In effetti mi sono documentato sui precedenti, sì.»
«Ma non hai controllato la data dei precedenti, giusto? È vero che in passato ci sono stati incidenti e alcuni anche piuttosto gravi, ma è da un po’ che non succede più. Non è che adesso riceviamo molto appoggio, ma almeno hanno smesso di rispondere con la repressione.»
«Lo dici tu. Ma è anche vero?»
Altra scrollata di spalla. «In linea di massima sì. Puoi sempre venire anche tu a verificare, se vuoi.»
Ercole ignorò l’ultimo commento. Ormai era arrivato, inutile proseguire la discussione. Magari alla prossima occasione, dopo avere avuto il tempo di controllare le date degli articoli che aveva letto. E tutto il resto poteva aspettare ancora di più. Ammesso che ci fosse un resto. Ma non c’era. Ovvio.
Ringraziò, salutò, scese. Si fermò un momento a guardare l’auto che si allontanava, non perché gli interessasse davvero, ma solo perché era un cliché che voleva provare in prima persona dal vivo. Lo facevano personaggi di film e romanzi, perché non avrebbe dovuto farlo anche lui? Poi l’auto svanì nel buio ed Ercole salì verso la sua tana.
Pensava a varie cose, tra cui che avrebbe fatto meglio a non pensare. Una rapida ricerca al computer gli confermò che sì, gli incidenti di cui aveva letto erano avvenuti almeno un anno prima. Nulla che fosse più recente, almeno tra i risultati nella storia del browser. Era possibile che ci fossero incidenti più recenti e che lui non li avesse trovati, ma di questo si sarebbe preoccupato poi, al limite. Adesso non ne aveva voglia. Adesso voleva solo... cazzeggiare, sì. Ecco cosa gli serviva.
Cazzeggiò.
Prima di andare a dormire afferrò una falena e la gettò al ragno. Non un granché, ma bisognava pure sapersi accontentare. Lui era un esperto in questo, dopotutto. Era una vita che si accontentava. Una vita che poteva anche non essere mai esistita, tanto poco gli era sembrato di viverla. Pazienza.
Si addormentò tardi, dormì male e lo svegliò un messaggio di sua sorella alle otto e qualcosa. Fuori pioveva. Ercole cancellò il messaggio senza leggerlo. Non ne valeva la pena, erano sempre cazzate, cazzate e lamentele. Gran brutta cosa la famiglia. Almeno la sua: sulle altre non si poteva esprimere, ma sulla sua poteva produrre un lungo elenco di lamentele e insulti. Irrilevante.
Aveva sognato qualcosa che non riusciva a ricordare bene. C’era di mezzo una caduta, per cui forse era il classico sogno di volare, riveduto e corretto per adattarlo al suo pessimismo. Oppure la caduta era meno grave, forse solo dalle scale, oppure era inciampato mentre correva. Sì, doveva essere una cosa del genere, gli suonava meglio. Caduto mentre correva. O camminava. Chissenefrega.
Ci fu qualche giorno di donazioni extra, per motivi che Ercole non sapeva ma che facevano comodo di sicuro. Si sarebbe potuto concedere qualche lusso extra, per esempio cibo non in offerta speciale, ma preferì invece qualche risparmio extra. Sul lungo termine era più utile, specie se considerava la fine che il cibo faceva. E i periodi di vacche grasse duravano poco, lo sapeva, tanto più che nel suo caso non erano proprio vacche e non erano mai così grasse. Criceti paffuti, al massimo.
Incontrò di nuovo Elena davanti al supermercato, stavolta a ruoli invertiti: lui usciva, lei entrava. Si parlarono un poco, lei scosse la testa guardando il genere di spesa che aveva fatto ma si astenne dal commentare. Non ce n’era bisogno: erano praticamente i prodotti stessi a gridare la totale incapacità in cucina di Ercole, sorvolando poi sulle sue ristrettezze economiche.
«Non per rigirare il coltello, ma non sembri molto una persona adulta, lo sai?» gli disse.
Ercole scrollò le spalle. «Sospetto di non esserlo. Una persona invecchiata, semmai.»
«Invecchiato senza maturare. Ci vuole scienza e anche costanza.»
«...è una citazione?» Infilava sempre qualche citazione, almeno da ragazza. E anche da adulta gliene aveva già sentite usare diverse, in auto o quando bevevano assieme.
«Potrebbe. Scoprilo tu, come compito per la prossima volta.»
«Penso che passerò, ma grazie del pensiero.»
Ci fu qualche altra chiacchiera irrilevante, un appuntamento per la prossima riunione, saluti. Niente altro di notabile accadde nei giorni successivi, che Ercole spese in gran parte al computer. Come la quasi totalità della sua vita, adulta o invecchiata che fosse. Sapeva che non era molto salutare, o non salutare e basta, ma era la sola cosa che sapesse fare. Aveva alternative?
Probabilmente sì, ma lui non le vedeva.
Ci furono incontri e ci furono proposte da due altri comitati. Erano peggiori della prima. Più assurde e pericolose, tanto per cominciare, e ancora meno realizzabili. Ercole lo aveva predetto e verificare di avere avuto ragione fu positivo per la sua autostima. Poteva essere scadente in quasi tutto il resto, ma almeno era ancora al top quando si trattava di aspettarsi il peggio dagli altri.
Non proprio qualcosa di cui vantarsi con gli amici, ma pazienza. In fondo non aveva molti amici e il vantarsi non aveva mai fatto parte del suo carattere, per assenza di cose positive di cui vantarsi.
Una soddisfazione ulteriore gli venne dall’osservare che anche la maggior parte degli altri presenti a quegli incontri sembrava trovare pessime le nuove proposte. Significava forse che non era del tutto ammattita, quella gente, e si poteva sperare che alla fine il progetto di azione si sarebbe dissolto in aria fritta. Un buon lieto fine, almeno dalla sua prospettiva, anche se Elena non la pensava così.
«Terranno la prima proposta, dopo averla modificata e corretta,» sosteneva lei. «Le altre serviranno solo a soddisfare l’ego di chi le ha avanzate, far vedere che loro sono i più duri e così via. Solo aria fritta, le definiresti tu. La prima sopravviverà e sarà ciò che faremo.»
«Faremo. Prima persona plurale. Quindi sei proprio decisa a partecipare?»
