Un uomo particolare
Quando aprì gli occhi, Angelo Gioppini capì subito che qualcosa non andava. Per cominciare, aveva aperto gli occhi. Questo non rientrava nel programma. Quando li aveva chiusi la sera precedente, lo aveva fatto perché voleva che rimanessero chiusi. Ma adesso erano aperti. Peggio, esisteva ancora il qualcuno che li poteva aprire e quel qualcuno era un Angelo Gioppini del cavolo.
Così non andava proprio.
Angelo chiuse di nuovo gli occhi, per vedere se le cose sarebbero tornate a posto. Vedere in senso figurato, ovvio. Quando hai gli occhi chiusi non vedi molto, in senso letterale: soltanto puntini che si muovono su uno sfondo più o meno scuro, a seconda della luminosità esterna. Angelo non era poi molto interessato a vedere puntini. Angelo non era interessato a vedere, punto.
Prima o poi li avrebbe dovuti riaprire. Era un momento che non attendeva con ansia, anche perché il suo cervello stava cercando di fargli presente qualcosa, ma con molta cortesia, scusate il disturbo. I suoi occhi avevano avuto a disposizione un tempo molto breve per ricevere impressioni luminose da fuori e inoltrarle sotto forma di dati grezzi lungo il nervo ottico. Arrivati al cervello, quei dati erano stati utilizzati per ricostruire una immagine. Questa immagine, punto finale del processo magico che chiamiamo “vedere”, era il qualcosa che Angelo si trovava adesso a dover considerare.
Volente o nolente. Ma non lo voleva proprio. Pure, doveva.
Siccome continuava a non accadere alcunché e si stava anche annoiando, Angelo Gioppini respirò a fondo, si preparò al peggio, si preparò alla consapevolezza che non sarebbe mai stato pronto quanto bastava, si concesse un altro paio di seghe mentali molto bizantine e infine riaprì gli occhi.
E vide la stanza, in penombra.
Dopo avere smaltito e accettato il primo livello di sorpresa, cominciò anche a guardare la stanza: fu allora che raccolse alcune informazioni chiave, in parte positive e in parte assurde.
Non si trovava in un ospedale. Il che era bene, ma anche no. Svegliarsi in una stanza di ospedale era uno sviluppo razionale, date le premesse. Significava che la notte precedente aveva fallito, oppure il caso o la sfortuna (o quello che vi pare) gli aveva portato soccorsi non voluti prima che fosse tardi.
La stanza in cui si era svegliato, invece, era del tutto normale. Per un dato valore di normale. Era la camera da letto di un bambino, a giudicare da dimensioni e arredi. La penombra era fitta, solo qui e là disturbata dalla griglia di punti luminosi che filtravano dalla tapparella abbassata, ma dai contorni generali avrebbe detto che...
Angelo Gioppini sbatté le palpebre. Lentamente. Disse anche una bestemmia, ma piccola piccola e senza usare la voce. La formò sulle labbra e la lasciò andare. Non era qualcosa che faceva di solito, ma al momento ne aveva davvero bisogno.
Poteva essere un sogno, si consolò. Molto vivido e realistico, ma pur sempre un sogno. Oppure una stramba allucinazione. Realtà virtuale. Magia. Qualsiasi cosa, purché non fosse la realtà.
Perché non aveva senso. Non era possibile.
Angelo chiuse di nuovo gli occhi, si concesse un singolo respiro più profondo degli altri, poi riprese a un ritmo regolare, magari giusto un poco più forzato del solito. Liberare la mente. O riempirla. O insomma farci qualcosa che non fosse accettare i dati ricevuti dagli occhi. Era una situazione così assurda che sembrava il finale di “2001 odissea nello spazio”, quando il tizio astronauta si ritrova in una stanza con arredamento anni Cinquanta o dintorni.
La stanza in cui si era ritrovato Angelo Gioppini aveva un arredamento anni Settanta o dintorni ed era praticamente uguale a quella in cui aveva dormito da bambino. Da bambino piccolo, precisiamo. Ma non aveva senso. Non aveva alcun diritto di essere la stanza in cui era cresciuto per un poco di tempo, prima di traslocare altrove. O prima di essere traslocato: in qualità di bambino piccolo la sua partecipazione ad attività quali traslochi e affini era stata più o meno pari a quella di un comodino, spostato qui e là dai genitori a seconda di come conveniva. Ma non divaghiamo.
E dire che il giorno prima tutto quanto aveva avuto un senso. Non un bel senso e pochi lo avrebbero apprezzato, se non erano masochisti estremi, ma il punto era un altro. Il punto era che tutto aveva un senso. Uno scopo. Lo aveva fabbricato lui stesso, dopo tante riflessioni e tanti preparativi. Aveva lavorato e studiato, ricercato ed esplorato, e altre participi passati che non serve elencare.
Perché sarebbe dovuto essere l’ultimo giorno della sua vita e certi gesti vanno pianificati a dovere. Non ci si può affidare al caso, o al capriccio. Bisogna decidere, agire e imporre la propria volontà su ogni cosa. Non subire, ma scegliere. O almeno Angelo si era ripetuto più volte questa e altre storie, fino a convincersi che fossero vere. Magari lo erano, per un dato valore di verità. Irrilevante. Ma la sua vita aveva raggiunto un punto in cui il solo miglioramento possibile era la conclusione. Questo era rilevante. Il resto, chiacchiere da barbiere.
Aveva scelto il posto dopo un sopralluogo di persona. Una specie di sperone roccioso, non certo alto ma alquanto brullo, una specie di sputo dimenticato per strada dall’appennino. Non proprio vicino a casa e non molto comodo da raggiungere, il che era un più. Ai suoi piedi c’era un laghetto, o stagno che sogna in grande; poteva anche essere solo una specie di bacino per l’irrigazione, ma non faceva alcuna differenza. Venti o trenta metri di volo dalla cima all’acqua, a occhio, ma Angelo non era mai stato bravo a misurare a occhio, per cui potevano essere di più o di meno. Irrilevante.
Cadendo dalla cima dello sperone roccioso, il malcapitato sarebbe finito dritto nell’acqua, che non sembrava molto profonda, ma in certi casi basta che sia più profonda di te. Il malcapitato si sarebbe pure fatto un discreto volo prima di atterrare, il che era un altro bonus. Se sommavi tutto, il risultato era un luogo adatto a lui. Così il dove era stato deciso.
E il come? Angelo Gioppini era un perfezionista, a modo suo. Il che significava che si impegnava a fondo e con precisione, fino a che non gli passava la voglia. Poi, chissenefrega: andrà bene così. Ma stavolta era fondamentale che tutto andasse bene, così la voglia era durata più del solito.
Il programma era semplice, ma sfaccettato. Arzigogolato, si sarebbe anche potuto dire. Non che lui lo dicesse. Angelo la considerava una idea raffinata e piacevolmente barocca. O una stupidaggine, a seconda dei momenti. Ma era la sua stupidaggine e questo faceva la differenza.
Una camminata fino alla cima dello sperone roccioso. Un paio di pillole di sonnifero, per facilitare il processo. Ai primi seri sbadigli, avrebbe stretto attorno al collo una cinghia a cricchetto, molto in fretta, per bloccare i due rami della carotide, e si sarebbe sistemato proprio sul bordo, col laghetto subito sotto di lui. Molto più sotto di lui. Infine, avrebbe atteso la perdita di conoscenza, o perché il sonnifero aveva fatto il suo lavoro, oppure perché il blocco della carotide aveva interrotto l’afflusso di sangue al cervello. In un modo o nell’altro, avrebbe smesso di funzionare e sarebbe caduto dritto nel laghetto, dove l’acqua avrebbe fornito l’ultima garanzia, nel caso il resto non avesse funzionato.
E tanti saluti ad Angelo Gioppini.
