Adriano - racconti e altro

Urashima Taro e la Signora degli animali

La storia di Urashima Tarō è la più famosa versione giapponese di un tipo di racconto ricorrente in svariate culture, tanto in Eurasia quanto in America: l’avventura di un personaggio che, per una qualche ragione, finisce in un altro mondo, vi resta a vivere per un breve periodo e poi torna alla sua realtà quotidiana. Con una sorpresa, di solito spiacevole: è trascorso molto più tempo di quanto lui si fosse aspettato. Quello che era sembrato un breve intervallo nell’altro mondo, a volte anche solo una manciata di giorni o di ore, corrisponde a molti anni, a volte anche secoli nel mondo normale. Il personaggio, tornato in cerca della sua casa, scopre che quella casa non esiste più, cancellata dal trascorrere degli anni, assieme a tutto ciò che conosceva. Spesso morirà a breve anche lui, non appena il tempo lo avrà raggiunto, trasformandolo in un vecchio decrepito.

Troviamo versioni di questa storia raccontate tra culture di ogni tipo: in Irlanda come in Russia, in Romania come tra gli indiani Seneca nello stato di New York, in Giappone e in Cornovaglia, e così via. Lo scorrere del tempo e la possibilità di uscirne, anche solo per un breve periodo, sono un tema che apparentemente affascina ogni cultura e ogni cultura lo affronta a modo proprio, raccontando storie per esaminare cosa può accadere. Sono anche storie che parlano della morte, perché il mondo in cui il protagonista si reca è sempre un altro mondo, un mondo diverso da quello ordinario, e l’altro mondo per eccellenza è il regno dei morti, l’Aldilà. A volte questa connessione è resa esplicita, a volte è lasciata sottintesa, ma è sempre presente nel racconto. Nel caso di Urashima Tarō, dipende dalla versione.

Non che la sua vicenda sia solo incentrata sul tempo. Se questo è forse l’aspetto che più colpisce e cattura l’attenzione, vi è anche il rapporto di Urashima con una misteriosa donna magica a esigere spazio in qualunque tipo di analisi. È una storia stratificata, in effetti, in cui si attorcigliano più motivi molto comuni nel folklore di tutto il mondo, che qui vengono a formare un gomitolo di notevole interesse. Ritrovare il bandolo della matassa è difficile, forse anche impossibile per una storia che in Giappone esiste in forma scritta da quando esiste la scrittura. Per quanto tempo è stata raccontata, prima di allora? Non lo sappiamo, così come non sappiamo di preciso il viaggio che l’ha condotta in Giappone, né i luoghi che ha attraversato, accumulando nuovo materiale. Quello che possiamo fare è scegliere arbitrariamente un punto di partenza e poi metterci in viaggio. Potrebbe anche uscirne una esperienza interessante.

La trama di base si può riassumere facilmente. Urashima Tarō è un pescatore. Un giorno salva una tartaruga, che per riconoscenza lo invita in un palazzo magico sottomarino. Urashima Tarō accetta l’invito e trascorre un certo periodo in questo luogo misterioso, divertendosi assieme alla principessa1 e alle sue ancelle. A un certo punto chiede di poter tornare in superficie, per rivedere la propria casa: la principessa glielo concede, ma gli consegna anche una scatola misteriosa2, da non aprire. Tornato sulla terraferma, Urashima Tarō scopre che tutto ciò che conosceva è svanito: la sua casa, la sua famiglia, persino il suo villaggio è completamente diverso. Perché? Perché sono passati alcuni secoli da quando se n’era andato con la tartaruga. Disperato, Urashima Tarō apre la scatola, da cui esce una nuvola di fumo bianco3, che lo avvolge e lo trasforma in un vecchio. Morirà poco dopo.

Questo è il tema di base, che rappresenta la fiaba come è nota oggi. Ne esistono poi innumerevoli variazioni, ma tutte possono essere ricondotte al breve riassunto che ho presentato qui sopra, così come esistono innumerevoli varianti della storia di Cenerentola, ma tutte attraversano le stesse tappe e sono riconoscibili senza la minima difficoltà. Quella di Urashima Tarō è una storia che esiste in Giappone già da molti secoli, dopotutto, ed è normale che se ne possano trovare varianti a non finire. Ma quanto antica è di preciso questa storia? Difficile dirlo: tutto ciò che possiamo affermare con certezza è che ne esistono tre versioni diverse trascritte nell’ottavo secolo. Siccome i più antichi testi giapponesi rimasti risalgono appunto all’ottavo secolo, possiamo ipotizzare che la storia di Urashima Tarō circolasse già da tempo in forma orale e sia stata trascritta soltanto in quel periodo, assieme a tanti altri documenti. Di certezze, però, non ne possiamo avere.

Il primo riferimento scritto che possediamo a proposito di questa vicenda compare nel Nihonshoki, un testo grossomodo storico pubblicato nel 720, nonché uno dei più antichi testi giapponesi. Se i primi due libri di questa opera sono interamente mitologici, il resto è presentato come una cronaca via via più realistica degli eventi storici che hanno portato alla formazione dell’impero giapponese. Una certa dose di soprannaturale non manca mai del tutto: uno di questi esempi è proprio la prima attestazione della vicenda di Urashima Tarō.

Parlando del regno dell’imperatore Yūryaku, il Nihonshoki ci racconta una vicenda curiosa. Un uomo di Tsutsukawa nel distretto di Yosa nella provincia di Tamba, figlio di Urashima di Mizunoe, andò un giorno a pescare in barca e catturò una grande tartaruga, che si trasformò in una donna. L’uomo si innamorò subito di lei e decise di prenderla in moglie. Si immersero assieme nel mare e raggiunsero il monte Hōrai. Questo sarebbe avvenuto durante il ventiduesimo anno di regno, che corrisponderebbe al 478 d.C. secondo la cronologia piuttosto sbarazzina usata nel Nihonshoki.

Come possiamo vedere, non c’è una descrizione completa degli eventi, ma solo un rapido riferimento per collocare nel tempo questo episodio. Possiamo anche vedere che in questa prima versione il protagonista era il figlio di Urashima, mentre il luogo in cui si reca è il leggendario monte Hōrai, un non-luogo che appartiene alla tradizione taoista ed è collegato al piano di esistenza degli immortali. Si trova anche in fondo al mare, qui, ma ne parleremo più avanti. Al monte Hōrai, peraltro, in questo passo del Nihonshoki è assegnata come lettura “Tokoyo no Kuni”, che significa “Paese Eterno”: anche di questo non-luogo parleremo in seguito.

La seconda testimonianza scritta sulla vicenda di Urashima Tarō compare in un altro testo dell’ottavo secolo: il Man’yōshū, la prima raccolta di poesie giapponesi, compilata nel 7594. Una di queste poesie (numero 1740-1, volume IX) è proprio la storia di Urashima, in una versione lirizzata attribuita al poeta Takahashi no Mushimaro. Il luogo in cui si svolge è sempre lo stesso, il nome del protagonista quasi, la vicenda è un poco diversa, ma i cambiamenti potrebbero essere dovuti solo al desiderio di rendere più poetica e romantica la storia.

La poesia ci racconta infatti che Urashima di Mizunoe, molto tempo fa, andò a pescare in mare e ottenne buoni risultati. Fiero dell’ottima pesca già ottenuta, non tornò a riva, ma si spinse sempre più in là, rimanendo lontano da casa per sette giorni e remando fino a superare i confini del mare, dove gli capitò di incontrare la figlia del Re del Mare in persona. Chiacchierarono, si innamorarono e infine partirono mano nella mano per il Paese Eterno5.

Abitavano nel palazzo del Re del Mare e lì avrebbero potuto continuare a vivere per sempre, senza mai invecchiare, senza morire, fino alla fine dei tempi, se solo Urashima non fosse stato così stupido. Un giorno, infatti, chiese alla moglie di lasciarlo tornare indietro per un poco, giusto il tempo di passare da casa e salutare i genitori: sarebbe tornato il giorno dopo. La donna accettò e gli consegnò una scatoletta, raccomandandogli di non aprirla: gli sarebbe servita per tornare indietro da lei, ma solo se l’avesse tenuta chiusa. Era un punto fondamentale. È dunque ovvio che il nostro eroe avrebbe prima o poi aperto la scatola, ma così è la vita, o almeno la narrativa.

Urashima arrivò sulla spiaggia di Suminoe e cercò la sua casa, ma senza trovarla: era sparito tutto, anche la più piccola traccia della sua esistenza. Come era possibile? Urashima non riusciva a capirlo: erano trascorsi solo tre anni, dopotutto. Non sapendo cosa altro fare, decise di aprire la scatola, pensando che gli avrebbe permesso di ritrovare la casa. Ovviamente non accadde. Dalla scatola uscì una nuvoletta bianca, che volò via verso il Paese Eterno. Urashima la inseguì invano, poi crollò a terra svenuto: la sua pelle si coprì di rughe, i suoi capelli divennero bianchi, il respiro si fece più affannoso e alla fine morì. Aveva la possibilità di vivere in eterno assieme alla moglie, ma se l’è lasciata sfuggire per un suo errore, unito alla nostalgia di casa.

La terza versione della storia di Urashima Tarō prodotta nell’ottavo secolo è contenuta nel Tango fudoki, un testo che forse è più antico del Nihonshoki. O forse no. L’ordine di compilare i fudoki era partito dalla corte imperiale di Yamato nel 713, cioè sette anni prima che il Nihonshoki fosse completato: ogni provincia dell’impero giapponese ne doveva produrre uno, un testo in cui era descritto il territorio, erano elencate le risorse, le infrastrutture e più o meno tutto ciò che poteva tornare utile all’imperatore. Fra le informazioni da includere nei fudoki c’erano anche le tradizioni del posto, l’origine dei nomi e tutto quello che oggi catalogheremmo come folklore locale.

Sappiamo che lo Izumo fudoki è stato completato nel 732, perché ne abbiamo il testo integrale, con tanto di firma del governatore della provincia. Quando siano stati completati i testi delle altre province, però, è molto dubbio, soprattutto perché sono sopravvissuti soltanto cinque fudoki e di questi cinque soltanto uno ci è arrivato intero: lo Izumo fudoki, per l’appunto, mentre per gli altri quattro possediamo un testo con lacune. Esclusi questi cinque, degli altri sono sono sopravvissuti solo come frammenti citati in altre opere. Il Tango fudoki è uno dei tanti di cui sopravvivono solo poche citazioni: uno di questi frammenti, però, è la storia del nostro Urashima, conservata nello Shaku Nihongi (volume XII). Eccone un riassunto.