«Aspettiamo il risultato finale,» rispondeva sempre, e non aggiungeva altro. E aspettiamo il risultato finale, allora, anche se Ercole non aveva dubbi a riguardo. Bloccare un’autostrada? La più trafficata d’Italia? E proprio nel punto in cui si intrecciava con un’altra autostrada molto trafficata? Pazzia.
Lui non avrebbe mai partecipato. Ovvio. Sicuro. Non che lo avrebbero mai fatto davvero, sia chiaro. Si sarebbero accorti da soli che era una pazzia. Presto o tardi. Prima o poi. Ma se anche quei pazzi non se ne fossero accorti, lui non avrebbe partecipato. E... Ma era meglio non pensarci.
E non ci pensò, o almeno cercò di, ma il risultato si sa: più cerchi di non pensare a una cosa e più ci pensi. Perché pensi di non doverci pensare. Quindi ci pensi. Per non pensarci. E così via. Poi venne il giorno in cui la decisione fu presa e lui non riuscì più a pensare ad altro.
In realtà non era giorno ma sera, ma questi dettagli sono irrilevanti. Rilevante è che durante un altro incontro, parecchio noioso e inutile secondo il modesto parere di Ercole, in mezzo a un vociare che ricordava una scolaresca agli ultimi minuti dell’ultima ora del sabato, le proposte alternative furono bocciate e si decise di procedere col blocco autostradale. Follia, resa ancora più ridicola dal costante ricorso a passivi e altre forme indirette da parte del moderatore, che stavolta era Oscar il poeta, ma quella pareva una serata sacra a madama Morìa e il risultato fu la scelta del blocco autostradale per protestare in modo forte. Dettagli da definire, ci penseremo più avanti, ma lo faremo. Vedrete.
«E tu sei sempre decisa a partecipare?» chiese poi a Elena nell’aria relativamente fresca della sera tarda. Puzzava vagamente di bruciato, ma Ercole quasi non lo notò.
«Come ti ho già detto più volte, dipende dai dettagli. A ogni modo sì, se sistemano un paio di punti che non mi convincono, parteciperò. Se non li sistemano, valuterò. Forse andrò comunque.»
Ercole si masticò per un poco le labbra, senza commentare. Guardava in basso.
«A ogni modo, per te cosa cambia? Non verrai comunque, no?» gli disse poi Elena.
«Certo che non verrò. È una follia. Mettersi in mezzo a un’autostrada a fare il muro umano? Buttati di testa da un grattacielo e forse ti farai meno male.»
«Non funziona così ed è un tipo di protesta che hanno già fatto in altri paesi. E poi ripeto: per te che differenza fa? Hai già deciso di non venire, giusto? Non saresti venuto neppure se fossimo andati in centro a distribuire volantini. Per te non è una questione di sicurezza, ma di partecipare. Non ti vuoi fare vedere. Tutto il resto è solo un dettaglio, una cornice.»
Ercole continuò a masticarsi le labbra. Come rispondere? Cosa rispondere? Aveva varie opzioni, ma nessuna che gli piacesse e la verità era fuori questione. Così tacque e borbottò qualcosa di vago, sul tema di un generale malcontento malmostoso.
Nei due incontri successivi ogni altra discussione fu accantonata e si parlò solo del loro progetto di mobilitazione, correggendo qualcosa qui, cambiando qualcos’altro là, assegnando incarichi in primo luogo per i preparativi e poi, in forma molto più provvisoria, per l’operazione vera e propria.
Operazione! Così avevano cominciato a chiamarla. Roba da matti. Ercole si guardava attorno in uno stato di blanda confusione e su molte facce vedeva la stessa espressione di entusiasmo, quasi mania. Lo preoccupava. Lo preoccupava parecchio. Qualunque cosa fosse stato all’inizio, quel gruppo oggi sembrava un branco di invasati, i fanatici di un qualche movimento pseudoreligioso. Mancava solo il santone, un guru barbuto e vestito da fesso, e poi la commedia era pronta.
La tragicommedia, secondo il suo modesto parere. Roba che neanche l’attore del parroco.
Unica consolazione che riuscisse a trovare, al momento, era vedere che Elena almeno non sembrava così fanatica. Era attiva, ok, e discuteva, ma con modi posati e toni tranquilli. Interessata ad andare, ma non smaniosa. O qualcosa del genere. Ercole non sapeva quale fosse l’aggettivo più indicato per descrivere l’atmosfera generale, ma sapeva che non gli piaceva.
Anche altre persone, ai margini, si mantenevano piuttosto tranquille, e almeno tre sembravano quasi preoccupate, ma non contavano. Ercole Brandelli non le conosceva né era interessato a conoscerle e dunque non erano importanti, semplici comparse sullo sfondo del magico film che gli scorreva nel cranio. Non che lui fosse un granché come protagonista, ma il film era suo e quindi tutto gli girava inevitabilmente attorno. Mentre lui stava immobile, tolemaicamente.
Sapeva che avrebbe dovuto dire qualcosa, per tentare almeno di convincere Elena a lasciare perdere quella follia, ma cosa poteva dire, di preciso? Non lo sapeva. E poi probabilmente non sarebbe mai servito, quindi era forse meglio restare zitto, ritirarsi sotto la tenda ad attendere il risultato e sperare in bene, che non ci sarebbero stati incidenti e che magari in futuro ne avrebbero riso assieme.
Ecco due nuovi pensieri: futuro e assieme. Non due parole che usava spesso nei suoi monologhi o in altro tipo di riflessione. Non le usava certo in positivo o aspettandosi qualcosa. Perché lo aveva fatto stavolta? Si era probabilmente lasciato contaminare in piccola parte dall’atmosfera nel cinema. Sì, il più piccolo dei raffreddori verbali. Niente di rilevante. Ovvio.
Sua sorella gli telefonò due giorni dopo l’ultima riunione. Era mattino e lui era ancora a letto. Non il modo migliore per cominciare una giornata. E infatti sarebbe continuata peggio, ma Ercole ancora non lo sapeva ed era un bene per lui.
