Adriano - racconti e altro

Uomini e zanzare

La zanzara era un sottile, acuto ronzio tra naso e schermo. Volava zigzagando da un punto all’altro del suo campo visivo, bruscolo di interferenza che copriva sempre pixel diversi, a volte una lettera o due, altre volte un operatore, un punto e virgola, brandelli di commenti. Si spostava, ronzava, per un attimo gli sfiorava la faccia e poi via, sparita di nuovo, fino a che il suono tornava e l’interferenza lo seguiva. Lo tirava scemo. No, sul serio. Lo tirava scemo.

Almeno lo avesse punto! Ma no, sembrava solo volerlo disturbare. O tirare scemo, come si diceva.

Ci stava riuscendo.

Albertino Sputti sospirò, tolse le mani dalla tastiera, si coprì la faccia, valutò se valesse poi la pena di piangere, decise che non gliela avrebbe data vinta, mai, neanche morto, figuriamoci. Abbassò le mani e guardò lo schermo.

Bzzzz. Il puntino grigiastro continuava a svolazzargli davanti.

Perché? Seguiva l’anidride carbonica, si diceva, per cui era ovvio che gli girasse attorno alla faccia. Era da lì che l’anidride carbonica usciva, no? A ogni respiro. Ma allora perché non la faceva finita coi preliminari e non si decideva a pungerlo? Almeno poi se ne sarebbe andata, giusto?

La zanzara non la finiva. Ronzava, avanti e indietro. Gli guastava il lavoro. Era la sagra del refuso e delle cancellazioni. Peggio, gli faceva perdere la concentrazione. Ogni volta doveva tornare indietro a vedere cosa stesse facendo, perché il ronzio gli svuotava il cervello.

Il suono della pazzia, così lo aveva definito qualcuno, ed era una buona descrizione, ma non era del tutto precisa. Era il suono che fa la ragione quando stacca gli ormeggi, secondo Albertino. Ed era un brutto suono. Molto, molto brutto. Specie se stai cercando di lavorare.

Albertino Sputti odiava gli insetti. Li aveva sempre odiati. Ti volavano attorno, ti finivano in faccia e negli occhi, ti camminavano addosso, ti pungevano, ti si andavano a infilare nel cibo e nelle lattine aperte, ti tormentavano in ogni modo possibile e immaginabile. Certo, dicevano che tutti gli insetti fossero importanti, alla base della catena alimentare, questo e quello. E allora perché non andavano a farsi mangiare da qualcun altro, invece di tormentare lui? E poi, sono davvero tutti così importanti per il mondo? Anche le mosche? Gli scarafaggi? Le cimici? Le zanzare?

Albertino non ci credeva, ma non era importante. Era disposto a vivere e lasciarli vivere, se soltanto loro si fossero tenuti a distanza da lui. Il problema era che non lo facevano. E quindi...

Albertino Sputti respirò a fondo, cercando di calmarsi. Bzzzz. Ok, lasciamo perdere. Si alzò e andò in bagno, non perché ne avesse bisogno ma perché doveva cambiare aria, anche solo per un istante o due. O anche dieci o venti, già che c’era.

Controllò che la finestra smart fosse chiusa. Lo era. Il climatizzatore pompava fresco dentro e caldo fuori. L’assistente domestico taceva, in attesa di comandi. Il generatore di insetti virtuali era spento. Il mondo sembrava quasi un posto vagamente sano.

Il generatore di insetti virtuali! Ma si può essere più idioti? Come era venuto in mente a Gionatan di regalargli una cianfrusaglia simile? Albertino sospirò. Suo cugino era così. Trovava una cosa che gli piaceva e subito sentiva il bisogno di imporla a tutto il resto della famiglia, più amici e conoscenti.

Fin qui, niente di strano. Succedeva a molti. Il problema vero era che Gionatan era diventato ricco grazie a quel ciarpame. Ti tirava davvero scemo. Dimostrava in maniera lampante la non esistenza di dio, o almeno la sua fondamentale bastardaggine.

Prendiamo un onesto lavoratore come il nostro Albertino Sputti. Ok, magari moderatamente onesto, ma pur sempre lavoratore. Web designer, nello specifico: un lavoro che lui per primo considerava a volte inutile, a volte proprio dannoso, ma era comunque un lavoro, il solo che Albertino sapesse fare e che gli portasse soldi. Non molti e non sempre, ma in genere lo pagavano, alla fine. Comunque, il punto era che lui faceva qualcosa. Qualcosa di concreto. Virtuale, ok, ma pur sempre concreto.

