Adriano - racconti e altro

Ti leghera' a se'

La città gli arrivò in faccia all’improvviso, dietro la curva. Un ammasso di edifici spruzzati in una valle che il torrente aveva scavato, scendendo alla pianura. L’uomo ripensò a come gliela avesse presentata il vecchio, la sera prima. Bell’affare aveva fatto ad ascoltarlo.

Città? Molto generoso, come termine. Era un paese che pareva vomitato in una buca tra le colline. E vomitato da qualcuno con una pessima mira: ce n’erano schizzi anche sui bordi, case e cascine che si aggrappavano ai crinali, circondate da campi a volte coltivati. Più una manciata di campanili, rari grappoli di condomini in mezzo a una moltitudine di edifici bassi, due o tre piani al massimo.

Ecco la città. Hah!

Aveva qualcosa di familiare, il che era normale per buchi simili: visto uno, visti tutti. Aveva anche qualcosa di sbagliato, nel complesso, il che era già meno normale. Pareva il disegno di un bambino distratto, non un luogo reale. Anche il profilo degli Appennini, che si scorgevano contro l’orizzonte, sembrava la scenografia di un film amatoriale, di quelli con la cugina come attrice protagonista, per mancanza di meglio. Azzurrini, era come se fossero stati ritagliati nel cartone.

L’uomo scosse la testa. Pensieri insensati, solite fantasie. Troppo caldo, e il sole gli batteva addosso fin dal mattino: ecco perché fantasticava tanto. Di riflesso alzò lo sguardo verso il cielo, una cappa quasi solida che lo accompagnava ovunque. C’era da fare a gomitate con l’aria, per muoversi. Come una ragnatela di gomma che ti si appiccica attorno: la dovevi masticare, per respirarla.

Tornò a fissare sul paese gli occhi annoiati, sperando di trovarvi qualcosa di meglio. Niente da fare, ci voleva molto di più per rendere interessante quell’insulso angolo di mondo. Qualche tonnellata di tritolo sarebbe stato un buon inizio. Oh beh, era la vita.

Un borgo, appunto, che puzzava ancora di campagna. Cosa potesse esserci di tanto speciale in una topaia simile, non lo avrebbe mai capito. Doveva proprio avere bevuto parecchio, il tizio della città vicina. O quello, oppure era demenza senile a uno stadio avanzato. Ecco un’altra annotazione per il suo taccuino: mai ascoltare vecchi col cappello di paglia nelle osterie di un paese.

Ormai era arrivato lì, tanto valeva fare qualcosa. Non poteva starsene sul ciglio della strada, come uno spaventapasseri, ad aspettare la manna dal cielo. Scendere o tornare indietro, le due alternative che aveva. Oppure fermentare in eterno su una collina, nella canicola di un luglio padano, per farsi deridere dagli automobilisti di passaggio. Maledetti anche loro.

L’uomo sbuffò. Scendiamo pure, già che siamo nelle spese. Un bar lo avrebbe pure trovato, per bere qualcosa, magari anche una stanza per la notte. Poi, il giorno dopo, ali ai piedi e tanti saluti a tutti. Una tappa insulsa: non la prima e non l’ultima. C’era da mettere in conto un errore o due, di tanto in tanto, quando decidevi di rotolare per il mondo invece di piantare le radici come gli altri.

Con un ultimo sospiro si incamminò verso il basso, asciugandosi la fronte gommosa. Il cielo era una parete affrescata da poco sopra la sua testa: bianco di umidità e con un sole pallido, sfocato. Faceva proprio schifo quella stagione. Schifo come il paese laggiù.

Un posto indimenticabile, certo. Vacci, mi raccomando. Ne vale la pena, fidati di me. E scommetto che non te ne vorrai più andare, dopo averlo visto. Ti legherà a sé, come ha fatto con gli altri.

Doveva avere bevuto qualche birra di troppo anche lui, la sera prima. Altrimenti come aveva fatto a credere a tutte quelle scemenze? Ascoltare un vecchio col cappello di paglia, che sembrava appena uscito dall’aia e puzzava un poco di stalla. Gli mancava solo un forcone in mano e magari un filo d’erba in bocca, poi il quadro era completo. E lui gli era andato a credere: era la cosa peggiore.

Pazienza, sbuffò tra sé e sé. Scendiamo in paese, pisciamo su un paio di piante e annotiamo questa nuova tappa sul nostro taccuino. E poi, domani, potrò già dimenticarmelo.

Non una macchina per strada. Lo registrò distrattamente, mentre continuava a camminare. Era da un po’ che non ne incrociava, a dire il vero. Tanto di guadagnato per lui, certo, eppure non era una cosa normale. Ci sono sempre auto che ti passano accanto, quando sei senza marciapiede e devi tenerti aggrappato ai bordi, un piede sull’asfalto e l’altro nel fosso. Ti sfrecciano a due, tre dita dal braccio, ti innaffiano coi tubi di scarico e poi schizzano via.

In quel tratto non ce n’erano. Perché?

Perché sono l’unico scemo ad andare a Schifopoli, a quest’ora di luglio. Ecco perché. Mi pare che sia abbastanza chiaro, no?

Tentava di riderci sopra, ma non ci riusciva molto bene. Troppo caldo, troppo fastidio per l’insulsa tappa che gli era toccata: aveva solo voglia di una birra, di una doccia e di andarsene di lì. Il resto era fatto di pensieri inutili, senza senso. Cose da cancellare.

Furono le prime case di periferia a farlo esitare. Aveva superato il cartello bianco ai bordi della strada: lo avvertiva che era arrivato nel ridente comune di Vattelapesca, città dello sbadiglio e della noia. I suoi occhi erano scivolati oltre, senza neppure registrare il nome vero del luogo, tanto poco gli poteva interessare. Si bloccarono però sulle prime case, appena dietro la curva.

Erano vere? Forse per il colore, forse per la forma, forse per l’estrema precisione con cui le avevano progettate, sembravano giocattoli, modelli giganteschi di edifici fatti coi mattoncini Lego, o sagome disegnate a pastello su un foglio di carta. Non un difetto, non una macchia a mostrarne la realtà.

Uno scherzo? Un paese falso, come poteva essere falso Disneyland o un parco giochi del genere? O il folle risultato di una persona molto ricca e malata, che aveva voluto riprodurre nei minimi dettagli lo stereotipo del piccolo centro di provincia. Una località come era Grazzano Visconti, un autentico falso paese medievale. L’uomo fece qualche passo incerto, poi si fermò di nuovo.

Non un suono. I rumori della natura, questo sì: il fruscio delle poche foglie che osavano muoversi, a sfidare la calura soffocante del giorno, o una lucertola di passaggio, che si rintanava tra l’erba alta. I sottili cinguettii di un paio di uccelli intrepidi, che svolazzavano di ramo in ramo senza sudare. E le cicale, ovvio. E basta. Nessuna voce, nessun motore acceso, nessun televisore a tutto volume.

Dormivano? Non aveva senso. Qualcuno dormiva di certo, col caldo che faceva, ma una città intera non poteva essere andata a letto nello stesso tempo, a fare la siesta. Si rifiutava di crederci. Faceva troppo paese messicano di uno spaghetti western. Eppure, l’atmosfera di quel luogo non gli piaceva per niente. Era strana, irreale. Pareva di essere finiti in un brutto sogno, di quelli in cui non sai dove sia il mostro, ma sai che finirà male di sicuro, almeno per te. Se non ti svegli prima, ovvio.

Riprese a camminare, cauto. A trent’anni suonati, dieci dei quali spesi in giro per le strade, non si poteva mettere a tremare come un bambino scemo, perché un paese gli dava una brutta sensazione o perché non incrociava nessuno per strada. Certo, con tutti i posti che aveva visitato, ormai le sapeva fiutare le fregature e quel buco non gli piaceva. Solo suggestioni, si disse. Era meglio comportarsi da adulti, come lui si doveva ritenere, e procedere verso il centro. Là avrebbe incontrato qualcuno.

Così fu. Alla fine di un lungo rettilineo dai lati quasi spogli trovò le prime tracce di vita. A destra, in uno spiazzo chiuso per tre quarti dalle case, c’erano due canestri e un branco di ragazzini a torso nudo, che giocavano sotto il sole in silenzio. Li guardò distratto, poi qualcosa nel cranio fece clic.

Il silenzio. Fu questo a farlo girare verso di loro, a tenerlo bloccato a fissare. Non era giusto. C’era il tonfo del pallone, c’erano i passi di corsa sulle mattonelle al suolo, c’erano i colpi attutiti contro i tabelloni di legno, cigolii di scarpe, rumori di ambiente. E basta.

Non urlavano, non si chiamavano, non dicevano nulla. Giocavano con impegno, senza risparmiarsi falli e scorrettezze varie, ma in un silenzio che avrebbe fatto invidia a una biblioteca. Erano muti, o si comportavano come se lo fossero. Rimase a guardarli per un poco, ritto sul marciapiede.