Sua sorella. Quella rompipalle. Gli aveva mandato altri messaggi nei giorni precedenti e lui li aveva cestinati senza leggerli. Adesso lo chiamava. Non ci voleva un genio per capire la connessione, ma cosa aveva di tanto importante da dirgli? Era schiattato qualche altro cugino super-remoto, di cui lui non aveva mai neppure conosciuto il nome? O era il turno di una qualche prozia centenaria? Quelle non mancavano ed erano la causa prima dei numerosi cugini sparpagliati ovunque. Una rottura.
Era stato anche quasi entusiasta, quando aveva notato la chiamata in arrivo. Aveva pensato che fosse Elena, una delle poche forme di vita a conoscenza del suo numero, nonché unica ad averlo usato in tempi recenti. Leggere sul display il nome di sua sorella fu una secchiata di azoto liquido. Lo lasciò vibrare per un poco, sperando che smettesse da solo. Invece continuava. Gli toccava rispondere per davvero, se si voleva liberare della piaga da decubito. Quanta pazienza. Rispose.
Saluti, grugniti, il prologo di cortesie sbrigato in una qualche maniera. Poi, la bomba.
«Ercole, non andare alla manifestazione.»
«Quale manifestazione?»
«Lo sai. Quella organizzata dai tuoi amici. Non ci andare.»
Ci sarebbe stato molto da dire, a cominciare dal fatto che lui non aveva amici (triste ma vero) e che, se mai ne avesse avuti, sicuramente non avrebbero organizzato manifestazioni, e poi come faceva a sapere lei della manifestazione se viveva in un’altra regione (deo gratias), adesso me lo spieghi. Ma non lo disse. Stava pensando.
Pensava a Elena e il suo discorso sui dossier, a come lei aveva trovato il suo indirizzo giusto perché lavorava in comune e poteva accedere alla sua cartella. Sua sorella non lavorava in comune, ma era sposata a un qualche tipo di sbirro, non ricordava di preciso la sua categoria, ma se era uno sbirro, e di questo era quasi sicuro, allora probabilmente anche lui aveva accesso ai dossier. O a certi dossier. E informazioni affini. E questo e quello. Spiegava molto ma non tutto. Ed era inquietante.
«Non ho alcuna intenzione di partecipare ad alcuna manifestazione,» le rispose, orgoglioso a modo suo del doppio uso di “alcuna”. Era un aggettivo che gli piaceva molto nelle frasi negative.
«Tu non partecipare. Andrà a finire male.»
«E tu cosa ne sai, scusa?»
«Me lo ha detto Luca. Loro lo sanno. La polizia.»
Ah, dunque era poliziotto e apparentemente si chiamava Luca. Ercole spulciò in fretta la memoria, ma non ne trovò tracce. Doveva essergli entrato da un orecchio e uscito dall’altro. Ricordava più o meno un tizio che sembrava la tipica caricature di un carabiniere, appena uscito da una barzelletta. In realtà, invece, era un poliziotto. Oh beh, cambiava poco. Giusto il costume da carnevale.
«Spiega,» le disse.
Sua sorella spiegò. Poco e confuso, ma non ci si poteva aspettare molto da lei. Era comunque più di zero, come informazioni. Ringraziò alla meno peggio, confermò di nuovo che non sarebbe andato e chiuse tutto. Che fastidio! Non solo gli rompeva le palle, ma gli dava anche cattive notizie. E ordini.
Ok, dunque servivano a questo i messaggi che non aveva letto. I più recenti, almeno. A dirgli di non andare alla manifestazione, perché i manifestanti avrebbero trovato un comitato di benvenuto molto appassionato ma di poche parole. Favoloso. Più o meno quello che aveva temuto lui, ma ricevere la conferma ai suoi sospetti non lo rallegrò. E adesso?
Non sarebbe andato, ovvio. Non aveva mai avuto intenzione di andare e dopo questa, beh, soltanto il più stupido degli stupidi sarebbe andato e lui non lo era. Aveva incalcolabili altri difetti ed era lui il primo ad ammetterlo, ma il masochismo gli mancava. Almeno sul piano fisico. Quindi, niente da fare. Tanti saluti alla manifestazione e a tutti quelli che...
Si fermò. Avrebbe dovuto avvertire gli altri?
Cancella. Chissenefrega degli altri. Avrebbe dovuto avvertire Elena? Era la prima cosa da fare e con la nuova notizia lo avrebbe ascoltato di sicuro. Un conto era accettare il rischio che si verificasse un qualche problema e le cose potessero andare male, ma qui c’era la certezza, e in anticipo, che tutto si sarebbe risolto nel peggiore dei modi possibili. Lasciare perdere era la sola risposta sensata, no?
Ercole attese un orario più decente, calcolò grossomodo quando non sarebbe stata al lavoro e infine chiamò. Era un poco agitato: non aveva più dovuto chiamare qualcuno da almeno un decennio. Non si era neppure immaginato di avere di nuovo bisogno di chiamare qualcuno, se non magari il pronto soccorso o cose simili. La vita riserva sempre sorprese. Non necessariamente belle.
«Pronto?»
Ercole si lanciò subito nel suo racconto, esitando e balbettando di tanto in tanto perché non era più abituato a parlare così a lungo. Non che fosse mai stato un oratore, ma questo è un altro discorso. Fu quasi un peccato che Elena lo interrompesse molto presto.
«Aspetta. Frena. Stop! Se quello che ho capito è giusto, meglio vederci di persona per parlarne.»
Ercole non aveva obiezioni. «Dove?»
«Riesci a passare da me dopo cena?»
«Eh... non so dove sia.»
Elena glielo spiegò. «Adesso pensi di riuscirci?»
«Suppongo di sì.»
«Allora ti aspetto. Facciamo dopo le venti.»
Non il risultato che Ercole Brandelli si sarebbe aspettato, ma non se ne lamentò. Aveva senso, se ci pensava, e più tardi ci pensò davvero, mentre camminava per le vie del paese. Se esisteva davvero tutta quella sorveglianza, allora la linea telefonica poteva non essere sicura. Divertente. Era un poco come essere in una storia di spie e intrighi vari. Lui non poteva proprio essere descritto come 007, anche se molti non avrebbero avuto problemi a considerarlo uno zero, però... sì, la situazione aveva un suo fascino. Anche perché, da un certo punto di vista, sarebbe stato l’eroe che salvava tutti.