Con questo progetto aveva raggiunto il roccione nella serata del giorno precedente, che era anche un sabato, per aggiungere un tocco di eleganza che pochi avrebbero colto. Armato di tutto il necessario e lasciando a casa tutto il superfluo, aveva dibattuto un poco se portare lo smartphone, ma alla fine l’aveva infilato in tasca. Si era anche preso la briga di aggiornare il sistema operativo, perché gli restava ancora una bella fetta di traffico dati mensile e non voleva fare regali a quel ladro schifoso di operatore telefonico. Meglio consumare il più possibile, anche se inutilmente.
Sul posto, aveva prima osservato dal basso il laghetto, trovandolo un poco più piccolo di come se lo ricordava, ma era periodo di siccità e in fondo non serviva molta acqua, come già si diceva. Giunto in cima col fiatone, aveva guardato di nuovo il laghetto, stavolta dall’alto. Pareva più lontano di quanto lo ricordasse. Il che era un bene: più lunga la caduta, maggiori i danni. Aveva distribuito a terra tutto l’armamentario: la cinghia a cricchetto, l’imbottitura, la confezione di sonniferi che si era fatto prescrivere raccontando storie di terribili insonnie, lo smartphone. Uno sguardo al cielo, scuro e senza stelle, e sotto col lavoro.
Aveva fissato la cinghia attorno al collo, tra pomo d’Adamo e mascella, infilando l’imbottitura nel punto studiato con cura davanti allo specchio del bagno: doveva assicurare la massima pressione sui due rami della carotide senza schiacciare la trachea. Nei test aveva funzionato bene. Aveva stretto la cinghia abbastanza per farla restare in posizione, ma non tanto da ostacolare il flusso del sangue. A quello avrebbe pensato poi.
Conclusa la fase meccanica, aveva inghiottito a secco due pillole, si era seduto vicino al bordo della sporgenza e aveva acceso lo smartphone. C’erano tre o quattro nuove app, probabilmente installate con l’aggiornamento, ma Angelo le aveva ignorate. Avevano nomi stupidi, come sempre, ed erano di sicuro trappole per succhiare dati personali in cambio di servizi inutili. Succhiassero pure, per il bene che ne avrebbero ricavato. Si era assicurato che fosse disattivato tutto ciò che, in base alle sue conoscenze, lo avrebbe potuto localizzare, aveva spento le reti, infilato le cuffiette e si era dedicato all’ultima cosa che gli importava davvero: ascoltare “A most peculiar man”. Con un mezzo sorriso e in loop continuo. Era il modo giusto per chiudere, o così la pensava. Molto simbolico.
La stava ascoltando per la quinta volta quando era arrivato il primo, vero sbadiglio. Si era concesso un’altra ripetizione, poi si era avvicinato di più al bordo, aveva guardato di sotto e afferrato la leva. Tempo di stringere la cinghia. E poi... ma il poi non ci sarebbe stato. Questo era il bello.
Non si era sentito proprio felice, ma sollevato sì.
Mentre stringeva rapidamente la cinghia, in una sequenza di piccoli cric-cric, la sua testa si era fatta sempre più leggera, proprio come sarebbe dovuto succedere in base alle sue ricerche. Ottimo. Solo un’ultima bestemmia, poi il buio e su Angelo Gioppini era calato il sipario.
Solo che non era calato davvero. Avevano solo cambiato la scenografia per l’atto successivo. Ma era una scenografia che non aveva senso.
Riaprì gli occhi, tornando al presente (qualunque cosa fosse quel presente) e la stanza era ancora lì. La stessa in cui aveva dormito e giocato nei suoi primi anni di vita. Fino a che età? Cinque, sei, o giù di lì, non ricordava bene, ma era una stanza che non poteva esistere, oggi. Ok, probabilmente le pareti e la struttura esistevano ancora, ma il resto no, il resto doveva essere cambiato per forza. Era andato a vivere da un’altra parte, non vedeva più la casa da almeno tre decenni. Come poteva essere finito lì? E come poteva il lì essere ancora identico a quaranta e più anni fa?
Angelo Gioppini non capiva e cominciava pure ad avere paura, mentre sciami di ipotesi assurde gli intasavano il cervello. Aldilà? Rinascita? Allucinazione super? Distorsione nello spaziotempo? Non una che gli piacesse o gli sembrasse accettabile. Forse era tempo di provare a far qualcosa, invece di pensare e basta. Ci provò.
Scostò le lenzuola, si alzò e scoprì di non essersi alzato granché. Era rasoterra. Le sue proporzioni erano sbagliate, sbagliata la prospettiva da cui osservava il mondo e sbagliate le dimensioni del mondo. Era tutto sbagliato. Con una discreta dose di fifa, Angelo Gioppini guardò cosa ci fosse al di sotto del proprio collo, giusto per capirci qualcosa di più. Se ne pentì subito.
Era il corpo di un bambino, non dell’uomo di mezza età che ricordava lui.
Quando era stato così piccolo per l’ultima volta? A quattro anni? A cinque? Giù di lì, in ogni caso. Una epoca tanto distante che sembrava quasi non essere mai esistita davvero. Una epoca in cui era stato poco più di una larva umana, con ancora tutte le possibilità spalancate davanti a sé. Ok, magari non proprio tutte, ma parecchie sì. Più di quante ne avesse avute la sera prima. Non ci sarebbe stata la sera prima, se avesse avuto ancora tutte le possibilità di quando era un bambino di quattro anni. O meglio, la sera ci sarebbe stata, ma si sarebbe svolta in modo diverso. Quasi sicuramente.
La porta si aprì.
«Oh, sei già sveglio? Ero venuta a chiamarti io.»
Angelo Gioppini si girò verso la voce. Era sua madre, ma una madre così impossibilmente giovane che, di nuovo, era difficile credere che fosse esistita davvero. Invece era lì e lo guardava. Sorrideva.
La ricordava vecchia e sdentata, lagnosa, sempre arrabbiata con tutti. Una persona da strangolare a vista, o meglio ancora a udito. Così era la madre che Angelo ricordava, quella che pochi anni prima era stata inchiodata in una cassa e infilata in un buco nella parete del cimitero, quando le sue amate sigarette si erano stancate di giocare e avevano deciso di fare sul serio.
Era stato un mezzo sollievo, anche se non era una bella cosa da dire o da pensare. Però lo era stato.
La donna che vedeva adesso non aveva ancora raggiunto i trenta, era incoronata da una permanente che la rendeva simile a uno di quegli odiosi cagnetti squittenti da compagnia e si appoggiava come suo solito alla maniglia della porta, sporgendosi in avanti. Angelo si guardò le mani, poi la mamma, di nuovo le mani e infine ancora la mamma. Non sapeva cosa dire.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua?»
Angelo continuava a non sapere cosa rispondere.
«Non sei ancora molto sveglio, eh?»
Angelo sbatté le palpebre. «Che ore sono?» chiese infine, con un filo di voce. Ma come era acuta! Il tono di un topo dei cartoni animati, non di un umano. Non che avesse mai avuto una voce da basso, neppure da adulto, ma una vocina così terribile? Non la ricordava proprio. Eppure l’aveva. Adesso.
Qualunque cosa fosse quell’adesso.
«Ora di fare colazione,» gli rispose la mamma e in questo la riconosceva tutta. Mai che ti desse una risposta utile, quella donna. Ricordava che lo aveva infastidito anche da bambino e in effetti adesso era bambino e la riposta lo infastidiva. Quindi tutto regolare.
Angelo Gioppini si sfregò gli occhi. «Che giorno è?»
Era una domanda chiave e non si aspettava di ricevere una risposta utile, ma la doveva porre in ogni caso: questione di convenzioni, e comunque ne sarebbe potuto uscire un indizio. Giusto per capire in che razza di anno fosse. Al resto avrebbe pensato poi.
La mamma lo sorprese con una risposta utile. «È il giorno che cominci l’asilo,» gli disse. «Adesso vieni a fare colazione, che se no fai tardi.»
L’asilo! E il primo giorno, per di più. La sua situazione continuava a non avere senso, ma almeno si stava facendo un poco più comprensibile. Era insensata, ma insensata in una forma riconoscibile. A quanto pareva, per ragioni su cui al momento Angelo non voleva indagare, stava rivivendo il quarto anno della sua vita. In particolare, il giorno di fine estate in cui aveva cominciato l’asilo.