Si racconta che un tempo, nella località di Tsutsukawa, vivesse un uomo di bell’aspetto e molto elegante, il cui nome era Shimako6, detto anche Mizunoe no Ura no Shimako. Secondo la storia che fu registrata da un vecchio governatore della provincia, cioè Iyobe no Umakai no Muraji7, un giorno Shimako andò a pescare da solo su una piccola barca. Per tre giorni e tre notti non pescò alcunché, a parte una tartaruga di cinque colori8. Sorpreso dalla strana pesca, Shimako raccolse la tartaruga e la mise in barca. Un attimo dopo, l’animale si trasformò in una donna bellissima.

Dopo avere civettato un poco, Shimako capì che la donna doveva essere la figlia di un dio, così decise di fidarsi di lei e accompagnarla verso la montagna dell’immortalità. Quando si svegliò da un sonno magico in cui la donna lo aveva fatto cadere, Shimako si trovò davanti a una grande isola che sembrava coperta di gemme. Sbarcarono e camminarono fino a raggiungere il cancello di una grande villa, dove incontrarono due gruppi di bambini: il primo, composto da sette, gli fu presentato come le Pleiadi, mentre il secondo gruppo, composto da otto, erano le Iadi. La donna si presentò invece come Kamehime9.

Entrati nella villa, i due incontrarono i genitori di Kamehime, la sua servitù, il resto della famiglia e parlarono di varie cose. Alla fine Shimako e la donna divennero marito e moglie, l’uomo dimenticò il proprio mondo di origine e trascorse tre anni godendosela come un matto in quel luogo incantato. Poi cominciò a provare nostalgia per la sua terra lontana, si depresse sempre di più e alla fine pregò Kamehime di lasciarlo tornare a casa per un poco, giusto il tempo di rivedere i genitori, salutarli, cose così. Ci fu un poco di dramma e lacrime da entrambe le parti, ma alla fine la donna lo lasciò partire, non prima di avergli consegnato una scatoletta con la raccomandazione di tenerla sempre chiusa, se voleva riuscire a tornare indietro da lei sull’isola degli immortali.

Shimako rimase addormentato durante tutto il viaggio di ritorno, proprio come era già accaduto all’andata. Arrivato al suo villaggio, si guardò attorno e vide che era tutto diverso, nessuno lo riconosceva e non c’era più traccia della sua casa o della sua famiglia. Chiedendo in giro, scoprì che solo un vecchio si ricordava vagamente di un certo Mizunoe no Ura no Shimako, ma lo conosceva solo come una storia che i suoi nonni gli avevano raccontato: la storia di un pescatore che un giorno aveva preso il largo e non era mai più tornato. Una storia di tre secoli prima.

Per un mese Shimako rimase nel villaggio a cercare, incapace di accettare quanto era accaduto. Fu tutto inutile. Alla fine si ricordò della scatola che Kamehime gli aveva consegnato, ma non si ricordò delle raccomandazioni: l’aprì d’impulso e una nuvola bianca ne uscì, volando via nel cielo. Dopo lacrime e qualche poesia, Shimako capì di avere ormai perso tutto e così si concluse la sua vicenda: aveva avuto l’immortalità a portata di mano, ma se l’era lasciata scappare.

Queste sono le tre versioni più antiche della storia a cui possiamo assegnare una data10, anche se in un caso è solo approssimativa. Il semplice fatto che nell’ottavo secolo ne troviamo ben tre versioni in tre testi differenti ci suggerisce che all’epoca fosse un racconto molto famoso e diffuso in Giappone, e forse anche prima: quasi di sicuro ne esistevano molte altre versioni tramandate oralmente e ormai perse per sempre. Nelle epoche successive le versioni sono aumentate sempre di più ed elencarle tutte non avrebbe senso, oltre a essere fin troppo noioso. Accenneremo solo che le versioni successive presentano a volte un taglio particolare nella narrazione, per accentuare le caratteristiche che più servono a seconda degli obiettivi del narratore, che potevano andare dalla propaganda religiosa al puro intrattenimento.

Più interessante è semmai il luogo in cui Urashima Tarō si reca e trascorre un certo periodo al di fuori del tempo normale. Se nelle versioni più antiche è di solito una terra eterna di un qualche tipo, in particolare il monte Hōrai tanto caro ai taoisti, nelle versioni più recenti è spesso sostituito dal palazzo sottomarino del Re Drago11, probabilmente perché suona più affascinante e più adatto a una fiaba. Anche in questo caso, cambiano il nome e in parte la forma, ma non la sostanza. Si tratta sempre di un non-luogo che esiste all’esterno del normale scorrere del tempo, in una dimensione che è “altra” rispetto al mondo quotidiano. Che sia una terra al di sotto delle onde, oppure oltre il limite dell’orizzonte, il paese raggiunto da Urashima Tarō è sempre qualcosa che non appartiene al nostro mondo e non segue dunque le sue regole. È un luogo dove puoi entrare se sei invitato, ma da cui è pericoloso uscire, anche quando i suoi signori te ne concedono il permesso.

Sempre che in realtà questo permesso di partire non sia un velato modo per scacciarti, come è lecito sospettare alla luce degli sviluppi e del particolare dono di addio che la principessa consegna a Urashima. Di questo parleremo poi.

Più nello specifico, il monte Hōrai è una delle tre isole degli immortali che troviamo nella tradizione taoistica cinese, importata in seguito anche in Giappone. I cinesi le collocavano in un luogo nel mare orientale, per ovvie ragioni geografiche, ma non avevano una posizione precisa, non più di quanto avessero una posizione precisa le Isole dei Beati della mitologia greca. Erano solo isole perfette, felici, una sorta di paradiso dotato di tutto ciò che mancava sulla Terra, a cominciare dalla vita eterna e dall’eterna felicità. Le isole degli immortali cinesi ospitavano anche la fontana della vita, una sorgente inesauribile la cui acqua garantiva gioventù e vigore a chiunque ne bevesse. Vi si potevano trovare anche alberi sacri, come il pino, il prugno e soprattutto il pesco, che in Cina è l’albero della vita per eccellenza, i cui frutti garantiscono l’immortalità o almeno prolungano la tua vita e la tua giovinezza di svariati secoli secoli ogni volta che ne mangi uno.

Tokoyo no Kuni12 era un altro paese della felicità e della vita eterna, da qualche parte nel mare13. È un mondo immutabile, dove tutto dura per sempre e rappresenta dunque l’opposto del nostro mondo, dove ogni cosa è impermanente, cambia di continuo ed è pian piano consumata dal tempo. Una terra ideale e utopica, insomma, sottratta a tutto ciò che è divenire e sofferenza: se non proprio una rappresentazione della mitica età dell’oro, che noi abbiamo perso ma che ancora esiste da qualche parte, Tokoyo no Kuni è un posto simile a sufficienza da poterne fare le veci.

Lo troviamo citato già nel Kojiki, completato nell’anno 712, dove è indicato come il paese verso cui si dirige il piccolo dio Sukuna Hikona dopo aver finito di aiutare Ōkuninushi a completare e consolidare il Giappone. Assieme a tutte le altre benedizioni, è descritto anche come un paese dell’abbondanza e nello Hitachi fudoki un funzionario troppo entusiasta scrisse che i campi del suo distretto erano così ricchi e fertili da farti credere di essere a Tokoyo no Kuni; il suo superiore lo corresse qualche riga dopo, dicendo che non erano poi così fertili: c’era il rischio che la corte imperiale potesse decidere di aumentare le loro tasse, a leggere certe affermazioni. In un frammento dello Ise fudoki, poi, si afferma che la provincia di Ise era bagnata dalle onde provenienti da Tokoyo no Kuni, a conferma del legame che questo luogo mitico ha con il mare.

Una posizione più specifica la possedeva il Ryūgū, il palazzo del Re Drago che diventerà la meta di Urashima Tarō nelle versioni più recenti della storia: non è un’isola, ma è una reggia collocata sul fondo del mare, anche se rimane un mistero quale sia il fondale marino dove la si può trovare. Per il resto, condivide in linea di massima le stesse caratteristiche delle altre due località incantate: esiste al di fuori del tempo normale, è un luogo di abbondanza e beatitudine (anche se su un piano meno spirituale), più un paradiso terrestre che un luogo concreto. Come gli altri due, si trova da qualche parte là fuori, appena al di là del confine del mondo umano.

Il Ryūgū, però, non è sempre e necessariamente immaginato come una località subacquea. Come si può vedere anche nel Tōno monogatari di Yanagita Kunio, questo luogo sembra essere collegato al regno dei morti nell’immaginario popolare giapponese ed è descritto anche come un palazzo eretto sulla terraferma, spesso al di là di un fiume, e ha una certa abitudine a comparire nelle presunte visioni di persone che si sono trovate sospese tra la vita e la morte, o almeno che hanno immaginato di rischiare la morte e hanno parlato col folklorista giapponese. Giusto a sottolineare ulteriormente il collegamento che esiste tra i posti visitati da Urashima e l’Aldilà, nel caso ce ne fosse bisogno.

Tutti e tre questi luoghi incantati ci mostrano che nella visione del mondo giapponese esisteva una dimensione orizzontale accanto alla più classica dimensione verticale. Se il cosmo si può dividere in tre livelli sistemati l’uno sopra l’altro, ossia in un mondo celeste (Takamagahara14), un mondo umano (Ashihara no Nakatsukuni15) e un mondo infero (Yomi no Kuni16), è altrettanto vero che possiamo trovare una seconda suddivisione, questa volta sullo stesso livello: l’uno accanto all’altro, ma separati in un qualche modo, coesistono un mondo normale e un mondo incantato. Il mondo normale corrisponde alla vita di tutti i giorni, mentre il mondo incantato è una dimensione distinta ma non inaccessibile, dove esiste tutto ciò che esce dalla quotidianità e si confonde col sacro.

Curiosamente ma non troppo, la divisione orizzontale sembra essere più diffusa sulle isole, mentre la divisione verticale è padrona quasi incontrastata delle grandi masse di terra, in particolare le steppe sconfinate dell’Asia, ma anche le grandi pianure americane. Nelle isole del Pacifico il regno dei morti tende a essere proiettato verso occidente, dove tramonta il sole, in una fantomatica isola oltre l’orizzonte: non nel sottosuolo, ma sullo stesso piano del mondo umano, da cui è separato solo dalla distanza e da una qualche difficoltà ad accedervi. Come il monte Hōrai, insomma, o come Tokoyo no Kuni, o anche come il Ryūgū, dove la principale difficoltà è immergersi nell’acqua.