O almeno così amava immaginare Ercole, tirato a lustro nei limiti del possibile e diretto verso la sua destinazione, controllando di tanto in tanto l’indirizzo per essere sicuro di non sbagliare. Ripassava anche tutto ciò che gli aveva detto al telefono sua sorella, ma per qualche motivo non riusciva più di tanto a concentrarsi su quella rompiscatole. Aveva altro per la testa.
Arrivò, suonò, salì e si trovò in un appartamento che era tanto diverso dal suo quanto... beh, gli era difficile trovare due termini di paragone appropriati. Di sicuro la sua tana poteva essere considerata il gabinetto di un autogrill. La casa di Elena era probabilmente un posto normale, anche se lui non aveva abbastanza esperienza in fatto di residenze altrui per un confronto significativo.
Irrilevante. Era piuttosto spaziosa, era arredata decentemente, c’erano addirittura soprammobili e un paio di quadri alle pareti, roba che serviva solo ad abbellire un posto, almeno secondo i gusti di chi ci abitava. Nella tana di Ercole il massimo che potevi trovare come addobbi erano le ragnatele. E le pareti avevano solo macchie di umidità, non certo quadri. Oh, sì, anche la sua laurea, ma contava di fatto come una macchia di umidità di forma strana. Per quello che gli era servita...
Ercole guardava e proseguiva il confronto mentale, sempre più impietoso. L’appartamento di Elena aveva una temperatura accettabile e non puzzava di cantina, anzi. Aveva un odore che non sapeva di preciso come definire, ma era piacevole. Il salotto era luminoso, non una grotta da Neanderthal. No, neanche da Neanderthal: loro le decoravano con disegni e incisioni, mentre Ercole non si predeva neppure quella briga. Era inferiore a un Neanderthal.
Ma la differenza più grande era Elena che gli dava il benvenuto, lo faceva accomodare e insomma si comportava da padrona di casa educata. Viveva da sola, in apparenza. Niente che Ercole non avesse già capito, ma era un dettaglio interessante. Specie perché era sbagliato. Giusto il tempo di sedersi su una poltrona e un cane di taglia mediopiccola e di razza indefinita sbucò da dietro un angolo e gli balzò addosso. Dritto in grembo. Per così dire.
«Ah, vedo che avete già fatto amicizia, tu e Charlie.» Charlie? Ercole poté solo sospirare dentro, di fronte alla moda di dare nomi stranieri agli animali domestici. Piuttosto assurda, per come la vedeva lui, ma non era un problema reale, non al momento. Al momento il suo problema era il minuscolo universo personale di agonia in cui stava vivendo, e non moto bene. Ma sarebbe passato.
Dopo qualche minuto, quando si fu ripreso ed ebbe messo da parte il gentile cagnolino, soltanto un incidente, cose che capitano, niente di grave, finalmente fu tempo di parlare. E raccontare.
Spiegò della telefonata ricevuta dalla sorella, il suo avviso, questo e quello, ripetendosi più volte, di tanto in tanto ritornando indietro perché aveva dimenticato qualcosa e insomma impiegandoci circa il triplo di quanto sarebbe stato necessario a una persona normale. Ma lui non lo era, dopotutto. Era un ercolebrandelli con gravi problemi di comunicazione causati dalla scarsa abitudine in materia. E la scarsa pratica. E forse la scarsa attitudine di base. E insomma era scarso in tutto.
«Fammi capire,» disse poi Elena. «Tua sorella è sposata con un... carabiniere?»
«Ah, no, scusa: è un poliziotto. Voglio dire, sembra un carabiniere: se lo vedi, te lo puoi immaginare benissimo in una barzelletta, ecco, ma...»
Lo interruppe con un gesto della mano. «Poliziotto, d’accordo. E ha detto a sua moglie, che sarebbe tua sorella, che avevano in programma di bloccare la manifestazione con le buone o le cattive?»
«Più che altro l’ha avvisata di avvisarmi di non andare, dopo che ha visto che c’era in mezzo anche il mio nome. Comunque sì, se bloccherete l’autostrada, vi spiegheranno che non è una buona idea a manganellate. O giù di lì. Con la forza, in ogni caso.»
«D’accordo, fin qui ci siamo. Avvisiamo gli altri e procediamo con una riunione di emergenza.»
«Beh, non è strettamente necessario,» disse Ercole con tempismo pessimo.
Elena lo fissò. «Cosa significa che non è strettamente necessario, scusa?»
Il tono di voce suggerì a Ercole che aveva appena calpestato un residuo organico di scarto parecchio grosso. Praticamente sfornato da un brontosauro. «Beh, voglio dire, sì, certo, avvertiamoli, ovvio, lo dicevo solo per... sì.»
«Dicevi solo per? Continua, è interessante.»
Era probabilmente troppo tardi per avvalersi della facoltà di non rispondere. «Ok, sì, informiamoli, avvisiamoli, così potranno decidere come preferiscono. Sicuro. Ma il punto è che non volevo che ci finissi di mezzo tu. Oggettivamente, gli altri non li conosco. Tu sì. Quindi...»
«Quindi?»
«Niente, è solo un quindi. Finisce così. Quindi. Punto.»
Elena continuò a fissarlo ancora per un poco, ma Ercole rimase zitto. Alla fine sospirò, scuotendo la testa. «Va bene, ti ringrazio per avermi avvisata. Contatterò gli altri, quelli che posso raggiungere, e al prossimo incontro ne discuteremo. Immagino che dovremo anche cambiare posto. Ci sarai?»
«All’incontro? Penso di sì.»
«E alla manifestazione?»
«Ah. La farete lo stesso?»
«Ne discuteremo, ma penso di sì. Perché? È un problema?»
«Sì,» avrebbe dovuto e voluto rispondere Ercole. Non lo fece. Era quasi sicuro di avere commesso già un qualche errore di comunicazione nel corso della serata ed era probabilmente meglio evitarne altri. Chissà poi perché. Dopotutto si era comportato nel modo corretto, avvisandola del pericolo. Si sarebbe forse dovuto fingere più preoccupato per gli altri? Ma neppure conosceva i loro nomi! Cosa gliene poteva fregare se volevano farsi manganellare? L’importante era che le manganellate non se le prendesse lei, giusto? Ed era questo che lui voleva evitare. Che strana situazione.
Ercole sospirò. «Sai che potrebbe andare a finire male, vero?»
«Sì, me lo hai appena detto.»
