Penombra fitta. Ronzio di ventilatore. Sdraiato sul pavimento della stanza, a torso nudo, Tommaso Giodi fissava il soffitto. Non che lo guardasse proprio. Gli occhi aperti devono essere rivolti verso qualcosa e il soffitto era la direzione più naturale per qualcuno sdraiato di schiena. Non una visuale molto affascinante, ma in mancanza di meglio Tommaso si sapeva arrangiare.
Non era un granché di stanza. Non era un granché di soffitto. Non era un granché di ventilatore e a volerla dire tutta non era neppure un granché di Tommaso. Era però quello che passava il convento. Tommaso Giodi aveva imparato l’arte di arrangiarsi quando era studente fuorisede all’università e ne aveva fatto una filosofia di vita. Uno stile di vita. Forse sarebbe stato meglio farne qualcosa di un poco più utile e concreto, ma ormai era andata così. Era in ritardo di due decenni abbondanti.
Giugno. Poteva fare così caldo? Certo che poteva. Lo stava facendo. L’aria nella piccola stanza era quasi solida, sapeva di chiuso e di muffa. Il ventilatore la mescolava qui e là, ma rimaneva brodo. Il fresco era un miraggio. Da qualche parte il cotone poteva anche essere alto e i pesci saltavano, ma lì era alta soprattutto l’umidità e vivere non era facile per niente.
Dal piano di sopra colavano le note del vicino. Se le potevi chiamare note. Era un sax tenore, in cui il caro vicino amava soffiare come un orco. Adesso era impegnato a seviziare Summertime. Da tre ore almeno. Se ci stavi molto attento riuscivi anche a cogliere qualche frammento della melodia, tra note sottoposte a brutalità da scuola Diaz. Tommaso Giodi non ci stava molto attento, ma la sentiva lo stesso. L’aveva sentita dall’inizio. Il ventilatore era rumoroso, ma non abbastanza.
Da dove trovava tanta energia, il caro vicino? Dall’aria condizionata, di sicuro. Buon per lui. Quali erano le probabilità di essere stroncati da un infarto per avere suonato troppo forte e troppo a lungo in un giorno troppo caldo? Non abbastanza alte, in apparenza.
Tommaso Giodi chiuse gli occhi, migliorando un poco il panorama. Aveva un menhir appoggiato al centro del petto, ma forse era solo aria. Se la potevi chiamare aria. Ancora qualche grado e ci voleva uno scalpello per respirarla. Forse non ne valeva neppure la pena. Forse era tempo di spostarsi su un altro tratto di pavimento. Stava diventando piuttosto caldo. Non che ce ne fossero molti: era piccola, la stanza, e nel corso di quella domenica l’aveva già strisciata quasi tutta in cerca di fresco.
Non ne aveva trovato granché, e quel poco non era durato a lungo.
Summertime. Chissà se il caro vicino accettava richieste? Qualunque cosa, purché fosse diversa. Lo irritava la musica e lo irritava il testo. No, non lo irritava la musica. Lo irritava il rumore spacciato per musica. Il testo non c’era, d’accordo, era solo il sax, ma Tommaso sentiva lo stesso le parole. Le sentiva dentro il cranio. Pulsavano. Summertime, and the boiling is easy.
Il ventilatore ronzava. Una mosca ronzava. La sua testa ronzava. E il sax gemeva. Agonizzava. Era il ventitré del mese, ma era già il giugno più caldo di sempre fino al prossimo anno. Così parlò il meteo. Almeno quarantatré gradi in città. Non uscite se siete vecchi o malati. Anzi, uscite pure, così poi vi levate dai coglioni. Parassiti di merda. Intorno a lui solo penombra, sagome, aria di melassa. Anche con gli occhi chiusi. Anche col cervello chiuso.
Una di queste mattine ti alzerai cantando. Distenderai le ali e volerai nel cielo.
