Un duro test
Di nuovo Venezia, dopo tutti quegli anni. Che poi non erano stati davvero così tanti, d’accordo, non in termini assoluti, ma il tempo non è un assoluto, il tempo è relativo, e in termini relativi per Marco Rinco di anni ne erano passati tantissimi, tutti quelli che separano la tua tarda adolescenza e l’inizio della mezza età. Eoni incalcolabili. Adesso era tornato.
Sul luogo del delitto? Non proprio. Non aveva mai commesso delitti, Marco Rinco, anche se più di una volta aveva fantasticato di strangolare i genitori che gli avevano rifilato un abbinamento nome e cognome così terribile e imbarazzante. Non lo aveva mai fatto. Sapeva distinguere fantasia e realtà, Marco, e proprio per questo era tornato a Venezia. Era una questione di lavoro, capite.
Più o meno. Da un certo punto di vista. Era di sicuro un test.
Ma non è il caso di pensarci proprio adesso. Era tornato, ecco, e gli era bastato uno sguardo appena uscito dalla stazione per sentirsi piovere addosso tutti gli anni che erano passati, come un meteorite che ha deciso di creare il golfo del Messico e calare il sipario sull’epoca dei grandi rettili. Ed erano tanti, quegli anni: non in termini assoluti ma relativi, come abbiamo già detto.
Perché aveva deciso di tornare? Per una missione. Una missione che poteva compiere soltanto lì. O anche in altri luoghi, d’accordo, ma lì sarebbe stato più semplice. Venezia sembrava fatta apposta, e se ti capita un posto che sembra fatto apposta, perché non approfittarne? Se ne approfitti, sei a posto e a Marco piaceva essere a posto, così aveva approfittato del posto fatto apposta. Poi si era preso un poco a schiaffi, perché quel gioco di parole aveva fatto schifo pure a lui, ma non sapeva resistere se gli si presentava una occasione simile. Non aveva mai saputo resistere a certe occasioni.
Forse era parte del problema. Non aveva mai saputo resistere a certe occasioni.
Marco scese le poche scale della stazione, si guardò attorno, notò le piccole differenze, quasi perse in una scenografia che sembrava immutabile, si strinse nelle spalle e si avviò a sinistra, verso Strada Nova e i percorsi che aveva conosciuto fin troppo spesso nei suoi anni da studente. Era la direzione giusta da cui partire, forse l’unica direzione possibile. Perché aveva una missione, come dicevamo, un lavoro da portare a termine. Recuperare il passato era ciò che gli serviva adesso. Il passato, come inizio, e da lì il presente. E il futuro? Forse, anche; si vedrà.
Tutto uguale. Forse meno folla, ma forse era solo la stagione. Non c’erano grandi eventi a Venezia e Marco aveva scelto apposta quel periodo. Perché complicarsi le cose andandosi a infilare di testa in una fiumana umana carnevalizia? Era da stupidi e Marco Rinco non lo era, nonostante le apparenze. Poca brigata e vita beata, quando hai una missione. Non che ci fosse mai così poca brigata in Strada Nova, se non in piena notte, ma era poca a sufficienza per i suoi gusti. E comunque non ci sarebbe rimasto a lungo. Era solo l’inizio obbligato. E la folla non contata. Era sfondo anonimo.
Raggiunse il ponte delle Guglie, lo passò e girò subito nella fondamenta a sinistra, Fondamenta di Cannaregio o come si chiamava, vattelo a ricordare dopo quasi trent’anni. Il solito banchetto con il pesce fresco, poche persone e poi quasi nessuno, una strada dritta tra canale e case, che lo avrebbe a breve portato alla zona in cui si era rintanato da ragazzo, un buco triste ma dall’affitto basso, specie se accettavi di sbrigare tutto senza troppa carta bollata e, beh, ci siamo capiti. Lui aveva accettato e non se n’era mai sentito in colpa. Erano tempi in cui non sempre si poteva permettere di usare il gas per cuocere la pasta, dopotutto. La morale è importante, ma la pancia di più.
Camminò, gettò il più rapido degli sguardi alla sagoma di San Giobbe sulla sinistra, girò a destra sul piano vagamente inclinato, sotto una specie di arcata per poveri, e rivide quell’angolo della sua gioventù sprecata, se non proprio bruciata. Non aveva bruciato molto da giovane, il nostro Marco. Soffritto sì, a volte, ma bruciato? Rivolgiti a qualcun altro, ma grazie del pensiero.