«Ecco, e io vorrei che non succedesse qualcosa di male a te. Tutto qui.»
«Lo capisco e ti ringrazio.»
Ercole si arrese. Dopo un’ultima carezza al cane, salutò e si ritirò, sconfitto senza sapere perché. Le cose non erano andate come si era immaginato lui ma, beh, quando mai lo avevano fatto? Mai, no? Tutto normale, da un certo punto di vista. E adesso?
Tornò a casa e vi trovò una cimice ad aspettarlo. Ronzava allegra in giro per la stanza. Un fantastico benvenuto. Ercole alla fine riuscì a stordirla e la consegnò al ragno. Che si divertisse almeno lui, già che c’era. Se poi stavolta evitava di far puzzare l’appartamento, tanto di guadagnato.
Cosa era andato storto? Più o meno tutto, d’accordo, ma di preciso? Ercole non lo sapeva e neppure credeva che avesse qualche importanza, a quel punto. La sola cosa che si sentiva di fare, adesso, era di aspettare e vedere. La sua specialità, dopotutto. Aspettare e vedere cosa avrebbero fatto gli altri.
Prima di dormire, inumato nel comodissimo letto, le libere associazioni di pensieri che intasavano la mente di Ercole e che di solito precedevano il sonno si avviluppavano attorno a due nodi: era stato a casa di Elena; non avevano mai parlato di se stessi. Non c’era una connessione vera e propria, ma le poteva quasi considerare due facce di uno stesso... cosa? Problema? Forse, ma non proprio. Non era un problema, anche se poteva essere il sintomo di un problema. O forse no. Non ne aveva idea.
Aveva idea che sì, lui non le aveva mai parlato di sé, per ovvie ragioni, e neppure lei si era lanciata in discussioni personali, per qualche ragione. Avevano mantenuto un muro. O una barriera, una terra di nessuno, uno stato cuscinetto concordato in silenzio. Fino a quella sera non aveva neppure saputo che esistesse un cane. Niente di importante, ovvio, ma era simbolico, anche se Ercole non sapeva di cosa fosse simbolico. Simbolismo generico alla maniera di Moby Dick, con tutta probabilità. Scegli una immagine e assegnagli il significato che preferisci.
Avrebbe dovuto fare qualche domanda lui? Non necessariamente quella sera, ma in precedenza. Era possibile. Forse lei se lo aspettava. Anzi no, non se lo era aspettato di sicuro: Elena sapeva che lui e le domande personali non andavano d’accordo. Non ne aveva mai fatte ai tempi, a nessuno, e non le avrebbe certo cominciate a fare adesso. Quindi non era un problema.
Solo che lo era. A un qualche livello. Ma quale?
Ercole scivolò nel sonno prima di trovare una risposta, ammesso e non concesso che ne avrebbe mai trovata una. Il mattino dopo ricordava ancora una parte delle sue seghe mentali notturne, ma erano o sembravano meno importanti, più inutili, irrilevanti. Seghe mentali, appunto. Sarebbero mai servite a cambiare qualcosa? Secondo il suo modesto parere, no. Quindi poteva passare oltre e proseguire con la sua specialità: non fare alcunché.
Aspettò e vide. Lavoricchiò un poco al computer, ma mancavano sia la voglia che la concentrazione e il risultato fu nullo. Rispose a qualche commento, promise che avrebbe considerato i suggerimenti più fattibili, rimandò, perse tempo. Di nuovo, la sua specialità.
Venne la sera dell’incontro. Elena lo passò a prendere, perché diceva che lui non avrebbe trovato da solo il posto. Probabilmente aveva ragione, perché era in una specie di scantinato, forse magazzino in disuso, forse tana di un serial killer utilizzata in un qualche film horror. Lo spazio era poco e pure i presenti, per cui tutto si bilanciava, a modo suo. Ercole si infrattò nella penombra sullo sfondo, da dove poteva grossomodo vedere il palco (palco! Un paio di scatoloni affiancati) senza farsi vedere.
Non che qualcuno fosse interessato a lui. Nessuno era mai sembrato interessato a lui o al fatto che si presentasse agli incontri senza dare mai segni di vita. Forse lo consideravano un soprammobile, una parte dell’arredamento. Normale amministrazione: gran parte della sua adolescenza era passata cosi. Ed Elena magari gli teneva il muso perché non era interessato se quei tizi si facevano manganellare! Come se loro fossero interessati a lui. Roba da matti.
Non che gli stesse tenendo davvero il muso. Era stata amichevole e gentile durante il breve viaggio, più o meno come lo era sempre, ma a un qualche livello gli avrebbe anche potuto tenere il muso, in teoria, e questo era ingiusto. Ecco. Poi si accorse delle scemenze che stava pensando ed ebbe voglia di prendere a testate il muro. Non lo fece. C’era il rischio che crollasse.
Cominciò l’incontro e ci fu una sorpresa. Elena salì sul palco e spiegò quanto le aveva raccontato lui. Solo l’essenziale, niente nomi e dettagli specifici. Soprattutto, nessun riferimento diretto a lui. È vero, in un paio di occasioni Elena lo aveva guardato mentre parlava, ma forse era solo girata nella sua direzione generale e non lo stava proprio fissando. In ogni caso era irrilevante.
Ercole apprezzò il non essere stato chiamato in causa, ma allo stesso tempo lo infastidì un poco non avere ricevuto alcun riconoscimento. Non voleva far sapere che era stato lui, ma non gli piaceva che nessuno sapesse che era stato lui: un tipo di contraddizione molto frequente nella umanità, o almeno in un suo sottoinsieme piuttosto specifico.
Finito il racconto, Elena tornò a mischiarsi alla scarsa folla. Ci furono discussioni, scambi di idee e di accuse, tentativi di dare la colpa a qualcuno, anche se nessuno sembrava sicuro di quale fosse poi la colpa, ma un colpevole avrebbe fatto bene al morale, così lo cercarono per un poco. Inutilmente. Si tornò a discutere su come agire, ci furono proposte e lamentele e alla fine si decise per alzata di mano che avrebbero continuato. Con cautela, ma non si sarebbero lasciati intimidire. E comunque il progetto non si poteva più bloccare, gli altri gruppi sarebbero andati lo stesso, eccetera eccetera.