Tommaso Giodi si alzò molto lentamente. Il suo corpo si separò dal pavimento come nastro adesivo vecchio e consumato. Rimaneva una vaga sagoma di traspirazione. Datemi un gesso bianco e avrete la scena di un crimine. Tommaso scosse piano la testa. Summertime. Fantastico. Dacci dentro col tuo sax, mi raccomando. Fino all’aneurisma e oltre. Summertime. Yeah.
Raggiunse il bagno su gambe di marzapane, si lavò alla meno peggio, asciugò una pelle che pareva fatta di caucciù, indossò i primi vestiti che trovò sulla sedia. Stropicciati, ma andavano bene. Più o meno come lui, e non erano neppure troppo fetidi. Vivere era proprio facile.
Uscì. La strada era un altoforno orizzontale, puzzolente di polvere e di bruciato. Il respiro gli mancò per un attimo, poi rientrò dalla pausa e tornò al lavoro. Inalava asfalto gassoso, o qualcosa di molto simile. Summertime, giusto. Chiudi il becco, moccioso. Non hai niente da piangere, tu.
Nessuno attorno, né umano né appartenente ad altre specie. Tranne lui. Il cielo era candeggina usata e dimenticata da qualche settimana. Un sole c’era di sicuro, lo sentivi friggerti il cranio, ma per gli occhi era soltanto una chiazza biancastra più luminosa, persa in un oceano biancastro. Niente di cui preoccuparsi, giusto un anticiclone di passaggio. Godetevi l’estate e tutto andrà per il meglio.
Parola del ministro dell’Ottimismo, sempre sia lordato il suo nome.
La città sbiadiva in lontananza, per valori molto bassi di lontananza. Giusto una decina di metri, più o meno, così non ti dovevi affaticare troppo. E polvere, polvere e polvere. Silenzio. Un lieve ronzio in sottofondo, che arrivava da chissà dove e chissà dove andava. Patatine che friggono in padella, o in qualunque altro contenitore si friggono le patatine. Tommaso non ne era sicuro, ma era sicuro che l’informazione fosse irrilevante, specie al momento. Da dove poteva venire? Passò un’auto, ma non era da lì che usciva il ronzio. Da dove?
Tommaso Giodi scelse una direzione a casaccio e si incamminò. Strisciava contro palazzi e case, in cerca di una scheggia di ombra. A volte la trovava. L’aria continuava a bruciare in gola e a puzzare, adesso aromatizzata al fumo stantio. E polvere. Quella c’era sempre. Umani, zero.
Superò un manifesto col faccione del Grande Padre Obeso, che ghignava barbuto e inespressivo. Un cartello avvisava che in una piazza ci sarebbe stato un concerto durante una delle prossime notti. La vetrina vuota di un negozio chiuso e grigio. Saracinesche abbassate. Era metà pomeriggio, ma erano abbassate lo stesso. Non si vedeva gente, dopotutto. Non in strada. Tommaso proseguì in silenzio.
Una bandiera con la rosa camuna, verde e uncinata. Altre saracinesche. Una fila di tre negozi, bui e grigi, che si offrivano in affitto a chiunque li volesse. Il portone di un condominio, vietato l’ingresso ai baluba, qualunque cosa fossero. Un minuscolo parco urbano, la vegetazione tra il rinsecchito e il mummificato, alcune panchine borchiate. Altre saracinesche chiuse. Affittasi. Vendesi.
Una nuova auto di passaggio: dal finestrino abbassato si riversò nell’aria un frastuono ritmato, con tracce di asma. Tommaso Giodi la seguì con lo sguardo per un breve tratto, poi la ignorò. Era anche fuori portata, ormai. Decisamente un bene per le orecchie. Summertime, giusto.
Proseguendo. Tommaso si asciugò la fronte con la mano e la mano col pantalone. Il cervello era in ebollizione dentro al cranio. O forse friggeva. Difficile dirlo. Il ronzio che aveva sentito all’inizio si sentiva ancora, ma rimaneva remoto. Da dove veniva? E cosa lo produceva? E perché? E aveva poi importanza? Scrollò le spalle e chinò la testa. Avanti.