La distinzione tra questi tre luoghi non è sempre chiara e non possiamo certo aspettarci che sia rispettata rigidamente in ogni storia. Anche solo limitandoci alle tre versioni più antiche di questo racconto, che abbiamo preso in esame poco fa, possiamo vedere che il Tango fudoki ci parla di una montagna dell’immortalità, che dovrebbe dunque coincidere col monte Hōrai e in ogni caso si trova sopra il mare, presumibilmente, dato che non ci sono accenni a viaggi subacquei; il Nihonshoki ci conferma che è il monte Hōrai, ma per raggiungerlo bisogna immergersi nel mare; il Man’yōshū, infine, parla contemporaneamente di Paese Eterno e di Palazzo del Re del Mare, ossia di Tokoyo no Kuni e di Ryūgū, ma non specifica se sia sopra o sotto il mare.

Per complicare ulteriormente le cose, esiste un’altra storia che nel corso dei secoli ha dato origine a una versione simile ma non identica della fiaba di Urashima Tarō: è la storia dei due principi Hoderi e Howori17, figli di Ninigi18, raccontata ala fine del primo libro del Kojiki e alla fine del secondo libro del Nihonshoki, con alcune variazioni che per il nostro discorso sono irrilevanti.

Il fratello maggiore Hoderi è un pescatore, mentre il fratello minore Howori è un cacciatore. Entrambi possiedono uno strumento speciale che sembra garantire loro successo e abbondanza nell’attività a cui si dedicano: un amo di metallo per Hoderi, arco e frecce per Howori. Un giorno il fratello minore propone al fratello maggiore di scambiarsi per una volta i ruoli e gli oggetti sacri che utilizzano, giusto per vedere come sarebbe andata. Hoderi ne farebbe volentieri a meno, ma alla fine cede al fratello insistente e lo scambio è fatto. E finisce male. Non solo entrambi sono un disastro a ruoli invertiti, ma Howori perde anche l’amo di Hoderi.

Il litigio è inevitabile, perché il fratello maggiore rivuole il suo amo e non accetta i sostituti che il fratello minore gli offre. Considerato che il suo amo era definito come “la fortuna del mare” nel Kojiki, l’ostinazione di Hoderi è anche comprensibile: evidentemente non è un oggetto comune. Non sapendo proprio cosa fare, Howori si ritira a piangere in riva al mare, dove a un certo punto gli appare Shihotsuchi19. Discutono, Howori gli confessa i propri problemi e Shihotsuchi si offre di risolverli per lui: costruisce una barca perfettamente impermeabile, fa salire a bordo il giovane e gli spiega cosa fare poi. L’imbarcazione procederà seguendo le correnti, fino ad arrivare a un palazzo coperto di scaglie di pesce: è la reggia di Watatsumi20. Lì dovrà sbarcare, per poi sedersi in cima a un albero che cresce accanto a un pozzo e fare in modo che la figlia di Watatsumi si accorga di lui.

Howori obbedisce. Mentre attende appollaiato sull’albero, una donna viene ad attingere acqua: è una servitrice della principessa Toyotama, la figlia di Watatsumi. I due attaccano discorso e Howori fa cadere di nascosto una gemma nella giara piena d’acqua: è il modo in cui ha deciso di farsi notare dalla principessa21. Toyotama vede la gemma, interroga la serva, scopre che c’è un uomo accanto al pozzo all’esterno della reggia e decide di incontrarlo. Ovviamente si innamora di lui a prima vista.

Howori è accompagnato in casa e presentato a Watatsumi, che lo riconosce come l’erede del sole, discendente di Amaterasu. Segue la celebrazione di prammatica, il matrimonio con Toyotama e per tre anni i due vivono felici e contenti. Poi Howori si ricorda di cosa fosse venuto a fare in quel posto e spiega al suocero il problema dell’amo smarrito. Watatsumi convoca tutti i pesci22, chiede se qualcuno di loro abbia ingoiato un amo, si scopre chi è stato, l’oggetto è recuperato, pulito e infine riconsegnato al giovane, che adesso può restituirlo al fratello maggiore. Così avviene.

Il resto della storia non ci interessa davvero. C’è una breve contesa tra i fratelli, che si conclude senza spargimento di sangue, con Howori proclamato erede e il fratello maggiore Hoderi che diventa suo umile servitore. Non ci sono sfasamenti cronologici. Più tardi, Toyotama raggiunge il marito in superficie, perché è prossima al parto. Si rifugia in una capanna, ordina a Howori di non guardare mentre partorisce e Howori ovviamente la spia, scoprendo che la moglie è diventata un mostro marino23. Toyotama si offende e se ne va, bloccando per sempre il passaggio verso la sua terra magica; suo figlio sarà poi il padre di Jinmu, primo imperatore (mitico) del Giappone.

Come questa storia si sia potuta trasformare in una variante dell’avventura di Urashima Tarō non è poi così strano: abbiamo il viaggio in mare, abbiamo l’arrivo in una terra misteriosa, abbiamo una ragazza affascinante, un matrimonio, tre anni di vita in un palazzo delle meraviglie e alla fine il bisogno di tornare a casa per rivedere un parente. Abbiamo anche un divieto infranto, sebbene in questo caso riguardi tutt’altro e non ci siano scatole di mezzo. Buona parte degli ingredienti, però, sono comuni e scivolare da una storia all’altra deve essere stato alquanto naturale. A titolo di esempio, si può consultare il volume Fiabe giapponesi, edito da Einaudi e curato da Maria Teresa Orsi: la storia intitolata “Urashima (2)” ci mostra proprio la vicenda di Howori mutata e convertita in una variante di quella di Urashima. È anche possibile che in realtà sia stata la storia di Howori a essere modellata su quella di Urashima, ma non lo possiamo né provare, né confutare: ci mancano i dati necessari, non esistendo materiale scritto prima dell’ottavo secolo.

Un aspetto da rimarcare è che l’infrazione del divieto nella storia di Howori non comporta danni o l’invecchiamento del protagonista, perché in quella vicenda non sembra esserci alcuna differenza nello scorrere del tempo tra il mondo normale e il palazzo marino. L’infrazione del divieto causa invece la perdita della moglie magica e la chiusura del passaggio che collegava i due mondi. Il che ha perfettamente senso nella storia più ampia raccontata dal Kojiki e dal Nihonshoki, perché questo è il punto in cui passeremo dalla mitologia alla (pseudo)storia: col secondo libro del Kojiki e il terzo del Nihonshoki, infatti, comincerà la cronaca degli imperatori giapponesi e delle loro imprese. Le divinità interverranno ancora, di tanto in tanto, ma gli umani non potranno più accedere al loro mondo: che la parte precedente si concluda con la chiusura dell’ultimo passaggio tra i diversi piani di esistenza è perfettamente naturale.

Nella vicenda di Howori, il palazzo marino è sì un luogo divino, ma non è un aldilà vero e proprio, o almeno non allo stesso livello di quello che incontriamo nelle storie di Urashima Tarō. In seguito lo diventerà, come possiamo vedere osservando gli sviluppi delle fiabe di Urashima Tarō nei secoli successivi, ma all’epoca del Kojiki e del Nihonshoki, ossia all’inizio dell’ottavo secolo, una trasformazione simile non si è ancora compiuta, o forse è stata solo accantonata. Le avventure nel palazzo marino, dopotutto, sono solo una scena all’interno di una storia più ampia, che è la contesa tra i due fratelli. Il nucleo è proprio questo: fratello minore contro fratello maggiore, cacciatore contro pescatore, con in palio la successione al padre Ninigi. Il ruolo di Watatsumi e la sua corte è principalmente quello di aiutante magico, che fornisce a Howori i mezzi per superare Hoderi. In un altro contesto le cose cambiano, ma è un discorso diverso.

Appassionati del mondo celtico potrebbero trovarvi una certa affinità tra i luoghi magici raggiunti da Urashima e il paese dei sidhe raccontato nelle isole britanniche. Niente di strano, perché in fondo rispecchiano entrambi la stessa visione del mondo: una separazione orizzontale tra due dimensioni, una riservata agli esseri umani e una riservata a ciò che non è umano. Non è neppure un caso se anche nella cultura celtica troviamo storie simili a quella di Urashima Tarō: l’esempio più famoso è senza dubbio il racconto irlandese dell’avventura di Oisin, personaggio collegato all’antico ciclo epico di Finn e della sua fianna24. Qui ne presenterò solo una versione, a titolo di esempio.

In questa storia tutto comincia a Tir na nÓg, un paese che corrisponde più o meno al Tokoyo no Kuni giapponese o al monte Hōrai: è un non-luogo incantato, che esiste al di fuori del normale scorrere del tempo ed è abitato da personaggi che non conoscono la vecchiaia e sono dotati di poteri magici di vario tipo25. Un re di questo paese riceve una profezia secondo cui sua figlia sposerà un uomo che lo spodesterà: sperando di poterlo evitare, il re trasforma la testa della figlia in un grugno da maiale, convinto che sarà sufficiente a tenere lontano ogni possibile spasimante. Ovviamente non funzionerà, come è sempre il caso nelle storie in cui si cerca di impedire l’avverarsi di una qualche profezia e come la mitologia greca ci ha ripetuto in ogni salsa, fino alla nausea.

Dopo essersi consultata con un druido del posto, la ragazza scopre che potrà liberarsi dalla testa di maiale soltanto se sposerà uno dei figli di Finn, eroe irlandese. Decide così di abbandonare Tir na nÓg, andare in Irlanda e cercare i figli di questo tizio. Dopo un certo tempo trova il luogo dove si è accampata la banda di Finn, rimane a osservarli per un poco e decide che Oisin è il figlio che la ispira di più, quindi cercherà di sposare lui. Lo segue di continuo fino a che non si presenta l’occasione giusta per uscire allo scoperto e andare alla carica, quando Oisin era rimasto da solo in mezzo a un bosco sul far della sera, dopo una battuta di caccia.

La sua testa poteva anche essere quella di un maiale, ma il resto del corpo rimaneva quello di una bella ragazza, così non ha poi grandi problemi a sedurre il suo bersaglio slacciandosi il vestito “perché fa caldo” e in poco tempo lo convince a sposarla e seguirla a Tir na nÓg, per rompere l’incantesimo che l’aveva sfigurata. Tutto avviene nel giro di qualche minuto e i due novelli sposi se ne vanno dall’Irlanda direttamente e senza passare dal via: Oisin non si prende neppure la briga di salutare il padre. Aveva altro per la testa, bisogna capirlo.

