Adriano - racconti e altro

Il Diavolo in carrozza

Quando ero bambino, mia nonna utilizzava spesso una particolare espressione per indicare il tuono: lo chiamava “il Diavolo in carrozza”. Quando ero a casa sua e si sentiva tuonare, lei diceva sempre «C’è il Diavolo in carrozza» o variazioni sul tema. Ai tempi pensavo fosse soltanto una sua particolarità, una cosa che diceva lei e basta, magari per farmi divertire. Dopotutto, una strada del comune era conosciuta col nome popolare di “via del Diavolo” e un posto scomodo da raggiungere era “a casa del Diavolo”, per cui l’immagine di un Diavolo in carrozza non mi appariva poi così strana: se aveva una via, avrà avuto anche un veicolo con cui percorrerla, magari per tornare a casa.

Solo che non funzionava così, in realtà. Quella particolare espressione non era soltanto un vezzo di mia nonna, ma è diffusa anche in altre zone del nord Italia. Sulla Rivista delle tradizioni popolari italiane, infatti, F. Valla scriveva che “Anche a Saliceto come in Toscana, quando tuona, le donne del popolino dicono che il diavolo batte la moglie: dicono anche va in carrozza attraverso le vie del cielo”. Se questo valeva per Saliceto, in provincia di Cuneo, ritroviamo l’immagine del tuono come rumore prodotto da una carrozza anche in Friuli, come ci raccontava Dino Coltro nel suo Gnomi, anguane e basilischi. A pagina 118, parlando del Vecio del Temporale, possiamo infatti leggere che “In un certo senso, i Vecchi del Temporale ricordano i Benandanti friulani, i quali, però, non sono dei vecchi, anzi si presentano come uomini grandi, appunto i Belavant che scorrazzavano in cielo con enormi carri, producendo i tuoni. Nel bellunese si sentono già alla celebrazione delle Palme.” Sempre Dino Coltro, alla pagina 171 del suo Mondo contadino (2009), ci propone una interpretazione opposta del tuono, di certo veneta, anche se non è indicata la località precisa: “Il brontolio lontano di un temporale l’è el Signore che passa in caroza per le strade del Paradiso”.

Vediamo dunque che nell’Italia del nord non era così insolito attribuire il rumore del tuono a una qualche figura soprannaturale che percorreva il cielo su un carro o una carrozza, almeno a livello popolare. Per il momento non ci interessa se questa figura fosse il Diavolo, Dio o altro ancora: era un personaggio che attraversava il cielo e le ruote del suo veicolo provocavano il rumore che noi chiamiamo tuono. Niente di strano, fin qui: per chi faceva esperienza quotidiana di carri, carrette e variazioni sul tema che percorrevano strade sassose, come erano di certo le strade di campagna o meno fino a non molto tempo fa, la somiglianza acustica tra il rumore delle ruote e quello del tuono può avere senso. Il discorso diventa più interessante se guardiamo più indietro nel tempo, ad altre figure soprannaturali che percorrevano il cielo con un carro e causavano temporali.

Thor è senza dubbio la divinità più famosa che corrisponde a questa descrizione. Era un dio del tuono, viaggiava nel cielo e il suo mezzo di trasporto abituale era un carro trainato da due caproni. Se il fulmine era il suo martello, scagliato contro i giganti, il tuono era il rombo del suo carro. Fin qui, tutto bene. Diventa un poco più difficile spiegare la sua presenza in Pianura Padana, a meno che non lo vogliamo considerate un altro turista germanico in viaggio verso la riviera romagnola. Non è impossibile che sia stato lasciato per strada dalle popolazioni barbariche che hanno invaso l’Italia alla caduta dell’Impero Romano: i Longobardi sarebbero i primi indiziati, per esempio, visto che nell’Italia del nord c’è anche una regione che prende nome da loro. Un problema è che, spesso, queste popolazioni erano cristianizzate quasi subito, per cui potrebbero non avere avuto il tempo materiale per far attecchire le proprie credenze più antiche tra la popolazione italica.

Se guardiamo a divinità più vicine a casa, troviamo subito Giove, che impugnava la folgore, e tra le sue tante attività c’era anche quella di mandare la pioggia e le tempeste: era Giove Pluvio, per l’appunto. Allo stesso modo, Zeus era un dio delle tempeste e usava la folgore anche per combattere, come attestato dalla mitologia greca: le armi della tempesta sono proprio quelle che lo aiutarono nella battaglia contro i Titani per salire al potere, e le ricevette dai tre ciclopi primordiali, nati da Urano e Gea subito dopo Crono, almeno secondo la Teogonia di Esiodo1. Il problema di queste due divinità, però, è che non avevano grandi collegamenti col carro, soprattutto col carro da guerra. Le scorribande per cui Zeus è famoso non sono certo quelle nei cieli, per radunare le nubi, ma quelle a un livello molto più terreno, a caccia di sottane. Se è vero che in una delle sue imprese “amatorie” aveva assunto l’aspetto di pioggia dorata, è altrettanto vero che il suo legame diretto con le tempeste sembra più che altro un residuo del passato, qualcosa rimasto da epoche precedenti, scivolato in secondo piano quando Zeus, come Giove, divenne il simbolo del potere e il reggitore dell’ordine cosmico, garante dei giuramenti.

Zeus era sicuramente una divinità meteorologica, all’inizio della sua carriera. All’epoca del suo apogeo ne conserva ancora le armi, come appunto la folgore, ed è vero che Pindaro parla di lui come di un “auriga del tuono”, ma bisogna proprio andare a scavare nel materiale sopravvissuto per trovare riferimenti a questa sua attività e Pindaro aveva l’abitudine di usare immagini arcaiche nei suoi componimenti: in epoca classica era il suo ruolo di custode dell’ordine a essere in primo piano. Lo stesso vale per Giove: se è vero che Orazio in un suo carme ne ricorda ancora l’immagine di auriga che lacera le nubi con la fiamma del fulmine, è altrettanto vero che in quel componimento lo indica come Diespiter, decisamente più arcaico di Juppiter2. La coppia greco-romana, dunque, se ha conservato nel culto il ruolo di portatore di pioggia e padrone della folgore, sembra avere perso per strada il ruolo di auriga del cielo, quasi fosse un’attività di gioventù, non più così decorosa per chi è ormai giunto a governare il mondo, proprio come ha smesso di combattere una volta sconfitti tutti i suoi avversari, dai Titani ai Giganti, fino a Tifeo/Tifone.

Se l’ipotesi germanica e quella latina non sembrano poi così convincenti come punto di origine per l’immagine del Diavolo in carrozza, che scatena il tuono nei cieli dell’Italia settentrionale, abbiamo ancora a nostra disposizione una ipotesi che mi appare più realistica, anche se molto meno famosa. Se poi consideriamo come fosse chiamato un tempo il Norditalia, ossia Gallia Cisalpina, perché era abitato da popolazioni galliche contro cui i romani dovettero combattere a lungo, questa terza ipotesi potrebbe forse apparire meno peregrina di quanto sembrerà a prima vista. Mi riferisco infatti al dio gallico Taranis.