Ecco un’altra cosa priva di senso, da annotare sul suo taccuino. Sconcertato, riprese il cammino, la testa che continuava a scuotersi, quasi volesse cancellare tutto ciò che aveva visto. Doveva esserci una spiegazione per quella scena, ma non riusciva a immaginarsi quale. Era assurdo. Ragazzini che giocano in perfetto silenzio, senza aprire bocca? Non ci avrebbe mai creduto, se non lo avesse visto coi suoi occhi. Anche così era parecchio difficile crederci. Eppure lo aveva visto. Dunque...

Proseguì, sperando che prima o poi ci fosse qualcosa di normale, in quel paese assurdo. Di certo era il posto più strampalato in cui fosse giunto, almeno negli ultimi anni. C’era stato il gruppetto di case in cui abitavano sì e no dieci persone e quattro miliardi di ragni, che non era certo male in fatto di stranezze: aveva speso ore a ripulirsi, dopo averlo visitato. Fili ovunque, ragnatele costruire in ogni spazio libero, che ti si appiccicavano sulla faccia, sui vestiti, sulle gambe. Posto disgustoso, quello: chissà come faceva la gente a uscire di casa o a fare anche solo due passi...

C’erano stati altri luoghi assurdi, il paese con la rupe che attirava i suicidi, quello in cui non c’erano uccelli, quello che sembrava dover franare da un momento all’altro e invece stava su, fregandosene della legge di gravità: quasi tutte frazioncine isolate e sperdute chissà dove. Aveva avuto occasione di conoscerne parecchie, alcune buffe e altre inquietanti, e ne aveva fatto quasi ul lavoro. Girava per cercare qualcosa, o anche solo per il gusto di girare. A volte si fermava e lavorava un po’, poi via in strada verso una nuova meta. Una vita dispersa, ma interessante a modo suo.

E adesso quel posto, con le case finte e i ragazzi silenziosi.

Forse il vecchio non aveva tutti i torti, si sorprese a pensare. Di sicuro è difficile da dimenticare, ma dubito molto che avrò voglia di fermarmi qui a lungo. Decisamente non il mio genere.

Valium City la dovrebbero chiamare, altro che città della salute! Ma sono tutti imbambolati? O si drogano dalla mattina alla sera? Lo farei anch’io, se dovessi vivere qui. Che schifo di posto!

Si sentì rabbrividire, nonostante il caldo afoso. Era meglio il deserto di prima, tutto sommato. In una zona vuota e spopolata, per lo meno, non si incontrano facce come quelle, silenziose e smorte. C’era una vaga curiosità che ancora gli girava per la testa, ma non era certo di volerla soddisfare.

Chissà com’erano le loro voci. Senza vita, come il loro sguardo? Scattose e monotone, come i robot di un film di fantascienza anni ’50? O erano muti tutti quanti? Scegli pure la risposta che preferisci, tanto sono tutte stupide uguali. Secondo il suo modesto parere, almeno.

C’era un altro dettaglio, che la sua mente aveva registrato solo di sfuggita ma che adesso ritornava a galla, proseguendo ostinato verso il centro. Uno scintillio che aveva intravisto attorno alle poche persone incrociate per strada. Giusto un vago riflesso, tenue, come quello del sole autunnale sui fili di ragnatela, quando la rugiada li bagna. Eppure lo aveva notato. Probabilmente.

Con cautela, l’uomo si voltò a osservare di nuovo la strana gente che si allontanava. Sì, forse vicino alle braccia, mentre oscillavano rigide. Ma ne era certo? O si lasciava suggestionare dall’atmosfera assurda del luogo? Non c’era da fidarsi troppo, con quel caldo: è questione di un attimo vedere cose che non esistono, quando hai la testa cotta dall’afa e i polmoni che sudano a respirare. E lui era così cotto che a tratti credeva di riconoscere i paraggi. Brutta roba, l’estate.

Passò oltre di nuovo, cercando di non pensarci troppo. Non gli piaceva quel posto, non gli piaceva e non gli piaceva: di questo era sicuro. Tutto il resto, forse, poteva anche essere uno stupido scherzo dei suoi nervi o un riflesso del sole umido di luglio, ma la città gli puzzava. Se ne sarebbe andato più che volentieri anche subito, ma era stanco e aveva sete. Almeno trovare una fontanella, prima. E una panchina, già che era nelle spese. Possibilmente all’ombra.

E poi l’idea di scappare lo infastidiva parecchio. Non era il suo stile, se non c’erano soldi di mezzo.

La strada lo condusse oltre un ampio parcheggio, sulla destra. Le auto aumentavano, sempre calme e caute, come se la fretta non esistesse. Calme erano pure le persone, ora più numerose, gruppi di giovani che affollavano silenziosi le vie del centro. Perché quello era il centro, poco ma sicuro. Con tutti i paesi che aveva visto, ormai ne conosceva bene la struttura. Se non centro pieno, allora era il cerchio prima, giusto accanto al cuore di Schifopoli. Novanta punti invece di cento, o quel che era.

Qualunque fosse il nome di quel buco campagnolo.

Un largo viale, all’ombra, fiancheggiato da tigli. Un grande spartitraffico al centro, auto posteggiate lungo tutta la linea mediana. Piuttosto strano, ma non troppo. A paragone del resto della cittadina, era una cosa perfettamente normale. L’aria era quella di un luogo turistico, fornito di tutte le decorazioni e gli scorci pittoreschi che si richiedono, per attirare i visitatori. Mancavano giusto i turisti, perché quelli che riempivano i marciapiedi non lo sembravano. Non proprio, almeno.

Camminavano come le altre persone che aveva incrociato fino ad allora, in completo silenzio e in tutta calma, composti e ordinati. Una scena piuttosto sgradevole, senza dubbio: era quasi una folle caricatura delle sfilate naziste da documentario o da ricostruzione cinematografica, soldatini a molla che procedono a scatti, senza faccia né personalità. Niente passo dell’oca: procedevano semmai col passo del pensionato in vacanza, pigro e flaccido.

Altra nota per il mio taccuino: questo è un covo di pazzi. Tenersi alla larga, per il futuro.

Guardò verso sinistra, dove si spalancava il viale. In fondo, dopo un centinaio di metri, vedeva una rotonda, con in mezzo la fontana più brutta che avesse mai incontrato in un decennio di viaggi. Era un autolavaggio, un autolavaggio di pessimo gusto. E c’era addirittura un tizio che la fotografava, in un angolino. Chiuse gli occhi, a escludere la follia dello spettacolo. Di parchi ce n’era uno, appena più avanti, ma per raggiungerlo avrebbe dovuto attraversare i marciapiedi affollati.

Accantonò l’idea, girandosi verso destra. Un edificio bruttino, dalle forme poco raffinate ma nulla di sconvolgente: un cartello lo identificava come istituto termale. Molto più interessante era però il paesaggio che lo circondava: alberi, prati, panchine. Un parco, distante non più di trenta metri, tutti dritti e senza ostacoli nel mezzo. Ancora più importante, senza persone nel mezzo.

Curvò subito da quella parte e tanti saluti al resto.

L’ultima occhiata che si gettò sopra le spalle, verso la gente che camminava lungo il viale, gli lasciò un brivido. Col senno di poi, sarebbe stato meglio guardare avanti. Col senno di poi, sarebbe stato meglio ignorare il vecchio e i suoi vaneggiamenti. Col senno di poi, sarebbe stato meglio terminare l’università, trovare un posto fisso e dimenticarsi dei viaggi. Peccato solo che col senno di poi non ti compri neppure una birra.

Non vide niente di orribile o di minaccioso, come continuò a ripetersi, seduto nel parco. Nulla che si allontanasse molto dalle esperienze precedenti, come rettificò in fretta. Nulla di inspiegabile, come avrebbe voluto riuscire a credere. Eppure lo scintillio nell’aria, diffuso sopra la folla che procedeva tranquilla e in silenzio, lo costrinse ad allungare il passo, tremando. Di caldo, ovvio. Solo di caldo.

Cos’era a scintillare, attorno a quelle persone? Un qualche riflesso nell’aria, un effetto ottico a lui ignoto, nato dal caldo e dall’atmosfera troppo umida? Poteva essere qualsiasi cosa, per quel che ne sapeva. L’unico particolare di cui i suoi occhi erano certi, per averlo registrato più di una volta, era il bagliore sottile che galleggiava sopra la gente, quasi in verticale.

L’immagine della ragnatela continuava a tornargli in testa, lo perseguitava. L’aveva vista spesso, al mattino, luccicare bagnata tra gli alberi. Ne aveva fatto indigestione giusto un paio di anni prima, in quella frazioncina di campagna in cui era rimasto impigliato per sbaglio. E l’effetto era lo stesso: il modo in cui la luce si rifletteva sul filo, per un istante. Ma era assurdo, tutto qui.

Una ragnatela che galleggia sopra il paese? Era peggio che assurda, era un’idea da manicomio, con un pratico biglietto di sola andata e tanti saluti a tutti. Scosse la testa, mente camminava attorno al parco, cercando una fontanella e un buon posto per riposarsi.

Alla fine lo trovò, una panchina all’ombra dove l’aria profumava anche di alberi ed erba, non solo di umidità e afa. Seduto, con l’acqua che gli si asciugava in fretta sulle mani e sul volto, continuava a ruminare le immagini irreali di quel paese. Perché erano tutti così silenziosi? Perché si muovevano in un modo tanto ordinato e preciso? Perché avevano quelle facce da cadaveri? E perché pensava a un nonno che accompagna al parco il nipotino, se non c’era neppure un cane lì attorno?