I due arrivano così a Tir na nÓg, la profezia si compie, Oisin diviene re spodestando il suocero e per un po’ tutti vivono felici e contenti. Trascorsi circa tre anni, però, il ragazzo comincia a sentire un po’ di nostalgia per la sua terra e vorrebbe tornare indietro anche solo per un momento, giusto il tempo di salutare il padre e il resto della famiglia, vedere come stanno gli amici e così via. La moglie lo può capire, ma c’è un problema: mentre a Tir na nÓg sono trascorsi tre anni, in Irlanda sono passati tre secoli, per cui amici e parenti sono ormai morti, sepolti e polverizzati. Oisin però insiste e alla fine lei lo lascia andare, consegnandogli un cavalo bianco26 che lo avrebbe riportato nel suo mondo. Con una clausola: Oisin non sarebbe mai dovuto scendere dal cavallo, neanche per appoggiare a terra un solo piede. Se lo avesse fatto, il cavallo sarebbe tornato da solo a Tir na nÓg, abbandonandolo in Irlanda. Quindi non scendere, mi raccomando. Oisin promette di fare attenzione e parte al galoppo.

Arriva in Irlanda, vede i posti in cui la sua fianna era accampata assieme al padre Finn e verifica che sì, non resta più nulla del mondo che aveva conosciuto lui. Adesso c’è solo un pascolo di mucche e una pietra abbandonata al suolo. Oisin capovolge la pietra, giusto per non lasciare alcunché di intentato, e sotto vi trova il borabu, il grande corno a spirale usato dalla sua banda. La loro regola era che, se qualcuno avesse suonato il corno, tutti sarebbero accorsi per riunirsi attorno a lui. Come resistere alla tentazione di prenderlo e suonarlo? Oisin non resiste. Il problema è che non riesce ad afferrarlo rimanendo in groppa al cavallo. Come fare?

Chiede aiuto al mandriano che sta pascolando le mucche, ma questi gli risponde che non può neppure sollevare il corno, perché è troppo pesante per lui. Oisin decide così di arrangiarsi da solo, si sporge il più possibile, arriva a sfiorarlo, ma scivola nell’afferrarlo e posa a terra un piede. Il cavallo schizza via come un fulmine, abbandonandolo da solo: Oisin si ritrova vecchio e cieco, in un paese che non è più il suo. La storia prosegue raccontandoci che per un certo periodo è ospitato da san Patrizio, ma questo non è più interessante per noi.

Anche l’antica Irlanda, come l’antico Giappone, conosceva una terra eterna, senza età e senza vecchiaia, che si trovava da qualche parte lì attorno, lontana ma non troppo, raggiungibile per chi conosceva la strada o aveva i mezzi magici necessari. In Irlanda come in Giappone, un giovane è trasportato in questa terra da una bella donna e vi resta a vivere per tre anni, tra piaceri e svaghi di ogni tipo. Passati i tre anni, l’uomo decide di tornare indietro per nostalgia. La donna gli consegna qualcosa che gli permetterà di ritornare da lei, ma con una condizione che deve essere rispettata. Il nostro eroe non la rispetta e si ritrova abbandonato nel suo mondo, tre secoli dopo quella che era stata la sua epoca. Curioso, vero?

Il tre in generale è un numero che ricorre spesso in questo tipo di storie, in apparenza, ma in fondo il tre è un numero “magico” presso molte culture27. Anche una fiaba russa piuttosto particolare, contenuta nella raccolta di Afanas’ev, ci presenta questo intervallo di tempo, ma in una forma decisamente più estrema: tre bicchieri che diventano tre secoli. La fiaba intitolata L’amico morto e il patto, la numero 358 nella sua raccolta, ci racconta di due grandi amici che fecero un patto: il primo a sposarsi avrebbe dovuto invitare l’altro alle proprie nozze, vivo o morto che fosse. Un anno dopo, uno dei due amici morì. Passato qualche tempo, l’altro decise di sposarsi e il giorno delle nozze, mentre il corteo passava davanti al cimitero per andare in chiesa, lui si fermò per invitare l’amico sepolto, in onore del patto.

Che successe? Successe che, di fronte alla tomba, l’amico vivo chiamò l’amico morto, invitandolo alle nozze. Il morto gli rispose. La tomba si aprì, il cadavere si alzò, lo ringraziò e lo invitò a entrare per un attimo nella sepoltura assieme a lui: giusto il tempo di brindare assieme. Il vivo entrò e il morto gli versò un bicchiere di vino. Entrambi bevvero e cento anni passarono in un sorso. Il morto gli offrì un secondo bicchiere: entrambi bevvero e via altri cento anni. Sotto col bicchiere della staffa: i due bevvero e altri cento anni passarono, per un totale di tre secoli tondi. Poi il vivo salutò il morto, uscì dalla tomba e si trovò davanti un cimitero deserto e palesemente invecchiato. Che fine aveva fatto il corteo che lo aveva accompagnato lì? Tutti spariti.

Il vivo proseguì ugualmente fino alla chiesa, dove trovò un prete sconosciuto. Parlarono, il vivo raccontò ciò che era accaduto e il sacerdote consultò gli archivi della parrocchia. Scoprì così che sì, trecento anni prima era successo davvero qualcosa del genere: lo sposo si era fermato al cimitero e non si era più fatto vedere, così alla fine la sposa si era consolata trovandosi un altro marito. E il nostro eroe visse infelice e scontento, ma non ci è dato sapere quanto a lungo.

Questa breve storia russa mostra molto più chiaramente il legame tra lo scorrere innaturale del tempo e il regno dei morti. Se nelle storie giapponesi e irlandesi possiamo avere un dubbio su che tipo di posto sia il paese eterno, la storia russa ce lo chiarisce a modo suo: è l’Aldilà. Secondo una vecchia tradizione russa, a quanto pare, i morti abitavano e vivevano nelle proprie tombe: è un motivo che troviamo in diverse fiabe dell’area slava. Il luogo di sepoltura era la casa del morto, lì rimaneva a condurre una sorta di esistenza post mortem e a quella era collegato, tanto da risentirsi se qualcuno ne violava l’integrità. Il sepolcro funzionava dunque come un Aldilà su piccolissima scala, con tutte le conseguenze del caso, come possiamo vedere nella storia presa in esame.

Entrando nella casa dei morti, i vivi abbandonano il tempo naturale e adottano un tempo diverso, il tempo dei defunti, che scorre a un ritmo tutto suo, scollegato dal ritmo della vita. Quando poi il vivo ne esce e torna al proprio mondo normale, la differenza lo colpisce: a volte ne è ucciso, a volte no, ma è difficile dire quale sia l’alternativa peggiore per lui. Il punto è che la transizione da un mondo all’altro non è mai un evento indolore e privo di conseguenze per i protagonisti umani, che i nostri eroi ne siano consapevoli o meno.

Un altro esempio molto diretto ed esplicito lo troviamo in una storia raccolta tra gli indiani Seneca che vivevano in un territorio oggi incluso nello stato di New York: ce l’ha trasmessa Arthur Parker nel suo Seneca Myths and Folk Tales, dove compare sotto il titolo di “The brothers who climbed to the sky”. Questa storia ci racconta come tre fratelli, un giorno, decisero di partire per raggiungere la fine del mondo, il punto in cui il cielo tocca la terra. Lo raggiunsero dopo un lungo viaggio e varie avventure: uno dei fratelli morì, ma gli altri due riuscirono a superare anche il confine del mondo e arrivare nel luogo che si trova dietro il cielo. E cosa videro? Videro un mondo in cui tutte le cose sembravano capovolte.

Superarono una collina, videro un grande villaggio, ma videro soprattutto il fratello morto, che corse loro incontro in apparenza vivo e sano. Non si fermò però a rispondere alle loro domande: li superò di corsa urlando frasi senza senso e procedette oltre. Si avvicinò poi un anziano, la cui età era testimoniata solo dai capelli bianchi, perché il suo fisico e i suoi movimenti erano quelli di un giovane. Si presentò come il Padre di Tutto e disse che suo figlio era il Grande Spirito, colui che governava ogni cosa. Spiegò loro anche come si sarebbero dovuti rivolgere al figlio, se volevano rimanere vivi ed evitare di diventare spiriti, come era successo al loro fratello.

I due proseguirono, incontrarono il Grande Spirito, gli parlarono nel modo corretto e furono invitati nel suo alloggio, dove il padrone di casa li sottopose a un chiaro rito di iniziazione sciamanico, facendo a pezzi i loro corpi, pulendoli e ricostruendoli, per purificarli da ogni malattia e corruzione. Rinati così con un nuovo corpo, i due fratelli erano rapidi a sufficienza da superare nella corsa pure i cervi più veloci, ma anche in ogni altra abilità erano capaci di eguagliare o battere tutti gli animali di quel paese.

Dopo aver vissuto a lungo in quel luogo celeste, vedendo anche i villaggi vuoti che attendevano le tribù future, che un giorno sarebbero arrivate come spiriti, il Grande Spirito disse loro che sarebbero dovuti tornare sulla terra. I due fratelli obbedirono senza discutere. Scoprirono che il loro vecchio villaggio non esisteva più e che nessuno li conosceva. Soltanto una loro parente ormai decrepita ricordava qualcosa e disse loro che le vicende di cui parlavano risalivano ad almeno mezzo secolo prima. Per un poco vissero sulla terra, ma alla fine i due tornarono al cielo, per sempre.

Altrettanto esplicita è la natura ultraterrena del luogo misterioso in cui il protagonista si reca in una storia diffusa in Cornovaglia e riferita da Peter Ellis nel suo The Mammoth Book of Celtic Myths and Legends, forse con alcuni ritocchi artistici, sotto il titolo di “An Lys-an-Gwrys”. Esiste anche una storia bretone quasi uguale, raccolta da François-Marie Luzel nel 1873 a Côtes-du-Nord, in Bretagna28: qui osserveremo soltanto la versione proveniente dalla Cornovaglia, più che sufficiente per la nostra discussione.

Si racconta che un tempo viveva una famiglia molto numerosa e piuttosto povera, che tirava avanti sorvegliando il bestiame di un signorotto locale. Un giorno, mentre l’unica figlia è al pascolo con le pecore, le si avvicina un giovane vestito di bianco e pieno di gioielli, in groppa a un cavallo parimenti bianco. Per ragioni che hanno senso soltanto nelle fiabe, questo principe bianco dichiara di voler sposare la ragazza: passerà di nuovo il giorno dopo per avere una risposta da lei.

La ragazza torna a casa, racconta alla madre cosa le è successo e la madre la deride, come faranno poi tutti i suoi fratelli. Tranne uno, che invece ha l’aria triste e cerca di consolare la sorella. Pensando che in ogni caso non potrà stare peggio che lì in famiglia, lei decide che sposerà lo sconosciuto, se si presenterà davvero. Il tizio misterioso si presenta e dopo qualche altra chiacchiera i due si sposano e partono assieme verso la casa di questo principe bianco, che sostiene di chiamarsi Lord Howlek: la sua casa è il palazzo di cristallo e si trova a est, verso il sorgere del sole.

