Viaggio da sogno
Daniele Cilecca non si meritava quel che gli accadde alla stazione di Milano Porta Garibaldi, subito dopo essere sceso dal trenino locale. Non era giusto. Poteva essere giustificabile, d’accordo, ma era un altro discorso e comunque non lo rendeva giusto, almeno secondo il suo modesto e disinteressato parere. Pure, gli accadde lo stesso. Perché il mondo non è giusto, ovvio.
E non era stata neppure la parte peggiore del suo viaggio. Era stata solo la più... ingiusta, già.
Aveva trascorso una notte da schifo a camminare avanti e indietro per le vie di Desio, non proprio la città dei sogni, non dei suoi sogni, e lo aveva fatto perché era il modo più economico per tirare fino al mattino, quando sarebbe partito il primo treno. Era importante l’economia, per Daniele Cilecca. O meglio, era importante fare economia: non aveva molto e quel poco se lo doveva far durare il più a lungo possibile, se voleva durare anche lui. Lui voleva durare. Ergo, la notte insonne a misurare le fiabesche strade di Desio. Fantastico, proprio.
Era stato triste. Era stato noioso. Peggio ancora, era stato umido, tendente al fradicio, perché aveva piovuto per tutto il tempo. Correzione: non aveva piovuto tutto il tempo. A volte aveva diluviato. E il suo ombrello era piccolo. Era portatile. Era vecchio. Era meglio di niente, ma la partita si sarebbe risolta al tie-break. Ergo, si era bagnato tanto. Nelle scarpe gli si stava probabilmente evolvendo una nuova civiltà di costruttori di palafitte. O di anfibi. O anfibi costruttori di palafitte.
Si sarebbe dovuto fermare in albergo per la notte, perché persino in un posto come Desio un albergo o due lo puoi trovare, se cerchi bene. Sarebbe stata la decisione più saggia. Più normale. Nonché più dispendiosa. Daniele Cilecca non si poteva permettere decisioni dispendiose. Aveva già speso anche troppo per quel maledetto viaggio, quello stupido e inutile viaggio. Qualcosa in più per una stanza? Hah, bella battuta! Sei un cabarettista nato.
Aveva solo perso tempo. Peggio, aveva solo perso soldi. Vatti a fidare degli amici. O conoscenti, se preferite, ma il risultato è lo stesso. Un bidone resta un bidone qualunque sia la sua origine. Ordine degli addendi e palle varie, capite. Ti prendono di sicuro, vedrai. Ci ho messo una buona parola io. Mi devono un favore. Mi conoscono da una vita. Vai tranquillo. Una passeggiata.
Daniele era andato tranquillo e sì, in effetti una passeggiata l’aveva fatta. Dopo che gli avevano riso in faccia per le sue referenze ridicole, i suoi presunti contatti, eccetera eccetera. Era stata una delle sue peggiori figuracce e non lo consolava il fatto che non avrebbe mai più rivisto quella gente. Non li avrebbe rivisti, ma la figuraccia rimaneva, proprio come i soldi gettati nel cesso. E la camminata notturna sotto la pioggia, durante la quale si era masticato il fegato, rimuginando sui suoi fallimenti e le prospettive per il futuro. Che erano bigie, ma parecchio.
Vagare come un’anima in pena nelle vie deserte e fradicie di un paese addormentato e inerte poteva essere considerata un’anteprima del futuro che lo attendeva, salvo miracoli: qualcosa di fin troppo vicino al barbonaggio, per i suoi gusti. Non avrebbe mai dimenticato i minuti infiniti in cui era stato costretto a infilarsi in un anfratto tra due edifici, a metà tra cortile e miniparcheggio, e pisciare sotto la pioggia mentre faceva l’equilibrista col manico dell’ombrello. Era stato il nadir della sua vita.
Pure, la notte era passata, in un modo o nell’altro. Verso le sei del mattino era salito sul primo treno per Milano, aveva lottato per mantenersi sveglio nel caldo confortante del vagone, aveva strappato una specie di vittoria, era arrivato a destinazione: Milano Porta Garibaldi. Pensava che ormai i suoi problemi fossero finiti, almeno per quel viaggio. Si sbagliava.
Scese dal treno stanco, disorientato e disperso. Guardò il numero del binario, guardò l’orario, chiuse gli occhi, oscillò un poco come un pugile suonato, riaprì gli occhi. La stazione era ancora lì.
Da che parte doveva andare, adesso?
