Il fulmine e la risaia
La connessione tra il fulmine e la fertilità dei campi è un motivo ricorrente nella mitologia e nel folklore dei popoli che praticano l’agricoltura. È la pioggia a fecondare i campi per far crescere le messi e a portare la pioggia è il dio delle tempeste, qualunque sia la forma che assume presso una determinata popolazione. Può essere antropomorfo o può essere zoomorfo, bovino in particolare, può essere un serpente che vive sopra le nuvole o che si abbatte sulla terra come folgore, ma il risultato non cambia. Il fulmine scende dal cielo e colpisce la terra, accompagnato dalla pioggia: i campi sono fecondati e il raccolto arriverà, assicurando così la sopravvivenza della comunità.
Per le popolazioni agricole, gli dèi della tempesta erano importanti prima di tutto per la loro funzione di fecondatori della terra. Attraversavano il cielo e lo facevano risuonare con la loro voce, il tuono, oppure col rombo del loro veicolo preferito, se erano popoli che utilizzavano o almeno conoscevano i carri, soprattutto da battaglia. Scagliavano le folgori contro i nemici, ma soprattutto verso il suolo, su cui poi si spargeva la loro pioggia, fecondando il terreno. Erano gli eredi del Cielo primordiale, che agli inizi del tempo era stato il marito della Terra e con lei aveva generato tutto ciò che esiste nel mondo. La coppia primordiale si era poi dovuta separare, per un motivo o per l’altro, perché la fase della creazione deve sempre terminare, prima o poi, e il dio delle tempeste ha spesso ereditato il ruolo di padre-cielo “minore”, che feconda una madre-terra “minore” per garantire agli uomini il loro pane quotidiano.
L’esuberante mascolinità del dio delle tempeste in molte mitologie è tutta qui: è l’origine delle ben note attività extraconiugali di Zeus, proprio come è alla base dei numerosi testicoli che gli inni vedici attribuivano a Indra, giusto per fare due esempi famosi. Il dio delle tempeste è maschio e il dio delle tempeste deve fecondare: questo è il suo ruolo principale, per garantire la sopravvivenza della società umana. Non è certo un caso se è proprio il toro l’animale che più spesso lo caratterizza, almeno tra i popoli che allevano i bovini.
Così come accade presso i popoli indoeuropei e mediterranei in generale, anche per i giapponesi le divinità delle tempeste erano divinità collegate all’agricoltura e alla fertilità dei campi, in particolare alle risaie, che erano e sono tuttora alla base dell’alimentazione giapponese. Ne troviamo una chiara testimonianza già nella lingua stessa, nelle parole usate per indicare il fulmine, emblema principale del dio delle tempeste. Fulmine e riso sono indissolubili, al punto che la pianta di riso è parte del nome stesso del fulmine.
Esistono più termini nella lingua giapponese per indicare il fulmine: inazuma, inabikari, inatama, inatsurubi. Ognuna di queste parole lo definisce in un modo leggermente diverso, concentrandosi ora su questo e ora su quell’aspetto del fenomeno, ma già a prima vista possiamo notare che sono tutte accomunate dalla prima parte, “ina”. E cosa significa ina, in giapponese? Ovviamente è la pianta del riso. In qualunque modo lo vogliamo descrivere, dunque, il fulmine è qualcosa “del riso”. Vediamo adesso cosa, nello specifico.
Ina, variante della parola ine, indica appunto la pianta di riso e compare in numerosi termini che hanno a che fare proprio col riso: la troviamo per esempio in inada, che significa “risaia”, oppure in inago, che significa “cavalletta” e letteralmente può essere tradotta come “figlia del riso”, ma è anche in inaho, “spiga di riso”, oppure in inasaku, che è forma alternativa di beisaku e significa “coltivazione del riso”. Costituisce poi la prima parte della parola Inari, il nome della divinità del riso, che a volte è maschio e a volte femmina, a volte è volpe e a volte usa le volpi come suoi messaggeri, e che si può vedere raffigurata come volpe ovunque si voglia invocare la prosperità: è la divinità che ogni anno scende dalle montagne per portare il riso nei campi. Ma Inari non ci interessa, almeno in questa sede.
