Adriano - racconti e altro

Cepkor Kamui, il Signore dei salmoni

Nella cultura ainu troviamo due figure di Signori degli animali, o almeno due figure di Signori degli animali si sono conservate fino a noi nelle loro storie: se in passato ne esistevano altre, sono andate perdute nel tempo. Questi due Signori degli animali sono Cepkor Kamui e Yukkor Kamui: il primo ha la signoria sui salmoni, il secondo sui cervi. Sono loro che possono concedere o negare i propri sudditi agli ainu, determinando così il successo o il fallimento di pesca e caccia, due attività da cui dipendeva la sopravvivenza stessa degli ainu, popolo che viveva principalmente di caccia e raccolta, praticando solo una forma molto primitiva di agricoltura, almeno in epoca storica.

Abbiamo già accennato brevemente a loro parlando di Amekumabito e dello iyomante. In questa sede approfondiremo il discorso su Cepkor Kamui1, il Signore dei salmoni, a cui è legata una storia piuttosto interessante, che è stata raccolta nel 1886 da Chamberlain, lo storico traduttore del Kojiki. Una storia che, per più versi, si ricollega anche a quanto dicevamo sulla possibile presenza di una Signora degli animali tra gli ingredienti che hanno prodotto la storia giapponese di Urashima Tarō. Prima di ogni altra cosa, però, presentiamo la storia raccolta da Chamberlain, così da avere davanti a noi il materiale da cui parte il resto del nostro discorso. Eccola.

Un certo ainu2 uscì in barca per pescare pesci nel mare. Mentre era là, si alzò un grande vento, che lo fece andare alla deriva per sei notti. Proprio quando era prossimo alla morte, giunse in vista della terraferma. Trasportato sulla spiaggia dalle onde, sbarcò senza problemi e lì trovò un piacevole torrentello. Dopo aver risalito le sponde di questo torrentello per una certa distanza, vide un luogo abitato. Vicino a quel luogo c’era una folla di gente, sia uomini che donne. Raggiunto quel luogo ed entrato nella casa del capo, vi trovò un anziano dall’aspetto davvero divino. Questo anziano gli disse: «Rimani con noi per una notte e domani ti faremo tornare a casa nel tuo paese. Ti va bene?»

Così l’ainu trascorse la notte assieme al vecchio capo. Quando venne il giorno seguente, il vecchio capo gli parlò così: «Alcuni membri del mio popolo, sia uomini che donne, devono andare nel tuo paese per motivi di commercio. Così, se ti farai portare da loro, riuscirai ad arrivare a casa. Quando ti faranno salire in barca con loro, tu dovrai coricarti al suolo e non guardarti attorno, ma nascondere completamente la tua testa. Se farai così, riuscirai a ritornare. Se guarderai, il mio popolo si arrabbierà. Stai bene attento a non guardare.» Così parlò il vecchio capo.

Bene, c’era una intera flotta di barche, su cui un sacco di gente, sia uomini che donne, saliva a bordo. C’erano almeno cento barche, che partirono tutte assieme. L’ainu si coricò a terra su una di quelle e nascose la testa, mentre gli altri guidavano la barca con l’accompagnamento di una canzone piacevole. Gli piacque molto tutto ciò. Dopo un po’, raggiunsero la terra. Quando ebbero fatto così, l’ainu, sbirciando un poco, vide che c’era un fiume e che loro stavano attingendo acqua coi mestoli dalla foce del fiume, e la bevevano. Si dicevano l’un l’altro: «Com’è buona quest’acqua!» Metà della flotta si avviò su per il fiume, ma la barca su cui si trovava l’ainu proseguì il suo viaggio e alla fine raggiunse il suo paese nativo, dove i marinai gettarono in acqua l’ainu. Pensava di essersi sognato tutto. In seguito tornò in sé. La barca e i marinai erano spariti; in quale direzione, lui non lo sapeva dire. Raggiunse però la propria casa e, addormentandosi, fece un sogno. Sognò che lo stesso vecchio capo gli appariva e diceva: «Io non sono un essere umano. Io sono il capo dei salmoni, il pesce divino. Siccome sembravi in pericolo di morire tra le onde, ti ho attirato a me e ti ho salvato la vita. Pensavi di essere rimasto da me per una notte soltanto, ma in realtà quella notte è durata un anno intero. Quando si è concluso, ti ho mandato indietro al tuo paese natio. Per questo ti sarò molto grato se, d’ora in avanti, tu mi offrirai sake, preparerai inau3 in mio onore, e mi adorerai con le parole “Offro una libagione al capo dei salmoni, il pesce divino”. Se non mi adorerai, diventerai un uomo povero. Ricordatelo molto bene!» Queste furono le parole che l’anziano divino disse a lui nel sogno.4

Questa è la storia. Il titolo attribuitole da Chamberlain è “The Worship of the Salmon, the Divine Fish”, che senza dubbio descrive il finale della vicenda; si adatta un poco meno bene all’avventura precedente, ma tant’è. Il pesce divino di cui si parla nella storia è quello che in lingua ainu è chiamato kamuicep: considerato che kamui significa divinità5 e cep significa pesce, la traduzione è senza dubbio corretta. Si potrebbe solo fare un appunto: con kamuicep, gli ainu di solito si riferiscono soltanto al salmone, che è il pesce più importante per loro. Tutti gli altri pesci sono semplici cep, ossia cose che si mangiano.