Baia del re, ecco come si chiamava quella zona. Forse. Per Marco Rinco il nome non contava: era il posto che aveva visto incalcolabili e incalcolate volte durante i suoi anni da studente, un posto fatto di case che sembravano più nuove della media ma anche più popolari della media, qualche panchina e macchie di erba dove portare il cane (se ne avevi uno: lui non lo aveva), una pompa di benzina per motoscafi e la parte settentrionale della laguna che si spalancava davanti a te, se non c’era nebbia. E sì, si spalancava anche con la nebbia, d’accordo, ma in quel caso la vedevi poco. Senza la nebbia, come adesso, vedevi tutto quello che c’era, e forse molto altro.
Vedevi acqua, più o meno calma, e ogni tanto un vaporetto di passaggio, e un’isoletta con qualche albero, e magari anche il profilo delle Alpi, o forse erano Dolomiti. Vedevi un poco di paesaggio e ti poteva sembrare bello, d’accordo, ma niente di troppo interessante. Marco Rinco non si sarebbe mai potuto permettere un alloggio in quella zona, se ci fossero state cose molto interessanti da vedere.
La osservava di nuovo adesso, camminando adagio. Cercava qualcosa, ma non era lì che lo avrebbe trovato, in apparenza. Tutto era più o meno come lo ricordava lui. Potevano esserci cambiamenti qui e là, ma erano piccole cose, irrilevanti. Ciò che contava era che quella zona rimaneva identica al suo ricordo, a come l’aveva vissuta lui. Il tempo era passato, ma non lì. In apparenza.
Non andava bene, non era la risposta che stava cercando. Vero, neppure lui sapeva di preciso cosa o dove cercare, ma sapeva che lo avrebbe saputo non appena l’avesse trovato. O trovata. O quello che era. Funzionava così il suo lavoro. Prima trovi, poi sai cosa stavi cercando.
Girò a destra e si avviò verso più o meno est, di nuovo a destra, poi il ponte sulla sinistra. Aria poco stabile come al solito, ma resistente a sufficienza. Più consumato dal tempo? Forse, ma era normale e comunque non un suo problema. Avrebbe resistito un altro secolo o più, se per allora ci fosse stata ancora la città e se qualcuno l’avesse ancora abitata. Possibile, ma non si poteva mai dire.
Una nuova fondamenta si apriva davanti a Marco, che più in là sarebbe diventata della Misericordia ma chissà come si chiamava in quel punto. Era sempre la stessa strada, che però cambiava nome qui e là, di solito dove c’era un ponte. Misteri della toponomastica. Un altro itinerario classico, che di solito aveva percorso in senso opposto. Avrebbe fatto qualche differenza? Probabilmente no, ma era compito suo scoprirlo. Beh, non esattamente, ma era almeno una parte del suo compito. Circa.
Camminò, camminò e camminò, sfiorò il ponticello metallico che portava al ghetto, lo ignorò, fissò lo sguardo sul tratto di fondamenta coperta dove si intrecciavano un paio di ponti, che gli era stato così familiare un tempo e che ancora adesso ricordava alla perfezione: non che avesse tanto bisogno di ricordare, d’accordo, perché ce l’aveva davanti, ma era una questione diversa, doveva verificare, e comunque il problema reale era che.
Marco si bloccò, sia coi piedi che con la mente. C’era qualcosa nel canale.
Non era strano trovare cose che galleggiavano in un canale. Una volta aveva visto anche il sedile di un’auto che veleggiava tranquillo verso domani luminosi. Lo aveva visto appena uscito dalla mensa universitaria, per cui non poteva essere stato un’allucinazione causata dalla carenza di cibo. Pure, il sedile era un conto; quello che vedeva adesso era un altro.
C’era una persona che galleggiava nel canale. A faccia in su, come se stesse facendo il morto. C’era anche la possibilità che non lo stesse facendo, non proprio, ma Marco Rinco non era ancora pronto a contemplarla. Forse però aveva trovato quello che stava cercando. Una parte, almeno.