Se ina è sempre e comunque la pianta di riso, il fulmine è descritto dai giapponesi come “qualcosa” del riso. Inazuma è ina no tsuma, ossia il coniuge1 del riso, una immagine alla cui base si trova un’antica credenza giapponese secondo cui la pianta del riso diventava feconda dopo aver ricevuto il fulmine: immagine che possiamo anche considerare freudiana, se ci piace pensarla così. Una idea quasi identica è espressa dal termine inatama, ossia “spirito del riso”, dovuto alla credenza che il fulmine facesse germogliare gli spiriti contenuti nella pianta del riso. Allo stesso modo, inatsurubi è la “fecondazione del riso”, che continua a ribadire lo stesso concetto già visto nei casi precedenti, mentre inabikari si accontenta di descrivere il fulmine come la “luce del riso”, per una volta senza scendere nei dettagli sul tipo di relazione che lega il fulmine alla pianta di riso.
A conferma di tutto questo, abbiamo anche alcune tradizioni giapponesi di cui si è conservata almeno la memoria, se non la pratica. In Kantō, il distretto dove si trova anche la città di Tōkyō, quando un fulmine colpiva una risaia esisteva la consuetudine di piantare bambù verdi attorno a quel punto e circondarli con shimenawa, le corde di paglia che servivano a recintare luoghi sacri, per segnalare a chiunque si trovasse a passare nelle vicinanze che quella era la sede di un kami ed era quindi opportuno mantenere le distanze. Altri esempi li vedremo più avanti, proseguendo col nostro discorso.
Come abbiamo visto, le parole con cui è indicato il fulmine ci mostrano già chiaramente come fosse concepito dai giapponesi: possiamo considerarle una specie di bignami mitologico, almeno per quanto riguarda il dio delle tempeste e la sua funzione di fecondatore della terra, in particolare della risaia. Se consideriamo poi che nella mitologia giapponese esiste anche una figura femminile chiamata Kushinadahime, nota anche come Inadahime o come Kushiinadami, ricordando che inada significa appunto “risaia”, possiamo già immaginare come si svolgerà la sua storia.
Il mito in cui compare è molto famoso e molto curioso: è a metà tra la mitologia e la fiaba, contiene elementi che sembrano provenire da svariati luoghi e svariate epoche dell’Eurasia e presenta pure un gioco di parole, che è sempre qualcosa di sospetto quando compare in un mito. Non che tutti i giochi di parole nascondano necessariamente un segreto2, ma è sempre meglio procedere con cautela e sospettare che potrebbe esserci qualcosa dietro, quando ne incontriamo uno in ambito mitico. A volte potremmo anche scoprire di avere ragione, scavando abbastanza in profondità.
Sia come sia, il mito ci racconta che Kushinadahime diventerà la moglie del dio Susanoo, dopo che questi avrà ucciso Yamata no Orochi, il serpente mostruoso3 che aveva in programma di divorare la ragazza, come aveva già divorato le sue sette sorelle. Kushinadahime è il nome con cui questo personaggio compare nel Kojiki e nel Nihonshoki, i due più antichi testi giapponesi che siano sopravvissuti, entrambi redatti all’inizio dell’ottavo secolo, entrambi sospesi tra mitologia, storia e leggenda. Posto che il suffisso hime, letteralmente “principessa”, compariva spesso nei nomi per indicare il genere della persona4, il suo nome vero e proprio può essere ridotto a Kushinada. Lo Izumo fudoki, testo redatto nello stesso secolo di Kojiki e Nihonshoki, indica questo personaggio col nome Kushiinadami Toyomanurahime e la caratterizza come dea guardiana delle risaie: un ruolo perfettamente comprensibile, dato il suo nome.
Abbiamo così un personaggio che è una risaia (inada), una risaia straordinaria (kushi), e che diventa la moglie del dio Susanoo. Diventa la moglie di Susanoo dopo che questi ha ucciso un serpente mostruoso. Ora, l’uccisione del serpente-drago è un tratto tipico del dio delle tempeste in svariate mitologie eurasiatiche. Limitandoci poi al rapporto tra serpenti mostruosi e divinità legate al tuono, possiamo trovare numerosi esempi anche nel continente americano. Anche per gli ainu, i vicini di casa dei giapponesi, tuoni e fulmini erano abbinati a draghi e serpenti. Kanna Kamui, la loro divinità del tuono, era spesso immaginata e descritta come un drago e i suoi movimenti erano accompagnati dal rombo del tuono. Questo potrebbe essere un tratto che hanno ricevuto dalla Cina, dove il drago è il dio della pioggia e delle tempeste, oltre a essere lo spirito dei fiumi: è lui infatti a mandare o negare l’acqua, è lui a camminare nel cielo da una nube all’altra. Ma il triangolo composto da dio delle tempeste, drago-serpente e acqua non è certo invenzione cinese, così come non è invenzione indoeuropea. Sembra una di quelle idee ricorrenti nella storia dell’umanità.