Era già stato alcune volte a Milano Porta Garibaldi e si era sempre perso. C’era qualcosa che non gli piaceva proprio in quella stazione. Doveva essere maledetta. Oppure lui non aveva ancora capito la logica seguita dai progettisti. Dettagli. Il risultato era lo stesso: scendeva dal treno e si perdeva.
Una notte insonne avrebbe migliorato la situazione? Improbabile. Meglio cercare altri passeggeri, se ce n’erano, e pedinarli verso l’uscita. Sperando che sarebbero andati verso l’uscita, ovvio.
Daniele si guardò attorno, stavolta cercando anche di vedere. C’erano due tizi con valigetta e l’aria molto manageriale, che camminavano sicuri in una direzione. Siccome erano gli unici esseri umani in vista e siccome sembravano davvero sicuri di quel che facevano, Daniele Cilecca li seguì. Con un poco di fortuna lo avrebbero portato dalla parte giusta.
Stavano andando verso un sottopassaggio. Ottimo. Daniele accelerò un poco per non perderli. Se se la giocava bene, magari lo avrebbero guidato dritto all’uscita. Un sogno.
I due infilarono il passaggio, scesero i primi gradini e svanirono.
Daniele Cilecca si fermò. Sbatté le palpebre, lentamente. Il sottopassaggio era recintato, l’ingresso bloccato da assi di legno. Chiuso per lavori in corso, avreste detto, ma Daniele non lo diceva. Fino a un attimo prima era stato aperto. Due persone erano appena scese. Le aveva viste.
O meglio, le aveva viste all’inizio. Poi erano sparite. Ma non aveva senso. E dunque...
Si guardò di nuovo attorno. Era solo. Dietro di lui c’era ancora il treno da cui era sceso, ma il resto del binario era deserto. Anzi, il resto della banchina o come cavolo si chiama quella parte tra i binari dove aspetti il treno, sali e scendi, trovi distributori automatici e così via. Poteva essere la banchina, poteva avere un altro nome. Daniele Cilecca era convinto di averlo saputo un tempo e magari anche adesso lo sapeva, da qualche parte nel cervello. Peccato che il suo cervello fosse anche rimbambito di sonno e stanchezza. Inutile aspettarsi aiuti lessicali.
Vide un orologio. Vide l’orario. Guardò l’orario. Erano passati quasi venti minuti dall’arrivo del suo treno e ancora non era uscito dalla stazione. Peggio, era ancora sul binario. O sulla banchina.
Brutto.
Brutto brutto brutto.
Dove era finito quel tempo? Daniele non lo sapeva, ma quella storia non gli piaceva per niente. Che stesse cominciando a dare i numeri sul serio? No. Ci doveva essere una spiegazione migliore.
Sonno. Carenza di sonno. Doveva avere avuto una specie di blackout, o magari si era addormentato in piedi, se per gli umani era fisicamente possibile addormentarsi in piedi. Forse lo era. Ma la sua coscienza si era assentata per un poco, questo era certo. Probabilmente si era sognato i due tizi che aveva seguito, proprio come si era sognato che il sottopassaggio fosse aperto e accessibile. Fortuna si era svegliato in tempo, prima di finirci dentro.
«Iperrealtà,» borbottò.
Si, questo gli piaceva di più. La mancanza di sonno gli aveva confuso il cervello, che aveva inserito immagini inesistenti nella realtà che vedeva. Poteva succedere. Chiedetelo a un drogato, qualunque sia la sostanza che preferisce, legale o meno. Prima o poi gli sarà capitato di vedere cose che nella realtà non esistono. Con certi acidi gli sarà capitato spesso. Tutti sanno che la carenza di sonno può confondere il cervello, anche stravolgerlo. Quindi non gli era successo nulla di strano. Stanchezza e roba simile. Una bella dormita e tutto si sarebbe sistemato. Niente di preoccupante.
Perfetto. Era una spiegazione fantastica e a Daniele piacque tanto che la ripeté un altro paio di volte, mentre si avviava verso un sottopassaggio aperto e, prima o poi, anche verso l’uscita della stazione.
La raggiunse dopo solo tre strade sbagliate, una delle quali si era conclusa davanti a un muro un po’ a sorpresa. Il mondo esterno era bigio, ma sgocciolava appena. Ovvio. Adesso che era in vista della meta, che senso aveva scatenare un diluvio? Non ci sarebbe stato gusto. Due passi fino alla stazione centrale, che era... là, da qualche parte, ma sapeva la direzione, la strada l’aveva già fatta un’altra volta, qualche anno prima, e ci sarebbe arrivato presto.