Che kamuicep sia proprio il salmone ce lo conferma anche uno yukar6 raccolto da Chiri Yukie (1903-1923), il numero dieci nello Ainu Shin’yōshu, unica opera che Yukie ha avuto il tempo di scrivere prima di morire. In questo yukar, presentatoci sotto il titolo di “Pon Okikirmui yaieyukar”, ossia “Okikirmui jr.7 canta di se stesso”, si parla infatti dei kamuicep, la cui sopravvivenza è minacciata da un individuo misterioso che avvelena un fiume. Okikirmui li salverà, ovviamente, ma il punto è che Yukie, ragazza ainu educata alla giapponese, traduce in giapponese questa parola con sake8, ossia salmone: questo per toglierci ogni possibile dubbio sul fatto che kamuicep e salmone siano la stessa cosa per gli ainu. Il salmone è il “pesce divino”.

Sbrigata questa pratica linguistica, passiamo ad argomenti più interessanti. Il vecchio che si presenta alla fine come “capo dei salmoni” è senza dubbio Cepkor Kamui, anche se non abbiamo a disposizione la storia originale in lingua ainu per poterlo verificare: lo possiamo comunque ricavare da molti altri elementi sparpagliati nel racconto, senza alcuna difficoltà e senza la minima forzatura. Allo stesso modo, gli abitanti della terra misteriosa su cui approda l’ainu sono salmoni antropomorfi, la cui migrazione verso le isole degli ainu potremo seguire nel corso della vicenda.

Come ci testimoniano innumerevoli storie e yukar, i kamui hanno forma umana nel loro mondo9, dove conducono anche una normale vita da esseri umani: hanno una casa, hanno una famiglia, hanno amici e si divertono a bere e fare baldoria. L’aspetto con cui si manifestano nel nostro mondo10 è solo un vestito che indossano, grazie al quale possono interagire con noi: senza quel vestito, noi umani non li potremmo vedere o toccare. Per inciso, il termine con cui si indica di solito quel vestito è hayokpe, che significa “armatura”, mentre l’essenza del kamui si trovava nel cranio, in un punto tra le orecchie dell’animale-vestito. Sempre da questo punto tra le orecchie, un kamui può assistere in diretta alla propria macellazione e verificare che gli ainu lo trattino col dovuto rispetto.

Nella storia raccolta da Chamberlain, il protagonista ainu approda su un’isola abitata da persone che in apparenza sono normali. Hanno un villaggio, con tanto di anziano capovillaggio. Questi abitanti, o almeno molti di loro, uomini e donne come ci è più volte ricordato, dovranno partire per recarsi nel paese del naufrago. Per commerciare, dice il capovillaggio. Possiamo trovare qui un altro elemento tipico della visione del mondo ainu: l’idea che caccia e pesca, di fatto, non siano altro che una forma di commercio tra gli uomini e gli animali. Più precisamente, è uno scambio di doni: l’animale dona al cacciatore il proprio corpo, cioè il vestito che indossa, e il cacciatore lo ricambia offrendogli sake e inau. La missione commerciale degli abitanti dell’isola misteriosa, dunque, consisteva proprio in questo: andare a farsi pescare dagli ainu, offrendo loro il proprio abito da salmoni, per ricevere in cambio altri doni adeguati.

Certi animali sono espressamente indicati come kamui essi stessi: è il caso dell’orso, dell’orca, del lupo, del gufo e alcuni altri, animali che hanno un grande peso11 sia nell’economia degli ainu, sia nella loro visione del mondo. Li ritroviamo spesso come protagonisti di kamui yukar, dove ci raccontano in prima persona le proprie avventure nel mondo divino, oppure nel mondo umano, dove scendono per visitare gli ainu o per commerciare con loro, dopo avere indossato la propria veste di animale. Sarà proprio un gufo, peraltro, a istituire i rituali della caccia, insegnando agli ainu come adorare i Signori degli animali ed evitare di incorrere nella loro ira. Ne parleremo più avanti.

Accanto a questi animali che sono kamui essi stessi, abbiamo animali che non sono divini di per sé, ma che rispondono a un Signore specifico: sono divini per procura, si potrebbe dire. È il caso dei salmoni e dei cervi, che hanno un sovrano o nume tutelare: Cepkor Kamui per i salmoni, Yukkor Kamui per i cervi (yuk significa cervo, ovviamente). Questi due Signori hanno il pieno controllo dei propri sudditi: sono loro a decidere quando mandarli dagli ainu e quanti esemplari mandarne, ma possono anche decidere di non mandarne affatto, se gli ainu si sono dimostrati ingrati. Come ci insegna un altro yukar12, gli spiriti degli animali uccisi ritornano dal proprio Signore e fanno rapporto su come siano stati trattati dagli ainu: se i cacciatori o pescatori li hanno trattati col dovuto rispetto e li hanno congedati con offerte di sake e/o di inau, tutto bene. In caso contrario, sono guai.

Gli abitanti della terra misteriosa sono dunque salmoni, che il loro Signore invia agli ainu. Tutto questo diventerà chiaro alla fine, quando il capovillaggio apparirà in sogno al protagonista e gli spiegherà ogni cosa, ma si poteva già dedurre facilmente dal contenuto della storia. È uno schema che ritroviamo in forma più elaborata ed elegante in numerosi yukar, in particolare nei kamui yukar, i canti dal carattere più strettamente mitologico, dove il narratore è di solito un kamui. In queste storie, infatti, l’identità del protagonista è svelata soltanto alla fine, nella battuta di chiusura che è recitata e non cantata, ma la narrazione contiene numerosi indizi che aiutano a indovinare chi sia a parlare, a cominciare dal ritornello13 che precede ogni verso: il finale è in genere una conferma, più che una sorpresa. Allo stesso modo, nel racconto riferito da Chamberlain è possibile indovinare molto presto chi siano i personaggi misteriosi: il sogno finale del protagonista serve giusto a confermarlo.