Edifici grigi. Negozi chiusi. Negozi abbandonati. Una tabaccheria aperta. Un bar, aperto e popolato da fantasmi, o almeno da umani che si sforzavano di essere vuoti e invisibili. Invivibili, forse anche e magari. La porta era chiusa, a salvare l’aria condizionata. Tommaso meditò per un attimo, poi non si fermò. Non era il posto giusto. Ancora non sapeva quale fosse, ma non era quello. Una vena sulla tempia gli pulsava forte. Sudava. Succhiava aria tra i denti.
Auto parcheggiate, alberi morti. Tracce di guano sul marciapiede. Tommaso Giodi alzò lo sguardo di riflesso, ma i suoi produttori non c’erano più. Volati altrove, probabilmente. Meglio per loro. Chi aveva le ali faceva bene a volare. Lo avrebbe fatto anche lui, potendo. Non poteva. Così procedeva.
La skyline del quartiere si aprì di colpo sulla sua destra. Un breve assaggio di spazio, fugace senso di libertà. Lo chiuse la sagoma massiccia che dominava tutto. Tommaso ne colse il profilo e sprangò gli occhi. La piramide di Lambrate, mastodonte in vetro, acciaio e cemento, la grande opera con cui il genio nazionale voleva simboleggiare qualcosa di molto simbolico e con una durata probabile che si aggirava sui mille anni. Anche lì sventolava la rosa camuna, verde e uncinata.
Tommaso Giodi riaprì gli occhi. Voltò le spalle all’ecomostro e accelerò lungo il marciapiede, tra le sue crepe e i suoi pezzi di asfalto sradicati dalle intemperie. Il sole batteva, picchiava, martellava e si dedicava pure ad altre operazioni altrettanto nocive per chiunque le ricevesse. L’aria era solida e fetida. Ai lati continuavano a scorrere saracinesche, cartelli, avvisi, edifici e altro pattume urbano. Lui ignorava tutto. Non c’era tempo, non c’era senso. Avanti. Avanti!
Un riflesso metallico, laggiù dove la calura produceva miraggi sulla strada. Ma non era miraggio e non era sulla strada. Era la linea ferroviaria. Dritta dritta di riflesso in riflesso, sotto un intestino di cavi e tralicci, dal nulla a un altro nulla, o almeno a una stazione che vi assomigliava abbastanza. E quella stazione in particolare era davvero simile al nulla. Era anche molto, molto triste. Tommaso la usava di tanto in tanto, con poco entusiasmo. Forse l’avrebbe potuta usare anche adesso.
Summertime, già. Non c’è niente che possa farti del male con mamma e papà al tuo fianco. Ma non c’erano, per fortuna, e qualcosa gli avrebbe potuto fare del male. Tommaso scrollò le spalle. Scrollò anche la testa, ma quel maledetto sax non se ne voleva andare. Forse era il caso di ringraziare il caro vicino: gli avrebbe potuto regalare un topo morto, o qualcosa del genere. Una museruola, anche. Un cuscino da premergli sulla faccia mentre dormiva. E sognava cotone alto.
Proseguì, costeggiando la linea ferroviaria quando poteva, che era molto spesso. La stazione doveva essere da quella parte. Se invece era dalla parte opposta, sarebbe tornato indietro. Ma non ne aveva voglia. Il caldo lo stava davvero uccidendo. Quindi era meglio che fosse la direzione giusta.
Lo era. Dopo diverso sudore, Tommaso raggiunse l’ingresso. Era triste come lo ricordava e i cartelli aggiunti di recente non ne miglioravano l’estetica. Le scritte erano pure peggio. Non che ti potessi aspettare granché, dato il contesto urbano, ma certe frasi e certi motti erano patetici a prescindere.
Irrilevante. Tommaso avanzò e la porta automatica si aprì.
Prima lo colpì l’aria condizionata, quindici gradi abbondanti in meno rispetto all’esterno, poi fu il turno della folla. Non che fosse una gran folla, ma anche una manciata di disperati poteva sembrarti una moltitudine urlante, se arrivavi dal deserto del Gobi. Questa moltitudine non si poteva definire urlante, ma parlava. Ronzava. Brusiava, o qualunque fosse il verbo con cui si descriveva l’azione di produrre un brusio.