Il dio delle tempeste è spesso l’uccisore di un drago o di un serpente mostruoso, in genere associato all’acqua. Allo stesso tempo, in molte fiabe troviamo un drago o serpente che riceve regolarmente fanciulle in sacrificio, spesso ma non sempre perché quel mostro controlla l’accesso all’acqua e un sacrificio umano è l’unico modo per ottenere il permesso di rifornirsi. In queste storie, quando è il turno di sacrificare la principessa, arriverà uno straniero che ucciderà il drago, libererà l’accesso all’acqua e spesso sposerà la principessa, a meno che non abbia già altri impegni più pressanti5.
Il combattimento tra dio delle tempeste e drago-serpente si svolge spesso in epoca primordiale, non molto tempo dopo la formazione del mondo, ma a volte anche prima. È una lotta tra la figura divina che dona l’acqua agli esseri umani, rendendo possibile la vita e in epoche successive l’agricoltura, e una divinità primordiale che voleva tenere per sé il dominio sulle acque, che spesso sono proprio le acque primordiali, da cui il mondo è emerso o emergerà a breve. Se non è parte di un mito cosmogonico, questo episodio rientra nella fase immediatamente successiva, quando il mondo deve essere ripulito dagli esseri più mostruosi e reso abitabile per l’umanità.
Abbiamo così Indra che combatte contro Vrtra, il serpente gigantesco che trattiene le acque. Abbiamo Marduk che combatte contro Tiamat, il drago che governa le acque abissali. Abbiamo il dio Seth che uccide il drago Apophis. Abbiamo il dio Baal che sconfigge un mostro chiamato Yam, ossia “mare”. Abbiamo Susanoo che uccide il gigantesco serpente a otto teste Yamata no Orochi, per poi diventare lo “sposo della risaia”, ossia di Kushinadahime. Può bastare per considerare Susanoo come un dio delle tempeste, o almeno un dio che ricopre anche quel ruolo? Mi pare di sì, per adesso, specie se poi consideriamo che un indiscutibile dio delle tempeste come Indra, tra i suoi epiteti, aveva anche quelli di “signore dell’aratro” (siraspati) e soprattutto “padrone dei campi” (ūrvavapati), a sottolineare l’inseparabilità dell’elemento agricolo dalla figura di un dio delle tempeste in azione.
Se è vero che, in una fase iniziale, i capricci di Susanoo avevano inaridito le isole giapponesi, come ci raccontano sia il Kojiki che il Nihonshoki, è altrettanto vero che lo stesso Nihonshoki ci racconta un mito in cui Susanoo ha portato la vegetazione sulle isole giapponesi. Dopo essere stato cacciato dal mondo celeste, in questa variante Susanoo non combatte (subito) contro Yamata no Orochi, ma si strappa i peli da varie parti del corpo e li sparpaglia sul territorio, facendo spuntare alberi e piante di ogni tipo. In seguito darà anche inizio all’agricoltura. In un’altra variante è stato Isotakeru, uno dei suoi figli, a scendere dal cielo portando con sé tutti i semi che avrebbero generato la vegetazione sulle isole giapponesi, guadagnandosi in questo modo l’appellativo di Isaoshi no Kami.
È anche possibile considerare poi il dio delle tempeste e il drago-serpente come lo sdoppiamento di una sola figura. Entrambi controllano le acque, donandole o negandole in modo a volte capriccioso; entrambi possiedono un aspetto violento, che può causare morte e distruzione all’improvviso; entrambi hanno potere di vita e di morte, in breve, e sembrano completarsi a vicenda, pur nella loro lotta. Thor e Jormungandr sono nemici giurati, combattono e muoiono assieme, l’uno per mano dell’altro. Zeus contro Tifone è l’ultima grande battaglia a mettere in discussione il trono del re degli dèi e in alcune versioni costerà cara a Zeus, che dovrà risollevarsi dopo una prima sconfitta e mutilazione. Tarhunna e Illuyanka hanno un rapporto quasi identico nel mondo hittita e hurrita, col drago che sconfigge e rimpiazza il dio delle tempeste in un primo momento, costringendo Tarhunna (o Teshub/Tessub, se preferiamo il nome hurrita del dio) a faticare parecchio prima di ripristinare lo status quo. E così via.