Interessante è il modo in cui si conclude il viaggio. Alcune barche si fermano presso la foce di un fiume, le persone a bordo ne bevono l’acqua, la trovano di proprio gusto e subito si avviano per risalire la corrente; le altre proseguiranno lungo la costa, con a bordo il nostro protagonista ainu. Che alcune barche si separino dalle altre per risalire un fiume è un ulteriore indizio della identità del loro equipaggio: sono i salmoni, infatti, ad arrivare dal mare aperto e risalire alcuni fiumi, quando è il momento di riprodursi. Questo si collega benissimo alla insistenza sul fatto che l’equipaggio delle barche fosse formato da uomini e donne, cosa piuttosto insolita per una spedizione commerciale degli ainu, riservata di solito agli uomini. L’equipaggio è infatti composto da salmoni, che risalgono il fiume in coppie per raggiungere il luogo giusto in cui riprodursi: compito per il quale la presenza di entrambi i sessi è indispensabile, ovviamente.

Il rituale di assaggiare l’acqua del fiume, peraltro, potrebbe essere interpretato in due modi, a seconda di quanto gli ainu conoscessero le abitudini dei salmoni. Da un lato, sappiamo da altri yukar che i salmoni amano l’acqua pura e fuggono quando l’acqua del fiume diventa intorbidita o inquinata in altri modi: la già citata storia di Pon Okikirmui consiste proprio nella sua lotta contro un misterioso umano che inquinava il fiume, facendo fuggire i salmoni. L’equipaggio, dunque, potrebbe assaggiare l’acqua semplicemente per valutarne la purezza. Niente di strano, vista la loro identità: sono salmoni che cercano fiumi dall’acqua pura.

D’altro canto, i salmoni non tornano a un fiume a caso, quando è il momento di riprodursi, ma tornano al fiume da cui erano nati anni prima. È dunque possibile che l’equipaggio assaggi l’acqua per scoprire se sia proprio il fiume giusto, la sua “patria natia”. Non ho la minima idea se gli ainu dell’epoca fossero a conoscenza di questa caratteristica specifica dei salmoni, per cui non mi azzardo a proporre che sia questa l’interpretazione corretta: dico solo che è una possibilità, più o meno ragionevole a seconda dei gusti. Forse assaggiano l’acqua solo per scoprire se sia pulita, forse lo fanno per scoprire se sia il loro fiume d’origine e dunque la loro meta: sia come sia, è un rito che determina in quale direzione proseguire il viaggio, come vediamo.

Un’altra caratteristica da segnalare per quanto riguarda il viaggio è il tabù imposto dal capovillaggio al protagonista ainu: non dovrà guardare. Per tutto il tempo, l’umano dovrà rimanere coricato a terra, con la faccia premuta contro la barca, senza guardarsi attorno o sbirciare. Niente di strano, qui: i viaggi che implicano un cambiamento di piano d’esistenza includono spesso un qualche tabù, gesti che il protagonista deve fare o deve evitare. Guardarsi attorno e sbirciare è un divieto molto frequente, soprattutto quando c’è di mezzo una katabasis, ossia un viaggio nel regno dei morti: credo non sia necessario fare qualche esempio a riguardo, perché dovrebbero essere famosi più che a sufficienza. Questa non è una katabasis, non esattamente, ma è pur sempre un passaggio dalla terra dei salmoni a quella degli ainu, cioè da un mondo a un altro, e il nostro ainu non dovrà sbirciare, se vorrà arrivare a casa sano e salvo.

Il nostro ainu sbircia, ovviamente, ma ha almeno il buonsenso di farlo quando è ormai arrivato sul suo territorio: non ancora a casa, ma lungo la costa della sua isola. Ciò che vede è la scena chiave di cui abbiamo appena parlato, che gli dovrebbe fornire l’informazione necessaria a riconoscere la vera identità dei marinai che lo hanno condotto fino a lì. Vede la gente raccogliere coi mestoli l’acqua del fiume, come abbiamo già detto, e sorseggiarla, commentando su quanto fosse buona. Niente di strano nel raccogliere l’acqua di fiume usando un mestolo: gli ainu lo facevano così tanto spesso da avere anche un verbo per descrivere questa operazione, ossia wakkata, dove wakka significa appunto “acqua”14. Non sembra però che il nostro protagonista riconosca la vera natura di quella gente, nonostante i commenti, e dovrà attendere il sogno con l’apparizione del capovillaggio per ricevere una spiegazione completa.

Nonostante abbia trasgredito almeno in parte alle raccomandazioni ricevute, per il protagonista non c’è una punizione vera e propria, a meno che non si voglia considerare come punizione il fatto che lo abbiano gettato in acqua una volta arrivato a destinazione, invece di farlo sbarcare in un modo più gentile. Un bagno fuori programma è certo seccante, ma non lo paragonerei alle punizioni subite da altri personaggi per aver violato il tabù di guardare qualcosa di vietato: Orfeo e le mogli di Lot e Barbablù ci avrebbero probabilmente messo la firma per cavarsela così a buon mercato, ma anche Izanagi avrebbe probabilmente preferito un bagnetto all’essere inseguito da un’orda di demoni.

È ovviamente possibile interpretare il tuffo in acqua come una forma di purificazione, se vogliamo. Dopo essere stato in un altro mondo, l’ainu aveva forse bisogno di ripulirsi, prima di poter tornare in contatto col proprio paese. Benché non sporco in senso stretto, un luogo abitato da divinità è avvolto in un’atmosfera che potrebbe essere considerata incompatibile con quella del mondo umano: luoghi e personaggi sacri hanno (o almeno avevano) regole ben precise che stabilivano come si potessero svolgere i loro contatti col mondo profano. Il suo successivo pensare che fosse stato tutto un sogno, così, potrebbe essere interpretato come l’effetto dell’acqua, che ha cominciato a “sciogliere” la realtà o la contaminazione della sua esperienza. Se ci piace, dunque, possiamo pensare che i salmoni lo abbiano scaraventato in acqua per fargli un favore, aiutandolo a ripulirsi dalle eventuali tracce divine che potevano essergli rimaste addosso. Ma è solo un pensiero e il testo non ci fornisce alcuna prova a riguardo.

