Adriano - racconti e altro

Straniero in terra ostile

Il mondo attorno a lui si stendeva secco e brullo fin dove lo sguardo poteva arrivare. Terra, sassi, di tanto in tanto una spruzzata di quella che le scimmie chiamavano erba. Era verdognola e non aveva l’aria molto sana. Era leggermente meglio dei sassi, d’accordo, ma non molto. Ti graffiava.

Harl odiava quel posto. Lo odiava ancora di più per come ci era finito. Se poi ripensava a quello che era successo agli altri, l’odio diventava disgusto e ribrezzo. Un disastro, ecco cos’era stato. E tutto per colpa delle scimmie. Grossomodo. Da un certo punto di vista.

Harla non era d’accordo, e magari aveva anche ragione, ma sua sorella aveva idee strane e, beh, era un poco strana anche lei, volendo, ma Harl non voleva. Perché era sua sorella, ovvio. E che la colpa fosse o meno delle scimmie, il risultato non cambiava e il risultato era stato un disastro. Che ancora non era finito. Sole, caldo, terra arida. Non un buon posto per chi era nato e cresciuto sul mare.

Harl sospirò. Si accarezzò piano il braccio sinistro, dove la ferita si era quasi rimarginata. Poco più di un graffio, non un problema. Il problema era la pelle secca. Poca acqua da quelle parti, e la poca che c’era serviva a Harla. A lui bastava quello che trovava. Lui era forte, era sano. Harla era anche più forte di lui, da sana. Solo che adesso non lo era. Non dopo la battaglia.

Meglio non pensarci. Tutta colpa delle scimmie, sì.

Perché c’era una guerra in corso. Più o meno. C’era sempre stata una guerra in corso, almeno da che Harl potesse ricordare. Una di quelle storie che si trascinano di generazione in generazione, a volte si combatte e a volte si litiga e basta, ma mai un momento di pace, non dalle loro parti. Le scimmie spingevano per raggiungere il mare e loro si difendevano, come era giusto che fosse.

«Ma in questo modo non finirà mai,» diceva Harla, e in effetti non finiva mai davvero. Ma che altro si poteva fare? Loro avevano sempre vissuto sulle coste, avevano bisogno di vivere sulle coste. Non se ne potevano certo andare, no? E dove sarebbero andati. Harla non lo sapeva, ma pensava che non si poteva continuare così. Vero, ma dunque?

Dunque continuavano così. Le scimmie erano tornate alla carica e adesso avevano aggredito uno dei loro insediamenti lungo la costa. Uno dei più piccoli, poco più di un villaggio e due torri di guardia, perché non erano abbastanza forti per attaccare altro, ma insistevano, premevano, spingevano. Tutto per arrivare al mare, come al solito?

Cosa se ne facevano del mare? Non ci potevano vivere, loro. Harla diceva che era er il commercio e per i viaggi. Volevano uno sbocco sulla costa, per non dover dipendere sempre da loro. «E poi c’è il problema del clima, lo vedi anche tu, no? La terra è sempre più arida. Hanno bisogno di spostarsi.»

E dovevano spostarsi proprio dove c’erano già loro? Harl non capiva e anche Harla più di tanto non sapeva. La sola cosa che sapevano tutti era che le scimmie attaccavano, quindi dovevano difendersi.

Avevano respinto l’attacco la prima volta, poi la seconda. Al terzo assalto, il capo della guarnigione aveva ordinato a un reparto di fare una incursione nel territorio nemico. «Niente di aggressivo, non è compito vostro distruggerli. Compito vostro è raccogliere informazioni. Quanti sono, dove sono, i punti deboli nei rifornimenti, tutto. Non possiamo continuare a respingerli e basta. Dobbiamo sapere dove sono più fragili e colpire lì, per farla finita con questa storia. Chiaro?»

Chiarissimo. Harl e Harla erano partiti assieme al reparto e all’inizio era andato tutto bene. Terreno a parte, che faceva schifo, ma schifo davvero. «Capisco perché se ne vogliono andare,» aveva detto Orlaf, il capitano. «Me ne andrei volentieri anch’io. Non una goccia d’acqua, bah!»

Qualche goccia c’era, ma era patetica. Rigagnoli che neanche si meritavano il nome di fiumi, pochi stagni, una miseria con la carità. Nessun essere umano avrebbe mai voluto un posto del genere. Che le scimmie ci vivessero era un’altra prova della loro bestialità, secondo Orlaf. Una specie patetica.

E il caldo, poi. Il caldo era enorme. Harl non vedeva l’ora di aver finito con la missione, tornare alla base e farsi un bel bagno fresco. Un lungo bagno fresco. Sarebbe rimasto immerso per due giorni, se glielo lasciavano fare. Anche tre, magari. Harla aveva scosso la testa, ma si vedeva che anche lei ne sentiva la mancanza. Acqua, fresco, vita. Le creme funzionavano, ma non bastavano: senza acqua, il corpo di un umano si seccava e la sua pelle si crepava. Ed era orribile.

Avevano esplorato, avevano studiato, esaminato, spiato. Il grosso delle scimmie si trovava attorno a uno dei loro insediamenti, ma c’erano altre divisioni nei dintorni. Erano tanti. Non troppi, ma tanti sì e non era un buon segno. Era un pessimo segno, secondo Orlaf. «Vogliono fare sul serio, stavolta. Non si arrenderanno finché non avranno rotto. O finché non li avremo rotti noi,» aveva concluso.

C’erano stati grugniti di assenso tra i soldati. Li avrebbero rotti loro, ovvio. Li avevano sempre rotti loro. Nessuno aveva dubbi. Solo che non era andata così. Non stavolta. Non al loro reparto.

Stavano osservando i movimenti dell’esercito, che si preparava a una nuova ondata di attacchi, e sì, forse avevano abbassato la guardia. Forse avevano commesso un errore. Capita anche ai migliori. Li aveva notati una sentinella, aveva dato l’allarme e i guai erano cominciati.

Orlaf aveva tentato di guidarli indietro, verso la costa, ma le scimmie maledette avevano tagliato la strada e bloccato tutto. Di qui non si passa, dicevano le loro lance, e di lì non erano passati. Si erano dispersi nelle valli circostanti e per un poco avevano resistito, ma il caldo era troppo, l’acqua poca e pian piano le loro forze si erano dissipate. C’erano sempre nuove scimmie, per quante ne uccidevi, e riempivano ogni strada, come formiche inferocite.

L’ultima battaglia era stata su uno stretto valico, mentre i superstiti del loro reparto cercavano come potevano una nuova strada verso il mare. Orlaf si era aspettato difese più deboli su quel lato. Orlaf si era sbagliato. Avevano cominciato poco dopo il tramonto ed era finita solo con la morte del loro reparto, fino all’ultimo uomo. O quasi. Harl era riuscito a scappare. Harla... circa.

L’aveva trasportata in spalla attraverso il valico, in piena notte. Sua sorella era ancora viva, sicuro, e una volta a casa sarebbe stata meglio, ancora più sicuro. Il problema era come arrivarci. Non da solo e non attraverso quel maledetto terreno. Non senza un miracolo.

Lo stava aspettando, adesso. Aveva trovato una specie di grotta in cui scorreva un poco di acqua, un torrentello non molto pulito ma meglio di niente. Era anche abbastanza fresca, che era già di suo un piccolo miracolo in quella terra bollente e sabbiosa. Harla era nascosta lì dentro. Harl aveva cercato di medicarla come poteva e probabilmente non sarebbe morta dissanguata, ma era debole, così tanto da dormire quasi sempre. E se la ferita era infetta? Le scimmie potevano avere chissà quali malattie.

No, era una pessima storia e Harl lo sapeva. Non sapeva però come risolverla. Apriva e chiudeva le quattro dita della mano destra, in un tentativo inutile di scaricare il nervosismo e la tensione. Poteva sentire scricchiolare la membrana che le univa. Secca, già. Troppo secca. Ma non poteva sprecare la poca acqua che aveva, non adesso. Sospirò.

Un pesce fuor d’acqua, lo avrebbero descritto le scimmie. Quante volte avevano sentito battute del genere? Troppe, ma le scimmie sembravano divertirsi così. Erano solo bestie, dicevano. Bestie che però li avevano appena sconfitti e ferito Harla. Maledetti.

Inutile perdere altro tempo. Harl scosse la testa e si incamminò verso nord, verso la collina poco più avanti. Poteva anche essere una montagna e forse lo era. Non aveva mai capito bene che differenza ci fosse, se era solo questione di altezza o no. Alcuni umani se ne intendevano della terraferma: lui non era uno di loro. Preferiva la costa, la pianura. Preferenze irrilevanti, adesso.

Si arrampicò, e fu lento e faticoso. Sassi, terra secca, erbaccia che graffiava. Per le sue gambe corte era un inferno, ma proseguiva. Doveva arrivare in cima. Arrivare e controllare. Perché aveva trovato brutti segni nelle vicinanze, molto brutti. Forse non si erano ancora arresi. Forse...

Arrivò, inciampando su un sasso e salvandosi a fatica dalla caduta. La cima era una pietraia, fatta di polvere rossastra e bruciata dal sole. Quanto voleva un po’ di acqua! Quanto voleva un bagno, stare immerso per intero nel fresco vellutato dell’acqua. Non poteva. Non ancora. E, se non stava attento, forse mai più. Si riparò gli occhi e guardò verso nord. Forse mai più, appunto.