Anche tra Susanoo e Yamata no Orochi potrebbe esserci un rapporto simile. Il drago-serpente potrebbe essere uno sdoppiamento di Susanoo6, il suo aramitama, lo spirito malevolo, che dovrà essere sottomesso dal nigimitama, lo spirito benevolo. Non sarebbe una ipotesi troppo balorda, specie se consideriamo che il Nihonshoki ci racconta come le nuvole si addensassero sempre sopra il serpente, per non parlare della spada Ama no Murakumo7 trovata all’interno di una sua coda. Ōkuninushi, il più importante tra i discendenti di Susanoo, si trova personalmente a dover affrontare il proprio alter ego in una scena molto curiosa raccontata dal Kojiki. Una misteriosa figura luminosa e serpentiforme si avvicina a lui aleggiando sopra il mare, per poi presentarsi come uno dei suoi spiriti e dichiararsi pronto ad aiutarlo, a patto che gli sia concessa una residenza sul monte Mimoro/Miwa8. Riapparirà in seguito sotto il nome di Ōmononushi, in più di una occasione con l’aspetto di un serpente, forma che utilizzerà anche per sedurre una donna.
Ma la connessione tra fulmine e riso non si limita alla storia di Susanoo che uccide un drago e sposa una principessa con la risaia nel nome. Altri episodi più o meno mitici sono conservati nel folklore giapponese passato e recente, in cui il legame tra il riso e le divinità delle tempeste è molto chiaro. Nel suo Essai sur la mythologie japonaise, parlando delle divinità di Izumo, Matsumoto Nobuhiro ci elencava alcune di queste storie. Una leggenda riferita nel Chiribukuro e proveniente da un Fudoki, per esempio, racconta di un fratello e una sorella che, impegnati a trapiantare nella risaia le pianticelle di riso, si erano sfidati per scherzo, dicendo che l’ultimo a finire il lavoro sarebbe stato punito dal dio del monte Ikufube. A perdere la scommessa è la sorella, che è folgorata a morte. Il fratello la vorrebbe vendicare, ma non sa dove trovare il dio del tuono. A questo provvede una fagiana, che si posa sulla sua spalla e gli fa da guida fino a una grotta sulla vetta del monte Ifukube, al cui interno trova il dio coricato. Il ragazzo è pronto a ucciderlo, ma il dio gli promette immunità dai fulmini per tutti i suoi discendenti e alla fine raggiungono un accordo. Inoltre, in quella regione nessuno mangia fagiani e fagiane, per ricambiarli dell’aiuto offerto al giovane.
Nella provincia di Sado, si raccontava invece la storia di una ragazza di nome Otowa, che viveva presso il tempio Dangishodō. Il giorno prima del trapianto del riso, Otowa salì in montagna per raccogliere ingredienti da usare il giorno seguente per il pranzo dei lavoratori. Mentre si sciacquava la veste in uno stagno presso il monte sacro Kinpoku, un enorme serpente bianco uscì dall’acqua, prese forma umana e la convinse a diventare sua sposa. La mattina seguente, questa divinità raggiunse il tempio in groppa a un cavallo bianco per recuperare la sua promessa sposa. Otowa uscì da una finestra, lo seguì e si gettò nello stagno per unirsi a lui, diventando a propria volta una dea.
Yanagita Kunio riferisce poi di una tradizione degli antichi giapponesi legata sempre al periodo in cui si trapiantava il riso nelle risaie. In quel giorno si organizzava un grande pranzo nelle risaie e a portare il cibo ai lavoratori era una ragazza vestita dei suoi abiti migliori. A questo pranzo dovevano partecipare tutti i lavoratori ed eventuali avanzi erano abbandonati nelle risaie. La ragazza che portava il cibo, poi, spesso faceva una morte tragica nello stesso giorno, almeno secondo le storie raccontate a riguardo. Sempre Yanagita Kunio ci parla anche dell’abitudine di inzaccherare di fango le ragazze che lavoravano nelle risaie nel giorno in cui il riso era trapiantato, a volte facendole anche cadere nelle risaie stesse. Il suo sospetto era che in queste usanze agricole si conservasse un ricordo di pratiche in cui una qualche ragazza era consacrata come divinità dell’acqua.