Arrivato dunque a casa, in un modo o nell’altro, il sogno rivelatore gli fornisce la risposta a tutto quanto gli era accaduto nel corso del viaggio. In questa scena, due sono le parti che ci interessano in modo particolare: la richiesta di offerte e adorazione fatta dal capovillaggio, nonché lo scarto temporale tra la durata apparente e la durata reale dell’avventura del nostro ainu. L’adorazione, prima di tutto.

Quanto richiesto dal capovillaggio, ossia da Cepkor Kamui, corrisponde a quanto ci si aspetta di solito da un ainu, quando deve congedare un animale appena ucciso: il rituale specifico può essere più o meno elaborato, ma l’offerta di sake e la preparazione di inau con cui circondare la testa dell’animale li troviamo sempre, quando possibile. Secondo gli ainu, tanto il sake quanto gli inau accompagneranno lo spirito dell’animale nel suo viaggio di ritorno al cielo, o comunque al posto da cui proviene. Una volta arrivato a casa, l’animale vi troverà i doni ricevuti, moltiplicati e resi ancora più ricchi di quanto fossero in origine: questi doni accresceranno il suo prestigio nella comunità di origine e gli permetteranno di organizzare feste e fare doni ai suoi amici. Tutto ciò lo troviamo descritto in dettaglio negli yukar che raccontano la morte di un orso, in particolare, perché le cerimonie in suo onore erano le più sfarzose e solenni, sia che fossero iyomante15 o kamui maratto16, ma qualcosa di simile avveniva anche per le altre prede.

Quanto richiesto da Cepkor Kamui in questa storia non corrisponde esattamente alle cerimonie ufficiali in suo onore: lo possiamo dunque considerare una forma di accordo privato stipulato tra il Signore dei salmoni e l’ainu che ha salvato e riaccompagnato a casa. La cerimonia ufficiale è invece descritta nel settimo yukar contenuto nel già citato Ainu Shin’yōshu di Chiri Yukie. In questo canto, l’istituzione dei rituali è attribuita a Kamuicikap Kamui, ossia a un gufo. Il gufo era uno degli animali più importanti nel folklore ainu, come ci dimostra già l’appellativo che gli è assegnato nel titolo: kamuicikap, ossia uccello divino17, che possiamo accostare senza difficoltà al titolo di kamuicep assegnato invece al salmone, come abbiamo già visto.

Se il salmone era il pesce per eccellenza, il gufo era l’uccello per eccellenza. Il nome con cui è chiamato più spesso è kotan-kor kamui, che lo qualifica come spirito guardiano del villaggio (kotan) e del suo territorio. Il suo ruolo era infatti quello di sorvegliare il territorio in cui sorgeva una comunità ainu, sia grazie alla sua vista acuta anche nelle tenebre, sia soprattutto grazie al suo richiamo, che era particolarmente forte e si poteva sentire molto bene nella quiete notturna. Con la sua voce, il gufo scacciava gli spiriti malvagi che cercavano di avvicinasti al villaggio col favore delle tenebre, un lavoro per cui gli ainu gli erano molto grati. Secondo gli appunti lasciati da Chiri Yukie, il gufo occupava il terzo posto per importanza tra gli animali sacri, subito dopo l’orso e il lupo, almeno tra gli ainu della sua regione di provenienza.

Nello yukar che ci interessa, il gufo svolge un lavoro extra come protettore degli ainu. Dopo aver visto che la popolazione era in pericolo, perché i Signori degli animali non mandavano più né cervi né salmoni, il gufo si incarica di scoprirne le cause. Venuto a conoscenza della ragione di questa carestia, ossia l’ingratitudine mostrata dagli ainu nei confronti delle loro prede, il gufo si occupa sia di trattare coi Signori degli animali, sia di informare gli ainu, per stabilire un nuovo ordine di cose che soddisfi entrambi. Il nuovo ordine di cose consiste appunto nei rituali che gli ainu dovranno celebrare dopo la caccia e la pesca, per ringraziare i Signori del dono concesso. Finché i rituali saranno svolti correttamente, cervi e salmoni non mancheranno e tutti saranno contenti.

In questa sede, però, stiamo parlando solo di Cepkor Kamui: guardiamo dunque più in dettaglio il rituale che lo riguarda e che sarebbe stato comunicato in sogno agli ainu da un gufo, dopo che questi aveva contrattato col Signore dei salmoni. Gli accordi stipulati con Yukkor Kamui qui non ci interessano, ma li potete trovare nello stesso yukar, se siete curiosi.

I salmoni erano catturati dagli ainu utilizzando reti e trappole, distribuite lungo il corso del fiume. Dopo essere stati presi, i pesci erano uccisi con una bastonata in testa, di solito. Il bastone usato per uccidere i salmoni era chiamato isapakikni18, che possiamo tradurre come “legno (ni)19 con cui picchiare (kik) la testa (sapa)”: non forse originale o creativo, ne convengo, ma non lascia dubbi sulla sua funzione. Secondo il nuovo accordo stabilito dal gufo, i salmoni dovranno essere uccisi con un isapakikni di buona qualità, accuratamente inciso e decorato, come se fosse un inau. Non lo era, non in senso stretto, ma il bastone doveva essere bello a sufficienza da dimostrare ai pesci tutto il rispetto con cui i pescatori li trattavano. Prima dell’accordo stabilito dal gufo, infatti, lo yukar ci dice che i pescatori usavano bastoni sporchi e marci per uccidere i pesci, il che era considerato molto umiliante dalle vittime.