Sedevano. Le sale d’attesa vere e proprie erano quasi del tutto scomparse dopo le ultime modifiche, ma c’erano panche sparpagliate ovunque: nella zona della biglietteria, in alcuni corridoi, in aree di cui Tommaso non conosceva il nome ufficiale ma che erano grossomodo spazio vuoto o quasi, dove potevi ciondolare aspettando il treno, un occhio ai monitor e l’altro altrove. E il bar, ovvio. C’era sempre almeno un bar. A volte anche qualche negozio, ma non lì. Per fortuna.
Sedevano e prendevano il fresco. Alcuni parlottavano tra loro, quasi tutti impugnando smartphone o aggeggi analoghi. Tommaso mosse qualche passo avanti, poi si fermò. Respirò. Era un altro clima, sì. Ma anche non lo era. Se guardavi bene, dico. Tommaso Giodi cercò di guardare bene.
Anziani, soprattutto, o in via di anzianificazione. Più uomini che donne. Perlopiù bianchi o varianti sul tema, ma non c’era da sorprendersi: in un angolo poteva vedere due agenti della polfer, o quello che era adesso. Probabilmente avevano cambiato nome. Polfer non era abbastanza marziale. Poteva anche vedere telecamere di sorveglianza, qui e là: mimetizzate sul soffitto, accanto ai monitor cogli orari e i ritardi dei treni, inserite negli schermi con le pubblicità incessanti.
Tommaso ruotò lentamente la testa in un arco di centottanta gradi, da destra a sinistra. Qualcuno lo stava osservando, adesso. Chissà che trauma staccare gli occhi dallo smartphone. Sorrise. Ruotò di nuovo la testa, stavolta da sinistra verso destra. Più occhi si erano alzati, inclusi quelli dei polfer. Un altro paio di passi verso il centro della sala, su un lato la biglietteria, sull’altro il pubblico seduto. O gli spettatori, i refrigerati, i perditempo. Chiamali come vuoi, non ti risponderanno lo stesso.
Borbottii. Alcuni occhi lo hanno disertato, poi altri, alla fine tutti. Niente di interessante, soltanto un tizio strano, in cerca di fresco. Spalle alzate e abbassate. Una frase, un’altra frase. Luoghi comuni e ritriti, frasi fatte e rifatte, ormai sfatte. Critiche vaghe, tanto per prendersela con qualcosa. Schermi, schermi e ancora schermi. Illuminavano le facce e prosciugavano gli occhi. La voce meccanica che annunciava un treno in arrivo sul quinto binario, ferma a questo, quello e quell’altro ancora. Ma non arrivavano più in orario, i treni. Non come una volta. E la voce meccanica continuava, avvisava, che la polizia era buona e lavorava per il bene di tutti e la sicurezza di nessuno. Sorvegliare, perquisire e proteggere. Ama lo sbirro tuo come te stesso. Summertime, yeah.
Nel cranio di Tommaso qualcosa fece crack. Chiuse gli occhi, li riaprì, inspirò, parlò.
«Eccomi,» gridò, alzando le braccia. «Guardatemi! Sarò qui nella luce e nel buio, sarò ovunque, in ogni angolo in cui guarderete. Mi troverete ovunque ci sia gente che combatte perché chi è affamato possa mangiare. Mi troverete ovunque un poliziotto stia pestando un’altra persona. Mi troverete in ogni posto in cui qualcuno urla perché è arrabbiato, dove ci sono bambini che ridono perché hanno fame e sanno che tra poco pranzeranno. Sarò dove...»
I presenti effettivamente lo guardarono, in una ola di teste scollate da schermi. Qualcuno scattò una foto, qualcun altro borbottò un commento al vicino, molti ridacchiarono. Nessuno si mosse. Agenti della polfer a parte, ovvio. Loro si che si mossero, attraversando a passi lunghi lo spazio vuoto che li separava dal pazzo. Ce n’era sempre qualcuno col caldo, un fastidio che non ti dico, guarda. Ma il lavoro era lavoro e quello era il loro. Sarebbe meglio se certa gente se ne restasse a casa propria, ma che ci vuoi fare? È per questo che il mondo va sempre peggio.