C’era un lavoro reale, dietro. Doveva mantenersi aggiornato sui nuovi stupidi standard che questa o quella multinazionale imponeva in nome dei soldi, per favorire i propri prodotti. Doveva mantenersi aggiornato sulle mode, studiare altri siti, i nuovi metodi per rendere più complicate le cose semplici, questo e quello. Era una fatica, specie perché la creatività di Albertino, diciamolo pure, era prossima allo zero. E non prossima perché appena sopra, ma perché appena sotto. Era però bravo a ispirarsi, a ricreare, a reinterpretare. O a copiare, a seconda dei punti di vista. Così visitava molti siti, prendeva appunti e li saccheggiava senza pudore quando ne aveva bisogno. Ed era faticoso, davvero.

Il risultato erano siti quasi tutti uguali, che ti sembrava sempre di avere già visto da qualche parte, ma siccome ormai l’intero web era composto da siti quasi uguali, che ti sembrava di avere già visto da qualche parte, i clienti di Albertino Sputti erano sempre soddisfatti. Gli utenti forse un po’ meno, ma gli utenti si lamentano sempre e una persona non può passare la vita ad ascoltare le loro lagne. È una cosa che ti tira scemo, davvero. Meglio ignorarli e aspettare che si abituino. Lo fanno sempre, alla fine, per quanto volgari possano essere le loro proteste iniziali.

Ecco. Un lavoro duro, impegnativo, poco pagato e con poche soddisfazioni: questa la vita del nostro Albertino, nonché di molti altro poveri diavoli come lui. Non necessariamente web designer, ok.

Suo cugino Gionatan, invece, passava le giornate a fare lo scemo, inseguendo mosche virtuali. Anzi, passava le giornate a filmarsi mentre faceva lo scemo, caricava i video sul solito sito corporativo, li pubblicizzava un minino su questo e quel social network e trac! Milioni di visualizzazioni da tutto il mondo, con secchiate di soldi che gli finivano in tasca. Per fare lo scemo. Per farsi guardare mentre faceva lo scemo. Voglio dire, vi sembra forse giusto?

Ad Albertino no. Ad Albertino sembrava il segno più sicuro che ormai era tempo di cancellare tutto e ripartire da capo con le amebe, o qualunque altra cosa ci fosse stata all’inizio. E questo era brutto, ma non era ancora la parte più brutta. La parte più brutta era che Gionatan si era sentito in dovere di regalargli quello stupidissimo generatore di insetti virtuali. «Ti piacerà, vedrai,» gli aveva detto. «È il miglior modello sul mercato. Un must! Se non ce l’hai, non sei nessuno.»

Albertino Sputti era effettivamente nessuno, ma era anche qualcuno che non buttava via un regalo e così il generatore era in casa, quasi mai usato ma presente e bene in vista. Come la zanzara, che non era virtuale ma fin troppo reale. E ronzava. Bzzzz.

Si sciacquò la faccia, si guardò nello specchio, pronunciò il nome di dio invano. Schifo di giornata, e aveva la sensazione che ci fosse ancora spazio per un peggioramento. Probabilmente vero. Se una cosa l’aveva imparata dalla vita era che c’era sempre spazio per peggioramenti, anche quando sei un web designer che ha per cugino un tizio diventato ricco e famoso scacciando mosche virtuali da una finestra smart. Quasi di sicuro il peggioramento lo attendeva alla scrivania, davanti allo schermo.

C’era sempre la possibilità che fosse volata da qualche altra parte. Albertino non ci credeva davvero ma, si sa, la speranza è sempre l’ultima a morire. Il che significa che alla fine muore anche lei, ma è meglio non pensarci e cercare di essere un poco positivi, finché si può. Giusto?

Giusto o meno che fosse, ci provò. Ci provò davvero. Albertino Sputti tornò in sala, raggiunse il suo punto di lavoro, si sedette, toccò il mouse per riattivare lo schermo. Nessun segno di zanzara. Forse il miracolo era avvenuto. Meglio non dirlo troppo forte. Meglio anche non pensarlo troppo forte, già che c’era. Non che lui fosse scaramantico, superstizioso o roba simile, però... meglio evitare, no? In caso ci sia qualcosa di vero, anche solo per sbaglio.