O forse avrebbe dovuto dire il quinto anno. Il quarto si era concluso quando aveva compiuto quattro anni, se si voleva fare i pignoli, e aveva cominciato l’asilo dopo il compleanno. Il quinto. Dettagli.
L’asilo! Angelo aveva solo ricordi molto vaghi di quel periodo ed erano di sicuro falsificati da tutto il tempo trascorso, ma sapeva che era stata una fase negativa della sua infanzia. Un’epoca fatta di solitudine e di bambini che lo prendevano in giro, non volevano giocare con lui e almeno tre volte lo avevano anche picchiato. Perché era finito proprio lì? Non si poteva svegliare il primo giorno di scuola? Le elementari erano state un periodo più bello, o almeno lo ricordava migliore. L’asilo...
«Devo proprio?» chiese, strascicando la voce nella migliore interpretazione del bambinetto lagnoso che gli riuscisse. Praticamente da Oscar, visto che un bambinetto lo era e si stava pure lagnando.
La mamma lo fissò. «Sì,» e lo prese delicatamente per un braccio, tirandolo verso la cucina.
Con cosa faceva colazione a quattro anni? Angelo non se lo ricordava più, ma quello che si trovava sul tavolo lo ispirava come un calcio al bassoventre. Doveva essere qualche roba che poteva piacere solo a un bambino. Ma lui adesso era un bambino (in apparenza) e dunque le sue papille gustative si sarebbero adattate a mangiare certe sostanze. Forse. Se non ci pensava troppo.
Dopodiché, sotto con l’asilo. Che gioia.
Dopo un paio di tentativi Angelo Gioppini scoprì che, se chiudeva gli occhi, poteva anche fingere di stare mangiando una sostanza dolcificata al punto di essere solo nauseabonda. Migliorava un poco le cose. Scoprì anche che la lingua di un bambino di quattro anni sapeva sopportare certi sapori ben più di quanto potesse fare quella di un uomo di mezza età. Sembrava addirittura apprezzarli. E il tè aiutava, o almeno diluiva.
Mangiò, andò in bagno, si vestì con l’aiuto della mamma (il che lo mise parecchio in imbarazzo, ma si doveva comportare da bambino di quattro anni, no? Almeno finché durava quel sogno, illusione o qualunque altra cosa fosse), uscirono di casa.
L’asilo. Come bambino di mezza età. Fantastico.
Quella sera, di nuovo nella sua cameretta, Angelo Gioppini rifletté sulla giornata trascorsa. Prima di tutto era stata una giornata vera, completa. Qualunque fosse la sua natura, era trascorsa ora per ora e con tutti i dettagli che ci si deve attendere dalla vita reale: aveva avuto fame, sete, sonno, voglia di andare in bagno, di riposarsi, eccetera eccetera. Se era un sogno, era il più realistico e lungo che lui avesse mai fatto. Se era un’allucinazione, idem come sopra. Se era qualcos’altro ancora, allora non aveva idea di cosa potesse essere.
Restava l’ipotesi che fosse un qualche tipo di realtà.
Angelo rigirò più e più volte l’idea, rimasticandola da ogni lato. Una sera decidi di chiudere con la vita e procedi col suicidio. Il mattino dopo ti svegli e sei tornato bambino. Manca il nesso logico fra i due momenti, ma volendo ne poteva inserire parecchi non logici. E lo desiderava davvero? Voleva tuffarsi in un abisso illogico di cui non percepiva il fondo?
Angelo sbadigliò. Il suo cervello, o la sua coscienza, o il suo spirito, o quello che era, poteva anche appartenere a un uomo di mezza età con qualche problema di insonnia; il suo corpo, però, era quello di un bambino di quattro anni, abituato ad andare a letto presto. Ergo, aveva sonno. E tanto.
«Ci penserò domani,» si disse, e si girò sul fianco sinistro, che era stato il suo preferito per dormire.
Da bambino, almeno. Siccome adesso era apparentemente un bambino, si addormentò di colpo.
Il mattino dopo si svegliò con una decisione già presa. Forse era stato il sonno, forse l’inconscio, forse lo spirito del suo trisnonno trifolato. Ma era una decisione e pareva sensata. Per valori molto bassi di senso, d’accordo, ma siccome lui perseverava a essere un bambino e il mondo attorno a lui rimaneva quello in cui aveva speso i primi anni di vita, tanto valeva adeguarsi e accettarlo, almeno in via provvisoria e fino a prova contraria.
Era un modo come un altro per passare il tempo.
In un qualche modo e per un qualche motivo stava rivivendo l’infanzia. Non proprio da capo, ma da un punto sufficientemente a monte da precedere tutti i grossi errori che lo avevano portato in cima a una roccia a contemplare un laghetto e strozzarsi con una cinghia. Forse non sarebbe durato a lungo, forse non era reale, forse tante altre cose, ma adesso lui era lì, aveva quattro anni e soprattutto possedeva il ricordo di tutti gli errori che aveva commesso. Avrebbe commesso. Quello che era.
Conosceva gli errori che lo avevano portato sulla cattiva strada. Adesso si trovava in un tempo che veniva prima. Angelo Gioppini sorrise. Sarebbe stato condannato a ripeterli, consciamente, oppure li poteva evitare? Agendo in modo diverso avrebbe ottenuto risultati diversi?
Valeva la pena di tentare. Sarebbe stato un esperimento scientifico, a modo suo.
Sì. Magari sarebbe durato poco, magari non avrebbe cambiato alcunché nella realtà, magari era solo una elaborata forma di sega mentale con cui il cervello cercava di sottrarsi alla necessità di accettare la propria morte. Magari, magari. E allora? Cambiava davvero qualcosa?
Da un certo punto di vista era già morto: niente poteva peggiorare. Così avrebbe ripetuto la propria vita, forte delle esperienze acquisite durante il primo giro, per cambiare tutto ciò che meritava di cambiare. Cioè quasi tutto. Ne avrebbe cavato qualcosa di decente? O era destinato soltanto a fallire nella vita, nonostante tutto? La sua era una esistenza condannata sempre e comunque alla rovina, o era stato lui a rovinare tutto con scelte sempre più stupide? Le carte che aveva ricevuto alla nascita erano davvero immondizia, oppure le aveva rese lui immondizia, non sapendo come giocarle?
Avrebbe cercato di scoprirlo. Sarebbe stato al gioco. Perché in fondo poteva solo essere un qualche tipo di gioco, una simulazione, un bizzarro “what if”. Giusto? Fosse come fosse, si sarebbe tolto un dubbio, che era anche un peso. Ripetere la partita, cambiando le mosse. Ecco cosa doveva fare e lo avrebbe fatto. Finché il sogno durava.
Per la prima volta nella sua esistenza, Angelo Gioppini era contento di andare all’asilo. Gli ci erano voluti circa cinquant’anni, ma ce l’aveva fatta. C’era proprio da esserne orgogliosi.
«Ora di alzarsi!» lo raggiunse la voce della mamma. Con un sorriso, il piccolo Angelo si alzò.
Ma il sorriso durò poco. Vivere come un bambino è lavoro duro quando la tua testa è quella di un adulto alquanto depresso e cinico, hai ricordi e conoscenze che non dovresti possedere e sei anche piuttosto schifiltoso. Se poi devi anche nascondere ai tuoi genitori che il loro tenero bambino di due giorni prima è oggi una persona completamente diversa, capace di parlare come un laureato pignolo e odioso, nonché mentalmente più vecchio di loro, allora non hai molto da divertirti.
Un altro problema erano le cose che non sapeva più. Angelo Gioppini aveva dimenticato quasi tutto ciò che lo interessava da bambino e che, fino a un paio di giorni prima, il se stesso di quattro anni doveva avere trovato interessante. Che cartoni animati andavano di moda in quei mesi? Che giochi? Che canzoncine ritardate? Cosa significavano tutte le strambe parole in codice che gli altri bambini usavano? Dovevano essere parole vere che si divertivano a storpiare e usavano a casaccio, ma quali erano? E perché le avevano scelte?