Scimmie. Un branco di scimmie. Quante potevano essere? Troppe. Non avanzavano verso di loro, al momento, ma da come si muovevano, girando qui e là quasi a casaccio, stavano cercando qualcosa. O qualcuno. Pesci sfuggiti? Possibile. Probabile. Quasi sicuro. Cioè lui, lui e Harla.

Si accovacciò al suolo, odiando come non mai la terra arida contro la pelle. Che schifo di un posto. Nessuno di loro lo avrebbe mai voluto, nessuno di loro lo voleva. Se non fosse stato per gli attacchi, neppure ci avrebbero mai messo piede. Ma gli attacchi c’erano, e quindi... bah!

E l’incubo non voleva finire.

Li stavano cercando ancora, maledizione. Si dovevano essere accorti che erano fuggiti, al passo, e li cercavano per ammazzarli come gli altri. Colpa sua. Non era stato abbastanza bravo a nascondere le tracce. Harla non avrebbe commesso un errore simile. Solo che Harla era ferita, forse grave e forse peggio, e tutto ciò che lui era riuscito a fare era stato caricarsela in spalla e via di corsa, a scalare il valico e poi ancora più in là, dove non ci fossero più state scimmie attorno.

Ma le scimmie c’erano. Le vedeva. Potevano trovarlo da un momento all’altro. Lui, le sue tracce, il suo odore. Forse seguivano proprio quello, le scimmie. Non le tracce, ma l’odore. Se davvero erano bestie, come dicevano gli altri, potevi solo aspettarti un comportamento da bestie. Era un pensiero orribile, ma sembrava realistico.

Potevano trovare la grotta in cui aveva nascosto Harla: ecco un pensiero ancora più orribile. Harl si raddrizzò un poco, ci ripensò, si spalmò a terra e strisciò lentamente indietro. Doveva scendere e lo doveva fare in fretta, ma lasciarsi vedere sarebbe stato peggio. Un suicidio. I sassi lo graffiavano, la terra lo irritava, la poca erbaccia lo tagliava, ma non aveva importanza. Non dovevano vederlo.

Si rialzò soltanto quando si sentì al sicuro dietro la curva del colle, si spazzolò in fretta la pelle dalla polvere e strinse i denti. Tempo di tornare. Senza lasciare tracce. E il sole lo cuoceva, poteva sentire l’acqua evaporargli attorno. Non voleva morire in quel deserto. Andasse come andasse, non voleva morire in secca in quel deserto. E Harla non sarebbe morta, punto.

Dopo un ultimo sguardo dietro di sé, Harl si avviò verso sudovest.


Camminò per quasi due ore, sempre più affaticato e sempre più cotto dal sole, che aveva cominciato la sua discesa verso est. Ancora troppo in alto per i suoi gusti, e non uno straccio di nuvola. Se un posto del genere non era l’inferno, doveva esserne almeno l’anticamera.

Non era stato così brutto, all’inizio. O meglio, era stato così brutto, ma almeno c’erano gli altri con loro: persone che conoscevano da anni, alcuni anche loro amici. Si rideva, si scherzava. Quasi te ne dimenticavi di tutta quella terra secca. Ma adesso erano morti, tutti. Erano rimasti in due.

Di tanto in tanto controllava di non avere lasciato tracce, cancellandole quando poteva. Ma era dura. Harla era la specialista, non lui. Harla era più grande, più forte, più intelligente e insomma più tutto. E sì, Harl riconosceva di non essere magari un giudice obiettivo, ma lo avevano detto anche gli altri nel gruppo. Lei era praticamente il braccio destro di Orlaf in quella missione.

Meglio smettere di pensarci, già.

Si fece ancora più cauto quando fu in vista della grotta. Si guardò attorno, controllò ogni cosa che si potesse controllare, si impegnò a cancellare, nascondere, alterare. Sarebbe bastato? Lo poteva solo sperare. Qualunque cosa accadesse, non dovevano seguirlo fin lì.

Entrò. Il buio della grotta gli soffiò un poco di vita sulla pelle riarsa. Era quasi umido, e faceva più fresco, molto più fresco che fuori. E puzzava, d’accordo, ma l’olfatto non era il senso più sviluppato nella sua gente, per cui non era un problema così grave.

«Sono io,» chiamò, con la sua voce simile a un corno da caccia.

«Bentornato,» rispose un altro corno da caccia, ma un poco più acuto e molto più debole. Harla. La voce gli diceva anche che non aveva recuperato molte forze. Forse ne aveva perse. Harl sospirò.

«Brutte notizie. C’è una banda di scimmie che ci sta dando la caccia, a nord. Cercano superstiti del nostro reparto e di superstiti ci siamo solo noi due.»

«E tu ti sei fatto vedere?»

«No! Ho anche cercato di nascondere le mie tracce. Te lo giuro!»

«Ti credo. Rinfrescati un poco, ne hai bisogno.»

Harl ne aveva bisogno, certo, ma... «Tu ne hai più bisogno di me. Sicura di essere a posto?»

«Tanto a posto quanto posso esserlo in queste condizioni,» rispose Harla. «Pensa a non perdere pure tu le tue forze, perché sei l’unico su cui posso contare. Trattati meglio, mi raccomando.»

Era vero e Harl si sentì subito in colpa. «Ci proverò.»

Si avvicinò allo sputo di acqua che scorreva in un angolo del loro nascondiglio. Harla era lì accanto, sfinita come l’aveva lasciata prima di uscire. Gli faceva male vederla così, sapere di non poterci fare niente. Se avesse studiato medicina... Scosse la testa e cercò di pensare ad altro.

Immerse le mani nell’acqua fresca e si sentì subito rinascere. Cosa avrebbe dato per un bagno! Non che potesse, non in quella pozzanghera, quindi era inutile pensarci. Si strofinò acqua sulla sua pelle argenteo-azzurrina, di solito liscia ma adesso così ruvida di disidratazione. Ripulì i graffi e le ferite, i ricordi che la camminata gli aveva lasciato addosso. Cercò di immergere la testa e quasi ci riuscì, rimediandone però una craniata sonora che strappò una leggera risata a Harla.

«Cerca di non farti male anche da solo, per favore. Il suono potrebbe richiamare qualcuno.»

Harl sorrise alla meglio. Si sentiva più in forma, ma ancora parecchio lontano dal massimo. Non ci sarebbe mai arrivato, non in quel buco, ma doveva almeno essere forte a sufficienza. Per tornare lui e soprattutto per riportare indietro Harla.

«Non ho trovato granché di commestibile,» confessò, continuando a sciacquarsi. «Non mi aspettavo davvero di trovare qualcosa, ma... non si sa mai, no? Dovrà pur esserci un fiume decente, da queste parti. O almeno un... non so. Qualcosa che non sia polvere. Sassi e polvere. E basta

«Lo sapevamo già. Abbiamo esplorato questa zona.»

«Non proprio questa. Non siamo passati di qui all’andata. Con gli altri.»

«Non proprio questa, vero, ma è quasi tutto così nei dintorni. Lo dicevano anche le mappe.»

Che Harl non aveva guardato. Non se la cavava bene con le mappe terrestri, non come Harla. Tutti i ghirigori strani che c’erano disegnati sopra non sembravano avere senso, non ai suoi occhi.

«Come ti senti?» le chiese poi, a voce bassa.

«Non molto bene. La ferita non sembra essere migliorata. Forse non ha fatto infezione, ma...» Toccò il fianco bendato e fasciato. C’era un brutto taglio lì sotto. Harl lo aveva rattoppato come poteva, lo aveva curato come poteva e più o meno tutto come poteva. Il problema era che non poteva granché.

«Mi dispiace,» sussurrò.

Harla si sforzò di sorridere. «Non importa. Passerà anche questa e un giorno ci rideremo sopra. Mi fido di te. Se qualcosa andrà male, significa che non sono stata abbastanza brava a insegnarti.»

Harl si giurò che non sarebbe andata male. Non a lei, almeno. Non finché lui era vivo.

Mangiarono un poco, recuperando quello che potevano dalle loro riserve sempre più scarse di cibo. Per quanti giorni ne avevano ancora? Non molti, ed era un problema. Non il più grande, d’accordo, e quello era un altro problema. Harl temeva che se ne stessero accumulando un po’ troppi, almeno per le sue capacità di risolverli. Maledette le scimmie e la loro mania di invadere. Se solo non fosse stato per quella stupida guerra...

Chiacchierarono ancora un poco, soprattutto dei vecchi tempi e di casa. Era un modo come un altro per far passare il tempo, più piacevole di quelli che offriva il loro misero rifugio. Discussero anche di come stessero andando le cose all’insediamento, che forse ormai era di nuovo sotto attacco. Harla rimpiangeva di non poterli aiutare, Harl rimpiangeva di essere solo uno Harl incapace.

Dormirono, alla fine, ma non fu un sonno piacevole. Non per Harl, almeno. Sognò le scimmie, che arrivavano alla grotta mentre lui era fuori, trovavano Harla e la uccidevano. Alla fine. Perché tutti lo sapevano, a casa: le scimmie erano bestie e le bestie non si fermano davanti a niente. Brutta idea.

