Adriano - racconti e altro

Ultimo capriccio

Il supermercato era deprimente. Come al solito. Scaffali semivuoti, area dei surgelati saccheggiata e quasi messa a ferro e fuoco, alcolici non pervenuti, frutta e verdura che ti mettevano tristezza anche solo a vederle da lontano, formaggi e latticini vari quasi scomparsi, i pochi che ancora circolavano. E la carne? Quello che oggi si spacciava per carne, ovvio. Non ne vedevi mai. Forse se ti mettevi in fila all’alba, o forse ancora prima. E dovevi pure sperare di essere tra i fortunati.

Un bollino verde aiutava, ovvio. Aiutava sempre, il maledetto bollino verde. Accompagnato poi dai numeri giusti, potevi dimenticarti l’esistenza delle file. Erano un fastidio per altri, mai per te.

Erano per gente come Mauro De Marco, giusto per dirne uno.

Lui la fila la faceva sempre, per quel che valeva. Andava al supermercato prestissimo, per quel che valeva. Un paio di volte si era anche accampato nel parcheggio, assieme ad altri disperati come lui. Non aveva mai fatto alcuna differenza. La spesa che riusciva a portare a casa erano sempre avanzi di avanzi. Commestibili, in linea di massima, e nutrienti se eri di manica larga, ma avanzi erano e avanzi restavano. Scorie. Rimasugli.

Come lui, da un certo punto di vista.

Aveva avuto un bollino verde chiaro, un tempo. Non il massimo, ovvio, ma più che passabile. Eri il cittadino di serie B, che si comportava bene e non faceva casini. Obbediente, silenzioso, educato: il tipo che non la fa mai sul tappeto e che non abbaia più, a nessuna ora del giorno.

Era stato anche un liutaio, ai tempi. Non un super liutaio, dimenticatevi pure Stradivari e compagnia bella, ma un onesto artigiano, che lavorava bene e guadagnava accettabilmente. Niente lussi, ma era un lavoro che gli piaceva e in cui non se la cavava male. Aveva trovato la sua nicchia, scoperto che ci stava bene e tanti saluti al resto del mondo.

Poi il resto del mondo era passato a salutare lui. Ne viveva ancora le conseguenze.

Mauro De Marco uscì dal supermercato, sospirando e scuotendo la testa. Si era illuso di trovare per una volta qualcosa di fresco, anche solo moderatamente fresco, ma niente da fare. Quando hai solo un bollino arancione scuro, devi accontentarti di quello che resta dopo che i cittadini migliori di te si sono serviti. Erano molti i cittadini migliori di lui, anche in un buco di paese come quello, solo una frazione di Rimini, una delle tante in cui qualcuno aveva diviso arbitrariamente un lungomare che ai bei tempi non finiva mai e sembrava fatto solo di alberghi e ombrelloni. Lo sembrava ancora, circa.

Non che di spiaggia ne restasse molta, nonostante la diga di Gibilterra, ma era un altro discorso, che non si sentiva di affrontare, neppure in un monologo interiore. Non era un problema suo, in fondo.

Mauro schivò due mendicanti, gente che doveva avere un bollino rosso o addirittura nero, e si avviò pian piano verso casa, o almeno verso il buco in cui si annidava al momento. Gli restava ancora un mese circa, poi avrebbe dovuto cercare altro: l’indennizzo sarebbe scaduto e lo avrebbero cacciato di lì. Oh beh, pazienza. C’erano stati momenti peggiori. C’erano sempre momenti peggiori.

Alla sua destra il mare luccicava di rosso e arancione. Non erano bollini e non era il sole, ma solo il fuoco della piattaforma di trivellazione poco lontana dalla costa. Un piccolo incidente, niente di cui preoccuparsi, stiamo lavorando per voi, ci scusiamo per il disagio. Palle varie. Palle, soprattutto.