Angelo Gioppini sapeva di averlo saputo, ai tempi, ma sapeva anche che quei tempi erano sepolti sotto quattro decenni abbondanti di altra fuffa e porcheria, strati geologici mentali che formavano il complesso antropomorfo descrivibile come “persona”. O anche con termini meno eleganti, se vi va.
E gli altri bambini? Angelo sospettava di averli conosciuti, una volta, e di sicuro alcuni di loro erano finiti in classe con lui alle elementari, ma come faceva a riconoscerli? Adesso erano soltanto sgorbi con un testone sproporzionato, dal primo all’ultimo. E il naso che colava. E non si lavavano mai le mani, neanche dopo essere andati in bagno. Soprattutto dopo essere andati in bagno. E a volte non andavano neanche in bagno, oppure non ci arrivavano in tempo. E l’odore! E le dita nel naso! E poi in bocca! E perché si infilavano sempre le mani nelle mutande? Ma anche lui era stato così?
Angelo sospettava che la risposta fosse sì, ma era anche sicuro che adesso non ci sarebbe riuscito. O meglio, non voleva riuscirci. Non voleva regredire tanto. Il solo aspetto rassicurante era che pure lì, nel proprio passato, si sentiva fuori posto e sbagliato, come si era sempre sentito in qualsiasi altra fase della vita. Ma gli era successo anche da bambino vero? O capitava adesso perché era un falso?
La sola cosa che lo sostenesse era la consapevolezza che c’erano state due o tre scelte sbagliate che aveva fatto in quel periodo prescolare. Scelte piccole, ai tempi, ma che avevano avuto ramificazioni a lungo termine spaventose, sia su un piano pratico, sia nella formazione (o deformazione) del suo carattere. Non ricordava di preciso quando le avesse fatte, ma sapeva di averle fatte e da lì sarebbe partito il tentativo di correggere gli errori passati. Per commetterne altri ancora più gravi, va bene, ma l’importante era che fossero errori diversi. Voleva scoprire quali strade si era lasciato scappare, ammesso che ne avesse avute, e stavolta le avrebbe percorse. Giusto per provare, sapete.
Se poi fosse anche riuscito a capire cosa ci fosse di tanto divertente in uno scivolo, meglio ancora. O perché la parola “cacca” facesse tanto ridere.
Non che a casa gli andasse meglio. Doveva ricordarsi di guardare solo cartoni animati e programmi stupidi, invece dei telegiornali (che spesso erano altrettanto stupidi, d’accordo, ma era una stupidità diversa), che lui era un bambino e i suoi genitori erano autorizzati a trattarlo da bambino, e così via. Doveva regredire, riabituarsi a non essere un adulto e a non vivere in un mondo digitale, dove quasi ogni informazione distava solo pochi clic e a volte era anche corretta.
Era uno stress spaventoso, ma qualcosa di positivo lo aveva: Angelo aveva abbandonato tutti i dubbi sulla vita che stava vivendo. Qualunque cosa fosse e in qualunque modo ci fosse finito, doveva per forza essere la realtà. Un tipo di realtà. Era stabile, era solida, era coerente e puzzava. E ti mordeva alla prima distrazione. Stava rivivendo il passato dopo avere visto il futuro. Era come un gioco con le carte segnate. Non poteva non vincere, e il pensiero lo rincuorava più di tutto il resto.
A rincuorarlo a modo suo c’era anche un altro pensiero: ritornare bambino poteva essere bello, ma soltanto se anche il contenuto del cranio tornava bambino. Se invece rimaneva quello di un adulto, diventava evidente che la nostalgia dell’infanzia era identica a ogni altra nostalgia: il rimpianto di un tempo che non era mai esistito nella realtà, ma avevi ricostruito a tuo piacimento sulla base di pochi ricordi e confusi. Significava che aveva avuto ragione lui nelle discussioni con chi idealizzava quel periodo della vita, dipingendolo come una specie di età dell’oro. Hah! Così imparate.
Non che ne avesse mai avute molte di discussioni. Non nella realtà. Si erano svolte quasi tutte nel privato della sua testa, in silenzio, ma il punto era che aveva avuto ragione lui. Ecco.
Dettagli secondari. A poco a poco, nonostante le difficoltà, Angelo Gioppini si adattò alla nuova vita e cominciò anche a trovarsi, beh, magari non proprio bene, ma almeno a proprio agio. Era una fase che avrebbe superato, con un poco di pazienza, e dopo quella prima fase si sarebbe aperta davanti a lui la parte davvero rilevante della sua esistenza, quella che nel primo tentativo aveva fallito e che a tutti i costi non poteva fallire di nuovo, non nella miracolosa seconda occasione che stava vivendo.
Era stato sempre troppo timido, troppo schivo, troppo incapace di comunicare. Troppo coglione, per non tirarla in lungo. Stavolta non lo sarebbe stato. Stavolta avrebbe lavorato da subito per crearsi un nuovo carattere, più estroverso, più socievole, capace di stare al mondo, qualunque cosa si volesse dire con l’espressione. Angelo non lo aveva mai capito, ma sua madre la usava spesso e non era la sola, per cui doveva essere importante, o almeno avere un senso. Forse.
Cominciò a esercitarsi durante l’asilo, dove ricavò soprattutto figuracce, prese in giro, insulti e tutto il resto dell’armamentario con cui i bambini dimostrano la propria innocenza e purezza d’animo. Fu sgradevole, ma Angelo lo interpretò come un allenamento per rafforzare il carattere e imparare in un qualche modo a diventare sociale, socievole e spigliato. E altre cose con la lettera esse.
Nelle lunghe notti in cui elaborava i traumi ricevuti durante il giorno, stilò il piano di battaglia con cui avrebbe affrontato e vinto la sua seconda vita: mantenere il più possibile intatte le grandi scelte, come le scuole da frequentare, le persone con cui fare amicizia, gli sport da praticare, eccetera, ma cambiare il più possibile il suo carattere. In questo modo avrebbe goduto del vantaggio di sapere in anticipo cosa sarebbe successo e quali errori aveva commesso; grazie al nuovo carattere e al senno di poi, che in questo caso diventava il senno di prima, avrebbe cambiato la sua reazione agli eventi e li avrebbe fatti andare meglio. O qualcosa del genere.
Ci provò. Per un poco andò bene, poi andò così così, infine si ritrovò più o meno allo stesso punto di partenza, che nel suo caso era il punto di arrivo. Aveva fallito. A fregarlo era stato il passaggio dal liceo all’università. Aveva trascorso un’adolescenza migliore, con qualche successo e bei ricordi, il che era decisamente un grande progresso, ma alla fine si era ritrovato ancora una volta a scegliere di non scegliere. Non aveva una idea chiara del futuro che desiderava e si era iscritto a una università che gli aveva fornito sì una preparazione generale, ma non gli aveva insegnato a fare qualcosa nello specifico. Sapeva tanto, ma non sapeva cosa farsene.
E adesso io? Se lo chiese dopo la laurea, proprio come se lo era chiesto dopo la laurea nella prima vita. La risposta non era cambiata: boh.
Un lavoro qualunque, giusto per guadagnarsi da vivere. Una esistenza qualunque, giusto perché era lì e qualcosa doveva fare. Amici che si disperdevano, obiettivi che non si erano mai visti, progetti in via d’estinzione, un panorama che gli mostrava le mille sfumature del grigio. Lo stesso già visto nel suo primo viaggio e che avrebbe desiderato evitare nel secondo tentativo. Non ci era riuscito.
Perché? Se lo chiese più volte, ma senza trovare una risposta. Aveva sbagliato qualcosa, di nuovo, e non sapeva cosa. Aveva avuto una seconda occasione e l’aveva sprecata. Si poteva essere più stupidi di così? Probabilmente, ma bisognava impegnarsi davvero tanto.
Continuò per un poco, spinto dalla pura inerzia, poi decise che il troppo era troppo. Lo decise in una giornata che, sul piano meteorologico, era stata anche piuttosto bella. Sul piano antropico, però, era stata una di quelle giornate che puoi descrivere solo in termini scatologici. Era il suo compleanno e come regalo lo avevano licenziato. Era anche un venerdì, ma non diciassette.