Lo fissò a lungo. C’era qualcosa di familiare in quella persona, ma gli sfuggiva il cosa. Lo aveva già visto da qualche parte? Possibile, ma di sicuro non in un canale a galleggiare. Era un vecchio, o per lo meno lo sembrava. Aveva una faccia sottile, da furetto, e una barbetta bianca incolta, che pareva un poco quella di una capra. Aveva anche capelli bianchi, poco puliti nonostante fossero in acqua. O forse proprio perché erano in acqua: stiamo parlando di un canale di Venezia, dopotutto. Ci possono essere cose più luride, ma spesso sono sepolte o coperte in un qualche modo.
Indossava una specie di giacca a vento, malmessa e sciupata. Era forse stata rossa, ma adesso capire quale fosse il suo colore era difficile, soprattutto perché aveva assorbito acqua in abbondanza. Jeans sbiaditi come pantaloni, e scarpe da ginnastica legate assieme alla meglio. Sembrava...
Un barbone, sì. O un accattone, ammesso e non concesso che ci sia una qualche differenza. Marco non ne era sicuro, ma al momento non gli sembrava un fattore rilevante. Perché un interruttore nel suo cervello aveva appena fatto click e adesso lo ricordava. Ricordava di averlo già visto. E il dove, il come e il quando. Ma non aveva senso che fosse in un canale.
C’era un barbone mendicante attivo nella zona di Rialto, ai tempi della sua università. D’accordo, è forse esagerato descriverlo come attivo, perché non faceva altro che stare fermo in un punto, con la mano tesa in avanti, e ogni tanto urlava insulti ai passanti, li chiamava bastardi e altro ancora, ma da un certo punto di vista era attivo, quella era la sua area di caccia e, beh, sì, Marco lo vedeva di tanto in tanto. Si era anche preso un insulto da lui, anche se non ricordava più il perché.
Era un tipo strano. Voglio dire, strano anche rispetto alla media dei tipi strani. Marco Rinco lo aveva trovato affascinante a modo suo, soprattutto per la sua abitudine di strepitare insulti ai passanti, con una voce stridula e gracchiante. Non lo faceva sempre, ma quando lo faceva ti colpiva. Perché sì, lo potevi considerare un modo di sfogarsi, ma non aveva senso. Insulti la gente a cui chiedi la carità? È un pessimo modo per convincerli a darti qualcosa. Marco la pensava così, ma il barbone insultava lo stesso, forse perché ormai era troppo andato di testa per capirlo. O forse chissà.
Perché adesso galleggiava in un canale? E perché sembrava ancora identico a trent’anni prima? Era un errore, un chiaro e indiscutibile errore. Era quello che stava cercando, a modo suo. Marco guardò attorno, vide che era solo, neppure uno straccio di passante nei paraggi. Scosse la testa, sospirò e si girò di nuovo verso il canale. Che adesso era vuoto. Il barbone galleggiante non esisteva più, se mai era esistito davvero. Cosa significava?
Significava che c’era qualcosa di strano, ovvio. Qualcosa che non funzionava a dovere. Marco tolse di tasca un taccuino sgualcito e un poco ricurvo, gemello di un altro taccuino che aveva posseduto e ogni tanto usato ai tempi dell’università, e prese nota di quanto gli era appena capitato. Segnò anche l’ora, ammesso e non concesso che avesse importanza. Marco non lo sapeva, ma aveva imparato a proprie spese che non potevi trascurare alcunché. Tutto poteva contare. O non contare.
Così annotò, ricontrollò, annuì e mise via il taccuino, mentre un passante lo superava. La strada era tornata ad animarsi. Non molto, perché non era mai stata una strada molto animata, ma non era più il mortorio di quando aveva visto galleggiare il barbone. Marco non ne fu sorpreso.
Si incamminò di nuovo fino dove la fondamenta finiva, davanti a una chiesa che magari era anche lei della misericordia, come tutto il resto in quella zona. C’erano le fondamenta della Misericordia, il campo della Misericordia, il canale della Misericordia, pure la sacca della Misericordia. Perché si sarebbero dovuti negare una chiesa? Non aveva senso, così Marco aveva battezzato l’edificio chiesa della Misericordia, qualunque fosse il suo nome reale. Magari proprio quello, chissà. Ma non aveva importanza, era come la ricordava e così passò oltre.