Non aveva risposte. Di tanto in tanto sfiorava con pigrizia anche l’enigma del luccichio attorno alle persone, ma non vi si fermava a lungo. Era solo un riflesso, uno scherzo che il sole e la stanchezza gli avevano giocato, alleandosi per complottare ai suoi danni. I falsi ricordi, invece, lì evitava con cura: un colpo di sole, tutto qui. Inutile pensarci. Ma cosa doveva fare, adesso?

Era il punto cruciale. Aveva bevuto alla fontanella vicino al ponte, e si stava riposando, all’ombra anche se non esattamente al fresco: per quello ci sarebbe voluta l’aria condizionata, ma proprio non se la sentiva di entrare in un locale, trovarsi in mezzo alla gente del posto. Andarsene, in fretta e nel modo più diretto possibile. Andarsene senza voltarsi, lasciarli alle proprie stramberie (perché certo, ognuno ha diritto a essere pazzo a modo proprio, era uno dei cardini della sua filosofia di vita, e lui era pazzo parecchio, a modo suo) ed evitare di tornarci in futuro. Evitarlo come la peste.

Andarsene. Ma ce l’avrebbe fatta? Per qualche strana ragione, quella domanda non gli sembrava più così oziosa o paranoica, adesso. Cosa aveva detto, il vecchio? Ti legherà, come ha fatto con gli altri. Chiacchiere insensate, degne di un tizio appena uscito dall’aia, con la puzza di concime ancora sulla pelle. O era una presa in giro, la buffonata con cui ci si divertiva alle spalle dei forestieri?

Il luccichio continuava a tornargli alla mente, ossessivo. Una parte di lui, forse la stessa che per anni lo aveva sbatacchiato da un angolo all’altro, come una foglia, si era aggrappata a quel particolare e lo riproponeva a intervalli ciclici, per suggerirgli qualcosa. Era il lato che vedeva pericoli ovunque e che non trovava mai un luogo in cui riposarsi. Il lato che rotolava come un sasso e odiava le radici. Cercava di spingerlo di nuovo in viaggio, travestito da paure irrazionali, suggestioni infantili, falsi ricordi di collinette in miniatura, costruite con le zolle poco dietro a quella panchina.

Ma era curioso. Quel paese era strano, era parecchio strano e sarebbe stato un spreco andarsene così di fretta, senza studiarlo almeno un poco. C’era senz’altro qualcosa da imparare, da scoprire, nuove utili annotazioni per il suo taccuino. Perché non approfittarne? Una passeggiata in centro sarebbe bastata, un giro per osservare il cuore della comunità. E passarci la notte? Sì, sarebbe stata una sfida bella e buona: una scommessa da bambini stupidi, per dimostrarsi coraggiosi.

Perché no? Distrattamente, faceva scorrere le mani sul legno della panchina, mentre si smarriva in mille, pigre riflessioni. Era liscio, insolitamente liscio. Pareva levigato di fresco, senza un graffio o una scheggia, come se nessuno l’avesse mai usata. Ma doveva essere lì da anni.

Possibile? Quella considerazione lo riscosse dal torpore dei pensieri. Non ricordava di aver trovato in precedenza una panchina così perfetta, così pulita. Di solito erano piene di incisioni, scritte sceme lasciate da gente scema. Erano bacheche pubbliche vere e proprie, su cui ognuno lasciava una nota, come cani contro un lampione.

Non lì. O aveva scelto la più classica delle eccezioni, magari la panchina maledetta su cui nessuno si siede, oppure quel paese puntava a stabilire il nuovo record mondiale di improbabilità. Ragazzini che non urlano, auto che procedono calme e regolari rispettando il codice della strada, nessun atto di vandalismo gratuito: e poi? Ci mancava solo di andare in posta e non trovare la fila a inizio mese.

Due persone gli passavano davanti, camminando adagio lungo il sentiero sassoso del parco. C’erano una madre e la figlia, una bambinetta che procedeva calma e in silenzio: si tenevano per mano, nel più classico dei quadretti da vita domestica. Ne aveva visti a migliaia, in ogni città, e ormai non ci avrebbe neppure fatto caso, in condizioni normali.

Quelle però non erano condizioni normali. Erano finte, più simili a disegni che a persone vere. Nei loro movimenti c’era una sfumatura innaturale, meccanica. No, non proprio meccanica, si corresse. Sembrava che si muovessero nel corpo di qualcun altro, un corpo sconosciuto, che non sapevano controllare bene. Erano goffe, per certi versi.

L’uomo chiuse gli occhi, per nascondere l’immagine grottesca e i pensieri che gli faceva nascere in testa. Quando li riaprì, madre e figlia avevano fatto solo pochi passi, superando la panchina. Ora gli giravano la schiena, dirette forse verso il laghetto sul limite del parco. Procedevano regolari, come soldati in marcia. Non parlavano, non facevano il minimo cenno l’una verso l’altra, neanche i soliti, insensati gesti che passano sempre tra genitori e figli. Nulla.

Continuò a fissarle, incapace di staccarsi dalla scena irreale che aveva davanti. Quando poi uscirono dall’ombra degli alberi, nel sole del pomeriggio, l’uomo lo colse di nuovo, proprio come prima. Il luccichio inspiegabile che le circondava, quei riflessi quasi dritti che salivano dalle persone verso il cielo. O che scendevano dal cielo? Gli tornò il ricordo delle ragnatele. Le due figure si confusero in lontananza, dietro una curva. L’uomo si girò.

Rabbrividiva, nonostante l’afa. Bene, lo si poteva considerare un nuovo indizio a favore della follia di quel paese. Non una prova schiacciante, nessun tribunale l’avrebbe mai accettata, ma almeno per lui era chiaro che qualcosa non andasse. Molto più che qualcosa, a essere precisi. Si sentiva adesso legittimato a fuggire, senza perdere altro tempo a farsi domande. Eppure...

Eppure gli mancava ancora una testimonianza definitiva, gli mancava un dato oggettivo, una prova. Ed era curioso, sì: cos’era quello scintillio? Aveva bisogno di scoprirlo. Era un suo vizio: andava a fondo nelle cose, non le lasciava a metà. Università a parte, ma era una storia diversa. Aveva preso diverse palate nei denti, negli anni, ma era cocciuto e persisteva. Scappare per un cattivo presagio? Inaccettabile! Voleva permettere a quel lurido buco di campagna, Schifopoli o quello che era, di cambiarlo così a fondo? Spezzare il suo record? No, certo che no! E allora?

No, non lo ricordava, perché non era quel busto. I parchetti di paese erano tutti uguali, tutti con una statua intitolata a qualcuno, spesso di fama locale: un mezzo monumento, un laghetto, a volte giochi per bambini, panchine a volontà. Visto uno, visti tutti: per questo erano familiari.

A ogni modo, non era quello l’importante, adesso. L’importante era il paese, nel suo complesso. C’erano troppe cose assurde e la faccenda gli puzzava parecchio, quasi quanto un canale di Venezia in pieno agosto. Non poteva mollare tutto a metà e scappare con la coda tra le gambe. Non era nella sua natura. Si guardò di nuovo attorno, pensando.

In alto, ai bordi del parco, passavano una donna e il suo cane, rigorosamente al guinzaglio. Avevano gli stessi movimenti innaturali e macchinosi di tutti quelli incrociati fino ad allora. Sia la donna, sia il cane. Stessi movimenti, stessa aria imbambolata, stesso silenzio.

E gli stessi riflessi, che si alzavano verso il cielo attorno a loro. Li poté studiare sotto il sole, mentre scorrevano a passo lento. Sembravano proprio fili di ragnatela, come se qualcosa fosse teso verso il cielo, qualcosa di luccicante, di sottile. Dalla donna fino a un punto sopra di lei, un punto che non si riusciva a individuare. Mandavano un bagliore tenue, intermittente.

Non aveva senso. Quando il parco fu di nuovo deserto, l’uomo si alzò dalla panchina, con soltanto il più vago tremito di incertezza. Non era ancora del tutto convinto, una parte di lui continuava a dire che non era saggio andare in centro e mischiarsi troppo a quei cadaveri ambulanti. Poteva esserci un qualche pericolo, di certo non era normale quanto gli stava accadendo intorno.

Più per gioco che per scrupolo, allungò una mano a staccare una foglia dal ramo più vicino. Con un leggero disagio se la rigirò sotto gli occhi, per qualche momento. Era perfetta, senza difetti, senza il più piccolo errore a guastarne la precisione. Non una macchia, non un bordo frastagliato, anche solo la traccia del passaggio di un insetto. Come se fosse appena uscita di fabbrica, prodotta in serie e in migliaia di esemplari, per riempirci un parco. La lasciò cadere.

Era una città finta, la ricostruzione a grandezza naturale di un paese di provincia? Avrebbe spiegato l’aria familiare, ma era follia anche solo pensarlo. Allora come si spiegava tutto ciò? Non era sicuro di volerlo sapere, eppure lo avrebbe scoperto. Era il suo carattere, la tara che gli impediva di stare buono in un posto, mettere radici come gli altri. O così si era sempre ripetuto.