Il mattino seguente, Harl uscì come al solito per andare in cerca di qualcosa di utile: cibo, tanto per cominciare, ma anche un luogo più sicuro in cui nascondersi. Se poi gli fosse capitato di imbattersi in un reparto dei loro compagni, magari altri esploratori, allora sarebbe stato perfetto, ma non erano molte le possibilità. Non ce n’erano proprio, a voler essere realistici. Era comunque un sogno e ogni tanto i sogni si avverano. Forse.

Prima di mezzogiorno, un sogno di Harl si avverò. Non quello che avrebbe desiderato lui.

Aveva esplorato la zona attorno al loro rifugio e tutto era tranquillo. Nessuna traccia di scimmie nei dintorni, nessuna sorpresa, tutto era deserto e desolato come al solito. Ebbe un attimo di piacere e di sollievo quando uno scroscio improvviso lo inumidì mentre camminava verso la collina a nord, ma fu breve e poco dopo le nuvole si erano già disperse e il sole aveva ricominciato a battere. Era però incoraggiante sapere che la pioggia esisteva anche lì. Harl aveva cominciato a dubitarne.

Aveva trovato una specie di frutta che, con un poco di lavoro e molta disperazione, si poteva forse far diventare qualcosa di commestibile, se proprio non c’erano alternative. Ne raccolse un po’, tanto per fare un esperimento, e memorizzò il punto in cui cresceva. Poteva tornare utile, in futuro.

Arrancò sulla cima del colle e vide che dall’altra parte non c’erano più tracce del branco di scimmie che il giorno prima li stava cercando. Avevano cambiato zona? O rinunciato? Harl sperava fosse la seconda, ma quasi di sicuro era la prima. Lo era.

Le avvistò mentre scendeva. Guardando a ovest, confuse tra polvere rossa e terriccio rosso, vide una striscia più scura che si muoveva a passo di marcia. Si muoveva verso sud. Non sembravano tante, ma non serviva che lo fossero: ne bastava una manciata, se andavano dalla parte giusta. Che poi era la parte sbagliata, in quel caso. Harl accelerò.

Le vide di nuovo di tanto in tanto, ma più spesso erano nascoste da pieghe e curve del terreno. E sì, non c’erano dubbi: scimmie, scimmie che puntavano verso la grotta. Era stato lui a lasciare tracce? O li potevano davvero fiutare, con quei loro nasoni? Fosse come fosse, Harla era in pericolo.

Harl si affrettò, abbandonando ogni cautela. Doveva anticiparli, a qualunque costo. Se poi non ce la faceva, magari poteva lasciarsi scoprire da loro mentre erano ancora lontani dal nascondiglio. Farsi scoprire, attirarli in una direzione sbagliata e poi... beh, al poi avrebbe pensato poi. Erano troppi per vincere, ma nel peggiore dei casi si poteva sempre sacrificare.

Così Harl cominciò a correre, con le sue gambe così poco adatte a quello sforzo. Nuotare era il loro lavoro, non correre, ma correre adesso dovevano, in quel mondo secco fatto di sassi e polvere.

Cadeva, si rialzava, continuava ad avanzare. E sperava. Sperava di arrivare in tempo. Doveva.


Non aveva fretta il gruppo di Haiisa la vespa e i suoi due umani, che le altre specie chiamavano più spesso scimmie. Era passato circa un mese dall’incontro con la bestia, che forse era un demone ma che di sicuro aveva cancellato Lupo Nero e la sua compagnia di mercenari. Non un mese facile per i due umani. Non un mese riposante, soprattutto.

Mosca aveva reagito male, all’inizio. Il guaritore non aveva avuto problemi a rimetterlo in piedi, era solo qualche graffio, qualche livido, niente di rotto e niente di grave. Qualcosa però si era rotto nella sua testa. La fiducia in Lupo Nero, per cominciare. Il desiderio di diventare un eroe come lui. Tutti i motivi che lo avevano spinto a lasciare il villaggio e partire all’avventura.

«Non vale la pena di prendersela così tanto,» aveva cercato di consolarlo Gobbo. «Te lo avevo detto pure io che non mi sembravano un granché, quei mercenari. Lo avevi detto anche tu

«I mercenari sì, lo so, ma Lupo Nero...» aveva piagnucolato Mosca.

«Lupo Nero è morto e noi non lo siamo. Questo ci rende migliori di lui, al momento.»

«Non capisci!»

«Vero, probabilmente non capisco. Mettiamola così: Lupo Nero ha salvato te, tu lo hai seguito e io ho seguito te. Abbiamo visto come è andata a finire. Haiisa, la vespa, ha salvato me, e non hai idea di come mi ha salvato! Altro che riportare a casa il bambino smarrito. Quindi adesso noi seguiamo lei e vediamo come andrà a finire. Forse meglio, forse no, ma lei ha qualcosa in testa, anche se non so cosa, e potrebbe essere interessante scoprirlo. Che ne dici? È un’avventura!»

Gobbo aveva raccontato di nuovo la storia del Grande Salvataggio e Mosca si era scaldato un poco. A metterla così non sembrava troppo male. Non era Lupo Nero, ma forse anche la vespa era un eroe a modo suo. Poteva imparare qualcosa, a seguirla. E poi era... strana. Era di un’altra specie. Poteva uscirne davvero un’avventura. Forse. Anche se.

Haiisa si era dichiarata più che disposta a lasciarsi seguire. Era altrettanto disposta a insegnare loro come cavarsela da soli e come combattere, visto che ne avrebbero avuto bisogno. A vincere davvero le ultime resistenze di Mosca, però, era stata la dimostrazione successiva. Aveva combattuto contro i due ragazzi allo stesso tempo, senza la minima difficoltà, e definirlo combattimento era esagerato. Li aveva disarmati entrambi in pochi secondi. Giusto il tempo di partire e già i due ragazzi erano a terra, ognuno con una spada corta puntata alla gola.

Sì, poteva avere parecchio da insegnare. Soprattutto, meglio averla come alleata che come nemica.

Non avevano dovuto aspettare molto per cominciare. Haiisa aveva dichiarato guarito Mosca subito dopo la sfida e sotto di allenamenti. Ed era stata dura. Pesante, sgradevole. Ma che soddisfazione!

Avevano abbandonato il villaggio del guaritore ed erano ripartiti verso sud, attraverso altre colline e poi ancora qualche collina, giusto per gradire. Sembravano non finire pi ed erano tutte uguali, anche se Haiisa non mancava mai di indicare certe differenze, spiegare cosa fossero le piante trovate lungo il cammino e a cosa si potessero usare, che tipo di zona fosse quella in cui stavano viaggiando e più o meno verso dove stessero viaggiando, a volte. Ma era vaga sulla meta finale.

«Non c’è fretta, per adesso,» diceva con quella sua voce che faceva vibrare le orecchie. «Per adesso continueremo nella stessa direzione in cui viaggiavano i mercenari, verso sud. Ci sono cose che per voi potrebbe essere utile vedere e capire. Al resto penseremo poi.»

E non spiegava altro, per quante domande i ragazzi potessero farle. Non che i due ne facessero così tante, in realtà. Non avevano abbastanza fiato. Quando non viaggiavano, si allenavano; quando non si allenavano, andavano a caccia. Haiisa sorvegliava e correggeva, e mai che si potesse capire cosa le passasse per la testa. Non aveva espressioni in faccia. Nessuna che loro due sapessero leggere.

Di sera, attorno al fuoco, i ragazzi parlavano spesso tra loro e ormai avevano raccontato a Haiisa più o meno tutto ciò che si potesse raccontare sulla loro vita, le ambizioni, i sogni, le paure, il villaggio da cui erano fuggiti, qualunque cosa. Lei li ascoltava e annuiva, uno dei pochi gesti che sembravano essere in comune tra le loro specie. A volte parlava, raccontando di posti che aveva visitato durante i suoi viaggi. Non erano racconti dettagliati, ma bastavano a far sognare i suoi ascoltatori.

Mosca e Gobbo non avevano mai neppure immaginato che esistessero davvero tanti posti diversi in quel mondo. Non avevano neppure idea di quanto grande fosse davvero, quel mondo. Per loro c’era stato il villaggio e basta, prima, e qualche viaggiatore che ogni tanto accennava agli altri villaggi nei dintorni, che erano uguali al loro. Sentire parlare di terre lontane mesi e mesi di viaggio, popolate da animali e mostri da fare invidia alle storie raccontate dai nonni, era qualcosa che spalancava la loro mente e faceva prudere i piedi. Che voglia di andarci di persona!

«Un giorno, forse,» aveva risposto Haiisa, quando Gobbo aveva detto di volerci andare. «Prima hai bisogno di imparare a sopravvivere, o tutto ciò che vedrai sarà la terra mentre ci cadi sopra morto.»

«Sempre allegra, eh?»

Haiisa aveva scosso le braccia, in quello che per lei era una scrollata di spalle. «Realistica. In ogni caso, prima vi farò vedere il posto in cui avreste dovuto combattere coi mercenari. Sarà istruttivo.»

«Contro i pesci, vero?» aveva chiesto Mosca.

«Quelli che voi chiamate pesci, ma vi consiglio di non usare quel termine quando parlerete con uno di loro. Lo trovano offensivo.»

«Dovremmo parlare con loro, invece di combattere?»

«Parlare è sempre utile. Si imparano molte più cose. Combattere può essere educativo soltanto se ti interessa studiare da vicino l’anatomia, che è utile solo per i medici. E i macellai, a volte.»