Superò un ponte, scese in una calletta di pochi metri stretta tra due pareti claustrofobiche, raggiunse le fondamenta subito dopo, che avevano una larghezza più decente, e le percorse fino in fondo, per immettersi di nuovo in Strada Nova. Qui sì che c’era gente, ma ce n’era sempre. Giusto il tempo di guardarsi attorno, nel caso ci fossero altre brutte sorprese, poi Marco Rinco riprese il cammino.
Sembrava tutto normale e magari lo era, ma non riusciva a dimenticare quel corpo nel canale. Se un cadavere poteva galleggiare in un canale, anche solo per poco, significava che poteva trovare più o meno di tutto. Doveva stare attento. La Venezia che stava percorrendo non era la Venezia che aveva conosciuto tanti anni prima. Confonderle sarebbe stato un errore. Poteva anche essere pericoloso, da un certo punto di vista. Occhi aperti e cervello acceso, dunque.
Marco si avviò verso est, seguendo la corrente in direzione di Rialto. Tutto sembrava normale, con la solita gente e i soliti turisti, le solite botteghe e il solito quel che ti pare. Per un attimo credette di vedere una testa in una vetrina, ma forse se l’era sognata, annebbiato com’era dall’intenso odore di saponette e roba simile emanato dal negozio accanto. Provò a tornare indietro e passare di nuovo, in caso la testa dovesse riapparire, ma non accadde. Ricevette solo occhiate strane, ma ci era abituato e dopotutto non contavano. Erano sfondo, semplice sfondo e coreografia.
Riprese a camminare ed era ormai davanti agli Apostoli nell’omonimo campo, che aveva sempre un vago retrogusto bucolico, almeno per lui. Non era bucolico, proprio per niente: era solo un punto in cui la strada si allargava un poco, c’era qualche panchina, vaghe tracce di verde e insomma era tanto simile alla campagna quanto l’aiuola al centro di una rotonda in tangenziale, ma in relazione a tutto il resto, beh, se chinavi un poco la testa di lato potevi anche pensare che avesse un sapore bucolico.
In realtà non lo aveva, ma non stiamo parlando della realtà: stiamo parlando del mondo prodotto dal cervello di Marco Rinco, basato sulle sue percezioni sensoriali e condito di fantasia. Ci siamo capiti.
Il posto non era importante, in ogni caso. Era importante ciò che Marco vide nel posto. Al centro del campo o quasi, un poco ingobbito come nei suoi ricordi accademici, c’era una figura umana magra e quasi emaciata, che lui riconobbe subito. Era Giancarlo, un suo vecchio compagno di corso. Cosa ci facesse in piedi in mezzo al campo degli Apostoli era un mistero, ma c’era e tanto bastava. Non ti conviene sempre farti troppe domande: a volte è meglio accettare le cose così come sono e pace.
Marco Rinco le accettò, almeno in via provvisoria. Raggiunse il vecchio compagno di corso e più o meno amico, si salutarono, come va e come non va, il sole che calava già rosseggiava la città, ti ho scritto, è un anno, le frasi come fossimo due vecchi rincorrevan solo il tempo dietro a noi e così via, con tutto il resto della paccottiglia che accompagna sempre l’incontro a sorpresa con qualcuno che è riemerso dal passato dopo anni e anni. Chiacchierarono, dicendosi poco ma facendo molta scena.
C’era qualcosa di strano in Giancarlo, ma in fondo c’era parecchio di strano anche in Marco, per cui non era il caso di farlo notare. E non si vedevano da molto, ognuno aveva dell’altro solo l’immagine conservata nella memoria e la personalità che vi si era sedimentata attorno, vera o falsa che fosse. A che pro agitare le acque? Erano già lutulente a sufficienza. Godiamoci l’incontro e basta.
Non che Marco si godette molto l’incontro. Dopo quasi cinque minuti di parole al vento, alcune con una parvenza di senso e altre no, la figura di Giancarlo cominciò a sfrigolare, poi svanì nel nulla. In una manciata di secondi ne rimase solo uno spazio vuoto. Ah, quel genere di problema. Capito.
Marco sospirò. Non era andata come doveva andare, quel suo ritorno a Venezia. Troppi errori, cose fuori posto, e una stabilità scadente a voler essere generosi. Non era il luogo che ricordava e non era forse neppure il luogo che era diventata nei trent’anni trascorsi. Era solo una illusione venuta male.
Tempo di tornare indietro e pensare al lavoro.