Il primo agente sospirò, il secondo scosse la testa. Assieme afferrarono Tommaso per le braccia e lo scrollarono, non ancora troppo forte. «Chiudi il becco, vè,» gli consigliò il primo. Tommaso non lo chiuse. Continuò col suo delirio, sempre più folle e sconclusionato. Lo scrollarono più forte, ma il messaggio ancora non arrivava al destinatario, così lo sollevarono di peso e cominciarono a poco a poco a trasportarlo fuori dalla stazione. Era pesante, il balordo. E puzzava un poco.
Tommaso Giodi si dimenò, scalciò l’aria, urlò ancora più forte. Il pubblico cominciava a trovare più interessante lo spettacolo. Altri smartphone si sollevarono e scattarono, voci incitavano gli agenti a darci dentro, qualcuno commentò che davvero non se ne poteva più, c’erano matti ovunque, tempo di fare qualcosa sul serio, le camere a gas ci volevano, altro che storie. Alcuni annuirono, grugniti di consenso si sentirono qui e là. Tommaso proseguiva il suo sermone.
I due agenti della polfer si guardarono. E adesso?, chiedevano gli occhi. C’era da fare qualcosa per mantenere la pace e soprattutto la faccia. Chi cominciava? Prima tu? No, prima tu. E Tommaso, lui, parlava e parlava, e sclerava, annunciando questo e quello, in su e in giù.
Come sempre succede nei momenti difficili, almeno nelle storie scritte da chi ne capisce davvero, a salvare la situazione arrivarono i nostri, il settimo carabinieri o quel che era. Allertata dalle camere di sorveglianza che segnalavano comportamenti atti a infrangere la pubblica armonia, il peggiore di tutti i crimini, si fermò nel piazzale esterno della stazione una camionetta blindata da cui sgorgarono sbirri in tenuta antisommossa, con le palle girate per il caldo e un gran desiderio di condividere col prossimo il malumore indotto dal clima orrendo e dalla chiamata che li aveva costretti a uscire dalle stanze refrigerate e più confortevoli della caserma.
Lo video. Bello come una concussione, fiancheggiato dagli agentini ferroviari. Lo puntarono, teste chinate e facce irrigidite. Lo caricarono. E giustizia fu.
In un alalà di manganelli, Tommaso Giodi fu cucchizzato come si meritava. Il pubblico osservava e applaudiva, filmava e condivideva, tra i «Viva la polizia!» e «Fuori le zecche rosse!» che sono una routine in certe occasioni sociali. I due polfer si sistemarono in disparte ad assistere, chiacchierando di cosa avevano in programma per le vacanze. Il mare, una settimana, per i bambini, è mia moglie, guarda non ti dico, sai anche tu, i prezzi, sparisce anche la spiaggia, che tempi, questo e quello.
Qualche ultima botta e lo spettacolo si concluse, il corpo rimosso, il pubblico soddisfatto. Chi dava la colpa al caldo, c’erano matti ovunque, una volta le estati erano migliori. Chi dava la colpa ai libri, c’era gente che leggeva troppo, il cervello gli marciva, guarda te come vanno a finire, roba da matti, sono i tempi di oggi. Chi non parlava ma lavorava di dita, rispondendo ai commenti sui post recenti e l’entusiasmo che li aveva accompagnati. Tutti scrollarono le spalle e passarono oltre. Era andata piuttosto che bene, dai, ma che caldo che faceva!
Fuori, il pomeriggio di giugno continuava ad arrostire strade vuote e polverose. Persino le cicale si erano arrese, quelle che ancora non erano morte. E forse da quelle parti prima o poi sarebbe sbucato il fantasma di Tommaso Giodi, in cerca di qualcuno che lo cercasse, ma più probabilmente no.
I fantasmi morti non esistono, si sa.
Summertime, and the lynching is easy. Yeah.