«Cosa sarebbe l’anatomia?» aveva chiesto Gobbo.

«Lo studio di come è fatto il corpo, tuo e degli altri esseri viventi. Come è fatto dentro e fuori.»

«Sembra un po’ schifoso...»

Altra scrollata di braccia. «Questione di gusti. Comunque sì, mi aspetto che voi parlerete con quelli che chiamate “pesci”. Se poi vorrete anche combattere, potrete farlo, ma cominciate parlando.»

«Sei stata spesso in mezzo a loro?» aveva chiesto Mosca, la faccia tra il curioso e l’inorridito.

«Abbastanza, sì. Conosco gente tra loro, come conosco gente tra voi. Giro, esploro, mi informo. Sto a vedere cosa succede. Lo trovo più interessante che mettere radici in un punto.»

Lo trovavano più interessante anche i ragazzi, sempre più impazienti di cominciare a vedere tanto il mondo quanto chi ci abitava. Soprattutto, qualcosa di diverso dalle colline in cui viaggiavano ormai da troppi giorni. Erano una gran rottura di scatole.

Ma continuavano il viaggio, le colline e gli allenamenti. A poco a poco il clima si faceva più caldo e il verde meno verde. I villaggi che incrociavano cominciavano a cambiare. Meno legno e più terra e pietra, negli edifici, e dovevi viaggiare di più prima di incontrare il successivo. Anche l’acqua era più scarsa. Ne trovavi ancora, certo, ma aveva un sapore diverso, poco gradevole.

«Sono solo i depositi di... sabbie e altre cose,» aveva spiegato Haiisa, dopo un rapido sguardo ai due ragazzi per adeguare il livello delle spiegazioni. «L’acqua raccoglie un po’ di sabbia mentre scorre e questo cambia il suo sapore. Niente di grave, si può bere tranquillamente.»

«Acqua sabbiosa. Che schifo!» aveva risposto Gobbo.

«Se vuoi vedere il mondo, devi prepararti anche alle sue sorprese meno piacevoli. È la vita.»

Avevano poi raggiunto una città abbastanza grande, con una specie di castello al centro, costruito in una strana pietra rossiccia. Haiisa aveva spiegato che abitava lì il tizio che aveva assoldato il gruppo di mercenari di Lupo Nero. Loro ci avevano messo più tempo ad arrivare, perché non avevano fretta e si erano fermati strada facendo. Avevano anche scelto un percorso diverso.

«Perché avevate bisogno di imparare almeno a tenere la spada dalla parte giusta, prima di pensare ai combattimenti. Non che adesso siate davvero pronti, ma forse potreste sopravvivere per un poco.»

«E dovremo combattere?» aveva chiesto Mosca, entusiasta e un poco spaventato.

«No. Siamo solo qui per guardare, per adesso. Non parteciperemo alla campagna, che è cominciata senza di noi. Voglio sapere come stia andando, per prima cosa, e poi decideremo cosa fare.»

«Non ero interessato alla campagna neanche quando stavamo coi mercenari, per cui mi va bene così e non mi lamento. Non mi sembra però un posto molto interessante,» aveva detto Gobbo. «Certo, è la città più grande che io abbia mai visto, ma... è un po’...»

Mosca gli aveva dato ragione. La città era un po’. Non era facile dire esattamente cosa, ma di sicuro lo era un po’. Era enorme, paragonata al loro villaggio, e c’era così tanta pietra che faceva male agli occhi, a guardarla troppo. Agli occhi e alla testa. E le case di terra, che sembravano così strane. Per chi era cresciuto in un buco fatto di legno, dove tutti erano cugini, quella città sarebbe dovuta essere un paese delle meraviglie. Solo che non lo era. Era sbagliata l’aria, l’atmosfera.

Molta gente in strada, ma era gente mogia, triste. Camminava in fretta, e sudava nel caldo, nell’aria soffocante. E soldati, forse guardie o forse altro. Le vedevi attorno alla città, le vedevi dentro la città e le vedevi pure nei campi intorno. E avevano facce brutte, pure peggio dei compagni di Lupo Nero.

«Non la vedete nel suo momento migliore, ammesso che ne abbia uno,» aveva spiegato Haiisa. «Da un lato la guerra contro i... pesci, chiamiamolo pure così, per adesso, e dall’altra il clima. Una volta non faceva così tanto caldo, qui. È peggiorata di recente, negli ultimi anni. È uno dei motivi per cui cercano di espandersi a sud, verso il mare. Troveranno più caldo, ma anche i porti, e sono i porti che cercano. Peccato che li cerchino nell’unico modo che conoscono: con la guerra.»

Si erano fermati un giorno solo. Haiisa li aveva lasciati da soli quasi tutto il tempo e i due ragazzi si erano concessi una piccola esplorazione del posto. Avevano girato per le strade ed evitato i soldati e qualche mendicante; avevano passeggiato attorno alle mura studiandone le pietre squadrate, mentre i soldati li guardavano male; avevano persino visitato la piazza del mercato, dove c’erano forse un po’ meno soldati, ma in compenso più mendicanti che mosche.

«Dovresti sentirti a casa, qui,» aveva scherzato Gobbo, mentre scacciava insetti. Mosca aveva usato una gomitata come risposta, che funzionava meglio del dialogo quando l’amico faceva lo spiritoso.

Sedevano in un angolo di una taverna a bere birra leggera, quando Haiisa era tornata. Aveva trovato quello che le interessava e sarebbero ripartiti il mattino seguente. Domande?

«Cosa ti interessava trovare?» aveva chiesto Gobbo.

«Lo scoprirai presto.» E aveva mostrato i suoi denti aguzzi in quella versione di sorriso che non era facile trovare rassicurante, non per un umano. Gobbo era sicuro che non si sarebbe mai abituato.

Ma il mattino dopo erano ripartiti, in un paesaggio ancora più miserabile. Se non era il deserto che a casa avevano sentito descrivere in certe leggende, doveva essere almeno suo cugino. Faceva caldo, il terreno sembrava un misto di sabbia, sassi e sterpaglia moribonda, il sole martellava peggio di un fabbro ubriaco fradicio e in breve era uno schifo. Ma lo dovevano attraversare, aveva detto Haiisa, e ad attraversarlo cominciarono, puntando verso sud.

«Puoi dirci almeno cosa stiamo facendo?» aveva chiesto Gobbo.

Haiisa aveva scrollato le braccia. «Poco tempo fa hanno scoperto un reparto di pesci, infiltrato nelle loro terre. Forse esploratori, forse sabotatori: le ho sentite entrambe. Pare che li abbiano distrutti un paio di giorni fa, o forse anche cinque o sei giorni fa, le notizie viaggiano lente e pochi si prendono la briga di misurare il tempo con precisione, ma un’altra voce sostiene che hanno trovato un gruppo di superstiti e adesso li stanno inseguendo. Quello che faremo noi è andarli a cercare.»

Gobbo l’aveva fissata mordendosi le labbra. «Perché?» aveva chiesto alla fine.

«Per vedere. E sapere.»

Mosca si era stretto nelle spalle e non aveva commentato. Era un’avventura, certo, fatta di battaglie e di inseguimenti. Magari ci sarebbe stato qualcosa anche per loro, magari avrebbero solo guardato, ma restava una esperienza interessante. Prometteva bene. Tutti quei soldati in città lo avevano fatto sentire carico, pronto. Voleva fare, e quel viaggio prometteva bene. Anche se il posto era uno schifo.


Per Harl, ferito e sfinito, il posto era molto più di uno schifo. Era un inferno. Peggio: una trappola mortale. E lui ci era finito dentro. Per un errore suo? Per merito altrui? Poteva avere una importanza teorica, come domanda, ma sul piano pratico non cambiava alcunché, perché il risultato finale era lo stesso in entrambi i casi. E adesso?

Zoppicò attraverso la pietraia desertica che lo separava dalla grotta. La strada era in discesa, anche se leggera, e una specie di collinetta la riparava un poco verso nord, ma era esposta, troppo esposta. E le scimmie l’avevano scoperta. La stavano raggiungendo.

Harl sarebbe arrivato per primo, ma non era un gran sollievo. Avrebbe solo ottenuto di morire anche per primo. Quanto a cosa sarebbe successo poi a Harla... no, non ci voleva pensare. Non riusciva a smettere di pensarci, mentre zoppicava in avanti.

Aveva tentato di distrarli, quando aveva capito che puntavano proprio sul loro rifugio. L’idea era di farsi notare e attirarli altrove, e in parte era anche riuscita. Lo avevano notato. Ma non il gruppo che avrebbe dovuto distrarre. A notare Harl e piantargli una freccia nella schiena era stato un altro, forse un esploratore o una sentinella, che proteggeva i fianchi della squadra.

Brutto affare, quello. Harl era riuscito a uccidere quella scimmia, scagliandogli la fiocina nella gola, ma adesso aveva una ferita alla schiena, tagli ai piedi e aveva perso la sua unica arma da lancio, la sola che gli fosse rimasta dopo la battaglia del valico, quando il suo reparto era stato annientato.

Una squadra di sei o sette scimmie, e lui le avrebbe dovute combattere da solo, con un coltellaccio. Praticamente un suicidio. Pure, lo avrebbe fatto. Sarebbe morto, ovvio, ma ne avrebbe portati con sé il più possibile. Peccato non avere armi più efficaci.