Passa un anno29 e cinque dei sei fratelli decidono di partire in cerca del palazzo in cui la sorella se n’è andata a fare la bella vita, perché sperano di poter ottenere anche loro una parte del bottino. A casa resta solo il fratello buono, perché deve fare lo sguattero per tutti. Il viaggio è lungo e varie cose succedono ai cinque, ma non hanno rilevanza. Alla fine decidono che il luogo è irraggiungibile e tornano a casa senza aver concluso alcunché.

È il turno del fratello buono, che ovviamente ha successo, comportandosi a dovere e ottenendo l’aiuto dei personaggi che incontra per strada. Il viaggio è complicatissimo e pieno di luoghi strani e incredibili, ma alla fine il nostro eroe raggiunge il misterioso palazzo di cristallo, che in effetti è un grande palazzo fatto di cristallo. Lo percorre in lungo e in largo e ogni stanza gli sembra più bella delle precedenti, fino a che non raggiunge una stanza meravigliosa, dove sua sorella è sdraiata e dorme. Non sembra invecchiata di un solo giorno.

Mentre il fratello la guarda, arriva il padrone di casa, il misterioso Lord Howlek che ha sposato la ragazza. Il nostro eroe osserva la scena di nascosto e vede il marito schiaffeggiare tre volte la moglie prima di mettersi a dormire accanto a lei. Il mattino dopo la schiaffeggia di nuovo tre volte, prima di alzarsi e uscire. La sorella non sembra neppure accorgersene, perché continua a dormire come se niente fosse.

Quando il padrone di casa se n’è andato, il fratello esce dal suo nascondiglio e sveglia la sorella. Passano il giorno chiacchierando e la storia sembra sempre più strana: in quel posto non c’è fame né sete, né caldo né freddo, gli schiaffi del marito sono baci affettuosi per la moglie, ci sono altre persone ma non si è mai visto nessuno, e così via. Alla sera Lord Howlek rientra, accoglie il genero senza problemi e gli offre ospitalità per tutto il tempo che desidera.

Per un poco tutto va bene, poi il fratello vuole sapere cosa faccia ogni giorno il padrone di casa, che esce sempre all’alba e torna al tramonto. Lord Howlek accetta di portarlo con sé, a condizione che lui gli obbedisca in tutto e non rivolga la parola a nessun altro. Il fratello accetta, ma ovviamente finirà per infrangere il divieto. Uscendo con Lord Howlek assiste a diverse scene strane e a un certo punto interviene per cercare di fermare un litigio: in un attimo le immagini svaniscono e il padrone di casa gli spiega che posto sia quello. È l’entrata del purgatorio e le scene a cui ha assistito erano le varie punizioni inflitte agli spiriti penitenti. Siccome non ha mantenuto la promessa, però, adesso il ragazzo se ne dovrà andare. Prima di salutarlo, Lord Howlek gli assicura che un giorno potrà ritornare da loro e quel giorno non è lontano. Che suona come una minaccia e in effetti lo è, da un certo punto di vista. Da un altro, però, è solo una calma constatazione.

Il ragazzo parte e in poco tempo è arrivato a casa, senza problemi. E anche senza casa, perché non esiste più l’edificio in cui aveva vissuto con la famiglia. Tutto è cambiato. Facendo qualche domanda scopre che sì, un tempo forse era esistita una famiglia con quel cognome, nei dintorni, e si diceva che la loro figlia avesse sposato un gran signore, pur essendo poveri, ma è storia vecchia e saranno passati secoli, ormai. Qualche giorno dopo troveranno il suo cadavere, invecchiatissimo, e la salma si dissolverà mentre la stanno portando al cimitero.

Un ultimo esempio, contenuto nella raccolta Turkish Fairy Tales and Folk Tales, curata da Ignácz Kúnos e tradotta in inglese da R. Nisbet Bain. Si tratta di una storia curiosa, inserita proprio alla fine della raccolta a opera del traduttore, giusto per allungare il brodo: Bain spiega che quello è un racconto meticcio, più romeno che turco, ma non spiega di preciso perché abbia sentito il bisogno di aggiungerlo, se è spurio. Sia come sia, è presentato col titolo “Youth without age and life without death”, che già lo qualifica come materiale interessante per il nostro discorso.

È la storia di un principe nato per mezzi magici, grazie alle erbe portate da un venerabile saggio che passava da quelle parti. Fin da quando si trovava ancora nell’utero, il principe aveva dimostrato un grande interesse per la gioventù senza età e la vita senza morte; una volta nato e raggiunti i quindici anni, eccolo che parte per ottenere entrambe le cose.

Dopo varie avventure fiabesche, come il suo confronto con la strega Gheronea e sua sorella Scorpia, da cui il giovane esce vincitore, ecco che il nostro eroe raggiunge finalmente il palazzo di Gioventù senza Età e Vita senza Morte. È circondato da una foresta brulicante di mostri di ogni tipo, ma per un protagonista come lui è un gioco da ragazzi sorvolarli tutti quanti con un balzo del suo destriero.

In un modo o nell’altro il giovane entra nel palazzo, incontra dapprima due ragazze bellissime e poi la loro sorella minore, che è ancora più bella ed è pure la signora del castello, oltre ad avere pieno controllo dei mostri da guardia che riempiono la foresta. L’eroe ovviamente la sposa e vivono assieme per un po’, felici e contenti, fino a che lui non infrange per sbaglio un divieto che la moglie gli aveva imposto: non sarebbe mai dovuto entrare nella Valle del Rimpianto. Nel costo di una battuta di caccia, ovviamente, l’eroe ci entra per sbaglio e da quel momento il rimpianto per la sua terra lontana e i genitori che ha abbandonato lo perseguita senza pietà.

Le tre sorelle capiscono subito quanto è successo e cercano di convincere il giovane che non ha più senso voler tornare a casa per rivedere la famiglia: ormai sono passati secoli, anche se a lui sono sembrati solo giorni, e i suoi genitori sono morti, il suo regno svanito. Tutto inutile. Alla fine l’eroe può partire per tornare a casa, ma a una condizione: non dovrà mai smontare da cavallo. Finché resterà in sella, l’animale lo potrà riportare al palazzo della Gioventù senza Età e della Vita senza Morte; se però dovesse decidere di scendere, allora l’animale se ne andrà da solo, abbandonandolo. Il giovane accetta le condizioni e parte.

Già durante il viaggio si accorge che è davvero trascorso molto più di quanto pensasse lui, perché il paese è cambiato tantissimo e nessuno può più ricordare i luoghi e i mostri che lui aveva affrontato, se non solo come fiabe raccontate dalle nonne. Quello che era stato il suo regno è adesso abitato da gente che lui non conosce, gli edifici sono cambiati, tutto è diverso e irriconoscibile. Arriva al vecchio palazzo dove è nato e cresciuto e si trova davanti una rovina, coperta di rampicanti. Smonta da cavallo per esplorare meglio e il destriero subito se ne va, dopo averlo salutato. Il nostro eroe è ancora convinto che potrà comunque tornare indietro, ma si sbaglia di grosso. Cerca in ogni piano, cerca in ogni stanza del vecchio palazzo e non trova nulla, solo macerie e desolazione. Alla fine ecco una bara di grandi dimensioni: è chiusa e ancora intera. Il giovane la apre ed è vuota. O almeno sembra vuota.

Una voce gli parla: «Ben arrivato. Se tu mi avessi fatta aspettare ancora un poco, sarei morta pure io». È la voce della Morte, della sua Morte, ormai rinsecchita e atrofizzata, ridotta a una foglia secca sul fondo della bara. Ecco che si rialza, allunga una mano e tocca il giovane. E il nostro eroe si riduce subito in polvere, raggiunto infine da età e morte, le due cose che aveva cercato di evitare.

Potremmo continuare, ma sarebbe ripetitivo. Un dettaglio che resta da evidenziare, però, è che nella tradizione dei popoli irlandesi, scozzesi, gallesi e in generale di quelli che possiamo definire come “discendenti dei celti”, molte storie relative al popolo fatato includono problemi col tempo e il suo scorrere. Se resti ammaliato dai folletti e ti fermi a danzare con loro in uno dei loro tumuli, in un cerchio di pietre o altri luoghi simili, quando finalmente ti sarai liberato scoprirai che non sono trascorsi solo cinque minuti, come sembrava a te, ma un tempo molto più lungo, a volte anni e anni.

In alcuni casi può accadere anche il contrario: ti sembra di avere trascorso mesi assieme ai folletti, ma poi scopri che è trascorso giusto un minuto. La stessa cosa avviene anche a chi entra nel regno dei sidhe in una qualunque sua versione: all’interno di un tumulo, in un’isola in mezzo al mare, sul fondo dell’oceano. Quando entri in contatto con la popolazione dell’altro mondo, nelle storie celtiche, devi mettere in preventivo che potrebbero esserci problemi anche gravi con lo scorrere del tempo. Sfogliando una qualunque raccolta di fiabe irlandesi, scozzesi ma a volte anche inglesi, possiamo trovare esempi a volontà e non avrebbe senso elencarli qui.

Questo è probabilmente uno degli elementi che ha spinto diverse persone a interpretare i folletti celtici, il “piccolo popolo”, come formato dagli spiriti dei morti. Opinione contestata con forza da Edwin Sidney Hartland nel suo The Science of Fairy Tales, ma è difficile negare del tutto che esista un qualche collegamento tra queste creature e il mondo dei morti: possono non essere loro stessi gli spiriti dei morti, ma provengono senza dubbio da un altro mondo e ne portano con sé alcune leggi, quando fanno irruzione nel nostro. Una di queste è il diverso scorrere del tempo, che come abbiamo visto caratterizza molte avventure in vari tipi di Aldilà.

Non ci perderemo però in discussioni sulla possibile origine dei folletti che popolano le storie nelle isole britanniche: l’argomento è interessante, certo, ma è anche piuttosto fuori tema, almeno per noi al momento. Torniamo al nostro punto di partenza, ossia Urashima Tarō. Abbiamo preso in esame le tre versioni più antiche di questa storia in Giappone, per poi muoverci verso le storie di altri paesi che presentano lo stesso motivo e uno sviluppo quasi uguale, mutatis mutandis. Ci restano ancora da esaminare alcuni elementi di questo racconto, per, ed è ora di procedere.

Esistono innumerevoli storie incentrate su un misterioso balzo temporale, dove il protagonista vive in pochi giorni o pochi anni quello che per il resto del mondo è un intervallo di secoli. Ne abbiamo prese in esame soltanto alcune in questa sede, ma si potrebbe continuare a lungo, dal monaco tedesco che per alcuni minuti si fermò nel giardino dell’abbazia ad ascoltare il canto di un uccello che durò per tre secoli, fino al cinese che si fermò per un poco a osservare due immortali impegnati in un gioco da tavolo che durò secoli. Se poi prendiamo in considerazione anche le pennichelle che non finiscono mai, da Epimenide nella grotta ai sette dormienti di Efeso, allora rischieremmo anche noi di morire di vecchiaia mentre attendiamo di arrivare alla fine. Meglio guardare ad altro.