Taranis era un dio del tuono e delle tempeste, per quanto ci è dato sapere. La sua iconografia più tipica, almeno in base ai reperti che sono sopravvissuti fino a noi, sembra essere stata quella di un uomo barbuto, con un fulmine impugnato nella mano destra alla maniera di un giavellottista. In una statuetta di bronzo rinvenuta nella Haute-Marne, aveva anche la mano sinistra posata su una ruota collocata a terra accanto alla sua gamba; ruote e dischi compaiono anche in altre sue immagini, a volte come sfondo e a volte come attributo o decorazione. Il fulmine pronto a essere scagliato ci dovrebbe già suggerire il suo ruolo nel pantheon gallico; la ruota può essere considerata ambigua, certo, ma il suo nome ci fornisce indicazioni molto chiare in merito.

Taranis deriverebbe dal proto-celtico *Toranos, che a propria volta deriverebbe per metatesi da *Tonaros: questo lo dicono i filologi, quantomeno, e io non dispongo delle competenze necessarie per obiettare, per cui lo accetterò così come è. In latino lo troviamo indicato spesso come Taranus o anche Tanarus3, almeno in base alle iscrizioni ritrovate in quella che fu la provincia romana della Gallia e dintorni. Taranis è invece il nome che ci è stato tramandato da Marco Anneo Lucano nel suo Pharsalia, noto anche come Bellum civile, dove è indicato come una delle tre divinità a cui i galli offrivano sacrifici umani4. Una iscrizione trovata in Provenza, dove un testo in lingua celtica è reso in alfabeto greco, attesta che “Vebromaros fece a Taranis il dono solenne di un disco”. Questo sembra corroborare la versione di Lucano, almeno per quanto riguarda la grafia.

Qualunque fosse il suo nome corretto, aveva comunque a che fare col tuono, come ci suggerisce anche solo il semplice confronto con altre divinità delle tempeste in area indoeuropea. Abbiamo ad esempio Donar, il nome germanico del Thor scandinavo, ma abbiamo anche Tarhunna, il dio hittita delle tempeste, e il semplice verbo latino tonare, che in italiano diventa “tuonare”, oppure l’inglese thunder, ci suggerisce che “ton”, “tor”, “tar” e variazioni sul tema siano alla base di molte parole che indicano il tuono, tanto i nomi delle divinità che lo causano quanto la semplice descrizione del fenomeno5. Potremmo continuare a giocare all’allegro filologo e ripescare parole in lingue gaeliche recenti o meno, oltre che in dialetti francesi, che ribadiscono lo stesso concetto, ma credo che sia sufficiente così: il nome del dio che Lucano chiamava Taranis e varie iscrizioni romane indicano come Taranus o Tanarus contiene la parola “tuono”.

Abbiamo così un dio barbuto, che impugna un fulmine e ha il tuono nel suo nome. Mi pare che siamo già sulla buona strada. Ritrovamenti archeologici ci dicono che questo dio era adorato in Gallia, ovviamente, ma anche in alcune zone della Spagna, presumibilmente quelle abitate dai celtiberi, e aveva fedeli anche lungo il Danubio in area tedesca. Il suo nome era noto anche in Gran Bretagna: su un altare romano di Chester si legge (a fatica) una iscrizione che sembra parlare di Juppiter Optimus Maximus6 Taranis/Taranus, chiaro sincretismo di epoca imperiale. Un altro altare di epoca romana nella località di Scardonus, in Dalmazia, è parimenti dedicato a Juppiter Taranis (oppure Taranus e così via), giusto per espandere ulteriormente il raggio in cui questo dio era noto e riceveva una qualche forma di culto, anche se travestito da Giove.

E nella Gallia Cisalpina? Il fatto che in Piemonte esista un fiume di nome Tanaro, il cui nome latino era Tanarus e potrebbe significare “tonante” se deriva realmente da Taranis, mi sembra un indizio a favore della presenza di un culto collegato a questo dio anche nel Norditalia, unito poi a espressioni locali come la “rùa dél trun”, la ruota del tuono. Che sia sopravvissuto a lungo dopo la conquista romana, però, è un altro paio di maniche: quasi di sicuro l’interpretatio romana avrà assimilato Taranis a Giove anche qui, come abbiamo visto essere accaduto altrove: una volta identificati come lo stesso dio, Taranis si sarà perso come figura autonoma. Già nel sesto libro del De bello gallico Cesare ci indicava Giove tra le divinità principali dei galli7, dichiarando di lui che “imperium caelestium tenere”. Sarà sempre il nostro Taranis? Data l’iconografia del dio in questione, barbuto e armato di folgore, mi sembra molto probabile. Se un romano del I secolo a.C. vede l’immagine di un dio barbuto e armato di folgore, per lui sarà sicuramente Giove o al limite Zeus, che poi sono la stessa cosa, dal suo punto di vista. E il nome Taranis si perde, rimanendo al massimo come l’epiteto di una particolare versione o raffigurazione di Giove.

È anche vero, però, che l’interpretatio può procedere pure in senso opposto. Se i romani pensavano a Giove vedendo l’immagine di un dio barbuto e armato di folgore, allo stesso modo i galli avranno pensato a Taranis davanti alle statue di Giove, barbuto e con la folgore. Questo processo lo vediamo all’opera spesso e volentieri nell’impero romano: molti abitanti delle province, commissionando statuette ex voto, altari e templi per le divinità in cui credevano, in apparenza non avevano grandi problemi a usare i modelli greco-romani già esistenti: un paio di ritocchi e Apollo poteva diventare qualunque altro dio collegato alla guarigione, al sole, alla poesia o semplicemente armato di arco. Anche gli etruschi non ebbero problemi a utilizzare come base per le proprie arti figurative quei modelli greci visti nelle colonie attorno a loro, modificandoli dove necessario per adattarli ai loro gusti e alle loro esigenze, prima di sviluppare un proprio stile autonomo. Che in epoca imperiale due divinità come Taranis e Giove si mescolassero era dunque inevitabile, soprattutto nella loro iconografia popolare.

Oltre alla folgore, però, Taranis aveva anche un altro attributo nelle sue raffigurazioni: la ruota. Se non ci possono essere molti dubbi sul significato della folgore, una ruota si apre invece a più interpretazioni. Tanto per cominciare, è un simbolo molto più recente di quanto possano esserlo gli elementi atmosferici, per ovvie ragioni. Per la sua forma, la ruota è spesso associata al sole e lo è rimasta fino a tempi molto prossimi a noi: far rotolare ruote infuocate lungo il fianco di una collina nel giorno di mezza estate, quello che per i cristiani sarebbe poi diventato San Giovanni (24 giugno, ovviamente), è una tradizione che è esistita in buona parte dell’Europa, arrivando fino al Caucaso. Una ruota avrà un ruolo fondamentale anche nella morte dell’eroe (cosiddetto) solare Soslan/Sozruko8 nelle storie caucasiche dei Narti, per esempio, e in almeno una variante la sua morte avverrà proprio nel corso di un gioco in cui si lanciano ruote da una montagna.