Accanto a queste storie di ragazze offerte a divinità acquatiche, uccise dal fulmine o comunque identificate con la risaia in occasione del giorno del trapianto delle pianticelle di riso, troviamo anche storie di sacrifici veri e propri per propiziare un buon raccolto. Le vittime in questi casi sono animali, non esseri umani, ma credo che valga comunque la pena di esaminarne qualche esempio.
Lo Harima fudoki, per cominciare, ci conserva due storie su questo tema. Parlando del distretto di Sayo (Sayo Kōri), l’autore del Fudoki ci racconta che è chiamato così perché un tempo due grandi divinità, marito e moglie, litigarono tra loro su chi dovesse occupare quel territorio. La moglie, Tamatsuhime, catturò un cervo vivo, lo sventrò e piantò il riso nel sangue che aveva versato al suolo. Come risultato, nel corso di una notte erano già spuntate le pianticelle, pronte per essere trapiantate in una risaia vera e propria. Dopo aver visto questa scena, il marito se ne andò, lasciandole il territorio. Da qui il nome Sayo: perché la semina miracolosa era avvenuta in una notte (yo) del quinto mese (sa[tsuki]), il mese in cui era normale trapiantare il riso nelle risaie.
La seconda storia ci porta al villaggio di Urumi nel distretto di Kamo. Questo villaggio si chiamerebbe Urumi perché, quando il dio Nitsuhiko voleva far scorrere il basso corso del fiume Hafuta verso Urumi, la dea Ōmizu, che viveva in quel villaggio, si rifiutò di aiutarlo, affermando di non volere l’acqua del fiume, perché usava il sangue della selvaggina per coltivare il riso nelle sue risaie. Nitsuhiko pensò che fosse solo una scusa, perché lei non voleva lavorare: da qui il nome del villaggio, che sarebbe una modifica della parola umi, “essersi stancato”.9
Sempre in tema di sacrifici per ottenere un buon raccolto di riso, il norito recitato in occasione del Toshigoi no matsuri10 ci informa che bisognava offrire un cinghiale bianco, un cavallo bianco e un gallo bianco alle divinità dei cereali11, informazione che ci è confermata dal Kogoshūi, testo del IX secolo in cui si racconta anche il mito delle origini di questo sacrificio da offrire a Mitoshi no Kami12, nipote di Susanoo. Possiamo infatti leggere che nel periodo divino il dio Ōtokonushi offrì un giorno carne bovina agli uomini che stavano lavorando nei suoi campi. Il dio del riso Mitoshi, che passava da quelle parti in visita, sputò disgustato su quella offerta e se ne tornò a casa, lamentandosi col padre13 per la pessima accoglienza che gli era stata offerta.
Arrabbiato per il trattamento ricevuto, Mitoshi inviò poi locuste14 e altri insetti nocivi a infestare le risaie di Ōtokonushi e distruggere le pianticelle di riso. Vista la rovina che aveva colpito i suoi campi, Ōtokonushi ricorse a oracoli per scoprire le cause della devastazione: nello specifico, si affidò a katakannagi e hijikannagi15. Il responso fu che la maledizione era stata mandata da Mitoshi, per cui era necessario pacificarlo con l’offerta di un cinghiale bianco16, un cavallo bianco e pollame bianco. Ōtokonushi obbedì e Mitoshi si placò, spiegandogli come rimediare ai danni subiti. Le piante di riso si ripresero, non ci furono più problemi e da allora si continua con la tradizione di offrire al dio un cinghiale bianco, un cavallo bianco e pollame bianco. Stando a quanto aggiunge poi l’autore del testo, già ai suoi tempi c’erano giapponesi che mettevano in dubbio quella storia e la tradizione relativa, per cui è meglio prenderla un poco con le molle.