Il giorno dopo, sabato, Angelo Gioppini si inerpicò su una sporgenza rocciosa con cui aveva già una certa familiarità. Ai suoi piedi c’era un laghetto, che era forse un bacino idrico per l’irrigazione o forse chissà. Niente sonniferi, stavolta: si sarebbe arrangiato con un surrogato disponibile ovunque, anche ai minorenni, specie se avevano una buona scusa, una buona faccia di bronzo o dimostravano qualche anno in più. Sarebbe bastato.
Tirò notte riflettendo con gusto sulle proprie miserie, rosolandosi e rotolandosi nel sano piacere di autocompatimento e autoflagellazione, per valori molto bassi di sano. Quando fu buio a sufficienza per quel che voleva fare, Angelo Gioppini si sedette sul bordo, guardò verso il laghetto non vedendo quasi nulla, si infilò nelle orecchie le cuffiette e lanciò “A most peculiar man” in un loop destinato a chiudersi assieme a lui. Almeno nelle sue intenzioni, beninteso.
Con un sospiro, fissò la cinghia a cricchetto attorno al collo, più o meno tra la mascella e il pomo di Adamo, e la strinse quanto bastava per tenere in posizione la imbottitura che aveva preparato. Svitò il tappo e cominciò a bere. Il whisky bruciava in gola e gli faceva un poco schifo, ma lo beveva lo stesso. Anche quella era una esperienza, a modo suo. Ce n’erano di peggiori. Almeno non si sarebbe dovuto preoccupare del doposbronza. Hah!
Quando l’alcool cominciò a fare effetto, si spostò in bilico sul bordo, in un equilibrio ancora più precario della volta precedente, e macinò con forza sulla leva della cinghia. Cric, cric, cric. Stretta, stretta, più stretta. Angelo sbadigliò, deglutì a fatica, poi sbadigliò di nuovo, più piano. La sua testa si fece aria. Buio. Fine della storia.
Solo che non finì. Angelo Gioppini aprì gli occhi nella penombra di una stanza che non ebbe alcuna difficoltà a riconoscere. Dimensioni piccole, proporzioni piccole, armadio piccolo e predominio dei colori primari in ogni tipo di decorazione. Roba da bambino. Di quattro anni, a voler essere precisi. Di nuovo quattro anni.
Prima ci fu sorpresa, poi angoscia, quindi perplessità, rassegnazione e infine l’emozione più strana e improbabile di tutte. Sollievo. In una forma molto malata, senza dubbio, ma pur sempre sollievo.
Angelo non aveva la minima idea di cosa gli stesse accadendo, figuriamoci poi il perché. Una cosa, però, sembrava chiara: avrebbe ripetuto la sua vita. Per la terza volta.
Era bloccato in un qualche tipo di evento che lo costringeva a tornare sempre indietro, fino a che la condizione necessaria per liberarsi non fosse stata raggiunta? Era un pensiero privo di senso su tutti i possibili livelli, ma sembrava anche confermato dalla realtà.
Se la potevi chiamare realtà.
Ma se non potevi, come la dovevi chiamare, allora?
Angelo ci pensò un poco, poi scrollò le spalle e passò oltre. Era tornato all’inizio e tanto gli bastava. Un attimo dopo la porta della sua cameretta si aprì e sua madre si affacciò per svegliarlo. Era tempo di fare colazione e prepararsi al primo giorno di asilo. Per la terza volta. Fantastico.
Durante il primo periodo non fece alcunché di particolare, accontentandosi di riabituarsi pian piano all’essere bambino. Sembrava strano, ma continuava a dimenticarlo. O forse non sembrava strano e dimenticarsi la propria infanzia era perfettamente normale. Sì, così aveva più senso. Magari potevi ricordare a grandi linee come avevi vissuto e di sicuro ti ricordavi in dettaglio eventi traumatici che ti potevano essere capitati, come romperti qualche osso e roba simile. Quasi sempre ricordi riveduti e corretti, ovvio, ma ma almeno sapevi che il giorno X (o dintorni) ti era capitata la cosa Y.
E il resto? Disperso in Russia, con tutta probabilità.
Irrilevante. Conosceva gli errori da correggere e si era fatto una idea piuttosto buona su come fosse meglio correggerli. Il resto era secondario. Poteva lasciarsi portare dalla corrente, godendosi un po’ il viaggio, e concentrarsi solo sui torti da raddrizzare. O quello che erano.
La volta precedente aveva cercato di cambiare il suo carattere, lasciando il più possibile invariati gli eventi esterni: aveva frequentato gli stessi amici, scelto le stesse scuole, tenuto gli stessi passatempi e interessi vari, eccetera. Si era voluto correggere, rimanendo dentro la stessa cornice.
Gli era andata male. Non malissimo, d’accordo, ma male lo stesso.
Stavolta avrebbe mantenuto alcune correzioni al suo carattere, quelle che gli erano piaciute di più, ma avrebbe aggiunto anche scelte diverse. Cambiare scuola superiore, ad esempio. Frequentare altre persone. Scegliersi uno sport diverso, oppure non sceglierne proprio: gli era sempre piaciuta l’idea di imparare a suonare bene uno strumento, ma non aveva mai trovato né il tempo né la volontà per farlo. Stavolta, magari...
Ci avrebbe pensato, sì. Poteva essere un primo passo sulla strada giusta.
Così Angelo Gioppini cominciò la sua terza vita, con entusiasmo e un poco di ottimismo. Tre era un numero di potere, dopotutto. Nelle storie è sempre il terzo di qualunque cosa ad avere successo, no? Quindi magari il suo terzo tentativo sarebbe stato quello buono. O almeno lo poteva sperare.
Non lo fu. Le elementari furono decisamente buone, le medie accettabili ma non ottime, al liceo una scuola diversa gli aveva portato difficoltà diverse, ma se l’era cavata abbastanza bene, almeno a suo parere, anche se alcune opportunità le aveva gettate nel cesso allegramente, per non dire di peggio. Ma sono cose che capitano e in fondo non era mai stato bravo a leggere le situazioni: doveva essere una capacità che lui non era proprio capace di sviluppare. Oh beh, pazienza.
L’università fu buona come risultati accademici, ma un disastro totale sotto tutti gli altri aspetti. Con ogni probabilità la peggiore delle tre esperienze e non era che le prime due fossero andate così bene, anzi. In apparenza, era un altro dei suoi difetti esistenziali: anche cambiando corso di laurea, aveva sempre ottimi voti ma una vita sociale orrenda. Perché?
Angelo se lo chiese più volte, ma non trovò risposte, così passò oltre. Cominciò a lavorare, non si fece una famiglia, perse per strada i pochi amici che gli erano rimasti, non legò coi colleghi, visse in isolata e infelice tranquillità, commise errori, fu licenziato, non riuscì a trovare un nuovo posto.
Si depresse, parecchio. Trascorse sempre più tempo in isolamento, contemplando il passato, e la sua mente tornava e tornava allo stesso evento. Era il primo giorno di asilo. Era la mattina. Era appena sveglio. Gli sarebbe successo di nuovo? Se, mettiamo caso, gli fosse accaduto qualcosa, qualcosa di terminale, la sua vita avrebbe ricominciato da capo? Per la quarta volta? Avrebbe avuto ancora altre possibilità, oppure era arrivato al terzo strike, battitore eliminato?
Dopo tante e sofferte riflessioni, Angelo Gioppini decise di tentare. Che cosa aveva da perdere, alla fine? Una vita miserabile. E allora...
Per la terza volta si inerpicò su una sporgenza rocciosa nelle vicinanze, sempre di sabato sera e con tutto il solito armamentario: la cinghia, l’imbottitura, qualcosa per stordirsi, la canzone di Simon & Garfunkel da ascoltare in loop fino alla fine. Non era felice, non era triste, non era agitato e non era curioso. Vada come vada, pensava. Ci avrebbe guadagnato in ogni caso: una nuova opportunità o la chiusura definitiva. Entrambe le soluzioni erano positive, per lui. Aveva vissuto più di un secolo ed era stato molto, molto ripetitivo. Darci un taglio sul serio non sarebbe stato così brutto.