Marco Rinco toccò lo smartwatch e la città si dissolse. Al suo posto c’era una stanza, poco pulita e ancora meno ordinata, ma familiare e fin troppo comune. Il suo salotto, se di salotto potevi davvero parlare. Marco di solito non ne parlava. La considerava una stanza tuttofare, un poco sala e un poco ingresso, a volte ufficio o laboratorio. Più o meno tutto, tranne cucina e bagno. A volte finiva anche per fargli da camera da letto, ma solo quando era davvero stanco. Adesso non lo era. Non ancora.
Sbadigliò, si stiracchiò e si lasciò cadere su una poltrona ridotta così male che avrebbe fatto schifo anche a un cane randagio con gravi problemi di incontinenza, ma che lui trovava comoda perché gli anni l’avevano plasmata su misura dei suoi glutei. Recuperò gli appunti, li sfogliò, vide che c’era da sfogliare ben poco, aggiunse quello che poteva sulla scomparsa del vecchio compagno di università e pensò che forse era il caso di cominciare subito a scrivere il rapporto. Non aveva trovato molto, ma quanto aveva trovato sembrava piuttosto grosso. O forse stava solo cercando di autoconvincersi che il suo lavoro contasse qualcosa. Magari era vero. Chi lo poteva dire?
I suoi datori di lavoro, tanto per cominciare. Solo che loro non lo dicevano. Gli rifilavano altra roba da testare, di qualità sempre più scadente, e lui testava. Trovava anche molti errori, ma non era così facile capire se li trovasse perché era bravo lui a scovarli, oppure perché i programmi che gli davano da testare facevano schifo oltre ogni immaginazione. Forse metà e metà.
Prendiamo quest’ultimo. Doveva ricostruire una simulazione 3D realistica e credibile, praticamente indistinguibile dall’originale, e prometteva di farlo basandosi sui dati accessibili, uniti a eventuali ricordi e desideri dell’utente. E blablabla, aggiungete altre balle per farla sembrare migliore. Era un lavoro come un altro, almeno per Marco, e pagava leggermente meglio degli altri. Ottimo.
Così lo aveva usato per visitare virtualmente Venezia. Era il posto in cui aveva vissuto da studente per alcuni anni, conseguendo una laurea che non gli era mai servita sul lavoro, ma aveva anche due o tre bei ricordi, da un certo punto di vista. E poi non ci tornava da molto, e Venezia è Venezia: non sarà difficile trovare dati per una ricostruzione virtuale della città, giusto? Un inizio soft, giusto?
Sbagliato. Il programma non aveva funzionato tanto bene. Più che beta, era ancora alfa, e anche così ci voleva molta buona volontà. La città l’aveva ricostruita decentemente, d’accordo, ma il resto era davvero scadente. Atmosfera assente, animazioni che neanche i cartoni degli anni ‘50, e ogni volta che cercava di incorporare un elemento preso dal suo passato, beh, andava tutto in crash. Il barbone che galleggia nel canale? Il compagno di corso che si dissolve nell’aria? Terribile, davvero.
Marco sospirò. Poteva essere un programma interessante, se mai fosse stato completato bene. Per il momento, però, era solo una noia mortale. Ok, magari non mortale, ma non ne valeva la pena. Solo una perdita di tempo, ecco. E adesso gli toccava pure scrivere il rapporto da inviare all’azienda per cui lavorava come indipendente in subappalto. Che vita triste.
Marco lavorò per un poco, ripensando alle scene più assurde della simulazione. Chissà che razza di bug aveva ripescato dalla sua memoria il barbone, per poi farlo galleggiare in un canale? E cosa dire di Giancarlo, che si dissolveva come un miraggio? Il programma li aveva anche recuperati come lui li ricordava, senza prendersi la briga di adattarli ai trent’anni circa che erano trascorsi. Meglio se si ricordava di aggiungere anche quel dettaglio alla lista di problemi. Magari era voluto, ma non era serio. Faceva perdere credibilità alla simulazione.
Si fermò dopo quasi mezz’ora, perché i suoi reni lo avvisarono che era tempo di alleggerirli, se non voleva che si arrangiassero da soli. Marco non lo voleva proprio, così salvò il rapporto, si alzò e con pochi passi fu davanti alla porta del bagno. Aprì, accese la luce e si fermò.