Allo stesso tempo, però, la ruota può essere associata anche al dio delle tempeste, proprio attraverso il suo veicolo: il carro, nello specifico il carro da guerra con cui il dio viaggerebbe nel cielo. I carri da guerra non erano certo estranei ai celti, come ci dimostrano anche le storie irlandesi, dove l’eroe Cúchulainn andava in battaglia sul carro guidato dal suo fedele auriga Láeg. Nel mondo reale, i galli continuarono a usare i carri da guerra fino al III secolo a.C. circa nella Gallia Cisalpina, poco più a lungo in quella Transalpina, per poi mandarli in pensione col passaggio alla cavalleria, che era un reparto molto più maneggevole e agile in battaglia. Considerato che i galli conoscevano e usavano il carro da guerra, non ci sarebbe nulla di strano nel trovarlo abbinato anche a una loro divinità, soprattutto quando si tratta di un dio delle tempeste. Questo se consideriamo il simbolo come una ruota e non come un semplice cerchio, ovvio.

La ruota di Taranis era a otto raggi, oppure a sei. Piccole ruote a otto raggi sono state ritrovate in gran numero nel territorio che fu la Gallia ed erano probabilmente utilizzate come offerte votive, come amuleti da indossare e così via, a seconda del tipo di culto in cui erano usate. Raffigurazioni di ruote a quattro raggi risalgono a un periodo precedente, all’età del Bronzo, e forse avevano un uso simile. Sono sempre la stessa ruota, simbolo dello stesso dio, col numero di raggi che varia nel corso dei secoli? Oppure avevano un valore diverso? Per la ruota a quattro raggi è stata proposta una interpretazione solare e potrebbe anche essere un antenato o una variante di quel simbolo che oggi conosciamo col nome di croce celtica, la cui invenzione (o almeno l’adattamento cristiano) è spesso attribuita a san Patrizio9. Per la ruota di Taranis, di solito non si va molto oltre il carro, che è comunque un attributo più che plausibile per un dio del tuono e delle tempeste, come appunto era lui. Potremmo però accantonare la ruota e concentrarci sul più generico cerchio.

Curiosamente, vicino al Piemonte sono state infatti rinvenute incisioni rupestri risalenti grossomodo all’Età del Rame e al periodo più antico dell’Età del Bronzo, che raffiguravano ciò che potremmo descrivere come una specie di omino, con un cerchio enorme al posto della testa. Queste incisioni sono state trovate sul monte Bego, oggi in territorio francese ma italiano fino al 1947, quando era in provincia di Cuneo. Il cerchio ha otto raggi, grossomodo. Un antenato di Taranis? Una figura che in seguito si è almeno in parte mescolata a Taranis? Non lo sappiamo, ma è una delle tante ipotesi che si potrebbero formulare, non certo la più assurda.

Se un personaggio di questo tipo era adorato dalle popolazioni del luogo prima dell’arrivo dei celti, è possibile che si sia in seguito mescolato al dio Taranis dei nuovi arrivati, proprio come più avanti Taranis si sarebbe mescolato a Giove. Forse il graffito rappresenta la ruota solare, forse la ruota del tuono, forse le due cose assieme, forse altro. Anche se non sappiamo quali storie e quali credenze circolassero tra Piemonte e Provenza in quell’epoca, sappiamo che il sole e il fulmine sono collegati tra loro dall’elemento fuoco in altre parti di Europa, come la Grecia. Se il sole è il fuoco celeste per antonomasia, il fulmine è il fuoco celeste che scende a terra, a volte una scintilla del sole, una sua scheggia o variazioni sul tema. Un legame tra sole e tempeste non sarebbe dunque così surreale, se sviluppato all’insegna del fuoco. Altrettanto possibile sarebbe una concezione del sole come origine di tutti i fenomeni celesti, di qualunque tipo essi siano.

Non che per noi abbia davvero rilevanza il suo significato corretto, in questo caso: è sufficiente che un cerchio a otto raggi, unito a una figura umanoide, fosse presente in una zona in cui in seguito si sarebbe sviluppato il culto del dio gallico Taranis, dio del tuono e delle tempeste, che reggeva un fulmine e una ruota. Di certo, la “ruota” di quel graffito non apparteneva a un carro da guerra, dato che ai tempi non ce n’erano in Provenza. Non c’erano neppure celti in Provenza o in altre zone della Francia o dell’Italia a quei tempi, per quanto ne sappiamo. Esisteva però una figura umanoide con una testa che era un cerchio più grande di lei. Un cerchio a otto raggi, come la ruota che secoli dopo avrebbe contraddistinto un dio del tuono, Taranis. Era un simbolo atmosferico di altro tipo? Era una divinità legata a sole, tempeste o altro ancora? I celti lo hanno riciclato, incorporandolo in una delle loro divinità? Può essere, ma non abbiamo risposte certe. Possiamo solo formulare ipotesi.

Il gallico Taranis, comunque, si può collocare nello stesso gruppo a cui appartengono lo scandinavo Thor, il germanico Donar, il latino Giove e il greco Zeus, per limitarci ai suoi più immediati vicini di casa. Che per alcuni secoli l’Italia del nord sia stata abitata da popolazioni galliche, tanto da essere chiamata Gallia Cisalpina dai conquistatori romani, mi porta a ipotizzare che ci sia proprio questo dio alla base dell’espressione “Diavolo in carrozza”, diffusa in diverse parti del Settentrione. Aggiungendo quanto scriveva Pausania sul terrore che i celti (che lui chiamava galati) provavano verso il tuono, unito ad altre testimonianze affini provenienti da autori classici, l’ipotesi mi pare ancora più ragionevole. Non che farebbe molta differenza se l’originale “Diavolo in carrozza” fosse una divinità diversa, perché l’espressione attuale è passata attraverso secoli di cristianesimo e il dio di partenza, che fosse Taranis o un altro, è stato trasformato nel Diavolo. Era comunque un dio del tuono e lo era proprio perché è stato trasformato in Diavolo.

Il Diavolo cristiano e le divinità del tuono e delle tempeste di area indoeuropea presentano infatti certi elementi comuni, forse per caso o forse perché i primi predicatori cristiani avevano bisogno di screditare quella che era la figura principale, o almeno una delle principali, nel pantheon dei popoli da convertire alla nuova religione. Non che questa fosse l’unica opzione, sia chiaro. L’approccio dei predicatori cristiani alle divinità pagane appariva orientato alla sostituzione e/o all’assimilazione. Se si poteva rimuovere una divinità pagana, ottimo. Se la popolazione opponeva resistenza o se il suo culto appariva troppo radicato, si procedeva all’assimilazione: i templi erano sostituiti da chiese, croci erano tracciate o erette nei luoghi dove i pagani si radunavano per le loro cerimonie e alla fine le divinità stesse erano trasformate in santi cristiani, inventandoli se non ne esisteva già uno simile a sufficienza a loro disposizione, nel nome o nel comportamento.

La dea celtica Brig/Brigit divenne così santa Brigida, il georgiano Givargi si fuse con san Giorgio10, nacquero curiose storie su sant’Antonio abate portatore del fuoco11 e così via. Un esempio che ci interessa molto più da vicino lo troviamo in Russia, dove Perun, il locale dio del tuono e delle tempeste, si fuse col profeta Elia, dando origine a sant’Elia (Ilya in russo), che attraversava il cielo a bordo del suo carro infuocato, fulminava i blasfemi, scatenava violente grandinate sui campi dei contadini poco devoti e portava una gentile pioggia fertile sui campi di quelli che erano invece timorati di Dio e si ricordavano di santificare le feste. Questo sant’Elia appare anche nella versione osseta di alcune storie dei Narti, dove è un personaggio soprannaturale di nome Wasilla12 e assume un taglio generalmente più solare che tempestoso.