Sebbene questo nuovo isapakikni decorato non fosse uno inau vero e proprio, il kamui yukar preso in esame ci dice che ne faceva le veci, perché i salmoni ritornavano dal loro Signore stringendo in bocca pirka inau, ossia begli inau, e questo li rendeva contenti. I pescatori erano anche tenuti a parlare ai salmoni mentre li uccidevano, dicendo loro che stavano usando inau per colpirli: il sottinteso era che l’inau li avrebbe accompagnati nel loro viaggio di ritorno, come in effetti si pensava succedesse in altre circostanze simili. Ricordiamo anche che gli inau offerti alle vittime nei rituali di caccia erano sistemati attorno alle loro teste: spaccare la testa di un salmone con un bel bastone intagliato, dunque, varrebbe grossomodo come suo equivalente.

Nel rituale ufficiale per congedare i salmoni, dunque, comparivano inau, a modo loro, e anche una forma di frase di ringraziamento era inclusa. Mancava però il sake, richiesto invece dal Signore dei salmoni nella storia riferita da Chamberlain. Non la possiamo dunque considerare una versione alternativa di un mito delle origini in cui ci è presentata l’istituzione del rito: se il kamui yukar raccontato da Yukie è sicuramente un mito delle origini, il racconto di Chamberlain sembra invece la storia di un contratto personale stipulato tra il Signore dei salmoni e un ainu specifico, da lui salvato per un qualche ghiribizzo del momento. Le due storie hanno elementi in comune, sono imparentate, ma non sono sovrapponibili.

Il secondo elemento interessante, per quanto riguarda il sogno con cui il racconto si conclude, è lo scarto temporale tra la durata soggettiva e la durata oggettiva dell’esperienza. Se all’ainu sembra che sia trascorso un giorno soltanto, nel mondo reale è trascorso un anno. Chamberlain sembra attribuire importanza a questa storia soltanto per lo slittamento temporale: nel suo The language, mythology, and geographical nomenclature of Japan viewed in the light of Aino studies, Tōkyō, 1887, pagine 19-22, la propone infatti fianco a fianco con la più celebre storia giapponese di Urashima Tarō. Entrambe, per lui, sembrano essere rilevanti solo per la questione temporale, dato che non fa alcun riferimento agli altri aspetti delle due storie. Su questo punto mi permetto di dissentire.

Della storia di Urashima Tarō ho già parlato altrove e non mi ripeterò qui. La vicenda dell’anonimo ainu ha certo in comune con quella di Urashima Tarō la professione del protagonista, in entrambi i casi un pescatore, che un giorno esce in barca per pescare e si ritrova a vivere un’avventura decisamente non prevista. Il nostro ainu è trasportato nel paese del Signore dei salmoni, ossia di Cepkor Kamui; trascorre lì la notte, su richiesta del padrone di casa, e il giorno dopo riparte per essere recapitato a casa propria. Una volta arrivato, scopre in sogno che quel giorno è durato in realtà un anno.

Niente di strano, di per sé. Se guardiamo anche solo alle isole britanniche, le storie del popolo fatato in cui un umano si ferma per un poco con loro, giusto il tempo di una danza, e scopre poi che quella danza è durata un anno o più, sono numerose. Numerose sono anche le storie in cui un umano visita il paese delle fate per un tempo che gli sembra breve, ma che in realtà si dimostrerà lunghissimo. Esistono poi casi opposti, in cui un personaggio si ferma per un mese o più in un altro mondo, ma quando torna a casa scopre che è trascorso giusto un minuto. In tutte queste storie, e in molte altre sparse per il mondo, troviamo uno stesso motivo di base: nei paesi abitati da figure soprannaturali, che siano morti, divinità o altro ancora, il tempo scorre con un ritmo diverso rispetto a quello degli umani.

Consideriamo adesso un aspetto molto particolare della cultura ainu. Nella loro visione del mondo, così come ci è testimoniata dagli yukar e dalle altre storie, gli animali appartengono in parte o del tutto a una dimensione soprannaturale. Molti sono kamui essi stessi, scesi nel mondo umano per fare due passi o per commerciare20 con gli ainu; altri sono in contatto diretto con un kamui di alto livello, come è il caso di salmoni e cervi, che dipendono da un Signore degli animali. Sia come sia, dato che gli animali sono in un qualche modo divini, una battuta di caccia o una uscita a pesca implica sempre l’abbandono del mondo umano e controllato del villaggio, il kotan, per addentrarsi in un territorio naturale che è anche almeno in parte soprannaturale, dove kamui sconosciuti potrebbero attenderci dietro ogni angolo.

Avventure di questo genere possono accadere anche ai grandi eroi, come ci raccontano altri yukar, tra cui il già citato “Pon Okikirmui yaieyukar”. In questo caso, l’eroe culturale Okikirmui esce un bel giorno (sineantota, espressione che è l’incipit di molti canti simili) per andare a fare due passi e incontra per caso un essere umano, che sta avvelenando l’ambiente. Si scoprirà poi che questo umano non è davvero così umano come sembra, dato che finirà rinchiuso nel piano più basso di Pokna Mosir, il settore dell’aldilà degli ainu che svolge una funzione simile al Tartaro degli antichi greci, cioè un carcere di massima sicurezza per entità non umane, ma non c’è niente di strano. Risalendo il fiume, Okikirmui si allontana dal livello umano per addentrarsi in un livello divino: chi sale verso la sorgente di un fiume, nei monti, va verso l’area dei kamui, mentre i kamui che vogliono incontrare gli ainu e interagire con loro camminano in direzione opposta, dalla sorgente verso la foce21. In una circostanza simile, imbattersi in un kamui è una possibilità da mettere in conto.