Ma c’era qualcosa di reale, di naturale in quel paese? O era tutto artificiale, come il set di un film di cattivo gusto? Meglio non chiederselo: erano pensieri che non avevano alcuna importanza, non per lui. Non in quel momento. Magari più tardi, grazie mille. Più tardi si sarebbe anche potuto divertire a cercare gli scorci familiari, presi da altri paesi che lui aveva già visitato e che gli causavano tutti quei fastidiosi falsi ricordi, ma non adesso. Non ora.

Ignorò le paure infantili, ignorò le esitazioni. Non era il suo modo di fare, ecco tutto. I dubbi li si affronta, ci si passa attraverso. Poi, li puoi anche lasciare indietro, come le mille città che aveva già incontrato lungo la strada. Ma prima le dovevi vedere e capire.

Si avviò, con un passo che si faceva più sicuro di metro in metro. Proseguì il giro attorno al parco, per raggiungere il largo viale che aveva visto prima. Da lì, avrebbe seguito il flusso di persone, fino alla piazza centrale. Con un po’ di fortuna e un buon occhio, forse, avrebbe anche trovato le risposte di cui aveva bisogno. Oppure avrebbe scoperto di non averne alcun bisogno. Ancora meglio.

Incrociò altri uomini, lungo il cammino. Diversi di aspetto, diversi di abbigliamento e di età, eppure identici di gesti, nello sguardo vuoto che li caratterizzava. Sembrava che nessuno lo notasse, mentre gli passavano accanto, come se lui non esistesse neppure. Si sentiva a disagio, questo non lo poteva negare, ma si sforzava di andare avanti, testa bassa per non vedere quei volti spenti.

Ne sfiorò uno, poco prima di raggiungere il viale ombreggiato. Sulla sinistra aveva un orrendo coso di plastica, che poteva essere una colonna, un cero funebre o un monumento: lo guardò con la coda dell’occhio, incredulo di fronte a tanto pessimo gusto. Quello non c’era, prima, pensò. Sbandò un poco verso destra, colpito da quel falso ricordo tanto intenso. Così lo urtò.

Un passante, uno dei tanti che si vedevano in quella parte del paese. Ne notò la camicia a maniche corte, piuttosto elegante, un fisico alto e asciutto, in mano una valigetta da impiegato. Sguardo fisso e immobile, non fece neppure una piega quando si toccarono. Forse non se ne accorse nemmeno.

Gli aveva sfiorato il braccio, certo, ma non solo il braccio. Aveva sentito contro di sé la pelle tiepida dello sconosciuto, leggermente sudata, ma aveva sentito anche qualcosa d’altro. Per un breve istante aveva urtato una cosa sottile, estremamente rigida e calda. Pareva metallo, anche se probabilmente non lo era. L’impressione che gli aveva dato era stata piuttosto di...

L’uomo, fermo in mezzo al marciapiede, seguiva ancora con lo sguardo l’altro, che si allontanava a passo costante. Nel sole vide chiaro il luccichio attorno a lui, come attorno a tutte le persone del paese assurdo in cui era andato a finire. Il luccichio che non veniva da un metallo, né da qualcosa che sapesse riconoscere. Eppure, nel momento in cui aveva sfiorato il suo braccio, gli era sembrato proprio di avere urtato un cavo, rigido e teso.

Che senso aveva? A bocca aperta, sudando sotto il cielo di luglio, non aveva risposte da darsi. Non si sentiva neppure del tutto certo di avere la domanda giusta, perché ogni pensiero logico fuggiva in fretta dalle sue mani, come un branco di anguille. Cavi? Cavi attaccati alle braccia? Erano quelli che riflettevano la luce? Avevano dei fili addosso e se ne andavano in giro così? Ma... perché?

Guardò la gente che gli sfilava accanto, il luccichio che si tendeva tra loro e il cielo. Ora gli pareva di riuscire a vederlo meglio, come se quelle cose prendessero forma e consistenza a poco a poco. Sì, erano fili, cavi o qualcosa del genere. Quasi trasparenti, come se fossero fatti di nylon o addirittura di vetro, plexiglas o un’altra diavoleria del genere. Erano fissati attorno ai polsi e da lì salivano fino a sparire, chissà dove, in mezzo alla cupola bianchiccia che li sovrastava. Il cosiddetto cielo.

L’uomo si sentì girare la testa, lo sguardo gli si appannava. Il cuore gli stava inviando segnali morse indecifrabili nel petto e l’aria gli fuggiva dai polmoni, mentre le gambe erano un impasto di burro semifuso. No, decisamente non stava molto bene.

Con un passo che sembrava fare il verso agli abitanti, arrancò fino al muretto bianco che separava il marciapiede dal parcheggio. Vi crollò letteralmente sopra, mentre il mondo attorno a lui si smarriva in una nebbia candida e luminosa. Appoggiato sui gomiti, rimase piegato in avanti per un bel pezzo, come un ubriaco che aspetta il prossimo conato di vomito.

Non finì a terra. In un modo o nell’altro riuscì a non svenire, sostenuto dal terrore puro e semplice di ritrovarsi incosciente in mezzo a quei pazzi, più che dai nervi o dalla forza di volontà. Inchiodato al muretto, con la folla di sconosciuti che gli scorreva dietro le spalle, pregò più volte di svegliarsi e trovarsi in un letto di albergo, ad almeno trecento chilometri da lì. Ovviamente non accadde.

A poco a poco la crisi si attenuava. Le gambe erano più stabili, il cuore meno agitato, più regolare il respiro. Una brutta esperienza, ma in un qualche modo ne stava uscendo. Cosa lo potesse attendere là fuori, però, era un altro paio di maniche. Non era ceto di volerlo sapere.

Scosse la testa, nel tentativo inutile di cancellare tutto. Restavano sempre lì, davanti ai suoi occhi: i riflessi che salivano verso il cielo, perfettamente dritti e perfettamente tesi. Partivano dai polsi e si perdevano in alto, in un punto che non poteva vedere e che non voleva vedere. Era folle. Di più, era allucinante. Era un incubo, un miraggio. Era il caldo, una insolazione. Influenza. Delirium tremens.

Era vero. Li aveva toccati.

Con un profondo respiro, provò a staccarsi dal muretto. Le gambe lo reggevano: era un buon inizio. L’importante era trovare anche una buona prosecuzione, ma questo sembrava molto più difficile. Il primo sguardo attorno a sé glielo confermò. Sarebbe stato estremamente difficile.

Li vedeva bene, ora, come se il velo si fosse tolto. Cavi sottili che si alzavano da tutti i passanti e si smarrivano nel cielo, oltre lo sguardo. Perfettamente tesi, perfettamente dritti, a indicare che anche all’altra estremità doveva esserci qualcosa che li manteneva in tensione. Che cosa effettivamente ci fosse, però, era un dubbio che preferiva conservare, almeno per il momento. Non era pronto. Meglio procedere per gradi, un passo alla volta.

Era uno spettacolo allucinante, il peggiore di tutti gli incubi che avesse mai fatto. Davanti a lui, con passo lento e regolare, sfilavano in entrambi i sensi decine di persone, tutte legate a chissà cosa da fili quasi trasparenti, sottili e lunghissimi. Ne avevano uno per braccio e ne avevano uno per gamba, notò in un secondo momento, mentre il cervello cercava ancora di filtrare e ordinare i dati inviati dagli occhi, seguendo una qualsiasi logica. Non ne trovava. Trovava però un senso di familiarità e nostalgia, ma incerto, che lo preoccupava più del resto.

Ora, per certi versi, poteva capire il perché dei loro gesti così innaturali, l’andatura da soldatini di piombo con cui camminavano. Erano i fili, che si muovevano su e giù per seguire e assecondare le loro azioni. O per provocare le loro azioni? No, questo no: era una idea troppo orrenda e folle per poterla accettare, anche in un delirio simile. Nonostante tutto, non poteva credere a un teatro delle marionette su scala comunale. Non ancora, almeno. Ma li guardava.

Uomini, donne, vecchi, bambini: tutti legati al cielo da cavi luccicanti, tutti a procedere nello stesso modo. Ne vedeva spuntare attraverso i tettucci delle automobili, come se la materia non costituisse per loro un ostacolo. Ne vedeva spuntare anche dai tetti degli edifici, grappoli di fili trasparenti che splendevano contro il cielo afoso di luglio.

Per un istante ripensò alle scene della sua infanzia, quando lo portavano alle giostre, per le fiere di qualche santo locale. Aveva visto cose simili, certe volte. Genitori che legavano al polso del figlio il palloncino, perché non se lo facesse volare via. Lo aveva trovato divertente, buffo: sentivi il pallone che ti tirava leggermente verso l’alto, sentivi che voleva scappare, correre verso il cielo. Ed eri tu a trattenerlo. Tu, col semplice peso del tuo corpo, del tuo braccio.