Se in Russia il dio del tuono è diventato un santo sui generis, conservando sempre alcune delle sue caratteristiche fondamentali, in zone più vicine a Roma si è preferito espellere questa divinità, a quanto pare, forse perché il suo ruolo di custode dell’ordine cosmico lo rendeva un avversario per il Dio cristiano e la convivenza non era possibile, neppure sotto mentite spoglie: difficile trovare un qualche santo che potesse mascherarsi da Giove o Zeus, dopotutto. Per quanto riguarda divinità più barbariche, come Thor o il nostro Taranis, i motivi possono essere molteplici. Da un lato, Taranis era già stato assimilato a Giove, come abbiamo visto, per cui è probabile che ne abbia condiviso la sorte, una volta che il cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero. Donar era interpretato come Ercole nel De Germania di Tacito, non come Giove, mentre le divinità scandinave avrebbero attraversato poi una fase di “umanizzazione” con autori come Saxo Grammaticus, che nel suo Gesta Danorum ne narrava certe vicende come se fossero stati esseri umani, vissuti tanto tempo fa. Le divinità diventano re umani vissuti in un lontano passato anche nello Ynglinga saga scandinavo, altro testo trascritto in epoca medievale, qualunque sia stato il reale periodo in cui fu composto. In un modo o nell’altro, insomma, l’idea sembra essere stata quella di liquidare le divinità pagane, invece di assimilarle e “convertirle”, almeno in questa parte di Europa.

E quegli aspetti che non accettavano di essere liquidati? Beh, demonizzarli è sempre una opzione, come la storia ci ha insegnato, che si tratti di divinità o di idee scomode alla classe dominante del periodo. Questo ovviamente non farà sparire le antiche divinità, ma trasformarle in diavoli o altre figure negative è già un inizio. Col tempo, il ricordo che sopravviverà nel popolo sarà quello di esseri da cui bisogna difendersi, magari ricorrendo a preghiere o altri simboli cristiani. Il dio del tuono e delle tempeste, come accennavamo anche prima, si presta particolarmente bene a processi di questo tipo, considerata l’ambivalenza del suo campo. Le tempeste possono essere buone ma anche cattive, a seconda di come si presentano: accentuando questo o quell’aspetto, è possibile far passare per benefiche o malefiche le figure soprannaturali che le causano e le controllano, a seconda delle necessità.

Un esempio interessante ci è offerto da Tinia, il dio etrusco del tuono, soprattutto se decidiamo di prendere sul serio Etruscan Roman Remains in Popular Tradition, opera pubblicata nel 1892 da Charles Godfrey Leland. In questo testo alquanto curioso, per definirlo nel modo più neutrale e imparziale possibile, Leland ci racconta di avere scoperto quasi per caso l’esistenza di residui di religione romana ed etrusca nel folklore di una certa zona d’Italia, che lui indica come “la Romagna Toscana” e che non sembra corrispondere a quella che noi oggi conosciamo come Romagna13, ma dovrebbe comunque essere nei dintorni dell’Appennino tra Firenze e Bologna, forse più sbilanciata verso l’Emilia-Romagna che verso la Toscana, a giudicare dalle citazioni del linguaggio parlato dai suoi “informatori” che troviamo nel libro e da certi paesi nominati qui e là.

Sia come sia, il primo capitolo si apre parlando proprio di Tinia e di cosa gli abbiano raccontato su questa figura le persone da lui interrogate. Tanto per cominciare, del Tinia etrusco sappiamo poco, a parte il nome e l’iconografia: gli etruschi ci hanno lasciato iscrizioni e opere d’arte, ma neppure uno straccio di testo che contenesse qualche frammento della loro mitologia. Conosciamo il nome di un dio, conosciamo il suo aspetto, ma non sappiamo alcunché sulle sue attività, a parte il poco che ci è riferito qui e là in testi greci o romani, quando siamo molto fortunati: nome e numero di matricola, insomma, più ciò che si vuole ricavare da letture di seconda mano, confronti incrociati e così via. Tinia era sempre raffigurato con un fulmine in mano e i romani lo accostavano a Giove: era un dio del tuono e delle tempeste, dunque, e presumibilmente anche il capo degli dèi etruschi. La sua immagine si è conservata su molti specchi sopravvissuti fino a noi. Sua moglie era Uni, che i romani accostavano ovviamente a Giunone. Questo è quanto possiamo dire con sicurezza su Tinia, senza lanciarci in interpretazioni più o meno fondate.

A pagina 21 della sua opera, Leland ci racconta che, alla domanda «Conosci il nome di Tinia?», una sua informatrice esperta sopratutto di streghe gli avrebbe risposto: «Tignia or Tinia? Yes. It is a great folletto, but an evil one. He does much harm. Si, e grande, ma cattivo.» Le parti in corsivo erano in italiano nel testo originale e io le ho lasciate così come erano, inclusi gli accenti mancanti. Dopo una breve riflessione, quella donna avrebbe ripreso dicendo: «Tinia is the spirit of the thunder and lightning and hail. He is very great. Should any peasant ever curse him, then when a temporale, or great storm, comes he appears in the lightning, and bruccia tutta la raccolta. Should the peasant understand why this happened and who ruined the fields he knows it was Tinia. Then he goes at midnight to the middle of the field or vineyard, and calls: “Folletto Tinia, Tinia, Tinia!/ A ti mi raccomando/ Che tu mi voglia perdonare,/ Si ti ho maledetto,/ Non lo ho fatto/ Per cattiva intenzione,/ Lo ho fatto soltanto/ In atto di collera,/ Se tu mi farei/ Tornare una buona raccolta./ Folletto Tigna!/ Sempre ti benedico!”»

Questo è quanto scrisse Leland, così come l’ho trovato, in parte in inglese e in parte in italiano, non senza errori. Nella pagina successiva, la numero 22, troviamo un’altra formula collegata al temporale, ma in cui non compare il nome di Tinia. Compaiono invece nomi di santi cristiani. Eccola: «When you see thunder and lightning you should say: “Santa Barbara, benedetta,/ Liberateci dalla saetta,/ E dal gran tuono!/ Santa Barbara e San Simone,/ San Simone e San Eustachio,/ Sempre io mi raccomando!”». La visione del temporale è qui decisamente negativa, una forza maligna da cui solo i santi cristiani ci possono proteggere. Infine, a pagina 6 dell’Introduzione troviamo anche questa breve frase, attribuita a un certo V. Del Vivo (che ovviamente l’avrà pronunciata in italiano o in dialetto, non in inglese, ma Leland non ha pubblicato la frase in lingua originale): «Tigna, the great spirit of lightning, has been generally known here in Dovadola from ancient times».

Abbiamo così una divinità etrusca, Tinia, che sarebbe sopravvissuta fin verso la fine dell’Ottocento in alcune frange del folklore tra l’Emilia-Romagna e la Toscana. Se nell’antichità era una divinità del tuono e delle tempeste di tutto rispetto, col tempo si sarebbe trasformato in un folletto, uno spirito alquanto maligno, da temere, con tanto di formule magiche per invocare il suo perdono e allontanare i danni che la sua ira può causare agli sfortunati che l’hanno suscitata, volontariamente o meno. Manteneva una certa grandezza e un certo potere, ma solo in negativo. Inoltre, il temporale stesso era diventato qualcosa di molto lontano dalla benedizione che portava fertilità nei campi: a prevalere era invece il suo aspetto tremendum ed era necessario invocare i santi per essere protetti dalla sua malvagità, utilizzando una delle apposite giaculatorie. Questo è giusto per fornire un esempio di come può funzionare il processo di “demonizzazione” di un’antica divinità.