Irrilevante. Aveva perso anche troppo tempo, era in ritardo e doveva davvero tornare al lavoro. Non che il lavoro lo attirasse, era una palla monumentale per un cliente ancora più palloso, ma era anche il tipo di cliente che paga e paga in orario, e questo era l’importante. Quindi...

Bzzzz.

Puntuale come un attacco di diarrea quando proprio non te lo puoi permettere, la zanzara spuntò in apparenza dal nulla e tornò a svolazzare tra il suo naso e lo schermo del computer. Disegnava strani arabeschi nell’aria, sfiorava di tanto in tanto le sue narici poi si spostava avanti e indietro lungo tutta la superficie dello schermo, quasi stesse esaminando il suo lavoro, magari criticandolo e facendogli qualche correzione. «Ricontrolla questa parte, c’è qualcosa di sbagliato. Riduci di due punti questa gradazione, si intonerà meglio col tema della pagina. Gli angoli arrotondati dei pulsanti vanno bene, ma la curvatura è troppo stretta, non vedi? E non farmi parlare della scelta di font, altrimenti...»

Ma non lo faceva. Non correggeva. Non aiutava. La maledetta zanzara rompeva soltanto le palle. E lo tirava scemo col suo continuo svolazzare. Perché, perché non la smetteva?

«Ma pungimi e sparisci!» urlò Albertino, ma non troppo forte, per non farsi sentire dai vicini. Erano quasi peggio delle zanzare i tizi al piano di sotto. Ne uscì un verso strozzato e soffocato, che non lo fece sentire meglio e che la zanzara ignorò, proseguendo col suo volo. Bzzzz.

Ora, cosa poteva fare? Ignorarla. Concentrarsi sul lavoro, dimenticare le distrazioni, scollegarsi dal mondo, immergersi nel suo universo interiore di nulla, abbandonare i pensieri, superare tutti i fastidi del corpo, assurgere a un più alto piano di esistenza, dove non esistevano zanzare e un povero cristo poteva lavorare in pace. O qualcosa del genere. Sì, ottima idea.

Come si faceva?

Albertino Sputti esaminò le tante conoscenze inutili che gli infestavano il cranio. Tra i suoi ricordi più fricchettoni di una gioventù passata da quasi un ventennio si annidavano tracce di suggerimenti, secondo cui il controllo della respirazione era alla base di tutto. Non ricordava come avrebbe dovuto fare a controllare la respirazione e forse non lo aveva mai neppure saputo, ma erano dettagli. Poteva improvvisare, no? Qualcosa sarebbe successo. Improvvisò.

Bzzzz.

Resistette per quasi quattro minuti a fissare lo schermo e pensare al respiro, prima di esplodere in un genere di invocazione divina che non sarebbe mai stata approvata dal suo vecchio parroco, almeno non in pubblico. In privato, chissà. Albertino si arrese. Ma come cazzo si fa a concentrarsi, con una zanzara che ti vola davanti al naso? Non si fa, ovvio. Perdita di tempo!

Fece due tentativi inutili di afferrare quella maledetta zanzara, ma ottenne solo di dare una manata allo schermo. Ci mancava solo di buttarlo per terra e completare la fantastica giornata. Provò con un gesto più misurato, che voleva essere un generico «fuori dalle palle, insetto di merda», con lo stesso risultato, ossia un nulla di fatto. Corse a controllare se in casa avesse ancora una qualche bombola di insetticida, uno qualunque, ma non ne trovò. Forse erano finite, forse non ne aveva mai avute: di sicuro sarebbe stato inutile cercarle fuori casa, adesso che erano state bandite. Bisognava proteggere gli insetti, sapete. I web designer, invece, si potevano anche estinguere. Chi li avrebbe rimpianti?

Loro stessi, ovvio. Albertino non si sentiva una specie in via di estinzione o anche solo a rischio, ma si sentiva un esemplare affetto da un terribile caso di gonadi a turbina che minacciava di esplodere a breve, se non fosse riuscito a liberarsi di quella maledetta zanzara. E dunque?

E dunque si doveva liberare di quella maledetta zanzara. Con le cattive o con le cattivissime.

Pensò a suo cugino Gionatan, in apparenza uno dei massimi esperti nello scacciare mosche virtuali.