«Quali altri gruppi?» Ercole chiese sottovoce a Elena, che si era venuta a sistemare di fianco a lui.
«Gli altri gruppi, no? Pensavi che ci saremmo stati solo noi? In quattro gatti?»
Sì, Ercole lo aveva pensato. O meglio, non ci aveva pensato davvero, ma era quello che aveva dato per scontato, almeno a un certo livello della sua mente conscia o inconscia. Anche per questo gli era sembrata una follia. Rimaneva una follia anche se coinvolgeva più gente, ma almeno aveva un poco di senso in più. Molto poco, sia chiaro. Giusto una briciola.
«Dunque quanti sarebbero?»
«Di preciso non so, ma verranno da tutta la regione e dai dintorni. Sarà una mobilitazione piuttosto grande, per questo non puoi aspettarti che sia cancellata di colpo. Ma ne parleremo poi.»
Ne parlarono poi, al ritorno, anche se gran parte del dialogo si svolse parcheggiati davanti alla tana di Ercole. Era un dialogo piuttosto lungo, ben più della strada da percorrere. Ma parlarono.
«Ho visto che ti sei guardato bene dall’alzare la mano, durante la votazione. Sempre deciso a stare a casa? Nessuna sorpresa dell’ultimo minuto?» disse Elena.
Ercole non poteva negare e infatti non lo negò. Non sarebbe andato. «Tu invece sei davvero decisa a partecipare? Nonostante tutto?»
Elena scrollò una spalla. «Sì, ci sarò. Siamo arrivati fin qui, tanto vale vedere come finisce.»
«Ma perché?»
«Proprio non lo riesci a immaginare?»
«Posso immaginare diverse risposte, ma nessuna che abbia senso. Non per me, almeno.»
«Ok, te lo spiegherò, così finirai di chiedere. Hai presente casa mia? Ci sei stato, la ricorderai.»
«Sì. Beh, grossomodo; se non mi chiedi una descrizione dettagliata dell’arredamento, ecco.»
«L’arredamento non conta. C’ero io e c’era Charlie.»
«Charlie?»
«Il cane. Ti avevo anche detto il nome, ma probabilmente non mi stavi ascoltando.»
«Qualcosa del genere, sì.» Ercole ricordava bene la presentazione dolorosa del cane, ma il nome gli doveva essere fuggito dalla memoria, forse per la vergogna. Charlie il cane. Oh beh, tutti i gusti son gusti, oppure son guasti, come diceva da ragazzo. Non un gran modo di dire, ma in fondo a usarlo non era stato un granché di ragazzo, diventato poi non un granché di adulto. Tutto si bilanciava.
«Ora, non mi sto lamentando della mia vita. Poteva andarmi molto peggio. Tipo la tua, insomma.»
«Grazie del pensiero gentile.»
«Ma è vero e lo sai.»
«Non lo posso negare.»
«Ok. Comunque, ho un lavoro. Non mi diverto, ma è accettabile. Ho un cane. È una compagnia. Ho amicizie, anche se nessuna particolarmente forte. Ho stabilità, che è molto. Ho varie cose, ma sono un’accozzaglia separata. Capisci?»
Ercole annuì, fingendo di capire. Meglio vedere prima dove volesse andare a parare quel discorso e poi, ma solo poi, magari sarebbe intervenuto per dire la sua. Se necessario. E se gli fosse venuto in mente qualcosa di non troppo stupido. Aspettare, giusto.
Elena lo fissò. «No che non capisci, ma magari capirai dopo, quando avrò finito di spiegare.»
«Prosegui pure, sono tutto orecchi.» Il che conteneva una traccia di verità: le orecchie di Ercole non erano proprio di piccola taglia, anzi, ed erano piuttosto sporgenti, anche se si pettinava per coprirle.
«Il punto è che non ho uno scopo. Mi sento completa così come sono, certo, ma resto comunque un qualcosa di completo che va avanti per inerzia, senza un obiettivo. Non ai tuoi livelli, intendiamoci, ma suppongo che sia qualcosa di simile.»
«La tua gentilezza mi scalda il cuore. Comunque sì, non ho uno scopo e non ne ho mai avuto uno. Sono una pianta grassa e lo sono sempre stato.»
«Non è vero, ti sei solo autoconvinto di esserlo, perché è più comodo così. Sotto un sasso, no?»
Questa faceva male, ma Ercole Brandelli ancora non reagì. Aspettava. Anche perché, se proprio era costretto a essere sincero, non le poteva dare torto. Sentirselo dire, però, non era bello lo stesso.
Elena attese per un poco una reazione che non venne, poi continuò. «Dicevo, sono priva di scopi ed è qualcosa che mi infastidisce. Ho sempre avuto un qualche tipo di scopo, da giovane. Qualcosa che volevo raggiungere, ottenere e così via. Un traguardo da puntare.»
«Sì, questo lo ricordo. E adesso non ne hai?»
«Adesso non ne ho. È solo routine. Non necessariamente bella o brutta. Solo, routine.»
«E bloccare un’autostrada assieme a quella gente sarebbe un traguardo? O farsi manganellare dalla polizia, magari?» Ok, non era riuscito ad aspettare, ma semplicemente non ce la faceva più.
Elena lo guardò male. «No. Non è questo il traguardo.»
«Allora il traguardo sarebbe l’obiettivo del gruppo? Quello sul lungo termine?»
«Neanche. Quello sarebbe un ottimo risultato, certo, ma non è ancora il mio traguardo.»
«E allora quale sarebbe?»
«Il gruppo stesso.»
Ercole era certo di essersi perso qualche passaggio. Qualche decina di passaggi. O era qualcosa di zen, che lui non riusciva a capire perché non era abbastanza illuminato? «Ti dispiacerebbe spiegarlo in un modo che anche una cosa che vive sotto i sassi potrebbe comprendere?»
«Spiritoso. È essere parte di qualcosa, il traguardo. Avere un gruppo che condivide le tue idee. Una struttura che comprende anche te. Non essere un’ameba che vaga per conto suo, ma essere parte di un organismo multicellulare. Lo capisci?»
«E quei tizi che discutono in un cinema condividono le tue idee.»