Se un antico dio delle tempeste si è trasformato in un folletto maligno nel corso dei secoli, tra la popolazione veneta esisteva invece la credenza che i temporali fossero provocati dalle streghe, in un modo o nell’altro. Streghe che, spesso, lavoravano per conto del Diavolo o da lui traevano i propri poteri, di nuovo in un modo o nell’altro. Ce ne parla più volte il già citato Dino Coltro nella sezione dedicata al temporale nel terzo capitolo del suo Mondo contadino (2009): a titolo di esempio, di seguito riporterò alcune citazioni, che potete trovare alle pagine 169-171 del suddetto volume.

Anca el tempo l’è in man a le strie, le streghe hanno potere sulle nuvole e sulla pioggia. Si crede che esse facciano piovere o grandinare secondo il loro umore e si sa che le strie iè mate, bizzose e impertinenti. […] Basta tagliare a metà giusta un chicco di grandine e vi si troverà un capello di strega.” Ancora, “Una variante più originale sostiene che i brontolii, i tuoni, i fulmini e le saette, che scoppiano durante il temporale, non sono altro che gli effetti de na barufa tra strie e maghi, tra streghe e maghi. Si sente infatti dire: senti le strie e i maghi quante che i se ne dà.”14

Se i temporali sono causati da streghe e maghi, la difesa contro di loro è ovviamente la religione cristiana. Sempre nella sezione dedicata ai temporali, leggiamo infatti che “si ricorreva ai preti perché in possesso di esorcismi speciali, abilità e facoltà tali da vincere susio e tempesta. I preti i g’ha libro e aqua santa, due strumenti che in mano a chi sapeva e aveva forza di usarli, offrivano garanzia di riuscita contro ogni male. La reputazione e la fama nella capacità essenziale di certi preti si consolidava nell’opinione della gente e ancora adesso si sente ripetere: Quando gh’era paroco don... la tompesta no la fasea dano, la grandine non recava danno”.

Oltre ai preti, le campane erano fondamentali per combattere i temporali, proprio come presso altri popoli troviamo il suono di campane come arma infallibile contro malefici ed esseri sopranaturali di ogni tipo. Leggiamo infatti che “Si crede che il suono delle campane, che erano benedette, scacciasse le streghe e il diavolo che producono la grandine. In una campana del 1743, a firma di Angelo Pasti, si legge: Libera nos Domine a fulgore et tempestate. Così, in una del 1724 a firma di Lucius de Rubeis patavinus: Da Gloriam Deo/ et verbum caro factum est/ a fulgure tempestate liberamus deo. La consuetudine di suonare le campane contro il temporale è antichissima; esistono testimonianze scritte che risalgono al Trecento”.

Ancora una citazione dal libro di Coltro, dove a pagina 249 leggiamo che “Il suono delle campane disperde le nuvole tarabel, diaboliche”. Possiamo immaginare che Taranis si nasconda dietro o dentro la parola “tarabel”? Beh, nessuna legge ce lo vieta, d’accordo, e le prime due sillabe sono di sicuro uguali, ma mi sembrerebbe un poco eccessivo: a volte si incontrano anche pure coincidenze. Per quanto non impossibile, voler vedere a tutti i costi una radice in comune tra i due sostantivi mi farebbe sentire come un filologo di fine Ottocento, magari di scuola Müller, pronto a vendere a tranci la propria madre pur di trovare un qualche legame linguistico tra due parole fondamentali per confermare la sua ultima fantastica ipotesi di mitologia comparata.

Passando oltre, fra i sistemi per proteggersi dal temporale troviamo anche una formula da recitare, o una giaculatoria se preferite, che dovrebbe esserci abbastanza familiare: compariva almeno in parte nel libro di Leland, presentata come protezione generale contro i temporali. Dino Coltro infatti ci dice che “Quando scopiava on temporale i disea de butare ia segheto zapa e baile, gettare lontano gli attrezzi, che potevano attirare il fulmine, la sita, e di ripetere la giaculatoria: Santa Barbara e San Simon/ tieme distante da la sita e dal ton (Leonilde Fossato)”. A pagina 248 ne troviamo anche una versione più lunga, sempre attribuita alla stessa informatrice, la signora Fossato, proveniente da Minerbe, Verona: “Santa Barbara e San Simon/ tieme distante da la sita e dal ton/ fé che no tompesta/ Santa Barbara e San Simon”.

Ci sarebbe altro, ma possiamo fermarci qui, per quanto riguarda il Veneto. Come abbiamo visto, anche qui i temporali sono attribuiti a figure malvagie, le streghe in particolare, che comunque ricevono il proprio potere dal Diavolo. Le preghiere e le croci possono proteggerci, ma soprattutto è il suono delle campane benedette la principale arma di difesa contro il male portato dai temporali15. Sul piano individuale, esisteva anche una preghiera non molto diversa da quella registrata da Leland in un’altra zona dell’Italia settentrionale, o forse nel suo caso centrosettentrionale, visto che il suo campo di ricerca si incrociava con la Toscana. Santa Barbara, in particolare, aveva potere sul fuoco in virtù del suo martirio: oltre ad averla resa patrona degli artificieri16, ruolo con cui oggi è probabilmente più famosa, questo la rendeva anche capace di proteggere dal fulmine, il cui legame col fuoco ha precedenti mitici di estrema antichità, come già accennavamo17. San Simone l’accompagna anche in preghiere siciliane contro i fulmini, per ragioni che ancora non mi sono molto chiare, ma il discorso si farebbe troppo lungo e possiamo fermarci qui, dicendo solo che erano i due santi invocati più spesso come difesa contro il fulmine dai contadini italiani. San Pietro e san Paolo erano un’altra coppia che si poteva trovare in questo ruolo, a volte.

Senza allontanarci troppo dal Veneto, in Friuli il temporale era addebitato (anche) ai misteriosi belavant, che scorrazzavano in cielo a bordo di carri, provocando così il rumore dei tuoni. Adesso è forse il caso di approfondire un poco questi personaggi a cui avevamo fatto accenno in precedenza. Si tratterà di una presentazione piuttosto rapida e sintetica, per ovvie ragioni: per uno studio molto più esteso e dettagliato sulla figura dei benandanti, rimando alla monografia pubblicata negli anni ‘60 da Carlo Ginzburg, ossia I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento. Se volete addentrarvi ancora più a fondo nell’argomento, potrete poi procedere con un’altra opera dello stesso autore, pubblicata una ventina d’anni dopo, in cui riprende il discorso, correggendolo in parte ed espandendolo anche al resto dell’Europa, ossia Storia notturna. Una decifrazione del sabba.