Era esperto anche di zanzare? Gli sarebbe servito uno dei suoi stupidi consigli? Perché non la finiva mai di dare consigli stupidi, Gionatan. Come attirare l’attenzione della mosca, come spingerla nella direzione che ha scelto, come controllare la sua velocità, come questo, come quello. Ad ascoltarlo, ti potevi quasi convincere che le mosche fossero una sorta di strani modellini radiocomandati, oppure di droni, come si facevano chiamare oggi. Ma non lo erano. Le mosche erano soltanto stupidissimi ditteri, incapaci di uscire da una finestra aperta a metà. Non le potevi spingere o guidare, come una mandria di bovini o un gregge di pecore. Le pecore erano premi Nobel a confronto delle mosche.

O così la pensava Albertino, il web designer. E se avesse avuto ragione Gionatan, il famoso pilota di mosche? O flyboy, come lo aveva sentito etichettare in certi video. Che ci fosse qualcosa di vero? E se sì, lo si poteva applicare anche alle zanzare? Erano ditteri pure loro.

Sembrava una scemenza, ma cosa aveva da perdere, oltre alla dignità? Siccome era in casa da solo, poi, non avrebbe perso neppure quella. Nessuno lo avrebbe visto. E dunque.

Albertino tentò una manovra che aveva visto eseguire da Gionatan per scacciare una mosca, sbatté la mano con estrema violenza contro il bordo del tavolo, si rannicchiò a terra in un piccolo universo di dolore, bestemmiò sottovoce. Dopo una decina di minuti si sentì forte a sufficienza per rialzarsi e asciugarsi le lacrime, ma gli faceva un male del diavolo, che cazzo! Si era rotto qualcosa? No, vero? Dimmi di no, ti prego.

Nessuno gli rispose, ma la mano si muoveva ancora, per cui forse gli era andata bene. Per valori ben bassi di bene, d’accordo, ma considerando la stupidaggine che aveva appena fatto, beh, era meglio stare zitti e accontentarsi. E maledetto Gionatan e le sue manovre.

Bzzzz.

Non se ne sarebbe mai andata quella maledettissima zanzara? Lo voleva vedere morto? Era forse un messo infernale, accompagnato da un alalà di scherani? Era...

Albertino fissò lo schermo del computer, col suo lavoro lasciato a metà. No, facciamo un po’ meno di metà, per essere sinceri. Il suo sguardo scivolò poi sulla scrivania, dove lavorava. Sulla sedia non proprio comoda ma accettabile, su cui aveva passato e forse sprecato così tante ore. Sulla bottiglia di acqua, che teneva sempre a portata di mano. Sulla tastiera, dove le sue dita dovevano ormai aver lasciato i solchi a forza di spostarsi qui e là, lungo le solite traiettorie. Sul mouse, che aveva bisogno di una pulita. Di nuovo sullo schermo. Di nuovo sulla sedia. Sulla finestra. Sul soffitto.

Bzzzz.

Qualcosa si incrinò nel cervello di Albertino Sputti. Con un ruggito in cui non si trovavano tracce di un mediocre web designer, ma che conteneva larghe dosi di troglodita con emorroidi e mal di denti, il nostro improbabile eroe piegò il capo all’indietro, levò le braccia al cielo e balzò letteralmente in direzione della zanzara, o almeno nelle sue vicinanze. La voleva morta, morta, MORTA!

Schiaffeggiò, si girò, schiaffeggiò ancora, inseguendo il nemico non con lo sguardo, ma con quello che potremmo descrivere come un senso molto più primitivo, che ignora in un colpo milioni di anni di evoluzione e ci riporta al tempo in cui i nostri antenati quadrupedi conducevano una vita breve, di poche parole ed esentasse, nonché piena di violenza. C’ero io e c’era un nemico, e alla fine soltanto uno di noi sarebbe rimasto vivo. Di preferenza, io.

Fu lunga, fu sgradevole e fu rumorosa, ma alla fine le mani si chiusero sul bersaglio con uno sciaff sonoro, soddisfacente come una bevuta quando crepi di sete. Respirò a fondo, una, due volte. Le sue labbra si tesero a mostrare i denti. Non ululò alla luna, ma solo perché era giorno. Quando allargò le mani e vide la zanzara spiaccicata, veramente spiaccicata, morta, crepata, sbriciolata, fatta a pezzi e così via, Albertino Sputti si riaffacciò dentro il cranio, sperando che il peggio fosse passato.

Forse lo era. Forse poteva riprendere possesso del corpo.

«Morta,» sussurrò. Rimase immobile in silenzio per qualche minuto. Nessun ronzio. Non un suono, a parte il suo respiro. Era finita. Era finita! Si rilassò. Sorrise.