Sedette sul bordo, preparò tutto, scrollò le spalle. Vada come vada, appunto.
Cinghia attorno al collo, imbottitura attorno alla trachea, musica nelle orecchie, solita storia. Tempo di ascoltare qualche volta il parere di Mrs. Riordan sul tizio al piano di sopra, che era un tizio molto particolare, poi il primo grande sbadiglio, giù a pompare sulla leva per stringere sempre più, la testa che si faceva leggera, il respiro più faticoso, il buio, fine.
Angelo Gioppini riaprì gli occhi ed era nella solita cameretta di quando aveva quattro anni il solito primo giorno di asilo. Di lì a poco la solita madre giovane avrebbe aperto la porta, si sarebbe sporta in avanti, lo avrebbe avvisato che si doveva alzare, eccetera eccetera. Sì, aveva funzionato di nuovo. Perché dovesse accadere rimaneva un mistero e Angelo non sapeva neppure da che parte cominciare a guardarlo, ma poteva anche non pensarci. Perché funzionava e finché funzionava.
E adesso?
Mentre faceva colazione ingurgitando a forza roba dolcissima e dal sapore molto chimico, ripensava a come fossero andate a finire le sue tre vite precedenti. Male, d’accordo, questo è appurato, ma in che modo? In tutti quelli possibili. Poco utile, ma parecchio vero.
Qualcosa doveva pure avere imparato, no? O voleva seriamente trascorrere l’eternità continuando a ripetere la stessa vita, fallendo sempre, fino a impazzire del tutto? Ammesso e non concesso che non fosse già pazzo del tutto. Poteva esserlo. Magari era rinchiuso da qualche parte e il resto se lo stava immaginando. Ma non aveva senso pensarci e lo aveva già stabilito più volte. Aveva di nuovo tutta la vita davanti e doveva decidere cosa farne.
Qualcosa di migliore del solito, se possibile.
Procedette con calma. Trattò il periodo dell’asilo come era giusto trattarlo: come un riscaldamento, per abituarsi al periodo storico e all’essere bambini, scolpirsi nel cervello le buone abitudini che gli sarebbero servite in futuro e rimuovere anche a forza certi piccoli vizi che non si voleva trascinare fino all’età adulta, come gli era successo in precedenza. Piccole correzioni, piccoli miglioramenti, a fungere da fondamenta per un futuro migliore, almeno nelle sue speranze.
Si comportò bene. Ubbidiente coi genitori, cortese con gli adulti, spiritoso e originale coi bambini, i suoi coetanei (fisicamente), che lo guardavano stupiti e non capivano come facesse a inventarsi tutte quelle cose. Perché non le invento, avrebbe potuto spiegare Angelo. È solo il futuro, che vi racconto come se me lo stessi inventando. Disegno cose che esisteranno, perché io ci sono già stato. Più e più volte. Le so a memoria. Ormai mi escono dal culo.
Non lo spiegò mai. Barava, d’accordo, ma con tutto lo schifo che gli era arrivato in faccia durante le vite passate, riteneva di meritarsi qualcosa. E poi, chi protestava? Nessuno. E dunque.
All’inizio delle elementari tirò la prima linea. Non avrebbe perso tempo a giocare o a ripetere quello che era già stato. Avrebbe scelto razionalmente le attività che gli sarebbero state più utili e avrebbe convinto i suoi genitori a fargliele praticare. Era sicuro di poterci riuscire. Era davvero un bambino serio e diligente, il piccolo Angelo: quasi un adulto in miniatura. E responsabile, anche.
Praticò nuoto per i primi anni, perché saper nuotare bene tornava sempre utile e lo avrebbe aiutato a correggere un paio di difetti fisici, poi passò ad atletica, non perché gli piacesse, ma perché sarebbe stata utile su un piano sociale, per fare nuove amicizie e rafforzarne di già esistenti. Neppure prese in considerazione gli sport di squadra: era sempre stato scarsissimo e non voleva altre figuracce.
Dai nonni si fece insegnare i primi rudimenti della lavorazione del legno, non perché desiderasse un giorno diventare un falegname o un artigiano, ma perché un poco di manualità avrebbe fatto bene e comunque era sempre meglio una conoscenza in più di una in meno. Considerò anche di imparare a cucinare con la nonna, ma rinunciò: non c’era tempo a sufficienza e non ne aveva voglia. I surgelati sarebbero andati bene anche in quella vita. C’erano cose peggiori.
Si dedicò anche alla musica, un passatempo che nella sua esistenza originale aveva scoperto troppo tardi e con rimpianto. In questa cominciò da bambino e riuscì addirittura a convincere i suoi a fargli prendere lezioni di violino, lo strumento che più lo affascinava. Fu un fascino non ricambiato, ma si impegnò con costanza e regolarità e divenne non bravo, ma almeno passabile e capace di suonare in presenza di spettatori senza doversi vergognare troppo. Magari con gli anni sarebbe migliorato o più probabilmente no, ma era secondario: Angelo aveva ottenuto quanto desiderava e tanto gli bastava.
A scuola, durante tutte le elementari, si esercitò a sviluppare le sue relazioni sociali, ma soprattutto le sue capacità di interagire con altre persone. Non erano proprio nulle ma quasi, specialmente sotto il profilo pratico, che era poi quello più importante nella vita. A che serve sapere in astratto come ci si dovrebbe comportare, se poi non sei capace di farlo? A niente, direi.
Dopo aver vissuto (male) per tre volte, Angelo aveva una buona idea di quali comportamenti sociali fossero più o meno opportuni nella maggior parte delle situazioni. Il suo problema era l’incapacità di riconoscere le situazioni. Non sapeva leggere l’atmosfera, men che meno le altre persone. Quante volte ci aveva messo anni prima di cogliere un messaggio sottinteso, che altri avrebbero colto in un paio di secondi? Più di quante ne volesse contare.
Riconosciuto finalmente il problema, Angelo Gioppini si impegnò a risolverlo. Non ci riuscì proprio del tutto, forse perché c’era un qualche difetto nella sua struttura, tipo una grave carenza di empatia, ma dopo l’esame di quinta elementare, assieme al passaggio alle medie, si era guadagnato anche la certezza di sapere leggere in modo corretto più della metà delle situazioni in cui si trovava coinvolto e spesso riusciva a fingere di avere capito tutto anche quando in realtà non aveva capito un tubo.
Non il massimo e non perfetto, ma soddisfacente e meglio del solito.
Alle medie Angelo capì che quella poteva davvero essere la vita giusta, quella da cui sarebbe uscito soddisfatto. Non soltanto era riuscito quasi subito a inserirsi nella nuova classe, cosa che non gli era mai successa prima, ma i compagni sembravano apprezzarlo. Anzi, lo stimavano. Lo consideravano simpatico, divertente, qualcuno da invitare quando si usciva perché con lui nel gruppo i pomeriggi erano sempre il massimo e non ci si annoiava mai.
Non solo: nessuno lo considerava un patetico sfigato. O almeno nessuno glielo diceva in faccia, che era più o meno la stessa cosa. Nella sua prima vita, invece, il ruolo di patetico sfigato lo aveva più o meno ricevuto per acclamazione il secondo giorno di scuola e gli era rimasto fino all’esame. E oltre.
Alle superiori scelse una scuola diversa, per due ottimi motivi: il primo era perché si stava facendo una idea sempre più precisa di cosa volesse essere in quella vita e scegliere quella scuola lo avrebbe aiutato; il secondo era perché anche la sua ragazza ci sarebbe andata. Ma il primo motivo era il più importante, davvero. No, giuro. Il secondo era solo una fortunata coincidenza, ovvio. O cosi amava ripetersi Angelo Gioppini e ai primi di settembre ormai ci credeva anche lui.