I benandanti, dicevamo. Prima di tutto, dobbiamo dire che sono esistiti davvero, anche se in seguito divennero personaggi del folklore, caricandosi di caratteristiche che, per ovvie ragioni, nella realtà non avrebbero mai potuto possedere. I benandanti possono essere definiti come pseudo-sciamani, se non siamo troppo schizzinosi sulla definizione di “sciamano” e siamo disposti ad accettare qualche compromesso, evitando le posizioni rigide assunte da Mircea Eliade sull’argomento. Erano uomini di bassa estrazione sociale, per lo più, che vivevano nelle campagne friulane del Cinquecento e forse prima. La loro caratteristica fondamentale era la capacità di cadere in trance in periodi fissi. Durante questa trance, uscivano dal proprio corpo e si recavano in volo magico in una località non precisata18, dove conducevano battaglie estatiche contro streghe e stregoni. I benandanti erano armati di mazze di finocchio, mentre streghe e stregoni impugnavano canne di sorgo. In queste battaglie ci si giocava l’andamento del raccolto per un particolare prodotto dei campi, diverso di volta in volta, a seconda della stagione. Questo almeno è ciò che i benandanti raccontavano.

In una prima fase, alla fine del Cinquecento, l’inquisizione di Udine non sapeva come trattarli. Non sapeva neppure cosa fossero i benandanti, per cui i loro primi interrogatori erano volti soprattutto a ottenere informazioni sulle loro attività, così da permettere agli inquisitori di capire se ci fosse di mezzo il Diavolo o se fossero solo dei poveri matti. Pare che all’inizio sia stata la seconda opzione a prevalere, almeno a giudicare da come si conclusero i processi, nel disinteresse quasi totale di una Chiesa che in quel periodo era più preoccupata da eretici e luterani e non era molto interessata a un paio di contadini che deliravano e probabilmente volevano solo spillare qualche soldo a persone più credulone di loro. In una fase successiva, grossomodo dopo il 1620, gli inquisitori decisero di farli ricadere nel mare magnum del sabba, guidando gli interrogatori in modo da ottenere le risposte più appropriate. Questo è però un altro discorso, ma può spiegare l’evoluzione postuma della loro figura: una volta spariti dal mondo reale, sono sopravvissuti nell’immaginario friulano nel ruolo di stregoni, perché così alla fine li aveva definiti la Chiesa, e il resto è storia.

Un particolare che invece ci interessa da vicino è il giorno in cui i benandanti sarebbero caduti in trance, per poi uscire in volo dal proprio corpo. Questo giorno era fisso e corrispondeva alla notte del giovedì in occasione delle quattro Tempora. Quattro volte l’anno, una volta per stagione, e sempre il giovedì notte, ossia il giorno lasciato libero dai rituali religiosi che accompagnavano le quattro Tempora. Giusto per evitare incomprensioni, nel calendario liturgico della Chiesa le quattro Tempora sono periodi all’inizio di ogni stagione, in cui sono prescritti riti particolari quali digiuni, preghiere e un tempo a volte anche la benedizione dei campi. Questi riti si svolgono in tre giorni: il mercoledì, il venerdì e il sabato della settimana in cui cade ognuna delle quattro Tempora. Il giovedì è dunque un giorno libero nel calendario ed è il giorno in cui i benandanti friulani compivano i propri riti stagionali, combattendo contro streghe e stregoni per decidere l’andamento del raccolto per un prodotto di stagione, come già detto.

Fin qui, tutto a posto. I benandanti si consideravano schierati dalla parte del bene19, perché la loro vittoria significava raccolti abbondanti. Streghe e stregoni contro cui combattevano erano invece dalla parte del male, perché la loro vittoria significava raccolti scadenti e possibili carestie. Quando nel Seicento tornarono sotto l’attenzione degli inquisitori, furono però spinti un poco alla volta verso il sabba, forzandoli ad ammettere patti col Diavolo e tutto il resto dell’armamentario: se in una prima fase la Chiesa li aveva soprattutto ignorati, in questa seconda fase aveva apparentemente deciso di semplificare le cose, buttandoli nel calderone del sabba, per evitare complicazioni inutili. Questo significò anche la fine dei benandanti veri e propri, ormai privati della loro unicità.

Verso il 1650 i benandanti erano di fatto spariti come gruppo autonomo, ridotti a uno dei tanti corpuscoli che affollavano l’immaginario del sabba. Non sappiamo di preciso quando siano diventati i belavant, che guidano carri sopra le nubi, ma di sicuro è stato dopo il Seicento, magari come sviluppo del volo magico con cui sostenevano di potersi recare in forma di spirito alle loro battaglie. Sempre ai belavant che volavano sui carri era attribuito anche il vizio di inseguire ogni persona che incontravano in strada la notte dell’Epifania, per poi scagliare la loro ascia contro le sue gambe20. Questo suggerisce che i benandanti storici si siano sovrapposti o uniti a figure preesistenti, proprio attraverso l’immagine del volo: memorie di divinità pagane dotate di carri volanti e oggetti da scagliare, forse, che potrebbero essere rimaste a lungo in forma più o meno confusa nel folklore locale, come sarebbe avvenuto alle divinità etrusche in un’altra parte d’Italia secondo Leland. Che i belavant fossero anche immaginati come uomini grandi e grossi mi sembra un altro punto a favore di una ipotesi simile.

Che le loro scorribande estatiche avvenissero proprio di giovedì è interessante e ci riporta verso il dio delle tempeste. Tanto nelle lingue latine quanto in quelle germaniche, il giovedì è il giorno dedicato al dio delle tempeste: Giove e Thor/Donar, a seconda della famiglia linguistica. Giovedì è anche uno dei due giorni in cui si può svolgere il sabba, secondo la tradizione europea: l’altro è il venerdì, il giorno dedicato a Venere o Freya, sempre a seconda della famiglia linguistica.

Non certo una scelta casuale. Il nesso tra divinità femminili e sabba è attestato in quasi tutta Europa, dove la “Signora” del sabba poteva presentarsi sotto vari nomi, ma tutti si rifacevano in un modo o nell’altro a qualche dea dell’antichità pagana. Freya, oltre a essere dea dell’amore e della fertilità nel mondo scandinavo, era anche una dea dei morti e assieme a Odino si divideva in parti uguali gli spiriti dei defunti: metà andavano a lei, l’altra metà a Odino. Quanto a Venere, in questa sede può essere sufficiente ricordare il suo ruolo di tentatrice demoniaca, che trascina il povero Tannhäuser alla dannazione eterna in una celebre storia medievale, ambientata non a caso sul Venusberg, un monte dalle cui viscere il nostro Tannhäuser riuscirà a liberarsi temporaneamente solo invocando il nome di Dio. Alla fine tornerà indietro e sarà perduto per sempre, ma questo non ci interessa.

Il venerdì è dunque uno dei due giorni in cui si può svolgere il sabba. Preferire questo o il giovedì è molto soggettivo e sembra legato alla zona: in alcune parti di Europa si sceglie il primo, in altre è il secondo a essere preferito. Giusto per fare un esempio tra i tanti, in una fiaba mantovana è il giovedì a essere il giorno in cui le streghe si radunano: è la storia “La maestra scellerata”. Non che preferire un giorno o l’altro faccia qualche differenza per noi: è sufficiente sapere che il giovedì, il giorno del dio del tuono e delle tempeste, era una occasione in cui si poteva svolgere il sabba. Perché anche il dio del tuono aveva qualcosa di demoniaco? Grossomodo.