Poteva essere quel ricordo a dargli il senso di nostalgia e familiarità? Decise di pensarla così, ma il pensiero non era bello. La visione non era bella: orribile, semmai. Non si trattava di palloncini, ora, ma di qualcosa di peggiore, molto pericoloso. Ma non sapeva cosa. C’erano i fili tesi, che svanivano nel cielo, dove la vista non arrivava. Ma cosa li teneva lassù? E perché erano tutti legati a quei cavi? Ecco le domande da evitare. Per questo continuava a chiederselo, in un angolo di cervello.

Riportò gli occhi sulla folla di passanti, col sudore che gli avvolgeva la fronte, le braccia. Non era il caldo, ora. Magari fosse stato il caldo. Si era distratto a seguire i fili, si era lasciato ipnotizzare dagli assurdi giochi di luce che producevano, i riflessi sotto il sole. Doveva ancora guardare le facce.

Avevano il volto di un cadavere, oppure di un manichino esposto in vetrina. Non erano pallidi, non avevano strani segni, smorfie di orrore, qualsiasi cosa che li potesse far sembrare vivi. Niente che li riempisse di una qualche identità, a parte la distinzione data dai loro lineamenti. Era questo il punto: non sembravano vivi, non sembravano reali.

Privi di espressione, camminavano per la propria strada, lentamente, senza fretta. Erano educati, si mantenevano a debita distanza gli uni dagli altri. Non urlavano, non si lamentavano, non parlavano neppure. Avevano il volto vuoto, come vuoti erano gli occhi. Cadaveri, oppure maschere di cera, di cartone, che parodiavano la popolazione normale di un paese tranquillo.

L’uomo abbassò lo sguardo, incapace di resistere troppo a lungo. C’era la gente che sfilava attorno a lui, evitandolo con cura, senza disturbarlo. Erano indifferenti, forse non sapevano neppure che lui fosse lì, in mezzo a loro. Si sarebbe potuto mettere a ballare nudo in strada e nessuno gli avrebbe detto nulla. Avrebbe potuto urlare come un pazzo, prendere a calci ogni cosa, rovesciare un paio di cassonetti e nessuno gli avrebbe detto nulla.

Per loro, lui non esisteva.

Un posto indimenticabile, certo. Non era così che glielo aveva descritto il vecchio nell’osteria? Già, proprio così. Un posto indimenticabile, un posto dal quale non se ne sarebbe più voluto andare. Gli venivano i brividi. Cosa significavano quelle parole? Erano una minaccia? Oppure nel paese c’era qualcosa d’altro, che doveva ancora scoprire? Qualcosa che lo avrebbe trattenuto, che lo avrebbe legato, come aveva fatto con tutti? Qualcosa o qualcuno? E lo voleva davvero scoprire? Non aveva già visto abbastanza?

I suoi pensieri diventavano sempre più orribili. Avrebbe voluto sapere come facesse quel vecchio a sapere tutto ciò, ma sarebbe stato molto difficile tornare indietro a chiederglielo. Molto difficile. Lo sentiva nell’aria, senza sentirlo davvero. Era quel genere di situazione che prometteva malissimo.

Non si arrese. La cosa più logica sarebbe stata di andarsene, finché non c’era nulla che lo bloccasse. Ripercorrere la strada al contrario, voltare le spalle alla pazzia in cui era finito, per caso più che per errore. Niente lo legava a quel paese, non c’era mai stato prima e non ci sarebbe tornato mai più. Gli sembrava familiare? Illusioni da calura. Sarebbe stato semplice andarsene, sarebbe stato razionale, sensato. Ma non lo fece.

Per qualche minuto ancora rimase immobile sul posto, respirando lentamente, a ritrovare il minimo di controllo necessario per avanzare. Voleva arrivare fino al centro, piantare la sua bandierina nella piazza principale, dimostrare a se stesso e a tutti che non aveva paura. Che la folla dagli occhi vuoti, coi fili luccicanti che spuntano da braccia e gambe, non lo aveva battuto. Che quel paese era una conquista, non una strana memoria.

Era la stessa, cieca ostinazione che dieci anni prima gli aveva fatto abbandonare gli studi, fuggendo dall’università. Non ne voleva più sapere della vita normale, col posto già scavato attorno a sé, con le facce che giudicavano, ridevano. Così si era affidato al vento, rotolando di via in via.

Ancora non se n’era pentito, né aveva in programma di farlo.

Ritirarsi adesso? E perché? Perché c’erano quei fili che univano le persone al cielo? Perché ognuno, attorno a lui, sembrava un cadavere rianimato? Perché anni prima aveva già camminato coi genitori in quella strada che vedeva adesso per la prima volta (allucinazioni da calura, solo allucinazioni da calura)? Non aveva senso, non era il suo sistema. E poi era curioso, terribilmente curioso. Perché quei falsi ricordi all’improvviso? Dove aveva già visto qualcosa di simile, se mai l’aveva visto?

Si asciugò la fronte con un fazzoletto. Adesso sudava pure per il caldo, non solo per l’orrore. Era un buon segno, si stava abituando o, per lo meno, aveva superato il primo impatto, il peggiore.

Riprese a camminare verso il viale alberato. La fontana era il primo punto di riferimento (ma era diversa, adesso) e da lì in poi avrebbe semplicemente seguito la folla, fino a raggiungere la piazza che cercava. Non avrebbe fatto fatica a riconoscerla, lo sapeva. Dopodiché, missione conclusa.

Attraversò la strada assieme agli altri, sorpreso solo in parte nel vedere le auto che si fermavano, per lasciarli passare. Nelle città normali non succedeva mai: di solito acceleravano, vicino alle strisce pedonali. Un punto a favore del paese dei fili: Schifopoli o Zombie Town che fosse, dimostrava un senso civico che le altre si sognavano. Peccato che non sembrasse avere cittadini, ma manichini.

Sorrise, cercando di scacciare altri pensieri, più insidiosi. Non era bello camminare in mezzo a una folla simile, non era bello vedere tutti quei fili attorno a te, adesso nascosti dall’ombra degli alberi. C’era da cadere nelle fantasticherie da film horror di serie B, dove i personaggi muoiono un tanto al chilo e il sangue spruzza a fontane, ovunque.

E se lo avessero circondato? E se avessero cercato di afferrarlo, di fargli chissà cosa? Non ci fossero stati i cavi, sarebbe stato facile immaginarli tutti come una schiera di morti viventi, in cerca di una preda viva da divorare. Sarebbe stato molto facile e infatti il suo cervello lo stava già facendo, con una lunga, orribile sequenza da incubo, di cui lui era protagonista unico e indiscusso.

Ma c’erano i fili, anche se adesso li vedeva a fatica. All’ombra, assomigliavano a una rete da pesca, più che a una ragnatela. Linee poco più scure dell’aria, che si allungavano da braccia e gambe, fino a sparire oltre gli alberi. Passavano attraverso le foglie, come se non esistessero. A volte ne sfiorava uno, per distrazione, quando la gente era più compressa e lo spazio si riduceva. Scottavano, come il ferro dimenticato sotto al sole. Se ne ritraeva subito, con disgusto.

Aveva raggiunto la fontana, ancora più brutta da vicino. Posta al centro di una rotonda, confermava la sua somiglianza grottesca con un autolavaggio, proprio come gli era sembrata da lontano. Rimase a fissarla, mentre la memoria cercava di sovrapporla a una vecchia fontana rotonda: era una specie di ricordo inquietante, perché sapeva di non averla mai vista, ma almeno lo distraeva per un istante da ciò che aveva attorno. I fili sollevati verso il cielo, i volti vuoti delle persone.

Proseguì sulla destra, dove il viale si allungava in una zona pedonale. Lì la folla era più fitta; lì era più probabile trovare la piazza che stava cercando. Teneva gli occhi bassi, incollati al marciapiede, per evitare il più possibile di vederli. Ma li sentiva, manichini silenziosi che gli sfilavano accanto, nella calura irreale del luglio padano. Li sentiva, minaccia inespressa, resa più micidiale dal mistero che la circondava. Camminava in un incubo, mosso dalla curiosità. Camminava in un ricordo.

Il centro. Lo raggiunse, quasi senza notarlo. L’ombra degli alberi, che lo aveva accompagnato fino ad allora, si disperdeva di colpo, aprendosi in un largo spazio assolato. Intravide ai lati i muri degli edifici, che si alzavano a tracciarne i confini, segnando i limiti della zona. Una piazza. La piazza.

Si fermò sui margini, respirando a fondo. Adesso avrebbe dovuto alzare lo sguardo e osservare ciò che aveva davanti. Il cuore del paese, dove la maggior parte delle persone si raccoglieva, dove c’era la vita della comunità: negozi, bar, alberghi (il negozio dove compravi le liquirizie, ricordi?). Ma quale vita avrebbe trovato lì? Si scoprì molto più spaventato di quanto pensasse.

Con un ultimo respiro sollevò la testa e guardò dritto di fronte a sé. La piazza.

Se la vista del viale era stata brutta, ciò che gli appariva adesso era... peggiore, ma non inatteso. Se lo aspettava, se lo immaginava. Peccato solo che vedere fosse così diverso da immaginare.

La piazza era grande, larga, e custodiva la traccia di un antico volto popolano, mascherato oggi da mondano e luccicante. Nel selciato di ciottoli, nelle facciate degli edifici che ne tracciavano il perimetro, nei nomi di negozi e alberghi: odore di campagna, odore di epoche ormai tramontate, ma non morte del tutto. Odore di un futuro mai nato del tutto. Era ampia e scoperta, il cielo la dominava in ogni angolo, vasta cupola di azzurro biancastro.