Nel nostro caso specifico, infatti, non ci interessano tanto le storie di sbalzi temporali in generale, ma le storie sul modello della vicenda di Urashima, ossia quelle in cui il protagonista è trasportato da una donna in un altro mondo, rimane a vivere con lei per un poco, poi vuole tornare indietro per qualche giorno e scopre l’abisso temporale che si è spalancato davanti a lui. A volte il mondo in cui il protagonista è trasportato ci è indicato esplicitamente come una sorta di Aldilà; in altri casi questa connessione è lasciata implicita. Ciò che rimane sempre vero è che il mondo della donna non è il mondo del protagonista umano: sono luoghi diversi, che seguono leggi diverse. D’altro canto, la donna stessa non è un normale essere umano, di solito, ma la sovrana di un mondo magico. Un mondo magico che è spesso collegato ad animali di vario genere. Ed ecco un altro tema.

Questo è un punto molto importante, a mio parere. Se la storia di Urashima Tarō fosse soltanto una favola la cui morale è che dobbiamo accontentarci della nostra condizione umana, perché inseguire l’immortalità ci porterà solo alla distruzione, allora sarebbe stata costruita in un modo ben strano. Né Urashima né Oisin si erano messi in cerca dell’immortalità, così come non la stavano cercando i protagonisti di altre storie analoghe. Questa non è l’epopea di Gilgamesh, dove l’eroe è sconvolto dalla morte di Enkidu e parte in cerca dell’immortalità, fallendo perché deve apprendere la verità sulla condizione umana. Qualcosa di simile lo troviamo nella fiaba turco-romena del ragazzo che cerca la giovinezza senza età e la vita senza morte, d’accordo, ma non in quelle che seguono il modello di Urashima. In queste storie il protagonista fallisce perché... Perché?

Buona domanda. Una possibile risposta ce la suggerisce Elene Virsaladze nel suo Georgian Hunting Myths and Poetry, che non parla né di Urashima, né di Giappone, né di mare, ma riesce ugualmente a fornirci quello che forse è un potenziale indizio per la soluzione del nostro problema. O forse ci mette sulla strada sbagliata, chi lo sa, ma c’è un solo modo per scoprirlo: incamminarci e vedere dove ci condurrà il viaggio. Vediamo, dunque. Si tratta di esaminare meglio la figura della donna magica, qualcosa che dobbiamo fare in ogni caso.

Verso la fine del capitolo VI di quel libro, l’autrice fa riferimento ad alcune storie che si inseriscono molto bene nel discorso che stiamo affrontando in questa sede. Troviamo così la storia georgiana del giovane che non voleva morire, un racconto simile alla già citata fiaba turco-romena: non poi così strano, visto che tra Romania, Turchia e Georgia siamo sempre nei dintorni del mar Nero. In questa storia, il protagonista va in cerca dell’immortalità; dopo varie avventure raggiunge un fiume, lo attraversa e incontra una figura divina: una ragazza immortale. Lei tenta invano di persuaderlo ad abbandonare la sua ricerca, perché non potrà mai ottenere quanto vuole: la terra prima o poi si riprende sempre ciò che le appartiene. Lui non cede, rimane a vivere assieme alla donna per diversi secoli, ma alla fine sente la nostalgia di casa. Lei gli sconsiglia di andare, lui va lo stesso: giusto il tempo di arrivare a casa e il ragazzo si riduce in polvere. Il tempo lo ha raggiunto.

Di nuovo, una storia irlandese che sembra un incrocio tra Oisin e Urashima. Un ragazzo viaggia in mare, raggiunge un’isola su cui trova una ragazza, resta a vivere con lei per un tempo indefinito, poi lo coglie la nostalgia di casa. Se davvero desidera andare, la ragazza gli dice di non scendere mai dalla barca: guarda pure, ma senza mettere piede a terra. Lui vede il suo paese, non sa resistere alla tentazione e sbarca: come posa il piede a terra, il ragazzo diventa polvere.

Di nuovo, una storia riferita da Vasilevich e raccontata dal popolo degli evenki. L’eroe Chorchiken salva i figli di un uccello, che per ringraziamento lo trasporta in cielo, dove incontrerà una donna celeste e il resto lo sappiamo già: si innamora e vive assieme a lei per un certo tempo, fino a che non sente il bisogno di rivedere la propria casa. Ottiene un cavallo magico che lo riporterà sulla terra, ma riceve anche il divieto di rivolgere la parola a qualcuno, chiunque sia. Se lo farà, il suo cavallo se ne andrà senza di lui e Chorchiken non potrà più risalire in cielo. Il nostro eroe infrange il divieto, parla a un’altra persona e il cavallo se ne va, abbandonandolo per sempre sulla terra.

Si potrebbe continuare, ma l’andazzo generale dovrebbe essere chiaro. Anche se diverse da quella di Urashima, sono tutte storie che seguono lo stesso copione: incontrano una donna sovrannaturale, per un certo tempo vivono assieme a lei in un altro mondo, poi tornano sulla terra, infrangono un qualche tipo di divieto e perdono tutto, in molti casi anche la vita. La differenza di tempo tra i due mondi è presente spesso, ma non sempre. Un qualche tipo di animale come intermediario è presente spesso, ma non sempre. Un dono o una raccomandazione della donna è presente sempre, così come è sempre presente l’infrazione commessa dall’uomo. Cosa ne ricaviamo?

La tesi di Virsaladze è che tutte queste storie, o almeno quelle da lei prese in esame nella sua opera già citata, siano da ricondurre a un antico mitologema. Questi umani condotti in un reame divino, dove sposano una donna sovrannaturale e per un certo periodo vivono assieme a lei al di fuori del normale scorrere del tempo, per poi abbandonarla e tornare sulla terra, dove moriranno nel giro di poco tempo, rispecchierebbero la figura del cacciatore che, per un breve periodo, diventava lo sposo della Signora degli animali, per morire poco dopo la fine della loro (breve) unione. Storie di questo tipo sembrano essere parecchio diffuse in Georgia e nel Caucaso in generale, le aree su cui Elene Virsaladze si era concentrata, ma miti di simili ierogamie si possono incontrare anche nel vicino e medio oriente, territori non molto distanti dal Caucaso. La presenza di animali come intermediari, che guidano o trasportano l’uomo verso la donna divina, sottolineerebbe questa connessione.

Il mitologema del cacciatore, di per sé, sarebbe la storia di un uomo che, uscito per andare a caccia, incontra la Signora degli animali, quella che in Grecia era chiamata la potnia theròn30, e per un certo periodo è scelto per diventare suo marito, o almeno il suo paredro. Durante questo tempo in cui vive con la dea, il cacciatore deve rispettare una serie di obblighi, che valgono come tabù; in compenso, ottiene la fortuna con la caccia, che gli porta ricchezza e abbondanza. Arriva poi il momento in cui si conclude la relazione tra dea e uomo, o perché il tempo è scaduto, oppure per la violazione di un tabù. A quel punto, l’uomo cerca di ritornare alla sua vita normale, ma per lui c’è soltanto la morte, causata direttamente o indirettamente dalla dea.

Un dono o un consiglio che la Signora degli animali dà al cacciatore è spesso la causa della sua morte, almeno nelle storie caucasiche prese in esame. Può essere qualcosa di apparentemente utile, offerto in apparente buona fede: prendi questo e ti aiuterà a tornare a casa, oppure fai così e potrai tornare da me quando lo vorrai. Apparentemente, già. Sulla buona fede e sulle buone intenzioni della Signora degli animali, però, è meglio non contare troppo: chi è entrato nella sfera del sacro non potrà mai tornare davvero alla sua dimensione ordinaria, perché ne è stato contaminato e cambiato in modo irrimediabile. Il dono della Signora, forse, è solo un modo per accelerare l’inevitabile e il mitologema ce lo presenta in varie forme.

Per un poco, il cacciatore scelto dalla Signora degli animali ha vissuto accanto alla divinità, in un ruolo superiore a quello dei comuni esseri umani. Ha goduto di successo, abbondanza, ricchezza. Decaduta la sua posizione, però, per lui resterà soltanto la morte, perché non potrebbe più ritornare alla normalità: la dimensione del sacro lo ha contagiato, quasi infettato, e nel mondo degli uomini non c’è più posto per lui, è diventato un paria. Dopo la breve fortuna, arriva la morte.

Se questo mitologema è caratteristico dei popoli la cui economia deve molto alla caccia, per gli agricoltori esisterebbe un mitologema quasi equivalente, ossia la storia del giovane dio “vegetale” che diventa l’amante della Grande Madre per un breve periodo, per poi morire. A volte è soltanto una morte ciclica, che si rinnova ogni anno; a volte appare come una morte definitiva. In entrambi i casi, troviamo lo stesso schema che compare nel mitologema del cacciatore. Questo per dirla in forma molto semplice e semplificata, sia chiaro.

Elene Virsaladze ci presenta svariati esempi di miti, ballate e leggende georgiane in cui si può ritrovare questo schema: la Signora degli animali prende un cacciatore umano come proprio amante, il cacciatore per un poco vive nell’abbondanza, poi la relazione è interrotta per colpa dell’uomo e la sua morte è inevitabile. Nel Caucaso in generale è possibile ritrovare più e più volte questo tipo di storia, sempre in relazione a un cacciatore, mentre più a sud, tra il Vicino Oriente e la Mesopotamia, il mitologema assume un aspetto più pastorale o agricolo nelle storie delle seduzioni compiute da dee come Inanna e Ishtar, che consumano svariati amanti umani o semidivini31. Fin qui, niente da obiettare, in linea di massima. La nostra domanda è: è possibile applicare lo stesso schema anche per interpretare storie come quella di Urashima? Ha un qualche senso farlo?

Possibile è possibile, certo. Con un poco di creatività e il giusto taglio, si può quasi sempre trovare un modo per applicare con successo lo schema interpretativo che abbiamo scelto arbitrariamente per una qualche storia. La vera domanda è: ha senso farlo? Rispondere è già più difficile, in questo caso, ma il modo migliore per farlo è forse quello di provare ad applicare lo schema e vedere cosa ne uscirà, evitando il più possibile di violentare troppo la storia per adattarla alle nostre idee. Non è facile, ma nessuno ci vieta di tentare.