Raggiunse la grotta, in penombra in quel periodo del giorno. Fin troppo chiara per i suoi gusti, ma almeno c’erano forse due o tre gradi in meno rispetto a dove batteva il sole. C’era qualche strategia che poteva utilizzare, qualche vantaggio che il terreno gli offriva? Nessuno che lui sapesse vedere.

La grotta era stretta, già. Con un poco di fortuna, le scimmie lo avrebbero attaccato una alla volta, in due al massimo. Non un grande vantaggio, ma meglio di niente. Maledizione.

Harl si accasciò con una spalla contro la roccia. Il terreno si apriva davanti a lui, brullo e spietato; la grotta era un sospiro fresco sulla nuca, che prometteva ma non manteneva. Ancora non erano lì, ma li poteva quasi sentire. Erano dietro l’angolo: una breve attesa e li avrebbe avuti tutti addosso. E poi avrebbe potuto solo sperare in un miracolo. Come se gliene fossero mai capitati.

Si affacciò nella grotta. Se guardava con attenzione, poteva scorgere la sagoma di Harla sul fondo, giusto un suggerimento di ombra più nera in mezzo all’ombra. Era sveglia? Dormiva? Harl avrebbe voluto parlarle un’ultima volta, ma forse era meglio di no. C’era il rischio che qualcosa si mettesse male. Non sapeva cosa, ma lo sentiva.

Magari Harla avrebbe insistito per combattere al suo fianco. Questo sì che sarebbe stato orribile. Le sue condizioni erano pessime: combattendo, avrebbe ottenuto solo di morire in anticipo. Forse da un certo punto di vista sarebbe stato un bene, più misericordioso, ma Harl non poteva. Fosse anche per un minuto o due, ma avrebbe fatto tutto il possibile per prolungare la vita della sorella. Doveva.

Peccato che il suo possibile non fosse poi molto.

Sentì un rumore. Un altro. Passi, voci, pietra che rotolava. Li vide. Sono sette. Sette scimmie armate e feroci. Sette contro uno. Situazione pessima, a essere generosi. Disperata a essere realistici. E cosa dovrebbe essere lui? Generoso o realista?

«Cerchiamo di essere un guerriero,» sussurrò, impugnando il suo coltellaccio. Era robusto, era forte, era affilato. Era anche un coltello, per quanto più grande della media. Le scimmie avevano spade, e due lance. Lui aveva braccia lunghe, d’accordo, ma più di tanto non poteva fare. Sospirò.

Sarebbe morto, ovvio.

Poi una scimmia lo vide e lo additò, gridò qualcosa alle altre. Harl indietreggiò un poco nella grotta, per protezione, poi si preparò al peggio. E alla battaglia.


Haiisa sembrava avere fretta, adesso. Per due giorni li aveva guidati a passo regolare e sostenuto, sì, ma non una vera marcia. Gobbo si era lamentato del caldo e del terreno schifoso, Mosca aveva solo stretto i denti e tirato dritto. Haiisa non aveva proprio parlato. Fissava il suolo, forse in cerca di una traccia che soltanto lei poteva vedere, perché i due ragazzi vedevano solo polvere e siccità.

Il terzo giorno aveva accelerato. Tanto.

«Adesso si fa sul serio,» aveva dichiarato, senza specificare altro.

«Perché, prima scherzavamo?» aveva chiesto Gobbo.

«Sì.»

A giudicare dal passo che aveva imposto, doveva essere vero. Mosca non si lamentava, anche se gli sarebbe piaciuto saperne di più. C’era qualche impresa da compiere, se lo sentiva nelle ossa, e a lui andava benissimo. Mosca viveva per compiere imprese, anche se finora non ne aveva compiute. Un buon motivo per cominciare, no? Secondo il suo modesto parere, lo era.

Gobbo aveva smesso di lamentarsi, risparmiando il fiato per marciare. Haiisa li guidava tranquilla e dritta, come se stesse facendo una passeggiata nei boschi. Forse per lei lo era davvero. Chi sa come funzionano le vespe? Lui no di sicuro. Così Gobbo taceva e seguiva a testa bassa.

Trovarono un cadavere nel corso della marcia. Era un umano e aveva una specie di lancia conficcata nella gola. Haiisa gli dedicò una rapida occhiata prima di annuire e passare oltre, e i due ragazzi la imitarono. Grossomodo. Passarono oltre col corpo, almeno, ma le teste rimasero parecchio attorno a quel cadavere. Le sue insegne, la sua espressione, la sua gola trapassata. Assomigliava a quelli che avevano visto nella città di pietra e terriccio, un membro del loro esercito. Che ci faceva lì da solo?

«Uno di quelli che davano la caccia ai pesci,» sussurrò Gobbo.

Mosca annuì. Qualunque cosa fosse, era seria. C’era da farsi male. Quel soldato sconosciuto si era già fatto male. E loro? Ma loro avrebbero combattuto, se c’era da combattere. Era proprio questo il motivo per cui si erano allenati, giusto? Combattere. Difendersi. Difendere.

Haiisa non parlava, ma sembrava avere accelerato ancora di più. Gobbo avrebbe detto qualcosa, ma sapeva che sarebbe stato inutile e il fiato era diventato troppo prezioso per sprecarlo. Non correvano ancora, non sarebbe stata una buona idea su quel terreno sassoso e vigliacco, ma ci mancava poco.

Poi non mancò più. Erano arrivati.

Sulla cresta di una piccola collina, poco più di un dosso in mezzo alla strada, Haiisa si fermò e alzò un braccio. Stop. Si sentivano rumori sull’altro versante, ma erano fiochi e un poco lontani. Almeno lo sembravano. Un attimo dopo, i ragazzi la raggiunsero sulla cima e guardarono oltre.

Tutto chiaro, adesso.

Era in corso un combattimento. Non sarebbe rimasto in corso ancora per molto, a giudicare da come si presentava la situazione, ma era in corso adesso e le due parti in causa erano ben definite. C’erano cinque guerrieri umani, che i colori e le insegne indicavano come soldati della città di pietra visitata qualche giorno prima, e c’era un solo guerriero che cercava di resistere. Era in parte nascosto nella imboccatura di una grotta, caverna o qualcosa del genere, e gli altri lo dovevano combattere uno alla volta. Un piccolo vantaggio, d’accordo, ma agli occhi di Gobbo non sembrava bastare.

«Ne ha uccisi due,» disse Mosca, indicando.

Vero. Due cadaveri accanto alla grotta, o almeno due persone a terra, che al momento non si stavano muovendo. Probabilmente i loro compagni li avevano spostati, per non intralciare l’assalto, perché i loro corpi erano un poco a lato rispetto alla mischia. Sembrava una mossa coscienziosa.

«Non è un umano,» disse Mosca, stringendo le palpebre.

Vero anche questo. Gobbo guardò meglio e il guerriero che difendeva la grotta non aveva la forma giusta per un umano. Non era neppure una vespa, troppo tozzo e tarchiato con quelle gambette che a malapena le vedevi, lì dall’alto. Quindi...

«Un pesce.»

Haiisa annuì. «Un pesce, sì, anche se per il futuro faremo meglio a trovare un temine migliore. È un insulto, per loro, proprio come per voi è un insulto essere chiamati scimmie.»

«Chi ci chiama scimmie?»

«I pesci, soprattutto.»

Gobbo annuì. Ovvio. Tipico scambio di cortesie tra nemici: io insulto te e tu insulti me. Restava da capire perché Haiisa li avesse portati lì. Voleva che guardassero come crepava il pesce? Perché era ovvio che sarebbe crepato, da solo contro cinque. O voleva che andassero ad aiutare i soldati? Non proprio una idea che piacesse a Gobbo. Era come comportarsi da bulli. Era comportarsi da bulli.

«Non possiamo lasciarlo morire così,» disse Mosca. «Non è leale. Cinque contro uno! Erano pure in sette, all’inizio, ma due li ha sconfitti. Non merita di morire così. Nessuno se lo merita.»

Haiisa scosse le braccia e mostrò i denti nella sua versione di un sorriso. «Se pensi che non si merita di morire così, vai ad aiutarlo tu. Hai una spada. Ti sei allenato. Vuoi diventare un eroe. Difendere un disperato che cerca di sopravvivere da solo contro tutti quei guerrieri mi sembra un gesto eroico, non trovi? O vorresti qualcosa di più? È troppo poco per i tuoi gusti? O un eroe difende solo quelli che appartengono alla sua stessa specie, e gli altri li lascia crepare?»

Mosca guardò Haiisa, la battaglia più in basso, di nuovo Haiisa. Annuì. Gli eroi sono eroi perché difendono tutti. Ovvio. Estrasse la spada e si girò verso Gobbo. «Vieni anche tu?»

Gobbo sospirò. «Vuoi andarci davvero? A salvare un pesce?»

«Voglio salvare una persona che ha avuto il coraggio di combattere da solo contro così tanti!»

Di nuovo la sua sindrome da eroe. Parlargli era inutile: avrebbe fatto come con la bestia nella cava e si sarebbe lanciato all’assalto da solo. Facendo probabilmente una brutta fine. E lui?

Guardò la battaglia. Il pesce resisteva ancora, ma sembrava ferito. Lo era di sicuro, nelle condizioni in cui si trovava. Una spada gli aprì un taglio su un braccio proprio in quel momento. Il pesce esitò un attimo, poi sembrò stringere i denti per continuare a combattere. Pazzo. O disperato.