Non fu questo a catturare il suo sguardo. Non furono le presunte bellezze architettoniche, il fascino un poco agreste delle case, lo spazio spalancato sopra di esse. Fu il suo contenuto che lo colpì e quasi lo affondò. Non c’erano muretti a cui potersi appoggiare, ora. Solo il vuoto, da ogni parte. E la gente che lo riempiva.

Sembravano normali, se non li guardavi con cura. Camminavano lentamente, si raggruppavano, si allontanavano, si fermavano davanti alle vetrine, sedevano ai tavolini dei bar. Facevano tutto quanto ti saresti potuto aspettare, osservando uno scorcio di pomeriggio estivo nella piazza di un paese che era cresciuto male e invecchiato presto, affollato della più varia umanità.

Le facce li tradivano. L’assoluto nulla che traspariva dagli occhi, la mancanza di ogni espressione, che rendeva morti i loro lineamenti, la vacua indifferenza che aleggiava sui gesti, innaturali e goffi. Non trasmettevano nulla. Se si fosse ritrovato solo in un museo delle cere, o nella vetrina di un grande magazzino, dopo l’ora di chiusura, forse si sarebbe sentito meno abbandonato.

Manichini, gusci vuoti di esseri umani. Ecco cosa aveva attorno, in ogni direzione. E si muovevano, si comportavano proprio come persone vere, reali: era questo l’aspetto più orrendo. Era una sfilata di statue, tutte legate al cielo dai fili luccicanti, come nello spettacolo di un pazzo marionettista.

Marionette...

E dietro di loro, dietro a tutto quanto, la sensazione di esserci già stato, averlo già visto, avere quel luogo nelle ossa. E nostalgia, assurda e forte. Nostalgia di... di qualcosa.

Scosse adagio la testa, sperando di liberarla da ciò che l’aveva riempita, vero o falso (falso, falso!) che fosse. Si passò una mano sul volto, a nascondere la scena surreale che aveva davanti, ma anche dentro. Cavi, cavi ovunque. Cavi traslucidi, che partivano dalle braccia e dalle gambe della gente, si intrecciavano, si sovrapponevano, luccicando come mille addobbi natalizi. E salivano verso chissà cosa ci fosse in cielo, all’altra estremità. Accompagnavano i movimenti? Li causavano? Qualcuno, lassù, si divertiva a tirare prima un filo, poi l’altro, per farli camminare, vivere? Chi? E perché?

Era questo che aveva di fronte? La parodia di un teatro di marionette, dove le persone sostituivano i pupazzi? Un teatro grande un paese, con migliaia di attori? Che senso aveva? Che senso poteva mai avere una cosa simile? Perché costruire quell’orrore? E perché gli sembrava così familiare?

Brandelli di vita quotidiana, appesi a un filo. Normali, comuni, banali. La famiglia che va a fare compere, la coppietta che si tiene per mano, i vecchi raccolti all’ombra a discutere di chissà cosa, il signore ben vestito seduto al bar, giornale accanto e bicchiere davanti. E il silenzio. Il silenzio, che dominava ogni cosa. L’assoluto silenzio, che inghiottiva quei gesti e li rendeva surreali, falsi. Non una parola aveva sentito, dal suo ingresso nel paese. Non una voce umana. Anche i cinguettii erano spariti, da qualche parte lungo il cammino. Solo silenzio.

E tutto questo era fatto di fili, ragnatela luccicante nel sole afoso di luglio. Li vedeva bene, ora. Ne poteva seguire le minime variazioni, il modo in cui si tendevano e si rilassavano, per accompagnare i movimenti delle persone. Gesti delicati, da pianista o direttore di orchestra: piccoli tocchi, per dare vita alla pantomima del paese.

Scena orribile, certo, resa ancora più orribile da quel costante, continuo senso di familiarità deviata, che gli faceva credere di conoscere quel luogo, di essere già stato lì, anche se vi metteva piede per la prima volta. Ciò che più lo disturbava, però, era l’idea che la scena gli trasmetteva, una idea così lontana da lui, da tutto ciò che aveva cercato di fare o evitare negli ultimi dieci anni.

L’idea di un popolo di marionette, giocattoli mossi dai fili, a ripetere giorno dopo giorno l’assurda parodia di una vita quotidiana, senza emozioni. La ripetevano perché la ripetevano, perché i fili che li muovevano li spingevano a questo. Allucinazione da colpo di sole? Ovvio, soltanto questo poteva rendere logico, plausibile ciò che stava vedendo.

Una parte del suo cervello aveva forse pensato che quello fosse il momento giusto per mollare tutto e fuggire ai Caraibi. Sentiva la coscienza allentarsi, indebolirsi, mentre la testa oscillava da un lato all’altro. E ancora, sempre quella voce che ripeteva “Sono già stato qui. Lo conosco.”

Un impulso di evasione, o forse una domanda non formulata a livello conscio, lo spinse ad alzare a poco a poco gli occhi, dalla folla verso il cielo. La vista scorreva sui fili luccicanti, autostrade verso chissà dove. Non poteva vedere dove andassero a finire, a cosa si collegassero: si perdevano nella massa azzurra e bianca che sovrastava il paese. Nel cielo. Un paese di marionette, dunque. Ma chi era il marionettista? Chi teneva quei fili?

Mosse da un curioso senso del dramma, le sue gambe scelsero proprio quel momento per cedere. Lo scaricarono a terra senza complimenti, come un sacco di patate, e all’improvviso si ritrovò seduto sul marciapiedi, con la testa che gli trottolava sul collo. Ai margini della piazza, sotto il sole, e con la gente che gli passava attorno, senza guardarlo.

Per quanto tempo rimase così? Non lo sapeva. Il tempo è un materiale assai bislacco, se lo estrai dal ritmo meccanico dell’orologio. Il tempo è cambiamento e lui non cambiò, lì a terra, pietra nel fiume di gente che gli scorreva attorno. Sapeva però che nessuno lo guardava, nessuno si accorgeva di lui, e sentiva di doversi rialzare, andare avanti, perché avanti avrebbe saputo. C’era la risposta, avanti.

Ma era tutto reale? Era tutto reale? O era soltanto un qualche incubo da digestione pesante, che lo avrebbe vomitato di lì a poco nella stanza di albergo in cui aveva speso la notte precedente? Doveva essere reale, perché le sensazioni erano troppo vivide per un sogno, ma era una spiegazione poco convincente, al momento. Difficile credere alla realtà, quando la realtà è un paese di marionette.

Doveva andare avanti. Un rigurgito di volontà lo rimise in piedi su gambe tremanti. Erano i muscoli a tremare, se proprio si voleva essere precisi, e al momento lui ne sentiva il bisogno, quel bisogno di precisione, sicurezza, certezza. Realtà. I muscoli tremavano, d’accordo. Ma le gambe lo reggevano, nel complesso, dunque tutto andava bene. Doveva andare bene. Perché doveva andare avanti. Oltre la piazza, attraverso la piazza, C’era un punto che avrebbe spiegato tutto, che avrebbe dato senso a tutto. Forse. Lo sentiva.

Di fianco all’orologio, giusto? Dove mi fermavo spesso da bambino, quando non ero mai stato lì, e dove poi c’era qualcosa d’altro, più avanti nel tempo, quando di nuovo non ero mai stato lì. Perché lui non era mai stato lì, giusto? Giusto? Ricordava i posti, ricordava le scene, ricordava le persone, ma non era mai stato lì, giusto? Giusto?

Giusto. Grossomodo. Era il tramonto, attorno a lui, e la luce aveva riflessi che ricordava così bene, tra le tegole e i fili dei passanti. Non ricordava i fili dei passanti, ok, ma erano dettagli. Neppure si ricordava che fosse già passato tanto tempo, in effetti, ma non era sicuro di quanto a lungo fosse rimasto a terra, inebetito, per cui tutti si compensava. O almeno così decise di credere, guardandosi attorno. Anche il rosso del tramonto sembrava finto, come tutto il resto in quel paese, ma non aveva importanza, non adesso.

Adesso doveva andare avanti verso l’altra piazzetta, quella del comune, quella con l’orologio. Là gli sarebbe stato tutto più chiaro, non aveva dubbi. Non importava se il cielo sembrava una polaroid, che qualcuno stava proiettando sopra uno sfondo artificiale. Erano dettagli secondari. Avanti!

Era tardi. La piazza era ancora viva, se di vita si poteva parlare, ma si stava svuotando, come se le avessero tolto il tappo. C’erano sempre meno persone, forse tornavano a casa per la cena, ammesso che ne avessero bisogno. I fili erano più radi, scintillavano rossastri contro il cielo al tramonto, non più simili a una ragnatela. Un tessuto consumato, un buco in un asciugamano: ecco cosa sembrava adesso quell’intrico di fili irreali. Spiacevoli, ma non più così orrendi.