Elena scrollò una spalle. «È almeno un inizio. Siamo d’accordo su diverse cose, ci confrontiamo sul resto. Male che vada, è comunque un moto browniano che mi mantiene attiva, mi porta a incontrare punti di vista diversi, esaminare altri problemi. Se lo confronti col lavoro al comune, ti garantisco è un progresso enorme. Siamo uniti come gatti, al lavoro. Ma tu non lo capisci, giusto?»
«Beh, il mio lavoro è un po’ diverso e non ho idea di come funzioni in un ufficio.»
«O in un gruppo in generale. Anche da ragazzi tu eri quello che aveva attorno un gruppo, ma non ne faceva parte. Stavi lì, con altra gente intorno, e ogni tanto dicevi qualcosa. E basta. Sì, posso capire che tu abbia difficoltà a comprendere il mio punto di vista. Mi spiace.»
Un altro affondo che faceva male, ma era anche vero. Non era mai stato dentro a un gruppo, lui. Un gruppo c’era e gli si muoveva attorno, ma lui era per lo più parte della scenografia. Come una sedia, una pianta in vaso, un quadro appeso al muro. E adesso aveva semplicemente smesso di essere parte della scenografia, chiudendosi nello sgabuzzino. Non aveva mai provato a fare parte del gruppo.
«E tu devi per forza andare, anche se sai che sarà pericoloso?»
Elena sorrise. «Non ci vado perché è pericoloso. Non sono masochista. Ci vado assieme agli altri, è diverso. Poi d’accordo, se ci saranno incidenti, cercherò di non farmi prendere in mezzo, ma andare ci devo andare. Ci voglio andare. Altrimenti sarebbe come chiudersi in cucina, mentre in salotto c’è una festa in corso. Ok, in questo caso non c’è una festa, ma hai capito cosa intendo.»
Sì, lo aveva capito. Non lo condivideva, perché lui sceglieva sempre di chiudersi in cucina, ma certo poteva capire l’esistenza di una decisione opposta. Era solo diversa da lui e contraria a più o meno tutte le sue abitudini.
«Dunque andrete.»
«Sì, andremo. Dunque tu non verrai?»
«Penso proprio di no.»
«Beh, sai dove e quando ci troveremo. Se cambierai idea, saremo là. Ti terrò anche un posto. Come scudo umano, così non dovrai preoccuparti che io mi faccia male. Te ne farai prima tu»
«Ahaha, molto divertente.»
Si salutarono. Ercole rimase un momento a guardare l’auto che si allontanava, poi si allontanò pure lui, salendo le scale. Nella sua stanza c’era solo il ragno, appeso all’ingiù nella sua tela. Più la solita puzza di cantina, ma quella non contava: era compagnia, a modo suo, ma non era vivente. Con tutta probabilità. Adesso c’era anche lui, un nuovo pezzo di arredo a completare la scena.
Sospirò. Passò un paio di ore al computer, cercando di pensare ad altro, ma la sua mente continuava a tornare alla discussione, alla spiegazione, a quel che era. Non spiegava molto, ma aveva un senso, se la osservavi dalla giusta prospettiva. Il problema era che Ercole non aveva ancora scoperto quale fosse la giusta prospettiva e dubitava di riuscirci mai. Irrilevante. Per adesso, l’importante era che a lei non succedesse qualcosa di brutto durante la manifestazione. Non le sarebbe successo. Elena gli aveva detto che non si sarebbe messa nei guai. Probabilmente parlava sul serio.
Potevano essere i guai a metterla in mezzo, che lei lo volesse o meno.
Ercole Brandelli non ci dormì molto bene quella notte e neppure le seguenti. Ricevette di nuovo un messaggio da sua sorella, di sicuro per ripetergli di non andare alla manifestazione perché blablabla, ma non lo lesse. Perdita di tempo. Era ovvio che non ci sarebbe andato. Non aveva alcuna ragione per andarci. Solo un pazzo sarebbe andato e lui non era pazzo, quindi sarebbe rimasto a casa: qed.
Mancavano tre giorni. E adesso lui?
Afferrò una mosca e la lanciò al ragno. Quello che poteva fare lo aveva fatto (davvero?) e non c’era altro che potesse fare (ne era sicuro?), quindi era andata così. E adesso avrebbe corretto i due nuovi bug che gli avevano segnalato, perché aveva impegni, aveva responsabilità e così via. Aveva doveri nei confronti dei suoi utenti e la vita continuava. Per un dato valore di vita.
Per due volte prese il telefono e per due volte lo rimise sul tavolo senza averlo usato. Perché mai lo avrebbe dovuto usare? Non aveva nessuno da chiamare. Era solo un vizio. Niente di importante. Un tic nervoso, un modo di tenere occupate le mani. E poi aveva bisogno di essere pulito, ecco. Tutto qui. Ogni cosa aveva bisogno di essere pulita, prima o poi, specie nella sua tana.
Mancavano due giorni.
Uscì a camminare. Notò quasi all’ultimo momento una persona che aveva conosciuto anni prima, si sentì in trappola, non lo voleva davvero incontrare, vide un negozio sulla sua destra, ci si infilò con un passo da bisonte che carica, si fermò, guardò. Vendeva roba per lavorare a maglia. Ercole ne uscì con due ferri da uncinetto che non avrebbe usato mai. Il conoscente era passato e il pericolo pure, e tutto andava bene. No che non andava bene.
Quei pazzi sarebbero andati davvero a bloccare l’autostrada. Quei pazzi si sarebbero fatti pestare da poliziotti e altri picchiatori come chicchi d’uva alla vendemmia. Fortuna che lui sarebbe rimasto al sicuro a casa. Era la cosa più sana da fare. Cattive compagnie e palle varie. Lui non le frequentava e quindi era al sicuro. Non avrebbero pestato lui. Avrebbero pestato altri.
Di nuovo a casa, riesumò quei video di altre manifestazioni con altri incidenti. Davvero, non sapeva che fosse legale usare i droni di sicurezza in quel modo. Ovviamente, tutto diventava subito legale e corretto se a farlo erano i legislatori o i loro compagni di merende, però... No, meglio non guardare, ma soprattutto meglio non immaginare. La fantasia può portare male, si sa.
Mancava un giorno.