Gobbo estrasse la spada. «Fai strada, ti seguo,» sospirò.

Haiisa incrociò le braccia e mostrò le zanne.


Harl sapeva di essere alla fine. Poteva reggere ancora qualche minuto, magari sconfiggerne un altro, se era fortunato, ma niente di più. Aveva perso e lo sapevano anche le scimmie. Quelle dietro erano là che se la ghignavano soddisfatte e c’era un mezzo sorriso anche sul muso di quella che gli stava di fronte a combattere. Si era allargato dopo il fendente che gli aveva inciso il braccio sinistro e gli aveva quasi fatto perdere la presa sul coltello. Era riuscito a mantenerla, ma ormai cambiava poco.

Lo avrebbero ucciso, poi sarebbero entrati nella grotta e avrebbero trovato Harla. Al resto cercava di non pensare. Aveva già problemi a sufficienza, senza bisogno di fantasie orrende.

E i problemi sembravano solo peggiorare. In un momento di pausa del suo assalitore, Harl guardò la spianata sassosa che si apriva davanti a lui e saliva lenta verso l’abbozzo di collina che chiudeva la visuale verso nord. Era soltanto una occhiata buttata così, giusto per staccare per un istante dai volti dei nemici che lo premevano e lo bloccavano. Servì solo a deprimerlo ancora di più.

Ce n’erano altri due in arrivo. Correvano verso di loro a spade sguainate, in silenzio. Uno era scuro e tarchiato, come gli altri, ma il secondo era un poco più alto e sottile, di un colore più chiaro. Razze diverse, probabilmente. Dovevano esserci anche tra le scimmie, no? Cambiava poco.

Che senso aveva combattere ancora? Erano come formiche, come mosche. Sciamavano da ogni lato e non finivano mai. Ne schiacciavi una e ne spuntavano altre cinque. Era inutile.

Il coltellaccio di Harl si abbassò un poco. La scimmia davanti a lui ghignò, preparando l’attacco. Lo avrebbe anche ucciso sul colpo, se non fosse stato per il ricordo di Harla. Peggio ancora, la voce di Harla. Sottile, lieve, poco più di sussurro, ma Harl la sentì. Veniva dalla grotta dietro di lui, dal buio e dal suo fresco relativo. Gli ricordava che arrendersi significava la morte di entrambi.

Harl non si arrese. Continuavano ad arrivarne? Continuassero pure! Avrebbe lottato fino alla fine. E se la fine era distante un solo attimo, avrebbe combattuto lo stesso. Non aveva alternative.

Gridò, e fu il lungo ululato di un corno da caccia, con armonici strani che nessun corno da caccia ti avrebbe mai dato. Le scimmie più vicine lo guardarono ghignando.

«Il pesce canta, lo senti?» rise uno di loro.

«Adesso lo faccio cantare io,» disse quello che era impegnato in duello. Alzò la spada.

E avvenne l’imprevisto.

Coperte dal grido di Harl, che aveva nascosto il suono dei loro passi, le due nuove scimmie si erano unite al resto del gruppo, ma senza unirsi a loro. Anzi. La spada del più tarchiato dei due colpì alla tempia un soldato, che si accasciò a terra sanguinando. Il secondo ne infilzò un altro in un fianco, la spada che si conficcava nello spazio tra il corpetto e la cintura. Perché? Cosa succedeva?

Harl non ne aveva idea, ma non si lamentava. Le grida dei feriti avevano distratto gli altri soldati e lui ne approfittò per colpire quello con cui stava duellando. Non lo uccise, ma gli recise il muscolo del braccio destro. Prova ancora a usare la tua bella spada, pensò Harl, e sorrise senza gioia.

Più indietro la mischia continuava. I nuovi arrivati stavano combattendo contro gli altri soldati e se la stavano cavando abbastanza bene, in apparenza. Un terzo guerriero finì a terra, a unirsi ai due che si erano presi l’attacco a sorpresa. Erano alla pari, adesso: due contro due. I soldati a terra potevano non essere morti, ma non sembravano pronti a rialzarsi e tanto bastava. Harl si concesse un attimo di speranza. Forse se la poteva ancora cavare. Se i nuovi arrivati erano nemici, erano comunque due invece di cinque. Se invece non erano nemici...

Harl scosse la testa e riprese a combattere. Il suo avversario cercava di difendersi ma ormai la sua carica era quasi a zero, si vedeva, e il suo braccio buono era fuori uso. «Mi arrendo!» gridò.

Harl mostrò i denti. «Ritenta, sarai più fortunato.» E gli aprì la gola.

Ansimando, si appoggiò alla pietra della grotta e guardò il resto della mischia. I nuovi arrivati erano in vantaggio e non avrebbero combattuto ancora per molto. Meglio riposare finché poteva. Cosa gli sarebbe potuto accadere dopo era un mistero, ma recuperare un poco di fiato sarebbe tornato utile in ogni caso. Poteva capitare di tutto, tra non molto. Incluso, e questa sembrava la cosa più incredibile, dover ringraziare due scimmie per averlo salvato da altre scimmie.

Oh beh. Tutte le specie lottano tra loro, no? Harl non ne era certo, ma sembrava plausibile.


Mosca era felice. Meglio ancora, si sentiva vivo come non si era mai sentito prima. Stava lottando, aveva già sconfitto due nemici e adesso duellava con un terzo. Vero, il primo lo aveva sconfitto con un attacco a sorpresa, seguendo il consiglio di Gobbo, e l’idea non gli piaceva troppo, ma il secondo era stato un duello pulito e aveva vinto lui. E il terzo, adesso...

Il terzo era come le storie che raccontavano la sera al villaggio. Affondi, stoccate, parate, schivate: si danzava con la spada e con l’avversario, un ballo di gruppo moto diverso da quelli che facevi per il raccolto, attorno ai falò nel centro della piazza, ma era pur sempre un ballo. E lui lo conduceva.

Poteva sentire sulla destra i rumori del duello di Gobbo, il clangore del metallo e imprecazioni qui e là, a scandire il ritmo. Sì, era proprio questo che desiderava. Era un peccato non averlo ottenuto con Lupo Nero, come sognava da bambino, ma andava bene lo stesso, perché lo aveva ottenuto. La cosa migliore era che stavolta avrebbe vinto. Non sarebbe finita come contro la bestia. Avrebbe vinto lui.

Gobbo era meno entusiasta, ma non poteva negare che si stava divertendo. Quando il pesce aveva cominciato a urlare come un corno da caccia, era stato lui a suggerire a Mosca di approfittare della distrazione per limare la differenza di numero. Tu ne colpisci uno, io ne colpisco un altro, due se ne vanno con l’attacco alla schiena e ce ne resteranno solo tre. Tre contro due è molto meglio rispetto a cinque contro due. È praticamente pari.

Mosca aveva borbottato un poco, ma aveva accettato. E adesso era pari. Peccato solo che il soldato fosse più forte di quanto lui si sarebbe aspettato. Non forte davvero, sia chiaro: Haiisa se lo sarebbe mangiato a colazione, senza neanche bisogno di alzarsi, ma Haiisa era Haiisa e lui era lui. Pure, non aveva dubbi che avrebbe vinto. Si sentiva carico. Si sentiva acceso.

Si sentiva che in un duello non esisteva qualcosa come giocare sporco. Era solo combattere.

Così, quando il suo avversario esitò per un istante, Gobbo scalciò una pietra che aveva tenuto sotto controllo per almeno un minuto e la spedì a colpire il soldato, alzando anche un poco di polvere. La pietra lo colpì in una coscia, la polvere lo irritò per un attimo e Gobbo gli infilzò la pancia.

Si girò in tempo per vedere Mosca che conficcava la spada in una spalla del suo avversario. Non un colpo mortale, forse, ma più che sufficiente per metterlo fuori combattimento. I nemici si potevano colpire anche a terra, dopotutto. Era molto più semplice e sicuro.

E avevano vinto. I cinque soldati che si erano trovati di fronte, uno dopo l’altro, erano stati sconfitti. Missione compiuta. Restava solo da vedere come avrebbe reagito il pesce, adesso.

Al momento non reagiva. Era appoggiato alla parete, metà dentro e metà fuori dalla sua grotta. Una mano stringeva un coltellaccio, l’altra si premeva una ferita sul torso. O qualunque parte del corpo fosse per un pesce. Non era così semplice da determinare.

I ragazzi non ne avevano mai visto uno. Avevano sentito le descrizioni, certo, ma bastava guardarlo per capire che erano solo storie, ripetute e modificate così tante volte da perdere ogni significato, se mai ne avevano avuto uno. Gobbo ne dubitava.

Tanto per cominciare, non sembrava un pesce. Aveva braccia molto lunghe e gambe molto corte, ma erano braccia e gambe, non pinne. Diverse da quelle di un umano, d’accordo, ma le riconoscevi per quello che erano. Le mani avevano quattro dita e sì, c’era una specie di pelle che le univa, ma finiva prima della falange più in alto, quella con le unghie. Non che il pesce avesse unghie, d’accordo, ma questo era un altro discorso.