Sorrise senza gioia. In un modo o nell’altro, sentiva di essersi cacciato in un vicolo cieco. Mancava uno strumento per capire quel luogo, mancavano i mezzi per interpretarlo e schedarlo, come aveva fatto con tutte le tappe precedenti. Quante volte aveva già ripetuto “Non ha senso”, da quando si era lasciato alle spalle il cartello d’ingresso? Troppe, almeno per i suoi gusti. Brutto segno.

Poteva solo sperare che quello strumento ermeneutico si trovasse davvero più avanti, come i ricordi veri o falsi che gli riempivano la testa continuavano a suggerire, sempre più forte. E avanti, dunque, un passo dopo l’altro attraverso la piazza. Muovetevi, gambe! Avanti!

Una famiglia entrò nella piazza da dietro di lui. Padre, madre e due figli, tutti in compagnia dei loro fili. Marciavano col passo di un soldatino, quasi a scatti, come personaggi di un vecchio videogioco o di un cartone animato di basso livello. I cavi si tendevano e si rilassavano, mentre le gambe si spostavano l’una davanti all’altra. Un passo, un passo, un passo.

Li guardava passare ipnotizzato, seguiva il ritmo innaturale dei movimenti, il gioco di luci che i fili traslucidi facevano nel tramonto. Orribile, eppure affascinante, in un modo tutto suo. Il fascino che nasce da una scena irreale, oppure da qualcosa di troppo lontano e astruso perché lo si possa capire. Un’altra persona, con un cane al guinzaglio. Fili anche per l’animale.

Avanzò, su gambe finalmente stabili. Qualunque cosa ci fosse più avanti, lui l’avrebbe scoperta. Era il richiamo che gli veniva da ricordi fatti di insolazione, ma era anche la sua solita, innata curiosità, fedele compagna di dieci anni in giro per il paese, a cercare qualcosa, o forse a evitare qualcosa. E cosa? Non lo sapeva, ancora non lo aveva scoperto. Forse era la volta buona.

Nella piazza che stava attraversando, con uno spicchio di cervello sul presente e il resto a caccia di farfalle, restava ancora una ventina di persone, che si attardavano qui e là, da sole o in gruppi. Gli altri erano spariti, verso mete note soltanto a loro. A loro e al fantomatico marionettista, forse, che li dirigeva dall’alto. Quello spazio vuoto aveva qualcosa di sacro, come una chiesa o una biblioteca, e come quei luoghi era immerso nel silenzio. Lo attraversò come se stesse camminando sulle uova.

«Ti legherà, come gli altri. Vedrai». Erano le parole del vecchio col cappello di paglia, che la sera prima gli aveva parlato del paese. Sembravano una minaccia, adesso. Gli risvegliavano paure che avrebbero fatto meglio a continuare a dormire. Ma cosa voleva dire, quel tizio? Era stato anche lui lì? O ne aveva sentito parlare da altri? O... o?

Ti legherà. E per quanto inquietante, per quanto pauroso, non lo spaventava davvero. Non quanto si sarebbe aspettato, soltanto qualche ora prima. Niente lo aveva mai legato davvero, non a lungo; mai si era lasciato trattenere da qualcosa, bella o brutta che fosse. Perché? Perché era la sua natura, si era sempre ripetuto, ma adesso la risposta non gli bastava. Sembrava falsa, artificiale. Una scusa.

Aveva davvero viaggiato? Oppure era solo scappato?

La domanda lo colse al centro della piazza, fulminandolo. Da dove era venuta? Da un qualche punto dentro di lui, dentro la sua testa. E non era bello. Non era bello, quando la tua testa si ribellava contro di te, soprattutto in un luogo simile, un luogo pieno di manichini umani, pieno di ricordi che potevi solo chiamare falsi, pieno di una familiarità impossibile, insensata.

Eppure... Pensaci. Pensaci bene.

Un paese piccolo, di provincia. Forse non proprio piccolo piccolo, ma pur sempre trascurabile. Un paese abitato da morti viventi, persone mosse da fili di marionetta. Persone vive? Mettiamola pure così, d’accordo. Vive. Ma chi avrebbe voluto vivere lì? Chi avrebbe scelto di vivere lì?

Qualcuno stanco di scegliere. Qualcuno che non vuole scegliere. Qualcuno che ha visto dietro alle scelte e riconosciuto come le scelte, in fondo, siano solo reazioni, non azioni. Niente di spontaneo, ma solo il modo in cui tu, il tuo corpo, la tua educazione, la storia che ti ha formato, reagiscono a ciò che si trovano di fronte. È solo dopo aver scelto che esiste la scelta.

Scosse la testa. No, non poteva pensare così, non doveva pensare così. Non erano pensieri suoi. Se proprio lo dobbiamo fare, attraversiamo pure questa piazza, andiamo a vedere cosa ci sia accanto al municipio, dove c’è l’orologio, e poi tanti saluti a tutti. Ricordi? Familiarità? Solo illusioni.

Non era il momento giusto per pensare che tutta la sua vita, fino ad allora, fosse stata una scelta di non scegliere, una fuga dalla scelta. Una fuga che, adesso, lo aveva portato in un posto senza scelta, un posto di marionette. Un posto che ti legherà, come aveva detto il vecchio. Non era il momento di pensare a stupidaggini, quello. Era il momento di... andare a sbattere contro qualcuno.

Non si mosse. Marionetta o uomo che fosse, l’aveva colpito in pieno petto, ma fu come sbattere contro a un muro. La persona di mezza età, contro cui aveva cozzato, non fece una piega, non parlò, non oscillò neppure. Ferma, impassibile, rimase rivolta verso di lui, a fissarlo senza fissarlo, mentre lui indietreggiava e si scusava. Possibile che non si fosse neppure accorta di quel forestiero che le era andato a sbattere contro? Apparentemente era così.

Sì allontanò in fretta, mentre il passante riprendeva il proprio cammino attraverso la piazza, fili che oscillavano e ne accompagnavano i movimenti, volto impassibile, silenzioso. Era stato come colpire un sacco pieno di acqua calda, che aveva assorbito l’urto senza oscillare o muoversi. Disgustoso, sì, questo lo doveva ammettere. Forse poteva anche azzardare l’aggettivo “ributtante”. Si strofinò quasi senza pensarci la pelle e i vestiti, dove avevano toccato la marionetta umana.

Allungò il passo. Infilò una strada senza marciapiede, ancora zona pedonale. Il selciato rossastro era irregolare, ma in un modo che pareva studiato con cura. Naturalmente artificiale, si poteva dire, e gli stessi difetti avevano qualcosa di combinato, progettato. Qualcosa di falso. Persino gli errori gli sembravano volontari, inseriti perché doveva esserci un errore.

Superò uno slargo sulla sinistra, con una banca. Superò negozi di vario tipo, libreria, farmacia, un barbiere, un bar, abbigliamento vario. In gran parte chiusi, a quell’ora, ma con alcune persone che si attardavano nelle vicinanze, a guardare le vetrine, a passeggiare piano. E c’erano i fili, ovviamente, che scintillavano nella luce crepuscolare di una sera in arrivo.

Un’altra piazza, più piccola. Al centro uno strano tombino di metallo, forse bronzo o forse una lega pacchiana, col simbolo del paese in rilievo. Luccicava appena, le ombre coprivano ogni cosa, ormai. Era sera e ancora non aveva deciso cosa fare, non aveva trovato alcuna risposta. Ma sapeva che il tombino era nuovo, non c’era una volta. Perché lo sapeva? Perché lo ricordava, proprio come si ricordava di quell’altra farmacia, sulla desta. Se fosse sceso lungo la stradina accanto al fotografo, si sarebbe forse imbattuto nel venditore di tranci di pizza e altro, col negozio che faceva angolo.

Ammesso che ci fosse ancora. Ammesso che fosse mai esistito fuori della sua mente.

Davanti a sé vide un edificio dai contorni rigidi, squadrati, con un piccolo balcone a decorarne la facciata. Balcone da comizio, di quelli che si potevano vedere nei vecchi filmati dell’Istituto Luce. Poi bandiere, con lo stesso simbolo visto sul tombino, con un tricolore, con un cerchio di stelle in campo azzurro. Il municipio, forse, per quanto anonimo e insignificante potesse apparire. Ma lui lo conosceva, sapeva che lì davanti, a volte, montavano il palco di legno per la banda.

L’orologio, in alto, gli indicava le otto e mezza. Il tempo non esisteva quasi, laggiù. Ti scivolava tra le dita, senza che te ne potessi accorgere. Ti si accumulava addosso, ridendo della menzogna di ogni orologio. Ma il tempo aveva ancora meno importanza in quel luogo, perché lui lo conosceva.

Si avvicinò, lo sguardo sempre fisso sul quadrante. Le sagome di due persone che scantonavano alla sua sinistra, poi il vuoto. Nessuno. Niente fili, niente occhi vuoti, da bambola. Lo avevano lasciato solo, lì in mezzo? Respirava un poco a fatica. La nostalgia era forte, più forte che mai, più forte di quanto il suo corpo potesse sopportare. Era già stato lì, era già stato lì, quel luogo gli apparteneva, i ricordi si annidavano dietro a ogni angolo.