Mauro non si preoccupava. L’aria puzzava di bruciato e di polvere, con un vago retrogusto di peti e pozzi neri. Che era piuttosto strano, lo doveva ammettere, ma non troppo. Se ti fermavi a ogni cosa strana che ti capitava attorno, non potevi più vivere. Mauro non si fermava. Non più.

Camminò tra fila quasi ininterrotte di saracinesche abbassate, dove un tempo c’erano negozi vari, in gran parte trappole per turisti. Non c’erano più molti turisti, adesso. Perché sarebbero dovuti venire? Il mare non mancava, d’accordo, ma quello ormai stava venendo da te e si era pure portato via quasi tutta la spiaggia. Se la montagna sta già andando da Maometto, perché Maometto dovrebbe andare alla montagna? Non ci va, ovvio. E giù le saracinesche.

Un branco di bambini selvatici, di colori assortiti ma tutti tendenti allo sporco, aveva trascinato in strada i cassonetti dei condomini lì attorno. Frugavano in silenzio. Mauro De Marco li guardò, vide una ronda di sicurezza in arrivo, distolse lo sguardo. Solita storia, solito finale. Procedette.

Un cadavere appeso a un lampione dondolava piano sulla sua sinistra. Mancavano diversi pezzi, sia del lampione che del cadavere. La gente doveva avere davvero fame, da quelle parti. Mauro poteva capire, ma non erano affari suoi. Procedette. Schivò un altro mendicante, ne dovette prendere a calci uno troppo invadente, superò gli ultimi ostacoli, arrivò. Casa.

Non che fosse un granché, ma era il posto in cui viveva, quindi contava come casa. Grossomodo.

Era stato un buon condominio, un tempo. Lo avevano costruito per catturare i turisti, come quasi tutto il resto della frazione. Forse ne aveva catturati, forse no. Irrilevante. Adesso era un condominio come tanti, dove vivevano i residenti rimasti e diversi transfughi dalla città. Pensavano che fuori da Rimini si potesse vivere meglio e magari era anche vero, Mauro non lo sapeva. Un tempo aveva un negozio, a Rimini, che era anche laboratorio. Un tempo aveva lavorato, costruendo e riparando vari tipi di strumenti musicali. Un tempo. Poi aveva perso il bollino verdastro e si era unito agli sfollati.

Mauro De Marco si fermò davanti al portone smart e usò i propri dati biometrici per identificarsi: la retina dell’occhio sinistro, poi il palmo della mano destra, infine l’impronta vocale. Solita solfa, che si concludeva con un commento piatto e meccanico sul suo status sociale e neanche uno straccio di bentornato o roba simile. Ma non aveva importanza.

Entrò, mentre il portone si richiudeva dietro di lui. Ignorò l’ascensore a cui non aveva diritto e salì il solito malloppo di rampe di scale, dodici esatte fino al suo appartamento. Si identificò di nuovo alla porta, entrò, accese la luce, sospirò. Casa dolce casa. Non direi proprio.

Sistemò in cucina la poca spesa, ignorò l’assistente domestico imposto a tutti gli inquilini dai gestori dello stabile, finse di non sentire i suoi commenti e rimproveri vari, tolse le scarpe e le scagliò in un angolo, svuotò le tasche su un mobiletto, sospirò di nuovo, si afflosciò sul divano.

Casa dolce casa, si diceva. Un tempo lo era anche stata, grossomodo. Quando Chiara era ancora lì e nell’appartamento vivevano in due, due sfollati dalla città. Marito e moglie. Niente di speciale; solo due persone normali in una vita, beh, grossomodo normale. Poi la vita aveva fatto la vita, come ogni tanto succede, e tutto era andato a pezzi.

Mauro guardò la finestra del salotto. Sbarrata, come tutte, e solida come tutte. Oltre le sbarre, tetti e frammenti vari di edifici si sparpagliavano verso est, dove finiva la frazione e cominciava il mare. E le fiamme della piattaforma tingevano di arancione quello che sarebbe dovuto essere blu, o almeno una variazione sul tema. Solita storia, sempre schifosa.