Qualcosa di analogo accade anche al nostro ainu pescatore. Nel suo caso, ovviamente, il mondo abitato dai kamui non si incontra risalendo verso la sorgente, ma spingendosi verso il mare aperto: più ci si allontana dalla riva e più ci si allontana dal mondo umano. Tanto la caccia in montagna quanto la pesca in mare aperto sono attività che spingono l’uomo verso il piano dove risiedono gli spiriti o le divinità, a seconda dei punti di vista. Questo rende sacre le due attività, a modo loro, e regolate da codici ben precisi, norme di condotta da rispettare e tabù di vario tipo, per evitare guai. Cacciare o pescare, prima ancora che un lavoro con cui procurarsi cibo, sono esperienze mistiche, una ricerca del divino o del sacro, volontariamente o meno. Ogni volta che il contatto si verificava e una preda era catturata, era poi richiesto un rito particolare per congedare pacificamente lo spirito dell’animale ed evitare problemi, fossero castighi o contaminazioni.

Nel corso di una di queste esperienze mistiche sui generis, un pescatore è spedito fuori rotta dalle correnti e finisce catapultato sull’isola di un Signore degli animali. Come ritroviamo presso molte altre popolazioni di cacciatori, un contatto diretto con la Signora degli animali o col Signore degli animali, a seconda dei casi, è un avvenimento che lascia sempre un segno profondo sul cacciatore. Le conseguenze sono spesso fatali, se l’umano non sa o non può mantenere la debita distanza tra sé e la divinità che ha davanti: pensiamo solo ad Atteone, che ha la sventura di imbattersi in Artemide, la pòtnia theròn, durante una battuta di caccia, almeno nelle versioni più recenti e note del mito, e paga questa esperienza finendo sbranato dai suoi stessi cani. Nel mondo caucasico, in particolare in Georgia, le disavventure dei cacciatori che incontrano Dali, la Signora degli animali locale, compongono un filone molto popolare di canti più o meno tragici.

Nella storia del nostro ainu non ci sono amori e gelosie a complicare le cose, ma si tratta pur sempre di un incontro ravvicinato con un Signore degli animali, ossia Cepkor Kamui, il padrone dei salmoni. Come se non bastasse, l’incontro si svolge proprio sul territorio del Signore, ossia al di fuori del mondo umano: non è stato il kamui a scendere tra gli ainu, ma l’ainu a salire tra i kamui. Il risultato è duplice, come già abbiamo segnalato: da una parte, l’ainu stipula una sorta di contratto personale con il Signore degli animali, in base al quale l’umano si impegna a venerare Cepkor Kamui offrendogli sia i tipici doni richiesti da tutti i kamui, ossia sake e inau, sia una preghiera di ringraziamento accompagnata da una libagione; dall’altra parte, l’aver superato il confine che separa i due mondi gli costa un anno, scivolato via nello spazio di un giorno.

Esiste una penale per la violazione del contratto: se l’ainu non continuerà a offrire doni e preghiere, sarà condannato alla povertà. Visto che il personaggio è un pescatore e il kamui di riferimento è il Signore dei pesci, possiamo ragionevolmente pensare che l’ainu diventerà povero perché Cepkor Kamui smetterà di concedergli i pesci: negare le prede è quello che fa di solito il Signore degli animali, quando è contrariato, ed è quanto fa Cepkor Kamui stesso nel settimo yukar contenuto nello Ainu Shin’yōshu di Chiri Yukie. Siccome i salmoni non ricevevano il dovuto rispetto, il loro Signore smise di mandarli agli ainu; nel caso del racconto di Chamberlain, possiamo dunque ipotizzare che la povertà dell’ainu sarà causata da una punizione di questo tipo nei suoi confronti, se non farà quanto richiesto dal kamui.

Il discorso si fa più complesso per quanto riguarda la differenza tra tempo soggettivo e oggettivo. È vero, nello spazio di un solo giorno il nostro ainu ha perso un intero anno della sua vita normale; come abbiamo già detto, episodi simili sono molto frequenti e spesso presentano anche intervalli di tempo identici o quasi. Sulle isole britanniche, ti fermi a ballare col popolo fatato e un anno se ne va nello spazio di una danza; in Armenia, una ragazza esce di casa per andare a procurarsi il fuoco, ma sbaglia porta ed entra in un luogo misterioso, dal quale uscirà il mattino dopo, scoprendo di esservi rimasta in realtà per un anno22. Se i danzatori britannici perdevano tempo (letteralmente) incontrando il popolo fatato, la ragazza armena incontra invece Mher, un semidio del folklore locale, entrando per sbaglio nella sua prigione dentro la roccia23. Per chi danza con le fate, la conseguenza è spesso la morte, non appena torna al tempo normale; per la ragazza armena non ci sono effetti negativi, come non ci sono per il nostro ainu. L’intervallo di tempo smarrito è un anno per tutti, ma le conseguenze sono molto diverse. Perché?

Abbiamo visto altrove che è possibile rimanere fuori dal tempo anche per un periodo molto lungo, secoli e secoli di tempo oggettivo. In questi casi la conseguenza è normalmente la morte immediata o quasi, quando si spezza il legame con l’altro mondo e il tempo normale raggiunge il protagonista della storia: succede così a Urashima, nella maggior parte delle versioni. Quando l’intervallo è più breve, di solito un anno, la morte sembra arrivare soltanto quando ci si intrattiene in compagnia di figure soprannaturali non ben disposte nei tuoi confronti, come i folletti britannici. Quando la figura soprannaturale è ben disposta o almeno neutrale, come è il caso di Cepkor Kamui o di Mher nella storia armena, di solito te la cavi senza danni, anche se la tua escursione in un mondo non umano avrà comunque lasciato un qualche segno su di te, come il patto personale che l’ainu ha stipulato col Signore degli animali. O che il Signore degli animali gli ha imposto, se preferiamo, ma il risultato finale è sempre quello: Cepkor Kamui lo ha marchiato, come conseguenza del loro incontro. E la ragione dello scarto temporale, in ultima analisi, può essere ricondotta proprio a questo: al passaggio da un mondo all’altro, da un tipo di tempo all’altro.