La parte centrale del corpo era lunga e sembrava davvero una specie di tronco, un poco schiacciato. Il collo era un mozzicone minuscolo e la testa aveva una forma strana. Si capiva che era una testa e somigliava un poco a quella di alcuni animali, ma il naso era solo una coppia di fessure verticali, le orecchie due piccoli bottoni sui lati, non aveva mento, la bocca era una fessura orizzontale dritta, gli occhi due palle larghe e senza palpebre e... no, con una palpebra sola, ma orizzontale, che sbatteva di tanto in tanto. Orribile. La pelle era una specie di azzurro argentato e non aveva un solo pelo.

Gobbo non riusciva a smettere di fissarlo. Non un pesce, ovvio, ma gli ricordava un poco la storia di suo nonno, che diceva di avere visto cani marini che vivevano sulle spiagge sassose di certi paesi al nord. Da come li descriveva sempre lui, dovevano assomigliare un poco al cosiddetto pesce.

«Cosa facciamo adesso?» gli sussurrò Mosca.

«Guardiamo cosa fa lui, lei, quello che è,» rispose Gobbo.

Harl non si muoveva. Era la prima volta che aveva l’occasione di studiare così da vicino le scimmie che tormentavano la sua gente. Studiarle da vive, si intende. Erano piene di peli, avevano le gambe lunghe e sembravano davvero fatte per arrampicarsi e saltare. Adesso capiva perché le chiamavano scimmie. Facevano piuttosto senso.

Ed erano diverse tra loro. Ma tanto. Dovevano appartenere davvero a due razze distinte. Quelle più scure e tozze magari vivevano in luoghi caldi, mentre quelle alte e chiare in luoghi freddi. Oppure il contrario? Harla glielo avrebbe saputo dire. Era molto più esperta di animali.

Pure, le due scimmie lo avevano aiutato e per adesso non sembravano aggressive. Forse doveva loro un ringraziamento, ma era difficile capire come avrebbero reagito, se avesse detto qualcosa. Intanto avrebbe aspettato, per vedere cosa avessero in mente di fare. Sì, meglio così. Lasciare che la mossa iniziale fosse loro e poi agire di conseguenza. Intanto ne avrebbe approfittato per riposare.

Lo stallo sarebbe durato a lungo, mentre ognuno aspettava che fosse l’altro ad agire per primo, se a romperlo non fosse stata Haiisa. Cominciò a scendere verso la grotta quando la battaglia fu conclusa e i tre vincitori erano fermi a fissarsi da lontano. Camminava senza fretta e senza armi in pugno, la bocca aperta e i denti esposti in quello che per lei era un sorriso. Tutto come da copione. I ragazzi si erano comportati bene, avevano dimostrato di avere imparato qualcosa, ma erano ancora parecchio imbranati quando si trattava di capire come stare al mondo. Ci avrebbe dovuto pensare lei.

Harl fu il primo a notare la vespa perché era l’unico che ancora guardava verso il pendio, ma non ne fu felice. Non ne fu felice per niente. Cosa ci faceva una vespa assieme a due scimmie? Erano forse alleati? Peggio ancora, le vespe si erano forse alleate con le scimmie? Sarebbe stata la fine per loro. Il suo popolo non sarebbe mai sopravvissuto a un’alleanza del genere. Tanto valeva arrendersi e poi sperare in una misericordia che non sarebbe arrivata. Si mosse a disagio, leccandosi le labbra.

Gobbo lo notò, guardò dietro di sé, verso il punto che il pesce sembrava fissare, e vide Haiisa che arrivava. Diede di gomito a Mosca. «Ci penserà lei, adesso. Problema risolto.»

Mosca si girò, guardò, vide, annuì. Problema risolto: lui non sapeva come comportarsi col guerriero che avevano appena soccorso, il mese abbondante trascorso assieme alla vespa gli aveva insegnato quanto fosse difficile capirsi tra specie diverse, ma lei avrebbe saputo cosa fare. Sapeva sempre cosa fare, Haiisa. Non era un eroe al livello di Lupo Nero, d’accordo, ma meritava tutto il suo rispetto.

Haiisa arrivò e sapeva cosa fare. Lo dimostrò subito.

«Scusa se ti abbiamo rovinato la festa, ma volevo far fare un poco di esperienza ai miei due allievi,» disse a Harl, parlando nella sua lingua. «Nessuna obiezione, vero?»

Harl la fissò. «No, nessuna obiezione,» disse poi. «Mi avete salvato la vita. Vi ringrazio.»

Haiisa annuì. «E adesso non abbiamo intenzione di farti del male, per cui rilassati pure. Puoi anche mettere via la tua arma, se vuoi, oppure continuare a tenerla. Come preferisci. Ti suggerisco però di pulire e fasciare le tue ferite, qualunque altra cosa tu intenda fare.»

Harl si rilassò un poco. Non aveva idea di cosa fossero quei tre, ma forse non erano nemici. Poteva e doveva sperarlo, quantomeno: non sarebbe mai riuscito a sconfiggere una vespa, neanche in piena forma e armato a dovere. Tanto valeva assecondarla, per adesso, e stare a vedere.

«Siete nemici di quei soldati?» le chiese, rinfoderando il coltello.

«Né amici né nemici. Io cerco informazioni e loro due obbediscono agli ordini. Volevo parlare con te, o almeno con un elemento del vostro reparto. Tu sei quello che abbiamo trovato.»

Harl annuì. Ne sapeva quanto prima, ma almeno aveva un senso. Le vespe erano strane. Nessuno di loro sapeva davvero cosa volessero, ma ne potevi vedere spesso qualcuna in giro per il mondo a fare di tutto. Che ce ne fosse una interessata alle guerre tra altre specie era perfettamente normale. Che si fosse presa due giovani scimmie come allieve era già più strano, ma le vespe facevano sempre quel che si mettevano in testa. Ce n’era stata una che aveva salvato Harla, anni fa, perché le girava così.

«Chiedi pure e io risponderò, se posso. Potrei fasciarmi le ferite, intanto?»

«Fai pure, non c’è problema. Abbiamo bende e medicine, se ti servono.»

Mosca e Gobbo seguivano la conversazione senza capire una sola parola. Che lingua stava parlando Haiisa? Sembravano strani rutti modulati, ma neanche i più grandi sbevazzoni al villaggio sarebbero mai riusciti a produrre suoni simili. Il lato positivo era che la situazione si era tranquillizzata e per il momento non sembrava esserci il rischio di nuovi scontri. Tanto meglio.

I ragazzi sedettero e pulirono le spade, come Haiisa aveva insegnato loro. Mosca affilò un poco la sua, tanto per passare il tempo, mentre Gobbo si guardava attorno e beveva dalla sua borraccia. Non il posto migliore in cui fermarsi, ma si sentiva bene. Avevano combattuto, avevano vinto e adesso si era risolto tutto. Probabilmente avevano anche fatto qualcosa di buono, ma era difficile capirlo. Non un grande problema: Haiisa avrebbe spiegato loro ogni cosa, più tardi.

Ogni cosa che aveva voglia di spiegare, quantomeno.

«Pensi che dovremo imparare anche noi tutte queste lingue?» chiese Mosca.

Gobbo ci pensò e si strinse nelle spalle. «Qualcosa lo impareremo di sicuro, strada facendo, ma non so se ci sia bisogno di saper parlare davvero così bene. Voglio dire, dipende da cosa faremo.»

Mosca annuì. «Ovvio. Per combattere non serve parlare, ma prima e dopo sarebbe comodo. Giusto per capire cosa dicono gli altri. Fare due chiacchiere. Cose così. Capirsi, ecco.»

Capirsi, già. Quello faceva sempre comodo, ma ci avrebbero pensato poi. Per adesso, Gobbo voleva solo godersi la vittoria e riposare. Avevano marciato tanto, dopotutto. Che il resto lo sbrigasse pure Haiisa: ne sapeva molto più di loro e se la cavava molto meglio di loro. Più o meno in tutto.

Nel frattempo, la conversazione proseguiva. Mentre cercava di pulire al meglio le proprie ferite, sia quelle causate dalla battaglia che dalla corsa sui terreni orribili, Harl spiegò a grandi linee la storia del suo reparto, che si era addentrato in quella regione per esplorare, studiare e sì, d’accordo, anche e soprattutto spiare. Perché c’era una guerra in corso, i loro insediamenti erano attaccati di continuo e avevano bisogno di difendersi. Haiisa ascoltava e annuiva, senza cambiare espressione.

Raccontò poi di come fossero stati scoperti, la fuga, la battaglia sul valico e la distruzione di tutto il loro reparto. «Siamo riusciti a fuggire a malapena e da allora siamo nascosti da queste parti. Non un granché di posto, ma...» Harl fece un gesto che poteva essere una scrollata di spalle.

«Siete? Vedo solo uno di voi, qui. Gli altri dove sono?» chiese Haiisa.

Harl si sarebbe preso a pugni. Non era sua intenzione parlare di Harla, avrebbe preferito far credere di essere da solo, ma ormai gli era scappato il plurale e il danno era fatto. Come rimediare?

«Ecco, dicevo “noi” perché...»

«Perché ci sono anch’io.»

Harl si girò di scatto e vide la sorella arrancare verso di loro, una mano premuta sul fianco ferito, la spalla che strisciava contro la parete. Perché? Perché era uscita, invece di restare nascosta? La mano scese verso il coltello, sapendo che sarebbe stato inutile, ma sapendo anche che l’avrebbe protetta in ogni caso, a tutti i costi.