Capre e caproni possono essere considerati un primo elemento che può facilitare la trasfigurazione “diabolica” del dio del tuono. Se non c’è molto bisogno di parlare dell’immagine diabolica legata a questo animale nel folklore cristiano, così come la sua ricorrente presenza in una veste o nell’altra ai cosiddetti sabba delle streghe, può essere utile dire qualcosa sul suo rapporto con le divinità indoeuropee della tempesta. Abbiamo già accennato alle due capre che trainavano il carro di Thor nella mitologia scandinava, caratterizzate anche dalla capacità di rigenerarsi dalle proprie ossa dopo essere state mangiate21. Altre capre le troviamo nella vita di Zeus, che in almeno una versione del mito sulla sua nascita sarebbe stato allattato a Creta da una capra (Amaltea, che in altre versioni diventa una ninfa) e il cui scudo, la celebre Egida da cui gli veniva l’epiteto di egioco, sarebbe stato proprio ricoperto da una pelle di capra, in certe versioni la stessa capra che lo aveva allattato: già il nome dello scudo ci suggerisce la sua natura “caprina”, considerato che aix/aigos è la parola greca per “capra”22.

Un secondo elemento potrebbe essere la natura duplice del temporale e della pioggia in generale. Se da un lato è fondamentale per avere un buon raccolto, dall’altro lato può devastare le messi, quando arriva in quantità eccessiva o in forme troppo violente. I contadini desideravano la pioggia, come il culto del fulmine che abbiamo incontrato anche presso altre popolazioni ci dimostra; allo stesso tempo, però, ne temevano gli eccessi. Gli dèi delle tempeste dovevano portare l’acqua, che era la vita dei campi, ma dovevano portarla in quantità giusta, con moderazione: questo non era sempre facile, data la natura spesso irruenta di queste divinità. La promozione di Giove, Zeus e altri dèi delle tempeste a signori degli dèi e custodi dell’ordine cosmico potrebbe anche essere dovuta a una risposta apotropaica a questo bisogno di piogge regolate: innalziamo il dio che ci porta la pioggia, assegniamogli la custodia dell’ordine e magari anche lui comincerà a comportarsi bene, portandoci ordine nei campi, con la pioggia giusta al momento giusto. È solo una ipotesi, sia chiaro.

Con l’arrivo del cristianesimo e la necessità di convertire alla nuova religione la grande massa dei contadini, che ai tempi costituivano il grosso della popolazione in ogni paese, i predicatori e i missionari potrebbero aver trovato più comodo scindere in due figure la divinità dei temporali: da un lato il suo aspetto benefico, portatore di vita, e dall’altro il suo aspetto malefico, portatore di distruzione23. Il dio cristiano si prestava benissimo a occupare il ruolo di portatore di vita, tanto più che il pane stesso aveva un ruolo fondamentale nel nuovo culto; per il ruolo del portatore di distruzione, invece, si poteva sempre utilizzare l’Avversario per antonomasia, il Diavolo, che fosse in forma diretta, oppure attraverso le azioni dei suoi servitori, come le streghe. Se Dio portava la pioggia buona, il Diavolo e i suoi aiutanti erano colpevoli dei danni causati dalle tempeste troppo violente, dalla grandine e da tutti gli altri eventi meteo che rovinavano il raccolto. Avremo così il ricorso alle croci e alle preghiere per proteggere i campi, alle campane per scacciare le nubi malevole e tutto il resto dell’armamentario a cui abbiamo accennato in precedenza, mentre al Diavolo e ai suoi sgherri va il compito di percorrere il cielo col rombo minaccioso del tuono.

È possibile? Possibile sì, certo, ma è soltanto una mia ipotesi: potrebbe essere corretta o potrebbe essere sbagliata. Il fatto che esista tutt’oggi un Diavolo in carrozza, che di tanto in tanto compare nel folklore dell’Italia settentrionale come causa dei tuoni, unito a santi che proteggono contro i fulmini e svariati rituali per combattere le tempeste violente, mi porta a pensare che potrebbe essere una interpretazione corretta, almeno a grandi linee: dove una volta c’era un solo dio delle tempeste, che portava il bene e il male, in seguito sono subentrati un Dio che porta il bene e un Diavolo che porta il male24. Il giovedì come giorno del sabba, il caprone collegato al dio delle tempeste come simbolo del Diavolo e le streghe come causa delle tempeste sono tutti elementi che mi portano a pensare che le antiche divinità europee delle tempeste siano state progressivamente demonizzate, almeno nell’Europa occidentale, sfruttando forse anche il timore che le loro manifestazioni più intense suscitava. Non dimentichiamo poi il collegamento tra il sabba e riti agrari più antichi, riti agrari in cui il dio delle tempeste si troverebbe a proprio agio, come abbiamo già visto in altra sede, parlando di fulmine e risaia.

Era possibile una strada diversa? L’assimilazione a un santo che abbiamo visto in Russia ci dice che sì, erano possibili altre strade, almeno in parte. Il risultato potrebbe non essere dei migliori, perché il sant’Elia russo che troviamo nelle storie è un personaggio piuttosto curioso e insolito, giusto per essere generosi, ma è stato comunque uno sviluppo interessante. Dalle nostre parti, invece, sembra che per il dio delle tempeste sia stata scelta solo l’assimilazione al Diavolo, oppure ad altri spiriti maligni. Perché Giove e Zeus, le due facce principali del dio delle tempeste nell’impero romano, avevano ormai perso molto del loro prestigio ed erano deboli a sufficienza da farsi rimpiazzare dal nuovo Dio cristiano? Forse. L’evangelizzazione degli slavi, ben più tardiva, potrebbe avere richiesto compromessi maggiori con le vecchie divinità, rispetto a quanto accaduto nell’Europa occidentale.

Sia come sia, le antiche divinità del tuono, che fossero Taranis o altre, non sono scomparse del tutto dall’Italia settentrionale: la loro ombra sembra resistere ancora nel folklore, travestita da Diavolo, e ancora percorrono il cielo a bordo del loro carro, quando si scatena un temporale. Circolano sotto mentite spoglie, certo, ma esistono ancora, anello più recente in una lunga catena di personaggi che si perde nelle nebbie della preistoria, contraddistinti dalla folgore e dalla ruota, che sia quella di un carro da guerra o un simbolo del cielo.

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NOTE

1 - Bronte, Sterope e Arge: i nomi dei primi due significano rispettivamente “tuono” (brontē) e “lampo” (steropē). Il terzo dovrebbe rappresentare il fulmine, per esclusione, ma “fulmine” in greco è keraunos, per cui il suo nome stona un poco nel gruppo dei tre ciclopi primordiali. Esiste però l’aggettivo argēs, “candido, luccicante”, che ha accento diverso da Arge ma compare nell’Iliade nel composto argikeraunos, “dalla folgore lucente”, come epiteto di Zeus.

2 - È tuttavia possibile che la scelta di questo nome sia dovuta solo a esigenze metriche o stilistiche, sia chiaro. D’altro canto, però, Augusto promuoveva una politica di “ritorno ai bei tempi antichi”, resuscitando la tradizione romana per presentare il proprio regno come un ritorno all’età dell’oro e una seconda fondazione di Roma. Che anche un suo poeta di corte usasse arcaismi rientra benissimo in una politica di questo tipo.

3 - Declinato nel caso opportuno, beninteso, a seconda dell’iscrizione.