La storia di Urashima Tarō non è certo il mitologema di un cacciatore, perché il nostro Urashima è un pescatore. D’altro canto, è anche vero che cacciatore e pescatore sono due professioni molto simili: la vera differenza consiste solo nel luogo in cui sono svolte. Il pescatore è un cacciatore del mare, soprattutto in un caso come quello che appare nella storia di Urashima, dove il nostro eroe se ne va al largo sulla sua barchetta, da solo. Presso gli inuit, ad esempio, Sedna la Signora degli animali controlla soprattutto foche, trichechi e balene, cioè quella che costituisce la cacciagione primaria per quel popolo, ed è lei a dare o togliere le prede: quando la cacciagione è scarsa, uno sciamano dovrà affrontare un viaggio estatico nella sua dimora negli abissi e placare la sua ira32.

Sostenere che la storia di Urashima sia la versione giapponese del mito del cacciatore amante e vittima della Signora degli animali sarebbe eccessivo, nonostante alcune somiglianze. Sostenere che il mito del cacciatore sia uno degli ingredienti della storia di Urashima, mescolato a molti altri, mi pare invece plausibile, almeno a livello di ipotesi. Che questo racconto sia di origine continentale è un punto su cui quasi tutti gli studi sono concordi: non potrebbe essere partito proprio dai cacciatori dell’Asia centrale, per poi accumulare attorno al proprio nucleo altri elementi e trasformarsi strada facendo, nel corso del suo lungo viaggio verso l’estremo oriente?

In tutte e tre le versioni più antiche della storia giapponese, nonché in quasi tutte quelle più recenti, tutto comincia quando il protagonista esce a pescare da solo, in quella che possiamo considerare una battuta di caccia marittima. A volte la sua pesca è fortunata, a volte non lo è; a volte si spinge al largo perché vuole più prede, a volte perché non ne trova proprio. Nel corso di questa battuta di caccia, incontra una tartaruga che lo accompagna dalla principessa, oppure è la principessa stessa sotto mentite spoglie. Questo collima coi miti caucasici del cacciatore: è l’incontro con una preda speciale, che è di proprietà della Signora degli animali, oppure è la Signora stessa. Sarà poi il comportamento del cacciatore a determinare il resto della storia.

Urashima aiuta la tartaruga e come premio ha accesso al mondo della principessa, che sia il monte Hōrai, il Ryūgū o anche Tokoyo no Kuni. Diventerà pure il marito, o almeno il compagno, della principessa, per un certo periodo, e con lei vivrà nell’abbondanza, separato dal mondo umano. In un modo simile, il cacciatore prescelto dalla Signora degli animali ne ottiene l’amore per un certo periodo, oltre a una cacciagione abbondante, ma a condizione che rispetti un certo numero di tabù, che a modo loro lo separano dalla sua vita normale e dal mondo degli altri uomini. Quando questi tabù sono infranti, il cacciatore perde l’amore della Signora, è riconsegnato al suo mondo umano e in breve tempo morirà. Quando Urashima insiste per rivedere la propria casa e famiglia, anche lui perde l’amore della principessa, è riconsegnato al suo mondo umano e spesso morirà di lì a poco, dopo aver scoperto che il suo mondo non esiste più.

Se questi elementi sono simili e possono suggerire un collegamento tra i due racconti, da un’altra parte troviamo anche notevoli differenze. Il mitologema del cacciatore, così come presente nella tradizione georgiana, non include alcuno sfasamento temporale: l’uomo non è portato in un altro mondo, di solito, ma è posto in una condizione di isolamento all’interno del suo mondo abituale. Anche quando c’è la transizione a un altro mondo, manca abitualmente la differenza nello scorrere del tempo rispetto al consueto mondo umano. Forse perché il mondo della Signora degli animali non è l’Aldilà, o almeno non il tipo di Aldilà immaginato da altri popoli.

La differenza nello scorrere del tempo, come abbiamo visto negli esempi presi in esame, coincide di solito con l’entrata in un qualche tipo di regno dei morti. Può essere il paese degli immortali, oppure una isola beata, o un palazzo magico oltre il cielo, oltre un fiume o nel cuore di una foresta remota. Può anche essere un semplice sepolcro nel cimitero del paese, come nella fiaba russa. Sia come sia, il protagonista entra in un regno dei morti e da quel momento abbandona lo scorrere del tempo a cui i comuni mortali sono vincolati. Come chi ha mangiato il cibo dei morti, anche il nostro eroe non potrà più tornare alla sua vita precedente: quando tenterà di farlo, il tempo lo raggiungerà di colpo e lo reclamerà. Anche nei casi in cui il ritorno non è letale, scoprirà comunque di aver perso per sempre il mondo che conosceva, così come la sua famiglia e tutti gli amici.

La storia di Urashima Tarō ci si presenta dunque come formata da due motivi principali: il motivo del cacciatore che per un certo periodo diventa il marito della Signora degli animali, per poi morire quando infrange un tabù, e una forma particolare di katabasis, una discesa nel regno dei morti da cui non si può più ritornare, non dopo essersi uniti a quel mondo, condividendone le sorti. O così è possibile interpretarla, quantomeno. Si può dunque immaginare che i due motivi siano stati fusi nel corso del viaggio, se davvero la storia è partita dall’Asia centrale, per poi disperdersi nel resto del mondo. Oppure è solo una fantasia, ovvio: possiamo solo formulare ipotesi, non fornire verità.

Se adesso prendiamo in considerazione la storia di Howori, così come ci è raccontata nel Kojiki e nel Nihonshoki, possiamo vedere che in essa è del tutto assente il motivo della differenza nello scorrere del tempo tra i due mondi. Howori rimane a vivere a lungo assieme alla sua moglie magica, ma non ci è indicato alcuno sfasamento temporale rispetto al suo mondo quotidiano. Resta invece il motivo del matrimonio con la Signora degli animali, anche se indebolito, e l’infrazione del tabù non comporterà la morte dell’uomo, ma solo la perdita definitiva di ogni possibilità di tornare indietro.

In questa storia, infatti, è il padre della principessa a incarnare il Signore degli animali, che ha pieno dominio su tutte le bestie: è lui a convocare i pesci del mare, per ritrovare l’amo smarrito. Niente di strano in questo: anche nel Caucaso possiamo vedere che, col tempo, il ruolo della Signora sarà assunto da un uomo nelle ballate e nei racconti mitologici, forse perché nel frattempo si è affermata una società del tutto patriarcale. Che pure in Giappone sia avvenuta una transizione di questo tipo non è troppo improbabile33. Il Signore degli animali georgiano, di solito, è un san Giorgio fuso con divinità più antiche, ma questo è un altro discorso e sono cose che capitano quando una religione nuova è introdotta in un paese ancora molto attaccato alle proprie tradizioni.

La vicenda di Howori potrebbe dunque rappresentare una forma più antica della storia di Urashima, in cui i due motivi non erano ancora stati fusi assieme? Oppure potrebbe essere una versione più tarda, dove i due motivi sono stati separati? Considerato il suo contesto, sembrerebbe ragionevole pensare che sia stato utilizzato soltanto il mitologema del cacciatore, modificato all’occorrenza, almeno nella versione incorporata nel Kojiki e nel Nihonshoki. Howori era infatti il figlio di Ninigi, discendente di Amaterasu e divino egli stesso; sarebbe stato proprio lui a succedere al padre, per proseguire la linea diretta che dalla dea del sole doveva condurre al primo imperatore giapponese. È semplicemente ovvio che un personaggio di questo calibro non potesse morire per una scappatella con la figlia di un altro dio. D’altra parte, anche la versione della storia del ciclope che troviamo nell’Odissea è diversa da quello che possiamo considerare il modello base, diffuso nel resto del mondo, e per ragioni analoghe: perché doveva essere incorporata in una storia più ampia, con una trama ben precisa e un protagonista destinato ad altro.

Che Howori non debba affrontare il problema del passaggio del tempo e della morte, di per sé, non è così strano, dato che questo elemento lo troviamo già nelle vicende di suo padre Ninigi. Come ci raccontano sia il Kojiki che il Nihonshoki, poco prima, fu una pessima scelta di Ninigi a decretare che anche la dinastia imperiale giapponese fosse condannata a una vita breve, perdendo così la longevità a cui gli imperatori avrebbero avuto diritto in quanto discendenti di Amaterasu, la dea del sole, e anche in questo caso c’è di mezzo una donna. Ninigi sposò infatti la bella principessa dei fiori34 e rifiutò la brutta principessa della roccia35: per questo i suoi discendenti sono stati condannati alla vita breve di un fiore, invece che alla longevità delle pietre. Ma è un’altra storia.

Urashima Tarō non era una divinità, come gli eredi della casa imperiale. Era solo un pescatore, un normale pescatore, che un giorno uscì in barca per fare il proprio lavoro. Aiutò una tartaruga e come premio ottenne l’amore della Signora degli animali, che è assieme benedizione e maledizione, come tutte le storie ci insegnano. Come tutti gli altri eroi, anche Urashima Tarō lo scoprirà a proprie spese, quando deciderà di abbandonare il mondo eterno per tornare a visitare il mondo umano, anche solo per un attimo, nonostante la contrarietà della sua Signora. E la sua condanna è tutta qui: si è infatti opposto alla volontà della Signora degli animali. Il resto ne è una diretta conseguenza. Il dono che lei gli fa prima del ritorno al mondo umano (temporaneamente, beninteso, almeno nelle intenzioni di Urashima) è già la sentenza36, la punizione che riceve per il suo peccato: ha contrariato la sua Signora e adesso ne dovrà pagare tutte le conseguenze.

Tamatebako: questo è il nome con cui rimarrà nelle storie la scatola che la principessa consegna a Urashima Tarō. È la scatola ingioiellata, ma è anche la scatola dell’anima, giocando sul doppio significato che la parola tama ha in giapponese. Può essere gioiello, ma può anche essere anima. E la principessa la consegna a Urashima, raccomandandogli di non aprirla mai, perché quella scatola gli permetterà di ritornare da lei. In effetti è vero, da un certo punto di vista. Quando Urashima apre la scatola, come è inevitabile che farà, ne esce un fumo bianco37 che poi svanisce nel cielo (verso ovest, spesso, nelle versioni in cui è indicata una direzione specifica). Un fumo che, forse, è l’anima stessa di Urashima e che adesso è davvero libera di raggiungere il regno dei morti e rimanervi per sempre, assieme agli altri amanti umani consumati dalla Signora degli animali.

È la punizione che la Signora degli animali infligge al cacciatore che l’ha abbandonata? Possiamo pure interpretarla così, se vogliamo: la storia è ambigua a sufficienza sul vero significato della scatola, almeno nelle sue versioni più antiche. Possiamo dunque considerarla una specie di piccolo vaso di Pandora individuale: qualcosa da non aprire, ma che il destinatario aprirà sicuramente, sigillando così il proprio destino. E la divinità che lo ha consegnato sapeva che sarebbe andata così, ovviamente: era la sua intenzione fin dall’inizio. Una lettura non ortodossa, certo, ma legittima sulla base del materiale in nostro possesso.