L’assistente domestico gli annunciò l’orario. Ora che fai qualcosa, era il messaggio sottinteso. Forse lo era anche, ma il problema era che lui non aveva alcunché da fare. Un tempo sì, un tempo non gli erano mai mancate le cose da fare. Alcune per lavoro, altre per diletto. Difficile dire dove finisse il primo e cominciasse il secondo. Per Mauro De Marco, l’unica distinzione reale era stata che per un lavoro lo pagavano, di solito.

Era finito tutto quando il governo aveva introdotto i nuovi standard imposti dalla multinazionale che al momento deteneva il monopolio in quel particolare settore. Una lunga lista di caratteristiche che ogni strumento musicale doveva possedere, a seconda del tipo. Corrispondevano ai modelli prodotti da quella multinazionale ed erano stati scelti perché erano i più semplici ed economici da fabbricare in serie. Suonavano peggio? Irrilevante. Gli standard erano standard: adeguatevi o sparite.

Mauro ci aveva anche provato ad adeguarsi, inghiottendo il rospo. Lo avevano fregato i modelli su misura costruiti per i suoi clienti più affezionati, amici e variazioni sul tema. Era un liutaio: quando un cliente gli commissionava uno strumento, lui glielo costruiva su misura, seguendo i suoi desideri e le sue richieste. Come un sarto che ti cuce un abito su misura. Chiunque lo avrebbe dovuto capire.

Non lo avevano capito i reparti di Protezione Industriale che avevano perquisito il suo laboratorio e avevano riscontrato svariate violazioni delle leggi per la tutela dei diritti umani imprenditoriali.

Multa, distruzione degli strumenti, confisca tassata del laboratorio, varie ed eventuali. La sua vita da liutaio si era conclusa così. Chiara non aveva neanche brontolato. Lo conosceva, si conoscevano. Lo aveva accolto a casa con un mezzo sorriso e un «Sapevo che ti sarebbe andata a finire così, prima o poi. Nessun problema.»

Ma i problemi c’erano stati, come ci sono sempre. Sfollati in una frazione, il loro status sociale che affondava, tutto da ricostruire da capo, ma senza sapere da cosa cominciare. Pure, qualcosa lo aveva salvato. Uno ukulele da concerto, costruito due anni prima per la moglie, che si divertiva a suonarlo la sera, per rilassarsi in poltrona. A lui piaceva ascoltarla. Era forse lo strumento migliore che avesse mai costruito. O almeno lo sembrava, quando Chiara lo suonava.

Mauro si alzò dalla poltrona. Entrò nella camera da letto, si inginocchiò sul pavimento, allungò un braccio sotto il letto matrimoniale, oggi così largo e così triste, sfiorò l’oggetto, afferrò una maniglia e lo estrasse con la delicatezza di un chirurgo che ci tiene davvero a fare un buon lavoro. Ed eccolo davanti a lui. Eccola, anzi. Perché adesso non era più un oggetto. Era una custodia rigida.

La spolverò leggermente con una manica, non perché ci fosse davvero tanta polvere, ma solo perché aveva bisogno di fare qualcosa mentre pensava. Pensava e ricordava. Non era un bel flashback e lo avrebbe evitato molto volentieri, ma ci sono flashback che non puoi evitare: ti toccano, e ti toccano perché sono lì, davanti a te, e ti bloccano completamente la strada.

Nel caso di Mauro, gli bloccava anche la gola.

Aprì la custodia e lo ukulele era lì, come nuovo. Ma non era nuovo. Lo aveva amato e suonato sua moglie Chiara, prima, e adesso lo suonava lui. Quando ci riusciva. E lo amava anche? A volte, e per un certo valore di amare. Più che altro gli era sacro. Violava anche gli standard imposti a quel tipo di strumento, ma al diavolo gli standard e le multinazionali. Lo aveva costruito per Chiara, lo aveva costruito come piaceva a lei. Il resto poteva andare nel posto più volgare che trovasse.