Andò in bagno a lavarsi le mani, fischiettando piuttosto male. Quando tornò in sala, il suo assistente domestico si accese. «Registrata infrazione, registrata infrazione. Allertate le forze dell’ordine. Non le è consentito allontanarsi dalla casa,» ripeteva con la sua voce femminile e falsamente umana.

Cosa significava? Albertino fissò l’aggeggio. Non aveva mai fatto nulla del genere, almeno per quel che ne sapeva lui. Che infrazione? Che forze dell’ordine? Magari si era solo...

Si fermò. Era un pensiero così orribile che davvero non avrebbe voluto farsi pensare, soprattutto in un momento in cui quel povero ominide era soddisfatto, quasi felice, ma non sempre puoi scegliere il momento giusto in cui farti pensare, quando sei un pensiero. A volte ti pensano e basta e tu non ti puoi opporre. Tipo adesso, per esempio.

Il decreto salvainsetti. No! Aveva ucciso un insetto. Anzi, aveva assassinato un insetto e non aveva agito per scopi alimentari, né per legittima difesa. Aspetta, c’erano magari gli estremi per invocare la legittima difesa? No, non c’era. La zanzara non lo stava aggredendo. Gli girava solo attorno. E lo tirava scemo, ok, ma i danni psicologici non erano inclusi. Quindi era omicidio. O insetticidio. E il suo assistente domestico aveva fatto la spia. Bastardo!

E adesso cosa gli avrebbero fatto? Albertino Sputti non ne aveva idea. Non gli era mai fregato nulla del decreto, anzi dei decreti, perché ne sfornavano di continuo, erano uno più stupido dell’altro, solo per raccontare di stare facendo qualcosa dopo che per decenni si erano grattati il fondoschiena, se si voleva essere educati ed evitare volgarità. Poi, quando finalmente si accorgono che sì, la loro nave sta affondando davvero e affogheranno pure loro, a volte persino i sorci possono cercare di tappare qualche buco, mentre danno la colpa ad altri.

Irrilevante. Erano in arrivo le forze dell’ordine, o almeno erano state allertate. Così lo continuava ad avvisare il carissimo assistente domestico. Probabilmente ci sarebbe stata un multa, magari salata, e un qualche tipo di nota di biasimo, palle varie. Sgradevole, d’accordo, ma nulla di terribile. Poteva sopravvivere, no? Sorrise, rilassandosi un poco.

Il mondo attorno a lui si riempì di zanzare. Ronzavano. La sua testa era al centro di una nebulosa di zanzare, una galassia di zanzare, un universo di zanzare. E ronzavano, per l’appunto. Bzzzz.

Da lontano gi giungeva ancora la voce inumana del suo assistente domestico. «In attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine, le ricorderemo che è sbagliato uccidere. I nostri fratelli insetti sono una parte fondamentale del mondo: è nostro dovere proteggerli e difenderli. Sempre.»

Probabilmente disse altre cose, ma Albertino Sputti non lo sentiva più, inghiottito da una fiumana di zanzare virtuali, ricreate dal generatore di insetti che Gionatan gli aveva regalato. Davvero gentile il tuo pensiero, caro cugino. In circostanze diverse, sarebbe forse stato curioso di scoprire come aveva fatto l’assistente domestico ad attivare il generatore, o chi altri lo avesse attivato per suo conto. Dato che le circostanze non erano diverse, però, ad Albertino non poteva fregare di meno.

C’erano zanzare. Zanzare. Zanzare! Gli orbitavano attorno alla testa, quasi lo sfioravano, poi per un poco si allontanavano, ma solo per tornare alla carica. Bzzzz. E ancora bzzzz.

Lo tiravano scemo!

Quando la squadra di sicurezza urbana venne ad arrestare Albertino Sputti per omicidio di zanzara e disturbo della quiete pubblica, si trovò davanti un appartamento devastato. Le zanzare virtuali erano sparite, il generatore disattivato, c’erano frammenti di un computer. E silenzio.

No, non silenzio. Un rumore, in una stanza in fondo. Un tonfo. Avanzarono cauti. E lo trovarono.

Prendeva a testate il muro, forte, con botte da trauma cranico. Ma concentrato, quasi come se stesse lavorando, o magari finendo un lavoro. Perché aveva un lavoro da finire, Albertino.

Ronzava piano. Bzzzz.

di Adriano Marchetti