Ercole Brandelli aveva la tranquillità di chi ha appena scoperto di essersi seduto sopra un formicaio. O di chi ha tirato un sasso contro quella buffa palla di cartone scuro appesa sotto il tetto e come per magia ha scoperto che la parola “vespaio” non era solo un modo di dire. Non che lui avesse motivo di preoccuparsi. Non ne aveva ragione. Non aveva senso. Infatti non si preoccupava. Ercole era una statua nella sonnolenza del meriggio, altro che agitato. E non ci sarebbe mai andato. A fare la spesa, ecco dove sarebbe andato, ma non da altre parti. Ovvio.
Si esercitò di nuovo nel sollevamento del telefono, forse con la speranza che servisse a rafforzare la sua muscolatura di stracchino. Per quasi un’ora lo fissò, cercando di evocare per magia una qualche chiamata (sapeva bene che chiamata desiderasse ricevere). Non funzionò. Alla fine lo appoggiò sul tavolo, accusandolo di crimini di ogni tipo, molti dei quali fisicamente impossibili, almeno per quel modello di telefono. O per qualunque altro telefono esistente, per quel che ne sapeva lui.
Trascorse buona parte della sera seduto sul letto, a fissare il ragno e cantare canzoni tristi tristi tristi. Si sentiva quasi ubriaco, ma non lo era. Non lo era mai stato, in effetti, quindi non poteva nemmeno sapere di preciso come ci si sentisse da ubriachi, però immaginava che fosse simile al modo in cui si sentiva lui adesso, a parte la voglia di vomitare. Forse aveva ragione, forse no.
Non dormì.
Mancava un’ora al loro raduno. Ercole sapeva dive si sarebbero trovati, dove forse alcuni si stavano già trovando. Da casa sua ci avrebbe messo circa dieci minuti per raggiungerlo a piedi. Non che lui ci sarebbe andato, ovvio. Era solo una considerazione generale. Una stima di tempi e modi. Giusto per mettere le cose nella prospettiva corretta. Farsi una idea generale. Cose così. Niente di che.
Aveva provato a uscire dal suo eremo per un breve periodo. Aveva visto gente. A distanza, è vero, e aveva interagito con una persona sola, vero anche questo, ma era comunque uscito. Aveva provato. E non era andata bene. Il risultato era chiaro: lui non era adatto a una vita in società. Era un eremita di natura, o qualcosa del genere. Quindi sarebbe rimasto a casa. In casa. Era naturale.
Però ci vuoi andare.
No che non voglio.
Continui a pensarci.
Sono solo in pensiero per una conoscente.
Hah! Conoscente, bella questa.
Un’amica di molti anni fa, ok? Così ti va meglio?
Certo, certo. Quando ti deciderai ad ammetterlo?
Non ho niente da ammettere.
Non aveva niente da ammettere e tutto andava bene. Si stava vestendo solo perché più tardi sarebbe dovuto andare a fare la spesa. Voleva prepararsi in anticipo, non amava fare le cose di corsa. Non le aveva mai amate. Arriva presto, fai tutto presto e fallo con calma, seguendo i tuoi ritmi. Se fai tardi, poi sei costretto ad andare di corsa ed è male. Ti snatura. Quindi preparati per tempo e tutto ti andrà nel migliore dei modi. Relativamente parlando. Tutto qui.
Sedette sul letto. Il ragno era sparito, la tela vuota. Per come andavano le cose adesso, tra venti anni si sarebbe svegliato nella seconda metà dei sessanta, senza sapere come avesse fatto a diventare così vecchi tanto in fretta. Dove erano finiti tutti gli anni in mezzo? Solo l’altro giorno era adolescente e adesso era a un passo dall’ospizio. E non ricordava un solo attimo di vita tra i due momenti.
O meglio, attimi sì. Attimi li vedeva, isolette che sporgevano qui e là dal mare. Erano i giorni, era il continuo, era il fondale che le collegava, era l’insieme che non vedeva. Solo brevi lampi dispersi nel nulla. Ecco cosa era stata la sua vita, ecco cosa sarebbe stata anche in futuro.
Brutta immagine, ma realistica. Poteva davvero vedersi a sessantacinque anni e passa, ancora nella sua tana, ancora a trafficare col suo videogioco, ancora ad aspettare che i nipoti dei suoi primi utenti gli gettassero qualche donazione nella tela, per mantenerlo in vita ancora un poco. Ma c’erano forse alternative, oggi? Non le vedeva. E dunque...
Sì che le vedi, è solo che preferisci tenere gli occhi chiusi.
Non le vedeva. Non c’erano alternative. Ormai era andata così.
Mancava mezz’ora. Poteva ancora arrivarci, se voleva.
Accese il computer e lanciò un solitario. Non stava guardando l’ora e i suoi occhi non puntavano mai verso l’angolo in basso a destra dello schermo. Mai. Era soltanto un’allucinazione, forse anche un blando strabismo. Diplopia, se volete essere professionali. Niente di più. Non sarebbe andato.
Dopo aver perso la decima partita di fila, Ercole Brandelli spense tutto e fissò lo schermo nero. Non sarebbe andato. Non sarebbe servito. Non era mai servito, lui. Cosa poteva sperare di combinare, se anche si fosse presentato? Niente. Al massimo lo scudo umano, appunto.
Che era comunque più di niente. Poteva fare ancora in tempo, partendo adesso.
Ercole si alzò. Si sedette.
Sotto un sasso. Quello era il suo posto. Sotto i sassi si stava bene, era al sicuro, era riparato, nessuno lo poteva trovare. Nessuno si prendeva mai la briga di alzare i sassi. Tutti sapevano che c’erano solo schifezze lì sotto. Lui era sotto a un sasso. Non avrebbe proseguito il ragionamento.
Faceva ancora in tempo, se camminava veloce.
Elena gli avrebbe tenuto un posto. Giusto nel caso.
Lui non aveva obiettivi, non aveva traguardi, non aveva.
Non sarebbe andato.
Si alzò. Si sedette.
Era tardi. Non sarebbe arrivato comunque. La decisione l’avevano presa altri. Lui era innocente, ci aveva provato, aveva fatto quello che poteva. Cioè niente. Come al solito.
Non era ancora così tardi. Correndo, poteva ancora arrivare. Se avesse deciso di andare, ovvio.
Ma aveva deciso di restare a casa, giusto? Quindi era inutile pensarci. Aveva deciso.
Aveva deciso?
Ercole Brandelli si alzò. Si sedette. Si alzò. Si sedette. Si alzò.
Decise.