Mauro lo raccolse e si sedette davanti alla finestra. Il mare bruciava ancora, là fuori, per qualunque diavoleria si fosse riversata dalla piattaforma di trivellazione. Un Adriatico che luccicava di arancio e sembrava uscito da una terzina dantesca. Ma non era una terzina dantesca. Era la realtà là fuori.

La realtà più vicina era uno spartito aperto sul leggio.

Mauro sorrise storto. Chiara non lo avrebbe mai suonato. Lei preferiva accompagnare canzoni, una catena di accordi macinati dal suo indice destro che si mescolavano alla sua voce. Non che cantasse poi così bene, anzi, ma non era importante. A lui era sempre bastato sentire il suono della voce, che si mescolava con le note prodotte dallo strumento costruito da lui. Era probabilmente simbolico di qualcosa, ma era soprattutto piacevole. Le serate sembravano volare via, allora. Oggi erano melassa.

Era finito tutto perché Chiara si era fatta trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato. Soltanto un incidente, gli avevano spiegato. Un danno collaterale. Spiacevole, ma sono cose che capitano.

Era stato un raid contro pericolosissimi violatori di copyright, la peggiore feccia della società. Si era svolto nell’edificio accanto a quello in cui Chiara lavorava. Si erano sentiti spari, d’accordo, ma era un periodo in cui sentivi sempre spari. I droni di sorveglianza dovevano garantire la sicurezza della popolazione, mentre la società cominciava a scricchiolare sul serio sotto i colpi del clima impazzito. Non sarebbe accaduto alcunché di grave, in altre circostanze. Era ordinaria amministrazione.

In quelle circostanze, invece, Chiara era uscita per una rapida commissione. Un drone si era girato e l’aveva scambiata per un violatore di copyright in fuga. Il resto era storia. E anche topografia, dopo che avevano segnato e recuperato tutti i pezzi.

Erano stati molto gentili con Mauro. In riconoscimento dell’errore commesso, gli avevano concesso un anno di esenzione dall’affitto, a titolo di indennizzo per i danni subiti. Poi li avevano ricalcolati e l’anno era stato ridotto a otto mesi. Erano solo cittadini di classe arancione, dopotutto.

Ne erano già trascorsi sette di quei mesi. Ancora uno e Mauro De Marco si sarebbe ritrovato forse a dormire in strada, forse peggio. Oh beh, i peggio non finiscono mai.

Guardò lo spartito. Era il capriccio numero ventiquattro di Paganini, per violino. Riadattarlo per uno ukulele non era una passeggiata, ma lui ci stava lavorando. Forse lo avrebbe finito in tempo e forse no. Non aveva importanza. Era un lavoro che lo teneva impegnato ed era meglio di niente. Era pure la sola alternativa al niente. Scrollò le spalle.

Sarebbe piaciuto a Chiara? Probabilmente no, ma piaceva a lui e tanto bastava, ormai. Era l’unico a poterlo ascoltare. Era anche l’unico a volerlo ascoltare.

Mauro De Marco accordò a orecchio lo ukulele, lo sistemò contro il petto e cominciò a suonare. Era uno strumento fuorilegge e prima o poi lo sarebbero venuti a prendere. Lo ukulele, ovvio, ma forse anche lui. Due al prezzo di uno. Era paranoico? Era realistico. Facessero pure, non gli importava. A modo suo, era una forma di resistenza. O così amava pensare, quando ci pensava. Non di frequente.

Guardò l’Adriatico in fiamme oltre le sbarre della finestra, pensò a tempi migliori, si strinse nelle spalle. Erano finiti. Restavano lui, uno strumento illegale e uno spartito. E tanta voglia di essere altrove, nel tempo e nello spazio. Ma non era altrove: era lì, era adesso. E dunque. Venissero pure a prenderlo: gli avrebbero fatto solo un favore.

Con un sospiro, Mauro cominciò a suonare l’ultimo dei capricci di Paganini arrangiato per ukulele, mentre tutto sembrava collassargli attorno. Forse lo stava facendo davvero. Meglio suonarci sopra.

Suonò.

di Adriano Marchetti