Come possiamo vedere già da questo breve excursus, la coltura del riso e in particolare la fase di trapianto delle pianticelle nella risaia era accompagnata in Giappone da rituali di vario tipo, che in alcuni casi potevano comportare anche sacrifici di animali o l’offerta simbolica di una ragazza, che doveva interpretare il ruolo della risaia e ricevere l’amore di un dio che, a seconda dei casi, era il fulmine o un serpente acquatico, ammesso e non concesso che ci sia davvero differenza tra le due forme. Siamo di nuovo allo sposo della pianta di riso, in altri termini, ossia lo inazuma, il fulmine. Se nei miti il matrimonio era reale, o almeno comportava una qualche unione tra ragazza e folgore, nella realtà tutto si riduceva a una ragazza vestita bene e gettata in una risaia, a metà tra il gioco e il gesto apotropaico. Questo in epoca storica, quantomeno. Se in un passato remoto un sacrificio si compisse davvero, non ci è dato saperlo, anche se a molti piace fantasticare che un fondo di verità esista. Improbabile che sia così, proprio come è improbabile che in Europa molte principesse siano mai state sacrificate davvero a un drago per ottenere l’acqua, come ci raccontano mille e più fiabe, ma l’ipotesi rispunta di continuo e ci dovremo convivere.
Sia come sia, il nostro punto di partenza era il collegamento che esiste nella lingua giapponese tra il fulmine e il riso. Può essere lo sposo, lo spirito, la luce o anche la fecondazione del riso, ma il fulmine appare sempre collegato a questa particolare coltura, in genere come stimolatore della sua crescita. Perfettamente in linea col resto del mondo, dove il dio delle tempeste è il fecondatore della terra, la pioggia che fa crescere le messi. In Giappone, però, la coltura del riso non richiede solo la pioggia per irrigare, ma il controllo delle acque in generale. Se il fulmine feconda la pianta del riso, è necessario poi tenere sotto controllo l’acqua per ottenere un buon raccolto. Per questo il selvaggio Yamata no Orochi deve essere sostituito da Susanoo, che riceverà pure la sposa destinata in origine al drago-serpente, ossia la risaia stessa.17
Nei miti e nel folklore, il dio delle tempeste interviene di solito quando le pianticelle di riso sono trapiantate nella risaia: è in questa fase che troviamo ragazze offerte alla risaia, colpite dal fulmine, divorate o almeno portate via da serpenti acquatici. Sono lì a simboleggiare il riso che sposa il dio delle tempeste, che è acqua e serpente: sono le eredi virtuali di Kushinada, offerta in sacrificio a Yamata no Orochi e sposata da Susanoo, un dio che è anche tempesta, è anche monsone, ma è anche e soprattutto il capostipite di una famiglia in cui abbondano divinità del riso, del raccolto, del cibo e di tutto quanto sia connesso all’alimentazione. Ricordiamo poi che, almeno secondo il Kojiki, i cinque cereali nacquero proprio quando Susanoo uccise Ōgetsuhime, altra dea del cibo ma di questo mito ho già parlato a sufficienza esaminando la nascita dell’agricoltura.
Non che Susanoo sia l’unico dio delle tempeste nella tradizione giapponese: è soltanto il più famoso. Molte altre divinità sono state inserite nella sua famiglia, quando la mitologia è stata ristrutturata e unificata; allo stesso modo, molte altre divinità delle tempeste sono finite nella famiglia di Ōkuninushi, il principale erede di Susanoo e famoso a propria volta per le doti di fecondatore e per gli innumerevoli amori, tutte caratteristiche tipiche di una divinità che controlla le acque e porta la pioggia nei campi per far crescere il raccolto. Il fulmine era lo sposo del riso, era la pioggia fertilizzante ed era il serpente signore delle acque: la lingua giapponese non fa che confermarci la sottostante tradizione, usando proprio certe parole per indicare il fulmine.
Se i giapponesi hanno interpretato il fulmine in una chiave d’acqua, è interessante notare che i loro vicini di casa, gli ainu, hanno scelto invece di interpretarlo principalmente in una chiave di fuoco. Anche per loro il fulmine è un serpente, ma non è il portatore delle piogge: è il portatore del fuoco. Il fulmine è imeru, è luce improvvisa (meru), è scintilla (merumeru). Perché gli ainu, a differenza dei giapponesi in epoca storica, praticavano una forma di agricoltura basata sul fuoco, yakihata, ossia “taglia e brucia”, molto diversa dunque dalle risaie accuratamente irrigate dei loro vicini di casa? Una forma di agricoltura in cui il serpente bruciava assieme ai campi, offrendo la propria vita all’amata dea del fuoco, come aveva promesso di fare per ottenere il permesso di scendere assieme a lei dal cielo? È possibile, ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Lo lasceremo solo come accenno, in questa sede.