Ci sarebbe arrivato ancora prima in metropolitana? Vero, ma il biglietto costava. Perché spendere un paio di euro per una distanza che potevi percorrere a piedi? Meglio risparmiarli e magari mangiarci qualcosa. Non che avrebbe potuto comprarci molto, ma dai distributori automatici in stazione...
Sì, molto meglio camminare. Si sarebbe anche svegliato un poco, che ne aveva bisogno. Con quella visione che aveva avuto sul binario, poi, l’aria fresca poteva fargli soltanto bene.
Solo che non glielo fece.
Salì fino alla strada che correva davanti alla stazione senza farsi investire dal poco traffico di primo mattino, l’attraversò illeso, si avviò dritto nella direzione che era sicuro di avere già preso la volta precedente, passò accanto a una fermata dell’autobus popolata da una manciata di persone e un cane con l’impermeabile, si fermò a guardare meglio il cane, verificò che sì, indossava davvero un affare simile a un impermeabile e no, non lo aveva sognato, si ricordò che alcuni proprietari si divertivano a infilare roba ridicola addosso ai loro animali, proseguì.
Se ricordava bene, più avanti doveva girare a sinistra. La pioggia continuava a gocciolargli addosso, ma era già così bagnato da non fare alcuna differenza. Non si era neppure preso la briga di aprire un ombrello. Sarebbe cambiato qualcosa? Si sarebbe solo stancato il braccio. E dunque. E poi ci voleva poco, erano solo due passi da lì alla stazione centrale. Nessun problema.
Accanto a lui passò una camionetta militare, a bassa velocità. Daniele Cilecca la guardò per un poco e si domandò cosa ci facesse in città. Una qualche scemenza inventata dallo scemo di turno in nome di una presunta sicurezza, quasi di sicuro. Niente che lo interessasse. Proseguì.
Seguì per una decina di metri una vecchietta con borsa della spesa e cappello, che sembrava andare nella sua stessa direzione, poi la vecchietta svanì e Daniele fece finta di niente. Stanchezza, come si diceva. Ma il percorso non gli sembrava più così familiare e cominciò a temere di avere sbagliato o di avere ricordi confusi, roba simile. Vide un tizio appoggiato al muro accanto a un bar e si fermò a chiedergli informazioni, ma non era un tizio: erano un grosso vaso e un manifesto sul muro, che da lontano potevano ricordare un po’ la sagoma di una persona. Se eri rimbambito dal sonno, intendo.
Forse avrebbe fatto meglio a prendere la metro, ma ormai era andata così e comunque la stazione si poteva praticamente fiutare, doveva essere giusto dietro l’angolo. No, dicevo quello dopo. O forse il prossimo. Era quasi arrivato, insomma. Davvero.
Continuò per altri cinque minuti a camminare e ripetersi che la stazione era dietro l’angolo, che era sempre quello successivo e mai il più vicino. Perché di angoli ne aveva girati diversi, ma di stazioni non ne aveva ancora viste. Si era perso. Era stanco, bagnato, affamato, aveva sonno e si era perso in una strana terra di nessuno tra Milano Porta Garibaldi e la stazione centrale, che secondo le mappe avrebbe dovuto percorrere in una decina di minuti ed era pressoché dritta. Ok, magari era dritta solo per valori escheriani di “dritta”, ma era comunque semplice. Appariva semplice.
Daniele Cilecca si era perso.
Fastidioso, d’accordo, ma si poteva risolvere. Bastava continuare più o meno nella direzione in cui sentiva che doveva trovarsi la stazione. Forse ci sarebbe arrivato, forse sarebbe sbucato in un settore più riconoscibile di Milano, tipo la strada dritta davanti alla stazione, che finiva in quell’inferno di strade e rotaie che era piazza della Repubblica. Lì si sarebbe orientato. Era facile. Perché allora non ci riusciva ad arrivare? Si sarebbe arrabbiato, se ne avesse avuta ancora la forza.
Era stanco. Aveva sonno. Gli occhi continuavano a fargli scherzi assurdi. Credeva di vedere persone ma erano solo sagome strane formate da oggetti; credeva di vedere oggetti e invece erano persone o animali. Un ratto aveva anche attraversato la strada e Daniele non era sicuro di averlo visto davvero. Poteva essere stata solo cartaccia che rotolava. Ok, c’era un po’ troppo bagnato perché le cartacce si mettessero a rotolare e decisamente troppo poco vento, ma era possibile, no? Se ci pensi bene.