Che il cacciatore debba morire, dopo avere goduto per un poco dell’amore della Signora degli animali, fa parte del gioco ed è una forma di bilanciamento, almeno nel mitologema originale. La vita dipende dalla morte e la morte dalla vita: per concedere agli uomini la cacciagione di cui hanno bisogno per sopravvivere, la Signora esige periodicamente un sacrificio: il cacciatore di turno è la vittima, che dalla ierogamia passa alla morte, per consentire che il ciclo della vita prosegua. Che in antiche società di cacciatori e raccoglitori avvenissero davvero sacrifici simili, oppure che sia solo una storia, è tutto un altro discorso e non è rilevante per noi, al momento. È rilevante l’esistenza di questo mitologema e la possibilità che abbia fornito il nucleo di partenza per la storia di Urashima. Molto altro materiale vi si è accumulato attorno, ma il granello attorno a cui si è sviluppata la perla potrebbe essere proprio questo, partito dall’Asia centrale per arrivare fino in Giappone. O forse no: è solo una ipotesi, dopotutto.

Offerta sacrificale per soddisfare la Signora degli animali, oppure semplice vittima di un proprio errore, il finale di Urashima non cambia. La sua anima vola di nuovo verso la principessa, in un qualche modo, e sempre in un qualche modo si compie quanto dichiarato da lei: la scatola avrebbe aiutato l’uomo a ritornare indietro. Il che è accaduto, grossomodo. E se l’anima di Urashima alla fine ha ritrovato la via verso la terra eterna, la sorte del suo corpo non è molto importante: è solo il destino di chi ha ricevuto per un poco l’amore della Signora degli animali. Quando poi verrà il tempo di voltarle le spalle, inseguendo un impossibile ritorno alla normalità, la conclusione può essere una sola.

O così è, se decidiamo di seguire l’ipotesi che il mitologema del cacciatore abbia fornito il punto di partenza per la storia di Urashima, su cui poi si sono accumulati molti altri elementi di origine diversa, a cominciare dal viaggio nella terra dei morti e la conseguente uscita dal tempo umano. Sarà davvero questa l’origine della storia? Considerato che è antica almeno quanto la scrittura in Giappone, sospetto che sarà difficile trovare mai una risposta chiara e definitiva, oggi.

NOTE

1 - Nelle versioni più recenti la principessa è chiamata di solito Otohime. Nelle versioni più antiche il suo nome è variabile.
2 - Questa scatola sarà poi chiamata tamatebako, che gioca sul doppio significato di tama in giapponese: “gioiello” e “anima”. Il nome si può dunque tradurre come “scrigno dell’anima” o “scrigno ingioiellato”.
3 - A volte il fumo è di colore purpureo, anziché bianco.
4 - Ma il Man’yōshū contiene anche poesie più antiche dell’ottavo secolo: alcune sono stimate risalire al quinto secolo e tramandate oralmente per tutto il tempo intermedio. Il 759 è l’anno in cui la raccolta è stata compilata, ma non è l’anno in cui sono state composte le poesie che contiene, la cui età è invece variabile.
5 - Il Tokoyo no Kuni già menzionato.
6 - Shimako è forma contratta di Shima no Ko, che può essere tradotto come “figlio di Shima”.
7 - Personaggio esistito davvero verso la fine del settimo secolo, ma di lui non ci è rimasta alcuna opera. Che abbia scritto o meno una versione della storia di Urashima è dunque incerto.
8 - Blu, rosso, giallo, bianco e nero: sono i cinque colori che troviamo associati alle direzioni dello spazio in buona parte dell’Asia, ma anche nell’America del nord e centrale. In Cina, ad esempio, lo schema è il seguente: Blu = Est, Rosso = Sud, Giallo = Centro, Bianco = Ovest, Nero = Nord. Tra gli aztechi, invece, troviamo il seguente schema: Bianco = Nord, Giallo = Est, Rosso = Sud, Nero = Ovest; il centro non esisteva. Questo a titolo di esempio. Il blu può anche essere considerato verde, al punto che alcuni popoli in passato usavano una stessa parola per entrambi: il Giappone è uno di questi casi, dove aoi indicava sia il blu che il verde. È superfluo sottolineare che rosso, giallo e blu sono anche i tre colori primari.
9 - Principessa Tartaruga.
10 - Il Kojidan, un’antologia di storie redatta agli inizi del tredicesimo secolo da Minamoto no Akikane, contiene una versione del racconto di Urashima che è considerata molto più antica rispetto al periodo in cui l’antologia è stata compilata. In virtù del linguaggio utilizzato, c’è anche chi lo fa risalire al settimo secolo. Se siete interessati alla discussione, potete partire dal testo Urashimako Den di Shigematsu Akihisa. Buon divertimento.
11 - Spesso chiamato in giapponese Ryūgū, anche se non è sempre negli abissi del mare.
12 - Letteralmente è il “paese eterno”. Il significato di tokoyo è “qualcosa che dura per sempre, senza mai mutare”. Se cambiamo il secondo carattere con cui è scritto, otterremo una “notte eterna”, come quella che calò sul mondo quando Amaterasu si eclissò, ma questo è un altro discorso e qui non ci riguarda.
13 - Oppure sotto il mare. A volte Tokoyo no Kuni è descritto come un regno subacqueo.
14 - L’alta piana del cielo, dove vivono le divinità più importanti.
15 - Il paese di mezzo della piana di canne, ossia il Giappone.
16 - Il paese delle sorgenti gialle o dell’oscurità, chiamato anche Ne no Kuni, paese delle radici: è il regno dei morti.
17 - Detto anche Hodemi, ma questo nome alternativo non è mai usato nel Kojiki.
18 - Nipote della dea del sole Amaterasu, Ninigi fu inviato dal cielo a prendere possesso delle isole giapponesi su ordine della divina nonna, oppure su ordine del dio Takamimusubi, a seconda della versione della storia. Da lui discenderà la dinastia imperiale del Giappone.
19 - Divinità misteriosa, il suo nome ci dice che ha a che fare col sale (shiho) e dunque col mare, mentre Tanigawa Shinsei, nel suo commentario alle cronache, lo identifica col dio dei produttori di sale. Potrebbe anche coincidere con Shihotsutsu no Oji, indicato come nome alternativo di Kotokatsu Kunikatsu Nagasa, un dio figlio di Izanagi che nel Nihonshoki compare brevemente per dare indicazioni stradali a Ninigi, quando questi era appena disceso dal cielo.
20 - Un dio del mare. Diversi Watatsumi furono generati dal demiurgo Izanagi nel corso delle sue abluzioni purificatrici e si distinguevano tra loro in base al livello del mare che controllavano: uno per la superficie, uno per gli abissi, uno per le correnti di mezzo e così via. Non sappiamo quale sia di preciso questo Watatsumi, ma forse va inteso come una figura in cui gli altri si sono fusi in un qualche modo.
21 - Gemme, anelli e roba simile sono usati spesso e volentieri nelle fiabe per farsi riconoscere da qualcuno, specie se gettati in una tazza o in un piatto pieno di cibo. Niente di nuovo, qui.
22 - Altro motivo ricorrente nelle fiabe di tutto il mondo: il personaggio magico di turno convoca tutti gli animali del suo dominio e li interroga per ottenere l’informazione che serve al protagonista. L’animale che può risolvere il problema è spesso quello che non risponde alla convocazione, oppure arriva in ritardo per qualche difficoltà sua.
23 - Il termine usato in giapponese è wani, che oggi indica il coccodrillo, ma è incerto cosa potesse significare di preciso nell’ottavo secolo, dato che in Giappone non c’erano coccodrilli e gli abitanti dell’epoca non potevano averne mai visto uno. Forse con wani si intendeva solo un generico mostro marino e in seguito è stato usato per il coccodrillo, che è anche marino e indubbiamente può apparire piuttosto mostruoso.
24 - Fondamentalmente una banda di eroi, che scorrazzava per il paese risolvendo problemi, ma a volte causandoli pure: qualcosa di simile ai cavalieri di re Artù, ma senza forti legami di tipo signore-vassallo a tenere uniti i suoi membri.
25 - Un altro nome con cui indicare il mondo dei sidhe, insomma, con un sapore più marcato di aldilà. In alcune versioni la ragazza stregata è indicata come la figlia di Manann, antico dio celtico del mare.
26 - Gli animali dei sidhe sono spesso bianchi e con le orecchie rosse, di qualunque specie siano. Il bianco in generale è colore associato tipicamente alla morte nell’Europa neolitica ed è sopravvissuto in diverse forme anche nei millenni successivi. Che anche in Giappone sia il colore del divino e della morte è una piacevole coincidenza.
27 - Una interpretazione molto comune lo associa alle tre fasi visibili della luna, ossia crescente, piena e calante, che si possono associare alle tre fasi della vita umana: giovinezza, maturità, vecchiaia. Da questa proverebbero tutte le sue altre associazioni. O forse no: stiamo parlando di ipotesi, dopotutto, non di certezze.
28 - La potete leggere sul sito Légendes Bretonnes, dove sono pubblicati in formato digitale diversi testi presi dai tre volumi di storie bretoni compilati da Luzel.
29 - Un anno e un giorno, d’accordo, perché nelle fiabe si conta molto spesso così, ma arrotondiamo pure. Una possibile spiegazione è che diversi popoli nell’antichità contavano il tempo a partire dalla notte, non dal giorno. Nel suo De bello gallico, Cesare ci racconta che i galli facevano proprio così.
30 - Epiteto di Artemide nei poemi omerici. Il mito di Atteone è a volte interpretato in questa ottica.
31 - Lo stesso Gilgamesh rifiuta l’amore di Ishtar proprio perché conosce la fine fatta dai suoi amanti precedenti.
32 - Lo sciamano di solito dovrà pettinare i capelli della Signora, Sedna, che è priva di dita e non può farlo da sola, e pulirla dalla sporcizia che si è accumulata su di lei perché il popolo ha violato troppi tabù.
33 - La stessa madre di Hoderi e Howori, peraltro, si deve sottoporre a un’ordalia per dimostrare la legittima paternità dei suoi figli e fugare così i sospetti del marito Ninigi, che dubitava di essere il padre: segno piuttosto chiaro che ci troviamo nella fase finale di una transizione da una società matrilineare a una patrilineare nel racconto giapponese.
34 - Konohana [no] Sakuyahime.
35 - Iwanagahime.
36 - Quel genere di dono su cui gli sguardi più acuti possono individuare la scritta “ACME”, in altri termini.
37 - O purpureo, come abbiamo già detto. Dipende dalla versione della storia.