«Rilassati,» gli disse Harla. «È tutto a posto.»

Harl trovava difficile rilassarsi, ma si fermò prima di afferrare il manico del coltello. Per adesso.

Mosca e Gobbo si alzarono. Dalla grotta stava spuntando un altro pesce. Era un poco più grosso del primo, ma decisamente meno in forma. Aveva un fianco fasciato, camminava a fatica, sembrava più morto che vivo ed era disarmato. Non proprio minaccioso, insomma. Certo, se ce n’erano due ce ne potevano essere di più, ma sembrava improbabile. Dunque...

«Lo stava proteggendo,» sussurrò Mosca, «Quel guerriero proteggeva il suo compagno ferito.»

Gobbo annuì. Sembrava qualcosa del genere, sì. Aveva combattuto all’ingresso della grotta non solo e non tanto per difendersi meglio, ma per fare da scudo all’altro pesce. Una brava persona, forse.

«Perché sei uscita?» sibilò Harl.

«Perché ci conosciamo già,» rispose Haiisa. «Avrà sentito che la battaglia era finito e magari avrà riconosciuto la mia voce, così è uscita a controllare, sapendo che il peggio era passato. Giusto?»

«Più o meno,» disse Harla. «Che il peggio sia passato è da dimostrare, ma almeno siamo in pausa.»

Haiisa mostrò le zanne. «Direi che possiamo cominciare rattoppandoti meglio. Il tuo collega si sarà impegnato di sicuro, non ne dubito, ma non ha fatto un gran lavoro.»

«Mio fratello non è mai stato molto bravo in queste cose. Da solo non se la sa cavare.»

Harl la guardò molto male, ma non commentò. Non poteva darle torto, anche se lo avrebbe voluto: i suoi talenti non includevano la cura, neanche ai livelli più rudimentali. E non era l’unica disciplina a non essere inclusa, a voler fare i pignoli. Sospirò.

«Noi lavoreremo nella grotta, voi intanto fare pure amicizia,» disse Haiisa, prima di sparire dentro il fresco e la penombra. Fuori, ad attendere, rimasero Harl e i due ragazzi. Più il silenzio, massa quasi solida che li avvolgeva. E adesso loro?

«Cosa facciamo adesso? Hai capito che è successo?» chiese Gobbo.

Mosca si strinse nelle spalle. «Haiisa è entrata nella grotta assieme all’altro e ci ha lasciati qui fuori col primo. Non so cosa abbia detto. Forse si aspetta, non so, che facciamo conversazione?»

«Conversazione? E in che lingua, scusa? Noi non sappiamo parlare la sua! A gesti, forse? Non è una buona idea, direi: metti che facciamo il gesto sbagliato e si arrabbia...»

Harl si accasciò a terra, tanto seduto quanto la sua anatomia gli consentiva. Sembrava una persona stravaccata su un comodo divano, ma non aveva l’aria di trovarsi molto bene.

«Parlo un poco vostra lingua, io,» disse. «Grazie di prima.»

Il pesce aveva un accento che potevi tagliare col coltello e le sue parole sembravano più soffiate che pronunciate, ma si riusciva a capire abbastanza bene, se ti concentravi. Mosca si concentrò.

«Era nostro dovere. Avevi bisogno di aiuto,» gli rispose, parlando lento e scandendo bene le parole.

«Molti non avrebbero aiutato. Io combattevo contro gente di voi.»

«Haiisa ci ha chiesto di aiutarti,» disse Gobbo, indicando verso la grotta. «Non so perché, ma è stato divertente e va bene così. Tutto è finito bene.»

Harl annuì. «Tutto finito bene, sì. Per adesso.»

«Sì, immagino sarà meglio cambiare aria. Andare da un’altra parte,» specificò Gobbo. «Non so da che parte, non conosco questa regione, ma ci penserà Haiisa.»

«Haiisa pensa a tutto,» annuì Harl, con quello che poteva essere un sorriso, volendo.

«Sa molte più cose di noi,» disse Mosca. «A proposito, io mi chiamo Mosca e lui è Gobbo.»

«Io Harl. Mia sorella Harla,» aggiunse, indicando la grotta.

Sorella? Dunque era una femmina, l’altra. Doveva esserci qualche differenza sotto i vestiti, ma non te ne saresti mai accorto a guardarli da fuori. Non che cambiasse qualcosa, ma serviva a ricordare le differenze tra loro. Haiisa era probabilmente la più diversa di tutti, ma quello era un altro discorso e non valeva neppure la pena di cominciarlo. Non ci sarebbe stato abbastanza tempo.

Si guardarono un poco in silenzio, poi tentarono variazioni sul tema del sorriso. Pareva funzionare. Continuarono a parlare alla meglio per almeno un’altra mezz’ora, poi Haiisa uscì dalla grotta. «Ora è il tuo turno per le medicazioni,» disse a Harl. «E Harla ti vuole parlare. Vieni.»

Sparirono nella grotta.

Mosca e Gobbo si guardarono. «Poteva andare peggio, no? Non sembra una brutta persona,» disse Gobbo. «Dovremo decidere come chiamarlo, se pesce è così offensivo per loro, ma per il resto...»

Mosca annuì. «È una brava persona di sicuro. Combatteva per difendere sua sorella ferita, no? Non puoi essere cattivo, se fai una cosa del genere.»

Gobbo preferì non obiettare. Cosa sarebbe successo, ora? Avrebbero viaggiato assieme? Ognuno se ne sarebbe andato per la propria strada? Non ne aveva idea, ma la decisione non era sua. Come nelle occasioni precedenti, avrebbe deciso Haiisa e loro avrebbero seguito.

Se poi un giorno fossero anche riusciti a capire dove li stava portando, tanto di guadagnato. Finora tutto era andato bene ed era già qualcosa. Non si potevano lamentare. Per adesso.

Nella penombra della grotta, Harla sedeva nel solito posto, ma sembrava già più in forma di prima. Le bende erano state cambiate, la sua faccia umida e potevi quasi pensare che fosse tornata sul lato giusto del fiume, quello che portava alla vita invece che alla morte. Harl lo sperava. Di cuore.

«Quando vi sarete rimessi un poco in forma, voi due verrete con noi,» disse Haiisa mentre gli puliva e cuciva la ferita sulla schiena. «Qualcosa in contrario?»

«Proprio in contrario no, ma...» Accennò vagamente all’esterno.

«Problemi a viaggiare con nemici della tua gente? Quei due non lo sono. Non avevano mai neanche visto uno di voi, prima di oggi. I vostri popoli possono anche combattersi, ma questo non significa per forza che non possano esserci alleanze o amicizie tra singoli individui. Sono due cose diverse.»

«Sì, lo so, e non sembrano cattivi...»

«Ma sono del tipo sbagliato, capisco. Allora voi due seguirete me, così come gli altri due mi stanno già seguendo. Io sono neutrale e non ci sono problemi. State solo seguendo tutti la stessa persona.»

Harla rise. «Digli quello che deve fare e lui lo farà. Harl fa solo finta di essere testone, ma si lascia manipolare senza problemi. Cambia idea in un attimo. Ci mette solo un po’ di tempo a fare arrivare la notizia a tutte le parti del cervello.»

Harl la guardò male, ma non rispose.

«E poi siamo in debito con te,» continuò Harla. «Io lo ero già da prima, quando mi avevi salvata tre anni fa, e adesso mi hai salvata di nuovo. Hai salvato anche mio fratello. Dicci cosa vuoi da noi e lo faremo. È il minimo, davvero.»

«Come ho già detto, unitevi al mio piccolo gruppo. Siete le persone che mi servono.»

«Senza spiegazioni su cosa dovremo fare?» chiese Harla.

«Senza spiegazioni, ma non sarà niente di terribile. Anzi, potrebbe anche farvi comodo. Non credete che sarebbe una buona idea darci un taglio con queste guerre? Ci sono problemi più grandi in arrivo e non è il caso di perdere tempo e forze con queste stupidaggini.»

«E tu pensi di poter risolvere il problema?»

Haiisa scosse le braccia. «Staremo a vedere cosa succederà. Ah, giusto: per evitare parole offensive tra voi, diciamo che d’ora in poi la vostra gente la chiameremo “acqua” e la loro gente “terra”. Non ha un significato preciso, ma sono etichette migliori di pesci e scimmie.»

«E tu che elemento sarai?»

«Vespa va benissimo. A me non interessa. È meglio però cambiare i vostri, per evitare litigi e altro.»

Quindi sarebbero partiti davvero assieme a Haiisa e ai suoi due allievi? Strano gruppo, pensò Harl, ma probabilmente ce n’erano di peggiori. E in fondo sì, sua sorella aveva ragione: aveva un debito e lo avrebbe pagato. Poteva solo sperare di guadagnarsi qualcosa anche lui, alla fine, ma lo avrebbero scoperto in viaggio. Sarebbe stato bello anche conoscere la direzione del viaggio, ma probabilmente l’avrebbe scoperta anche troppo presto.

Intanto, sarebbero partiti all’avventura. Non era il lieto fine che si sarebbe aspettato, ma almeno era un finale positivo e per adesso si potevano accontentare. Per dopo, ci avrebbe pensato dopo.

Sperando che dopo ci sarebbe stato ancora tempo.

di Adriano Marchetti