Anche le superiori furono non ottime e non perfette, ma soddisfacenti come il resto di quella vita, al momento. Per qualcuno che si era sempre dovuto accontentare di briciole e immaginazione, però, il soddisfacente era già un primo premio, qualcosa che non aveva mai ottenuto, non davvero e non per così tanto tempo. Stava conducendo solo una normale vita da adolescente ed era tutto ciò che aveva sempre desiderato. Come poteva non sentirsi soddisfatto?
Va bene, in effetti avrebbe desiderato molto di più, in linea teoria, ma aveva imparato a distinguere realtà e fantasia e sapeva dove finiva la prima e dove cominciava la seconda. Il suo presente era ciò che si poteva realisticamente aspettare di ottenere; tutto il resto era sogno. Dopo avere visto come si andava a finire se si pensava troppo ai sogni e poco alla realtà, Angelo si teneva stretto tutto quanto possedeva. Poteva essere poco per altri, ma non per lui.
Si concluse anche il periodo del liceo. Ricordando i passati fallimenti e con un occhio al futuro che aveva conosciuto, e che pian piano sarebbe diventato il presente in virtù di quel magico fenomeno a cui abbiamo assegnato l’etichetta di “tempo”, si iscrisse a un corso di laurea che al momento pareva molto di nicchia e dalle prospettive incerte, ma che in un decennio sarebbe cresciuto parecchio. Era un imbroglio anche questo, volendo, ma Angelo aveva deciso che gli imbrogli erano imbrogli solo se li facevano gli altri: nel suo caso era un saggio e lungimirante uso delle risorse disponibili.
Glielo aveva insegnato l’esperienza diretta, quindi doveva essere vero.
Non fu facile accedere e non fu facile proseguire gli studi. Era un campo di cui non sapeva alcunché e non sembrava proprio in linea con quelle che possiamo descrivere come le sue doti naturali, ma ci riuscì. Aveva una motivazione molto forte e una migliore preparazione sociale, che in certi contesti può essere definita come sfacciataggine, in altri come sicurezza di sé e in altri ancora con termini di una certa volgarità, a seconda dei gusti. Angelo sapeva che era necessaria per avere successo in una società come quella in cui viveva, per cui si era impegnato a lungo per svilupparla e allenarla.
I fatti gli stavano dando ragione.
Vennero poi la laurea con lode, la specializzazione, il tirocinio e infine il lavoro stabile. Adesso era un membro rispettabile della società. Un cosiddetto adulto, produttivo e affidabile. Una cosa che in passato non gli era mai riuscita davvero, nelle vite in cui gli era sembrato di invecchiare e basta, ma mai crescere, mai migliorare, mai progredire. Forse era meglio pensarlo sottovoce, per prudenza, e sottovoce lo pensò, ma Angelo Gioppini cominciava davvero a credere di avercela fatta.
La strada è lunga ma ne vedo la fine, si potrebbe dire.
Ne vide davvero la fine una sera di molti anni dopo, mentre tornava a casa dal lavoro. Era tardi e si sentiva stanco, ma anche soddisfatto. Rifletteva con mezzo cervello sul passato, mentre l’altra metà si occupava di guidare e di tanto in tanto raccoglieva qualche scheggia sonora dalla radio. Niente di interessante, un semplice sottofondo per riempire l’abitacolo e far passare il tempo. Un poco come la roba che gli scorreva dentro il cranio, insomma.
Aveva faticato. Aveva vissuto più di quanto una persona normale si potesse aspettare di vivere. Sul serio: era al suo quarto tentativo e, in base all’età media, si trovava grossomodo a metà di quello che realisticamente si poteva aspettare di campare. Salvo imprevisti, ovvio, ma per chi si è ammazzato già tre volte e tutte e tre le volte si è poi svegliato nella cameretta di quando aveva quattro anni, beh, gli imprevisti smettono di fare paura. Sono solo qualcosa che capita.
Irrilevante. A rilevare era il fatto che ci era riuscito. Aveva avuto un passato soddisfacente, anche se magari non ottimo, e oggi aveva un buon lavoro, che gli piaceva ed era ben retribuito. Aveva perso per strada un certo numero di amici, d’accordo, ma sembrava essere una costante e in fondo non era stato poi così grave, stavolta: altri li aveva trovati e i migliori gli erano rimasti vicino. Avrebbe forse potuto fare di più e di meglio in certi altri settori, ma si sapeva accontentare: non era avido.
E aveva dimostrato a se stesso che poteva andarti bene anche se alla nascita avevi ricevuto pessime carte. Ok, magari le sue non erano state proprio pessime, ma scadenti sì, e ok, magari aveva barato un poco qui e là, ma il punto era che si poteva fare e lui ce l’aveva fatta. Al quarto tentativo.
Angelo Gioppini pensava distratto alla cena quando la canzone arrivò.
La premiata coppia Paul Simon e Art Garfunkel. Parlavano del tizio particolare che abitava al piano di sopra e delle cose che faceva. O non faceva. Tipo parlare coi vicini, o preoccuparsi di loro.
Angelo frenò, poi un clacson lo indusse a ripensarci e cambiare manovra, accostando ai bordi della carreggiata. Aveva il fiatone. Dico Angelo, non la carreggiata. Aveva il fiatone, ma non aveva senso. Era seduto. Era fermo. Può venirti il fiatone a stare fermo? Forse, può darsi, ma soltanto per ragioni ambientali: carenza di ossigeno, ad esempio, o roba simile. Ma l’ossigeno c’era, quindi si poteva al massimo trattare di roba simile. Ma che roba? Una canzone alla radio?
Angelo tamburellò un poco con le dita sul volante. Pensava. O meglio, fingeva di pensare. In realtà stava cercando di superare uno shock che, fino a due secondi prima, non sapeva neppure di avere. E non aveva avuto uno shock. Non proprio. Era stato un imprevisto, ok, magari anche una sgradevole coincidenza, ma quanto poteva essere difficile? Ben poco. Magari alla radio non passavano più così spesso le canzoni di Simon & Garflunkel, non erano proprio recenti, ma di tanto in tanto sì. Quindi?
Quindi c’era qualcos’altro. Ma cosa?
Stava ancora cercando una risposta, quando tutto divenne buio.
Angelo Gioppini pensò alla notte, pensò alle eclissi, pensò a qualcosa di sensato, qualunque cosa. Il peggiore blackout di tutti i tempi, anche. Ma non era sensato. O almeno non era normale. Perché sì, poteva anche avere cominciato come buio, qualche secondo fa, ma adesso era peggio.
L’abitacolo della sua auto era svanito. La sua auto era svanita. Il mondo era svanito. Attorno a lui, in ogni direzione, c’era soltanto nero, e vuoto. Dopo un intervallo non precisato, nel nero si accese un logo: apparteneva a una celebre società, il cui nome era ripetuto con venerazione ovunque due o più parassiti si riunivano per evadere la maggior quantità possibile di tasse, anche con mezzi legali.
Dopo il logo venne la voce. Non umana, ma femminile. Voce da annuncio ferroviario, con un vago tocco di dolcezza a renderla ancora più inquietante. No, non era da annuncio ferroviario: somigliava di più a quella degli operatori telefonici, quando ti elencano i tasti da premere per i vari disservizi a tua disposizione, ordinati dal più al meno inutile.
La voce cinguettava e gorgogliava ringraziamenti per avere deciso di scegliere il loro servizio (ma quale servizio?) e si augurava di poterlo aiutare di nuovo alla prossima occasione, ricordando che la sua condizione di vita era stata ripristinata (eh?) con successo e auspicava che l’esperienza con cui il nuovo assistente virtuale della loro fulgida compagnia lo aveva intrattenuto (cosa?) mentre erano in corso i primi interventi di rianimazione (no!) si fosse rivelata soddisfacente. Se così era stato, e se il pregiato cliente aveva gradito la compagnia, forse poteva essere interessato a provare anche una tra le numerose altre app sviluppate da noi, tutte a un modico prezzo che termina in 99 centesimi.
«Aspetta, cosa è successo?» urlò Angelo, mentre la voce sfumava a poco a poco.