Daniele Cilecca non ci stava pensando bene. Non stava pensando bene e basta.
Ci fosse stato sereno, almeno avrebbe saputo da che parte era l’est. Dove faceva più chiaro. Invece niente, nuvole e una pioggerellina leggera che sembrava solo nebbia pesante. Storia della sua vita, più o meno. Sospirò e si sentì molto infelice.
Scelse una strada che lo ispirava e la percorse fino a una barricata che la bloccava. Era un cumulo di oggetti vari, in buona parte mobilia e derivati, nulla di elaborato o approvato da un designer, ma una cosa la faceva molto bene: chiudere il passaggio. Daniele scrollò le spalle e infilò una via traversa, a casaccio. Prima o poi sarebbe spuntato su una bella strada ampia, con griglie sui marciapiedi da cui usciva aria calda, magari anche una scalinata che conduceva nel mondo ctonio della metropolitana. Sarebbe stato il segnale che era quasi arrivato, in vista della stazione. Grossomodo. Si sarebbe come minimo potuto orientare, guardando il nome della stazione e una mappa della linea.
Prima o poi doveva trovare qualcosa, no? Qualcosa di sensato. Di familiare.
Peccato che fosse sempre più poi. Quando sarebbe toccato al prima?
Continuò a camminare. Scambiò oggetti per persone, ombre per persone, macchie sulle pareti per persone e insomma gli sembrava di vedere persone ovunque, ma erano solo uno strano effetto della sua mente stanca e assonnata, erano il suo cervello che incasinava i dati ricevuti dagli occhi. O giù di lì, ci siamo capiti. Non aveva più incrociato altri esseri umani reali, da un po’.
Il pensiero lo fermò.
Non aveva più incrociato altri esseri umani reali. In centro a Milano. Era uno schifo di giornata, ok, ed era ancora relativamente presto, ma qualcuno lo avrebbe dovuto incontrare, anche solo un tizio a spasso col cane prima di andare in ufficio. O una vecchia. Ci sono sempre vecchie per strada. Sono una piaga sociale. Non puoi fare un passo senza incontrarne una, te le ritrovi dappertutto, sempre a intralciarti e a rompere le scatole. Perché allora non ne aveva incrociate, di recente?
Daniele Cilecca aveva molte altre domande, ma nessuna risposta. O meglio, una risposta l’aveva sì, ma non gli era di grande aiuto, dato che era «boh». Ma non era importante. Gli bastava raggiungere la stazione e poi si sarebbe potuto dimenticare il resto. Magari sarebbe anche riuscito a dormire per un’ora, in treno. Dormire sarebbe stato bello. Gli avrebbe schiarito le idee e il campo visivo.
Camminava. Continuava a sperare di cogliere uno scorcio familiare, magari anche solo da lontano, i segni di un punto di riferimento, un cartello stradale, qualcosa. Non ne trovava. Superò la pubblicità di un prodotto che la sua mente stanca identificò come vomito di cane svizzero, ma sicuramente era roba molto più normale e chissà cosa aveva letto. Magari era solo un formaggio. Svizzero.
Inciampò, incespicò, perse l’equilibrio, balzellò un poco in avanti per recuperarlo, lo mancò, le sue mani trovarono qualcosa a cui afferrarsi, si aggrappò, si afflosciò, rimase in piedi per miracolo. Una bestemmia sentita e partecipata gli sfuggì tra le labbra, ma non si era sforzato molto per trattenerla e comunque non c’era anima viva nei paraggi, per cui tutto bene. Recuperò il fiato e guardò dietro.
C’era un cadavere sul marciapiede. Era appena inciampato in un cadavere sul marciapiede. Era un uomo ed era un cadavere. Sul marciapiede. Ci era appena inciampato. In un cadavere. Già. Aveva la schiena piena di frecce metalliche. Luccicavano, anche se non c’era molta luce.
Non era un cadavere. Sicuramente qualcosa lo aveva fatto inciampare, ma non poteva certo essere il cadavere di una persona. C’erano limiti anche all’assurdo e Daniele sentiva di averli superati da una mezz’ora almeno. Dunque era di nuovo iperrealtà. Forse qualcuno aveva lasciato un sacchetto della spazzatura sul marciapiede, un giubbotto vecchio da buttare, un ombrello rotto, e la sua mente si era inventata il resto. Sogni a occhi aperti. Aberrazioni cerebrali. Stanchezza. Ma non un cadavere.