L’incontro diretto con una entità sovrannaturale, divina o meno che sia, comporta inevitabilmente un profondo cambiamento nel tempo. Se la tua vita quotidiana si svolge nel tempo ordinario, la ierofania avviene nel tempo sacro, che irrompe nel tempo “profano” e lo mette da parte. Quando il nostro ainu arriva sulla terra di Cepkor Kamui, arriva in un luogo su cui domina un tempo diverso, il tempo immutabile che è proprio del rito, che è sempre un tempo primordiale, è sempre il tempo delle origini, l’eterno presente che regnava in illo tempore e che possiamo sfiorare di nuovo soltanto nel corso di un rito, oppure quando il sacro si schiude di colpo davanti a noi, ammesso che vi sia una reale differenza tra le due situazioni.

Quando il pescatore ainu ritorna al mondo profano, al mondo quotidiano, abbandona anche il tempo sacro, ma non ritorna nel punto esatto da cui era partito, perché il tempo profano è andato oltre, seguendo il ritmo della vita normale, che è diverso e apparentemente molto più rapido del tempo sacro. Se il tempo del rito è quasi un eterno presente, un adesso senza fine, il tempo della vita quotidiana ha un passo molto più veloce: per questo il nostro ainu si ritrova scaraventato di un anno nel futuro, quando ritorna a casa. Per questo tutti i personaggi che hanno vissuto per un poco in un mondo soprannaturale, in un tempo sacro, al loro ritorno a casa si ritrovano in un mondo che è andato avanti e non è più il loro. E chi si ferma troppo, o si ferma con la compagnia sbagliata, una volta tornato a casa potrà solo trovare la morte, perché non gli è più possibile farsi accettare dal mondo e integrarsi nella vita profana.

Il nostro ainu si è fermato per un giorno soltanto ed era in compagnia di una divinità benevola, in linea di massima. Avere perso un anno non gli ha causato problemi e la sua vita potrà continuare tranquilla, finché si ricorderà di venerare il Signore degli animali con offerte e preghiere. Quando se ne dimenticherà, allora scoprirà anche lui che i contatti troppo ravvicinati con gli esseri soprannaturali non sono qualcosa da sottovalutare o da affrontare alla leggera. Il prezzo da pagare arriva sempre e non è mai a buon mercato. I Signori degli animali non fanno sconti a chi manca loro di rispetto, che il reato di lesa maestà sia volontario o meno.

Giusto per completare il discorso sul Signore dei pesci, è doveroso specificare che quanto detto ha valore solo per gli ainu dello Hokkaidō. Gli ainu di Sachalin, una comunità che ha occupato la parte meridionale di quell’isola fino al 1945, avevano anche loro un Signore dei pesci, ma era un poco diverso da Cepkor Kamui. Tanto per cominciare, si chiamava Cepehte Kamuy, una prima differenza che può essere addebitata al dialetto che parlavano loro, ma non è certo addebitabile al dialetto il fatto che fosse considerato il produttore di tutti i pesci e le risorse marine in generale, non soltanto dei salmoni. Era inoltre immaginato con l’aspetto di una foca, che non è certo un pesce, ma era una delle principali fonti di sostentamento per gli ainu di Sachalin. Cepehte Kamuy, inoltre, si offendeva anche quando qualcuno gettava in mare oggetti impuri, come il teschio di un cane o un serpente. Quando si verificavano incidenti di questo tipo, il Signore dei pesci chiudeva le porte e gli ainu rimanevano a secco, almeno fino a che non avessero provveduto a pacificarlo con gli appositi rituali.

Tutto ciò non ha direttamente a che fare col discorso su Cepkor Kamui, ma ci mostra che anche gli ainu di altre zone seguivano in linea di massima la stessa idea dei loro colleghi dello Hokkaidō. C’è una divinità che controlla i pesci e può concederli o negarli, a seconda di come gli ainu si comportano. Finché mostrano rispetto e praticano correttamente i rituali, la pesca non mancherà. Quando però sgarrano in qualcosa... beh, sarà meglio trovare il modo di farsi perdonare, se si vorrà mettere di nuovo qualcosa in tavola.