Seguì un periodo di silenzio. Forse fu lungo, forse breve. Angelo Gioppini era sospeso nel vuoto, o forse non lo era. Non esistevano sensazioni. Non sembrava esistere neppure un soggetto che potesse provare le sensazioni. C’era una idea, vaga, e quella idea era Angelo Gioppini. O qualcosa di simile a sufficienza da non fare alcuna differenza pratica. O...
La voce tornò, tranciando le sue riflessioni che si stavano avvitando sempre di più su se stesse. Non era la stessa di prima, o almeno non lo sembrava. La voce che parlava adesso era maschile, forse, o forse neutra. Era anche piatta e vagamente professionale. Pareva un annuncio ferroviario recitato da qualcuno a cui stavano sulle palle i treni, ma era pagato per annunciarli, quindi lo faceva.
«Gentile cliente, lei ha appena usufruito della nostra nuova app sperimentale di assistenza disegnata per aiutare persone affette da disturbi psicologici. È stata installata sul suo dispositivo nel corso del più recente aggiornamento di sistema, in quanto i dati raccolti sul suo conto la identificavano come soggetto a rischio. Obiettivo di questa app è di fornire all’utente una serie di esperienze gradevoli e positive, per intrattenerlo piacevolmente in attesa dei soccorsi e del ripristino delle funzioni normali o, nei casi più gravi, in attesa di una corretta stabilizzazione delle condizioni corporee.
«In base al profilo psicologico che è possibile elaborare dai dati che abbiamo raccolto sul suo conto, il tipo di esperienza positiva più appropriata era una simulazione di vita alternativa, incentrata sulla sua infanzia, in cui si mescolavano le sue memorie reali, da noi recuperate, e i desideri che ci è stato possibile estrapolare dal suo quadro comportamentale. Adesso che le sue condizioni vitali sono state riportate entro i margini che le possono garantire la sopravvivenza, la simulazione è terminata e lei può tornare al mondo reale. Ci auguriamo che questa esperienza sia stata di suo gradimento.
«Per il futuro, la invitiamo a fornirci ancora più dati personali su di lei e su chiunque altro lei abbia frequentato nel corso della sua vita; in questo modo potremo elaborare una simulazione ancora più perfetta e soddisfacente. Il suo contributo ci ha già permesso di migliorare il nostro servizio per i prossimi fortunati che ne usufruiranno, ma non esiti a fornirci altri dati di ogni tipo: la sua vita è la nostra materia prima. La ringraziamo per averci scelto e le auguriamo un buon ritorno al presente in cui vive. Come sempre, il suo bene è la nostra priorità.»
La voce svanì. Angelo Gioppini era solo, al buio. Nessuno dei suoi sensi sembrava funzionare. Pure il suo cervello non rispondeva molto bene. Pensare era difficile, ragionare quasi impossibile. Pareva di correre nella melassa, ma la melassa era dentro il cranio. E forse anche le gambe. E faceva male.
«Fatemi tornare alla mia vita,» cercò di dire Angelo nel silenzio della sua testa. «Il mondo dove mi è andata bene! Vi prego!» Nessuno rispose. Era solo. Esisteva, da qualche parte e per valori molto bassi e insoddisfacenti di esistenza. Altro non sapeva.
Esisteva anche e soprattutto in un letto di ospedale, anche se Angelo non ne era consapevole. Tubi di vario spessore entravano e uscivano da orifizi del suo corpo, in alcuni casi utilizzando buchi che non facevano parte della dotazione originale, ma erano stati aggiunti a uso e consumo dei suddetti tubi. Monitor emettevano bip a intervalli diversi e con ritmi diversi. Di tanto in tanto qualcosa gli stringeva un braccio e misurava la pressione. Bip.
Il dottor Ercole Gabola entrò nella stanza, accompagnato dal tirocinante Stefano Torrazzi. Guardò la cartella clinica, guardò il paziente, guardò i monitor. Raccolse lo smartphone dal comodino, sfilò le cuffie dalle orecchie del paziente, spense il dispositivo, lo rimise sul comodino.
«Tecnicamente tra noi, a quanto pare. Soprattutto, legalmente tra noi» disse.
«Non sembra molto tra noi,» osservò il tirocinante Torrazzi.
Il dottor Gabola scrollò le spalle. «Non lo è ma non conta. Secondo il nuovo Decreto Salute,» storse la faccia, «il paziente è conscio se i suoi parametri vitali elencati di seguito raggiungono o superano una serie di valori scelti arbitrariamente per rappresentare lo stato di coscienza. Hah!»
«E i parametri del sottaceto li raggiungono.»
«E i parametri del sottaceto li raggiungono, già, ma non farti sentire da altri con quel termine. Non è moralmente corretto, lo sai. Chiamiamolo Jimmy il Cetriolo, semmai.»
«Mi scusi, dottore.»
«Non c’è problema, succede a tutti. La invito anche a notare che la app stessa ci ha avvisati che tutti i parametri erano raggiunti e il nostro paziente era pronto a tornare tra noi. Prodigi della scienza.»
«Beh...»
«Legalmente tra noi. In base al decreto.»
«Il decreto, già.»
«Comunque, non siamo qui solo per questo.»
«Per la visita quotidiana,» commentò il tirocinante Torrazzi.
«La visita quotidiana, ovvio. E altre cose.» Il dottor Gabola si schiarì la gola. «Signor Gioppini, le comunico che l’intervento è andato a buon fine, anche se non è stato possibile riparare tutti i danni cerebrali causati dalla prolungata assenza di ossigeno. Ciò che siamo riusciti a fare, al momento, è stabilizzarla in quello che possiamo definire uno stato neurovegetativo. Dovrebbe però possedere ancora sufficiente coscienza da interagire in forma passiva col mondo che la circonda e questo ci fa sperare che, in futuro, anche il resto delle sue funzioni potrà essere recuperato almeno in parte.»
«Crede che l’abbia sentita?»
«Come mi sente questo muro, guarda. Ma il Decreto Salute prevede l’annuncio e noi annunciamo.»
«Chissà come sarà contento,» disse Torrazzi, «Prima cerca di uccidersi e adesso si ritrova carciofo umano. Se è sfortunato, magari lo sa anche. Non era meglio...»
«Noi siamo tenuti a rispettare le leggi. La vita è sacra e va tutelata in ogni sua forma, purché sia del tipo giusto.» Nuova smorfia del dottore. «La sua carta di identità ci dice che lui è del tipo giusto. E se lui non la vuole...»
«Non possiamo almeno riattaccarlo al suo aggeggio? Magari un’altra realtà virtuale lo fare stare un po’ meglio. Non potrà farlo stare peggio di così, in ogni caso.»
«La legge dice che lo deve richiedere il paziente. L’attivazione automatica è prevista solo quando si è soli e ci si trova in un immediato rischio di morte. Lo smartphone avvisa il più vicino ospedale e il proprietario è intrattenuto con una simulazione a sua scelta, fino a che il suo stato di salute migliora. Normativa europea, che recepisce un blablabla e quello che è.»
«Quindi non possiamo fare altro?»
«Non senza esplicita richiesta del paziente. In rari casi è accettato anche un parente stretto.»
«Non mi sembra una gran legge.»
«Non l’ha fatta un gran governo. Se un paese di imbecilli vota una manica di imbecilli, ne usciranno solo leggi imbecilli. La nostra parte l’abbiamo fatta e adesso andiamocene da qui, che è pure ora di pranzo. Queste stanze sono un incubo, non mi ci abituerò mai.»
Se ne andarono. Lo smartphone rimase sul comodino, spento. La app che aveva mantenuto l’utente in una simulazione continua di esistenza, programmata in base ai suoi ricordi e desideri, non era più in funzione, adesso che il suo risultato era stato ottenuto. Il paziente era al sicuro, legalmente attivo e la sua salute mentale era stata preservata, grazie a stimoli e soddisfazioni virtuali. Un lieto fine.
Rinchiuso nel silenzio del suo cranio, in un corpo su cui non aveva più alcun controllo e privato di ogni altro stimolo mentale, quanto restava della coscienza di Angelo Gioppini cominciò a urlare.