E, a proposito, a cosa si era aggrappato, di preciso? Daniele decise che non lo voleva sapere. Era un qualcosa che lo aveva salvato da una caduta. Meglio non indagare. Meglio anche staccarsi.
Sentendosi un poco meglio, e sentendo soprattutto che era meglio cambiare aria in fretta, giusto per sicurezza, non si sa mai, Daniele Cilecca ripartì in cerca della stazione. Non guardò indietro, non lo voleva rivedere. Fosse quel che fosse, non lo voleva rivedere. Stanchezza. Solo stanchezza. Ovvio.
Quasi non si accorse di avere cominciato a correre.
Vide altre cose, ma nessuna che avesse senso, nessuna che fosse rassicurante. Cercò di dimenticarle subito e in molti casi gli riuscì. Era stanco, dopotutto, e la carenza di sonno probabilmente rendeva più difficile fissare le memorie, o roba simile. Gli rimanevano soltanto lampi, brevi e senza rilievo, senza continuità, senza storia. Un uomo che usciva da una parete. Un cane che lo sorvolava. Un bus che saliva lungo il muro di un palazzo. Due donne che parlavano, piccioni che volavano fuori dalle loro bocche in movimento. Un manifesto che invitava a votare il Barbaciccio come imperatore della galassia. Una palazzina che si afflosciava come un budino calpestato. Qualcosa in agguato, gli occhi luccicanti e la bocca aperta. Una mano che spuntava da un tombino e lo salutava.
Immagini. Senza senso. Senza realtà. E comunque era solo stanchezza.
Smise di correre quando non ne poteva proprio più. Piegato in due, mani sulle ginocchia e fiatone a non finire, Daniele restò per un tempo indefinito a fissare il marciapiede, respirando il fetore della città. Non voleva più vedere, ma alla fine guardò lo stesso. Alzò la testa, poi lo sguardo.
Il Pirellone era poco più avanti, sulla destra. Mai un orrore così orrendo gli era apparso come una meraviglia architettonica, invece di un patetico obbrobrio per omini con la testa gonfia. Era proprio il Pirellone, brutto come sempre, ed era il riferimento di cui aveva bisogno. Adesso sapeva trovare il resto, ma soprattutto la stazione, quasi di fronte, un centinaio di metri al massimo, ok facciamo pure duecento, non era mai stato bravo coi numeri o con le stime a occhio. Il punto era che era arrivato, il resto non contava. Arrivato! Se poi ci fosse stato un treno già pronto, o magari in arrivo tra meno di un quarto d’ora, allora sarebbe stato il massimo, ma si poteva accontentare.
Procedette di buon passo, ma senza più correre. La nottata in strada a Desio perdeva già consistenza nella sua memoria, sfaldandosi come un sogno sgradevole. C’era stato davvero? Il suo portafogli gli diceva di sì, ma poteva anche fingere di essersi immaginato tutto. Non avrebbe fatto differenza. Una perdita di tempo, ma in fondo di tempo ne aveva in abbondanza, di recente, per cui tutto bene. O no, ma comunque tutto passato. E dimenticato. O almeno da dimenticare. Giusto.
Un militare lo fermò all’ingresso della stazione. Daniele gli mostrò il biglietto, spiegò che aveva un treno da prendere, passò. Cosa ci faceva un militare lì davanti? E non era da solo, a giudicare dalle altre divise che si vedevano qui e là. Strano, un poco buffo, ma non un suo problema, quindi non ci doveva pensare. Daniele Cilecca non ci pensò più.
Salì alcune rampe mobili, trovò il tabellone delle partenze, localizzò un treno che faceva per lui. Un poco di attesa, poi sedette in un vagone quasi vuoto e si preparò al ritorno. Che esperienza terribile! Per fortuna era finita, non proprio nel migliore dei modi ma almeno in uno accettabile. Si augurava solo di non dover mai fare il bis. Brutta cosa la carenza di sonno. Nonché di soldi, causa prima della carenza di sonno. Brutto, brutto. Ma era finita.
Bella cosa il mondo reale. Non era bello, non sul serio, ma almeno era reale. Aveva senso. Circa.
E mentre Daniele Cilecca si appisolava in beata contemplazione del mondo reale, il treno lasciava la stazione di Milano, poi il suo hinterland, sfilando sotto la mole enorme della piramide di Lambrate, prima di perdersi nella pianura. La rosa camuna uncinata sventolava nel mattino, non luminoso ma ormai quasi privo di pioggia, e tutto era bene in quel mondo. Aveva senso.
Reale o meno che fosse.