4 - Questi i versi 444-446 del libro I, dove è nominato: “et quibus inmitis placatur sanguine diro/ Teutates horrensque feris altaribus Esus/ et Taranis Scythicae non mitior ara Dianae”.

5 - E chissà, all’origine di tutto potrebbe esserci una semplice onomatopea, se pensiamo al rumore provocato dal tuono e ai modi in cui lo potremmo trasporre: magari qualcosa come “toron” o “doron”, che gli indoeuropei di sei o sette millenni fa utilizzavano per indicare il suono che sentivano in cielo durante i temporali.

6 - O almeno di IOM, sigla con cui era spesso indicato Giove nelle iscrizioni su altari e affini.

7 - Ma non la principale: quella era Mercurio, o almeno il dio gallico che Cesare aveva scambiato per Mercurio.

8 - La ruota di Balsag, che uccise Soslan nel racconto osseta, sarebbe una ruota solare, secondo l’interpretazione più comune e sostenuta anche da Abaev, mentre Walter May la vedeva invece come la ruota di un carro da guerra. Le opzioni sembrano essere sempre le stesse, insomma.

9 - San Patrizio, per convertire più facilmente gli irlandesi (popolazione celtica, come i galli), sarebbe ricorso a un simbolo preesistente, una croce con un sole, e lo avrebbe adattato alla dottrina cristiana, per renderla più familiare alla popolazione. O così raccontano le storie sul suo conto, vere o false che siano. Il simbolo di partenza era la ruota a quattro raggi dell’età del Bronzo, diffusa anche in Gallia? È una possibilità, ma potrebbe anche essere sbagliata.

10 - Il santo celebre come uccisore di draghi ottenne così una curiosa affinità con animali selvatici e lupi, ereditata dal dio georgiano, che era una specie di Signore degli animali, fra le altre cose. Questo strano incrocio compare anche nelle storie dei Narti raccontate dagli osseti: è un personaggio di nome Washtirji, che ha tratti ancora più bizzarri.

11 - Sant’Antonio sarebbe sceso all’inferno a rubare il fuoco al Diavolo, dopo che il mondo ne era rimasto sprovvisto, oppure perché non lo aveva mai avuto, a seconda della versione. Come il collega Prometeo, anche lui avrebbe trasportato la refurtiva dentro una ferula, in alcune versioni; in altre, avrebbe usato il proprio bastone come torcia. Rituali connessi al fuoco erano comuni in diverse zone d’Italia il 17 gennaio, quando si festeggiava il santo in questione. Che quel fuoco fosse di origine ctonia, infernale, e dunque impuro, potrebbe essere alla base del nome volgare “fuoco di sant’Antonio” con cui si indica la relativa malattia, ma questo è un altro discorso.

12 - Considerato che in lingua osseta la parola was (trascritta anche come wash) significa “santo”, Wasilla sarebbe sant’Illa, ossia il russo sant’Ilya, sant’Elia.

13 - O forse sì? Leland non è molto chiaro sulla geografia: a volte sembra che la sua “Romagna Toscana” coincida con la nostra Romagna, ma altre volte inserisce nomi di località che decisamente non sono romagnole, oltre a definirla come un “distretto montano”, che non descrive molto bene la Romagna attuale. Fate voi.

14 - E notiamo che “nella lotta tra maghi e strie aveva la meglio chi godeva maggiormente dei favori del diavolo”.

15 - Il suono del metallo è usato come arma per scacciare demoni e variazioni sul tema presso molte popolazioni più o meno primitive, a seconda dei punti di vista, ed era noto anche a greci e romani, che avevano incorporato il suono dei “bronzi” in diversi rituali, spesso con funzione apotropaica.

16 - È davvero necessario ricordare cosa sia una santabarbara?

17 - Il fulmine è probabilmente il più antico “portatore di fuoco” dell’umanità, perché proprio gli incendi causati da un fulmine sono stati quasi di sicuro la prima manifestazione del fuoco che l’uomo abbia mai conosciuto. Nei miti degli ainu il fuoco scese dal cielo assieme al fulmine e anche per i greci il fuoco era un dono di Zeus: in seguito ai fatti di Mekone, come ci racconta Esiodo, Zeus punì gli uomini negando loro il fuoco, così Prometeo glielo dovette rubare nascondendolo dentro una ferula, per riportarlo sulla terra. Nella versione di Eschilo, invece, Prometeo rubò il fuoco ctonio di Efesto, perché non gli era stato possibile avvicinarsi alla dimora di Zeus. Questo mito potrebbe raccontare il passaggio dal fuoco “naturale”, causato dai fulmini, al fuoco controllato e prodotto dall’uomo.

18 - Non precisata in quanto benandanti diversi la indicavano con nomi diversi. Era sempre un qualche tipo di pianura o di campo, che a volte aveva nomi tratti dalla Bibbia o comunque più o meno religiosi, a volte era indicata come una reale località geografica vicina o lontana, mentre altre volte ancora rimaneva senza nome.

19 - Si chiamavano appunto ben-andanti, dopotutto.

20 - Si veda Gnomi, anguane e basilischi, di Dino Coltro, pag. 130. La caratteristica di inseguire chi scappa è attribuita anche al fulmine nel folklore di alcune zone del Veneto, sempre secondo Coltro.

21 - Negli interrogatori di alcune presunte streghe del Norditalia troviamo storie di animali, spesso bovini, fatti resuscitare dalle proprie ossa nel corso del sabba, grazie al potere della Signora. Una certa Pierina moglie di Pietro de Bripio, interrogata nel 1382 dal domenicano fra’ Ruggiero da Casale, inquisitore capo della Lombardia superiore, avrebbe dichiarato di partecipare ogni giovedì notte alle riunioni di una società presieduta da Oriente, donna che aveva il potere di resuscitare i buoi che loro avevano mangiato durante l’incontro: dopo averne raccolto le ossa all’interno della loro pelle, lei colpiva la pelle col pomo della sua bacchetta e i buoi tornavano in vita. Si veda pag. 68 e seguenti di Storia notturna. Una decifrazione del sabba, di Carlo Ginzburg.

22 - Anche Egospotami, dove avvenne una famosa battaglia alla fine della guerra del Peloponneso, era appunto il “fiume della capra”.

23 - Scinderla o sfruttare una scissione già esistente: il dio delle tempeste appare a volte come un gemello (molto sui generis, beninteso) del suo acerrimo nemico, il drago/serpente che controlla le acque o che vive nel profondo del mare, primordiale o meno che sia. È un motivo che sopravvive tutt’oggi nelle fiabe di mezzo mondo e più: anche Vladimir Propp lo segnalava nel suo Le radici storiche dei racconti di fate, parlando di come in certe storie l’eroe e il drago/serpente sembrano essere legati tra loro da un rapporto speciale, dove il mostro attende l’eroe perché sa che quello è il nemico a lui destinato.

24 - Oppure siamo tornati alla scissione tra il drago/serpente e il dio delle tempeste, in conflitto per il controllo delle acque da cui dipende la sopravvivenza degli uomini. Con la sconfitta del drago/serpente, il mondo potrà poi essere creato, reso sicuro per l’uomo o rigenerato alla fine dei tempi, a seconda dei miti. Anche nell’Antico Testamento abbiamo accenni a una lotta tra YHWH e il Leviatano, annidato sul fondo dell’oceano.