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NOTE

1 - Potete trovarlo scritto anche come Chep-kor Kamui, ma è sempre lo stesso personaggio.
2 - La parola ainu significa letteralmente “persona”, tipicamente uomo: mat-ainu è invece un modo per indicare una donna e letteralmente significa “ainu femmina”. In traduzione, ho chiamato il protagonista “ainu”, rispettando la scelta fatta da Chamberlain in inglese, ma si poteva benissimo scrivere “una persona” o “un uomo”, che in fondo era il modo in cui il narratore ainu della storia, un certo Ishanashte, si riferiva al suo protagonista.
3 - Nel testo inglese non compare il termine inau, ma si parla di “divine symbols”. Anche se non disponiamo del testo originale in lingua ainu, non è difficile capire che si parla degli inau, bastoni intagliati in modo particolare, che gli ainu utilizzavano in quasi tutti i rituali, specialmente in quelli che accompagnavano l’uccisione di un animale. In particolare, offrire inau e sake come ringraziamento alle prede di una buona battuta di caccia o pesca era la norma; non farlo era considerata una grave offesa e poteva essere punita dai “numi” con la sfortuna nella caccia, o peggio.
4 - Basil H. Chambberlain, Aino Folk-Tales, Privately Printed, 1888. La storia è la numero XXXIV, “The Worship of the Salmon, the Divine Fish”, raccontata dall’ainu Ishanashte il 17 luglio 1886. La traduzione è mia.
5 - Grossomodo. Ha un campo semantico simile a quello del giapponese kami, con cui è sicuramente imparentato, specie se pensiamo che la forma più antica della parola kami è kamu: può indicare una divinità antropomorfa, come quelle che popolano le mitologie di altri paesi, ma può anche essere una qualunque altra componente del mondo. Kamui può essere un vegetale, un animale, un fenomeno atmosferico, il fuoco e così via: una cosa qualunque, insomma, purché percepita come ierofania o cratofania. Aggiungiamo poi che la grafia standard utilizzata oggi è kamuy, anche se kamui continua a essere popolare anche per ragioni storiche, proprio come ainu è tuttora preferito al più ufficiale aynu.
6 - Gli yukar sono canti tradizionali degli ainu. Di solito presentano una storia raccontata in prima persona da un narratore anonimo, che scopriremo strada facendo essere un kamui, oppure un grande eroe culturale, o anche un qualche altro personaggio più o meno eroico, a seconda del tipo di canto in questione.
7 - Okikirmui, detto anche Okikurumi, è uno dei grandi eroi culturali degli ainu: alcune storie lo fanno coincidere con Minamoto no Yoshitsune, che sarebbe fuggito a Ezo per mettersi in salvo, ma questo è un altro discorso e qui non ci interessa. La parola pon significa “piccolo” ed è spesso usata per indicare il cucciolo di qualcosa. Possiamo dunque interpretarlo come Okikirmui da piccolo, oppure come il figlio di Okikirmui.
8 - Questo sake non ha alcuna relazione con la più nota bevanda alcolica giapponese, menzionata altrove: sono solo due parole che oggi si pronunciano allo stesso modo, anche se si scrivono in modo diverso. Succede.
9 - Tipicamente chiamato kamui mosir, dove mosir può anche essere scritto moshir o moshiri.
10 - Lo ainu mosir, che corrispondeva grossomodo alle isole occupate dagli ainu: Ezo e dintorni. Stiamo parlando della loro cosmologia, dopotutto.
11 - Anche letteralmente. Pase kamui è il modo in cui sono indicati i kamui più importanti, e la parola pase significa appunto “pesante”. Per gli ainu, l’importanza è espressa come una qualità fisica, da un certo punto di vista: è il peso, anche se in un senso più figurato che fisico.
12 - Mi riferisco qui allo yukar dal titolo “Kamuicikap Kamui yaieyukar”, contenuto nella già citata raccolta a cura di Chiri Yukie. È un canto di cui parleremo più avanti, perché proprio in esso sono istituiti i rituali della caccia.
13 - Chiamato sakehe, questo ritornello è composto da una o più parole, spesso onomatopeiche, che accompagnano e ritmano il canto. Possono suggerire un suono tipico prodotto dal narratore, come l’ululato di un lupo, il rombo del tuono o il passo con cui si muove un animale, oppure qualche altra caratteristica che dovrebbe rendere riconoscibile il narratore della storia, o almeno fornire un suggerimento agli ascoltatori. Di solito è indicato solo all’inizio delle traduzioni ed escluso dal proseguimento, per non appesantire troppo il testo.
14 - Altro termine per descrivere l’operazione è wakkake, attestato nel vocabolario compilato da Batchelor. In entrambi i casi, il significato è lo stesso: raccogliere acqua con un mestolo.
15 - La cerimonia solenne celebrata in un villaggio, il cui “protagonista” era un orso catturato da cucciolo e allevato appositamente dagli ainu del luogo per due o tre anni. Iyomante significa letteralmente “far andare”: oman è il verbo “andare”, il suffisso te lo rende causativo, mentre il prefisso i ha valore rafforzativo e la successiva y è eufonica.
16 - Cerimonia per un orso ucciso durante una battuta di caccia; spesso si svolgeva in un capanno da caccia o luoghi simili, a seconda di cosa fosse disponibile nelle vicinanze, e la possiamo considerare grossomodo come una sorta di iyomante su scala molto ridotta e semplificata.
17 - Cikap significa uccello. Kamuicikap Kamui sarebbe dunque il divino uccello divino.
18 - Apparentemente, questo sistema era ancora in uso nella prima parte del Novecento. Il legno raccomandato era quello di salice, per gli ainu un albero sacro.
19 - Il sostantivo ni significa prima di tutto “albero”, ma per estensione si usa anche per indicare il legno in generale.
20 - Seguendo la particolare concezione ainu della caccia, sono gli animali a scegliere il cacciatore da cui farsi uccidere, per potergli donare la carne e la pelliccia; in cambio, il cacciatore li ringrazierà per il dono generoso e ricambierà offrendo loro sake e inau, o variazioni sul tema.
21 - Interessante a questo proposito è l’esistenza nella lingua ainu di un verbo specifico per indicare l’azione di discendere un fiume verso la sua foce e il mare, ossia il verbo san, che è diverso dal verbo usato per descrivere discese di altro tipo.
22 - “Histoire de la jeune fille qui vit Mher” in Dicran Tchitouny, Sassounacan. Épopée populaire arménienne, Parigi, 1942, § 888, pp. 1093-1094.
23 - Mher era un gigante dalla forza smisurata, reso immortale da una maledizione e imprigionato nel sottosuolo perché la sua potenza non distruggesse il mondo. Come per altri eroi o semidei del Caucaso e dintorni, la prigione di Mher si apriva periodicamente per lo spazio di una notte, quando le stelle erano nella posizione giusta; la ragazza della storia ha avuto la sfortuna di trovare la porta aperta (la Porta di Mher, come è nota nella zona) ed entrare senza saperlo, attirata dalla luce emanata dal gigante immortale. Vi sarebbe poi rimasta rinchiusa per un anno, fino alla successiva apertura, ma senza accorgersi dello scorrere del tempo.