La vasca era piena. Di acqua, sì, ma non solo. In mezzo all’acqua, non galleggiante ma seduto, c’era il barbone. Capelli bianchi e spelacchiati, barbetta bianca da capra, giacca a vento rossa sbiadita e in pessime condizioni, jeans immersi e scarpe... Assenti? Sì, non le aveva. Strano. Era pure immobile, ma questo era già più normale. Non era così larga, la vasca. Solo che era immobile perché sembrava inerte. Sembrava una specie di bambolotto a grandezza naturale. Sembrava soprattutto assurdo.
Marco chiuse gli occhi. Li riaprì. Il barbone era ancora nella vasca. Ah.
Controllò lo smartwatch. Il programma era spento. Correzione: il programma sembrava spento. Ma lo era davvero? Con tutti gli errori che conteneva, come poteva escludere che ce ne fosse un altro?
Spegnendo lo smartwatch, tanto per cominciare.
Marco Rinco spense lo smartwatch. Giusto per sicurezza se lo tolse pure, lasciandolo scivolare nella tasca destra dei pantaloni. Il barbone si ostinava a rimanere nella vasca. E adesso?
Non si trovava ancora in una simulazione di qualche tipo, vero? Certo che no. Chi avrebbe avuto il pessimo gusto di simulare un luogo squallido come casa sua, una vita squallida come la sua? Non la sopportava neppure lui, ed era la sua vita. Quindi la spiegazione doveva essere un’altra.
Peccato che Marco Rinco non la riuscisse a trovare. E il barbone era lì, fermo nella vasca. Che cosa voleva? Cosa ci faceva lì? Da dove era arrivato? Ma soprattutto, era davvero lì?
Tempo di scoprirlo, anche se l’idea non gli piaceva affatto.
Marco si avvicinò di un passo, tese la mano e toccò il barbone sulla spalla. Sembrava solido. Quindi si trovava davvero lì, a un certo livello, ed era reale per un certo valore di realtà. Uno che a Marco non piaceva proprio. Forse...
Il barbone spalancò gli occhi. «Bastardi!» cominciò a urlare con una voce stridula e gracchiante, il tipo di voce che ti faceva venire voglia di prenderlo a calci nei denti. «Bastardi! Bastardi!»
Marco Rinco arretrò. Cosa...
Urtò il muro con la schiena e sentì un click. Il barbone svanì. Cosa era successo stavolta? Perché nel suo mondo dovevano esserci assurdità ovunque? Che aveva fatto di male, a parte nascere? Che poi a lui non era neppure piaciuto e ne avrebbe fatto volentieri a meno, se qualcuno lo avesse prima interpellato. Ma no, lo avevano gettato nel mondo e basta. Che vergogna!
Si girò e vide che era andato a sbattere contro l’interruttore del proiettore 3D. Quello che non aveva voluto, ma che l’azienda gli aveva imposto di comprare. Lo aveva fatto installare nel bagno, per una qualche ragione che al momento doveva essergli sembrata buona, ma che adesso non ricordava più. O forse non voleva ricordare. Oh beh, pazienza. Almeno aveva senso.
Il barbone era un’altra illusione. Visiva e tattile, perché il proiettore funzionava così, ma illusione in ogni caso. Un fastidio, ma uno che poteva almeno comprendere. Tutto a posto. Ancora gli mancava una spiegazione al perché il proiettore fosse acceso, dato che non lo aveva quasi mai usato, ma per adesso non ci voleva pensare. Un qualche tipo di bug, quasi di sicuro. Era la risposta jolly e non lo aveva mai deluso. Ok, quasi mai, ma stavolta andava bene. Probabilmente.
Così Marco Rinco fece quel che doveva fare in bagno, tornò in sala e sulla poltrona c’era il barbone. Adesso stava diventando ridicolo, davvero. Cosa aveva lasciato acceso stavolta? Si guardò attorno, ignorando con cura la poltrona. C’era altra roba smart che poteva proiettare l’immagine? Non che lo ricordasse, ma non potevi mai essere sicuro. Perché...
Il mondo di Marco cominciò a sfrigolare, poi ogni cosa gli svanì attorno. Svanì anche lui. Click.
Conteneva davvero troppi bug, quella simulazione. Non valeva la pena di continuare.
Meglio riprovare con qualcosa di diverso.