Era proprio il municipio, sì, una targa lo identificava, accanto all’ingresso, nascosta tra le ombre più fitte di un breve portico, che sembrava scavato a viva forza nelle viscere del palazzo, come se i suoi costruttori lo avessero intagliato da una massa solida, a colpi di scalpello. Antica arte del togliere, la scultura, come una memoria delle scuole medie gli sussurrava.

Allungò una mano a sfiorare la parete dell’edificio. Era solido, come se fosse vero. Era anche un po’ troppo perfetto, senza segni del tempo, senza chiazze lasciate da cani, senza macchie o altro. Lo stesso della panchina, nel parco: vero, solido, ma innaturale, irreale. Lo stesso di tutto il paese, forse lo stesso dei suoi ricordi. Come poteva ricordarlo, se non ricordava di esserci mai stato? O ricordava il luogo, ma non la propria presenza nel luogo?

Non te ne vorrai più andare. Ti legherà a sé. Vedrai. Ti legherà. Non te ne vorrai andare. Parevano il ritornello di una brutta canzone, di quelle che ti si fissano nella memoria e spuntano fuori in ogni circostanza, per tormentarti, ossessive e ossessionanti.

Tirò indietro la mano, le dita chiuse a pugno. Lo ricordava, sì. Poteva cercare ancora di illudersi che non fosse così, solo una coincidenza, in fondo quei paesi sono tutti uguali, visto uno visti tutti, dopo un po’ ti si accavallano nella memoria, per distinguerli ci vuole la lente di ingrandimento, erano fatti con lo stampino, architettura uguale per tutti, perché costava di meno.

Trova le differenze, ecco come si chiamavano quei giochi. Metti le foto una accanto all’altra, poi cerca e segna i piccoli dettagli che le distinguono. Sette, otto, raramente di più. Ci potevi giocare coi paesini di provincia, giusto? Il nome del bar accanto al municipio, il numero di pensionati fermi lì davanti, la forma della fontana in centro. Per il resto, tutto uguale, giusto?

Cazzate. Lo ricordava. Si era già trovato lì, di fronte a quell’edificio. Ci era passato più e più volte, da solo e con altre persone. Non avrebbe saputo dire né quando, né perché, ma lo ricordava. C’era già stato. Da bambino, forse? O poco più avanti? A volte quei ricordi sembravano visti dagli occhi e dalla statura di un bambino, ma a volte no, a volte la prospettiva cambiava.

Assurdo. Semplicemente assurdo. Come poteva essersi dimenticato un paese del genere? Un paese di marionette, di fili che calavano dal cielo, di edifici perfetti, di alberi e panchine senza difetti, non un suono, non una voce. Era umanamente possibile dimenticarsene, dopo averlo visto? No, non lo credeva. Eppure, a un qualche livello, lo ricordava, pur non ricordandolo. E dunque?

A destra, giù lungo la strada larga e ancora pedonale, poteva vedere un grappolo di fili davanti alla gelateria di cui ricordava il nome, pur non avendolo mai sentito. Ricordava anche il gusto del gelato che vi comprava, pur non essendoci mai stato. Un cane trotterellò vicino a lui, goffo e innaturale nei suoi movimenti, come tutti gli altri. Cavi, cavi che piovevano dal cielo, illuminati ora dai lampioni. Si accendevano l’uno dopo l’altro, mentre la sera si addensava.

Qualche passo, per superare il municipio in direzione della gelateria. Sulla sinistra si allungava un vicolo, chiuso tra una parete del municipio stesso e un alberghetto a tre stelle, con un’aiuola davanti e una panchina su cui non si era mai seduto (sì che ti ci sei seduto, col gelato in mano). Fissò con un certo interesse la facciata dell’albergo, respirando lentamente. Poteva entrare, prendere una stanza e chiudersi a chiave. Trascorrere lì la notte. Ripartire il giorno dopo, per andarsene.

Non lo fece. Perché c’erano due cose, nel vicolo. Due cose che vedeva adesso, una delle quali per la prima volta. Entrambe, però, non gli giunsero come una sorpresa. Se le aspettava. Avevano senso.

La prima cosa era lo scooter. Uno scooter, si corresse, non lo scooter, ma non aveva importanza. Il colore era diverso, la forma in parte diversa, ma la posizione era la stessa, come la stessa era l’aria di attesa che lo avvolgeva. Quante volte lo aveva già visto? Quante cercato?

La seconda cosa, appesa di fronte a esso, erano quattro fili. Pendevano dal cielo, inerti, liberi, con un lieve dondolio in quell’aria immobile di afa. Pendevano in attesa. E fu allora che tutto ritornò, quando la memoria cedette alla consapevolezza.

Il paese. Il paese in cui era nato, una trentina di anni prima. Il paese da cui era partito. Il paese in cui la sua famiglia aveva vissuto per generazioni. Il paese in cui aveva trascorso l’infanzia e un pezzo di giovinezza. Il paese in cui affondavano le sue radici, quelle che aveva creduto perse per sempre, in anni spesi a rotolare per il mondo. Il paese. Il suo paese.

Cambiato? Ma certo che era cambiato, perché era cambiato lui, erano cambiato gli occhi con cui lo guardava. Non ci si immerge mai due volte nello stesso fiume, giusto? E non si torna mai due volte nello stesso posto. Il paese cambia, le persone cambiano, cambiano i rapporti tra paese e persone. E i fili li aveva messi lui, i legami che non sapeva vedere, che non voleva accettare. I lacci che fissano a qualcosa, i lacci che ti uniscono a qualcosa. Lui li ave a rifiutati, quando aveva scelto il viaggio.

Era così, giusto? Era davvero così, giusto? Non si stava illudendo, non si stava immaginando tutto, giusto? Era quella la spiegazione, giusto? Il mondo non gli rispose, perché non risponde mai. Era lui a farlo parlare, con la propria voce. E i lacci, nel vicolo, erano lì per lui, proprio davanti al simbolo di una età lontana quasi metà della sua vita.

Era giusto, vero? Non si stava sbagliando, vero?

Tremò. Le parole bofonchiate dal vecchio, la sera prima, continuavano a tornare. Qualcuno che lo aveva riconosciuto, che aveva visto in lui il figliol prodigo, ritornato per caso al paese natale? Era possibile. Era la sola spiegazione sensata che lui sapesse produrre, in quel momento. Ma allora, se la risposta era in quei quattro fili, che significato aveva avuto tutto il resto, tutta la sua esistenza fino ad allora? Aveva avuto un significato? Era supposto che avesse un significato?

Qualcuno alle sue spalle. Tanti qualcuno. Li sentì arrivare, li trovò ad attenderlo quando si voltò. Lì, all’entrata del vicolo. Manichini, che si ammassavano e lo fissavano, con occhi vuoti. No, non erano manichini. Gente del posto, del suo posto. Era lui a vederli come manichini, lui a vedere quei cavi. Giusto? E chissà come lo vedevano loro, se davvero lo vedevano. Come lo vedeva, quella gente?

Sospirò, guardandosi di nuovo attorno. Facce impassibili e vuote gli risposero, ma non così vuote, non più così vuote. Attesa? Era attesa, che leggeva in quei volti? Una ragnatela luccicava appena, sospesa sopra di loro. Uno strano ponte, che li legava al cielo o a qualunque cosa si nascondesse sull’altro lato. La mano che li faceva muovere, la mano che li univa. La mano che attendeva anche lui, come una madre sul far della sera.

Era quella forse la risposta alle mille inquietudini dei suoi vagabondaggi, alla sua incapacità di farsi una vita normale, come quella di tutti gli amici che aveva conosciuto e perso per strada. I fili, che lo avrebbero legato al tutto. Si avvicinò con lentezza, accompagnato dalla gente che camminava dietro di lui, attorno a lui, come a spingerlo, come a indirizzarlo. Torna a casa. Torna a casa.

I quattro fili lo attendevano. Non giudicavano, non criticavano, non deridevano. Non guardavano neppure, forse. Erano lì, riempivano lo spazio, facevano sentire la propria presenza. Protese la mano destra, per sfiorarli. Non erano così sgradevoli, non erano orrendi, non lo spaventavano. Erano lì per lui. Erano il suo legame, che lo avrebbe stretto per sempre. Sarebbero diventati parte di lui e lui una parte della città. Ciò che non era mai riuscito a essere altrove. Ciò che aveva sempre cercato.

Giusto? Giusto.

Mentre i fili si univano ai suoi polsi, alle sue caviglie, la prima voce della giornata lo raggiunse, in quel vicolo accanto al municipio, di fronte a uno scooter parcheggiato. Non amichevole, non ostile, ma solo una voce, la prima delle tante che avrebbe sentito, ora.

«Bentornato a casa.»

I fili svanirono, il silenzio si dissolse, la normalità tornò ad avvolgerlo. C’erano voci, suoni, risa, rumori nelle strade. C’era vita. C’era una comunità, dove avrebbe sempre trovato un posto per sé, un porto in cui riposarsi dalla vita. Il suo paese. E lui ne faceva parte. Giusto. Non era più solo.

Fuori, nella notte che calava, il paese cambiava volto, cambiava aspetto, preparandosi al prossimo viaggiatore in cerca di qualcosa. Preparando nuove sirene, con cui legarlo a sé. Per sempre.

di Adriano Marchetti