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NOTE
1 - La parola tsuma è usata soprattutto per indicare la moglie, ma di per sé è neutra e può riferirsi tanto all’uno quanto all’altro coniuge: è il contesto a indicarci il senso preciso, a seconda dei casi. Se tsuma è di solito scritto con il kanji 妻, che contiene il radicale “donna” e significa appunto “moglie”, può anche essere scritto con 夫, che significa invece “marito” e la cui lettura più comune è otto. Nel caso del fulmine, si tratta ovviamente di marito e non di moglie, dato che il suo ruolo è quello del maschio, che feconda la pianta di riso facendole produrre i suoi frutti.
2 - I Fudoki, per esempio, brulicano di giochi di parole, utilizzati di solito per spiegare un qualche toponimo locale: se il nome non è dovuto a qualcosa che un personaggio famoso o una divinità avrebbe detto, allora è spesso collegato a un evento che si sarebbe svolto lì e che in giapponese ricorda un poco il nome del posto. In generale, i giochi di parole sono usati come spiegazione quando non si conosce o non si ricorda più il significato di qualcosa, oppure quando lo si vuole nascondere deliberatamente. Sembra perfino superfluo ricordare tutti i giochi di parole a cui ricorre Ovidio nei suoi Fasti, quando deve spiegare l’origine di una qualche antica tradizione romana, di cui ormai nessuno si ricorda più il significato ai suoi tempi, per quanto ancora praticate perché “si è sempre fatto così”.
3 - Con otto teste, otto code e grande come otto valli. Lo ya che troviamo nel suo nome significa appunto “otto”, nel caso ci fosse qualche dubbio. Era un numero sacro per i giapponesi.
4 - Se molti nomi femminili nelle antiche cronache giapponesi terminavano per hime, i nomi maschili terminavano invece per hiko, che ovviamente significa “principe” e che, come hime, serviva prima di tutto a rendere esplicito il genere della persona. A questo proposito, non possiamo non menzionare anche il termine himehikosei, coniato da Takamura Itsue negli anni ‘60 per indicare la forma di governo che sarebbe esistita nelle comunità dell’antico Giappone, composta da una diarchia in cui una donna (hime) deteneva il potere sacro e sacerdotale, mentre un uomo (hiko), spesso suo fratello, si occupava in genere dell’amministrazione sul piano più pratico e quotidiano. Qualcosa di simile alle “due spade” della simbologia medievale, insomma. C’è chi ha voluto interpretare i rapporti difficili tra Amaterasu e Susanoo in questa chiave, ma è un altro discorso e qui non lo affronteremo.
5 - È il caso ad esempio di Amirani in una variante molto particolare della sua storia. Dopo aver sconfitto il drago in un mondo sotterraneo, l’eroe georgiano rifiuterà la principessa appena salvata, chiedendo invece un modo per ritornare al suo paese, da cui era stato cacciato e dove lo attendevano nuove avventure più interessanti di una donna, almeno a suo parere.
6 - Il modo in cui Susanoo uccide Yamata no Orochi, soprattutto nella descrizione data nel Kojiki, ricorda molto il sistema usato nelle storie ainu per disperdere definitivamente una divinità malvagia: dividerla nel maggior numero possibile di pezzi e poi sparpagliarli nell’ambiente, per disperdere così anche il suo spirito. Possiamo considerarlo un sistema usato da Susanoo per purificarsi, un rito per sbarazzarsi di una divinità malvagia condiviso in passato da giapponesi e ainu, oppure è soltanto una coincidenza priva di significato? Il dibattito è aperto.
7 - Ama no murakumo no tsurugi è il suo nome completo, ossia “spada celeste dell’ammassarsi delle nubi”. Sarà poi ribattezzata Kusanagi no tsurugi dopo un episodio nella vita dell’eroe Yamatotakeru, che la utilizzerà per tagliare l’erba (kusanagi) nel corso di una campagna militare, salvandosi così dalla trappola incendiaria in cui era caduto.
8 - Secondo lo Izumo no Kuni no Miyatsuko no Kamuyogoto, questo dio sarebbe lo spirito pacifico, ossia il nigimitama, di Ōkuninushi, che lui stesso poi vincolò a uno specchio di grandi dimensioni e mise a vivere nel boschetto sacro di Ōmiwa, dopo avergli assegnato il nome di Yamato no Ōmononushi Kushimikatama no Mikoto. Ōkuninushi lo avrebbe anche presentato a Ninigi, divino nipote di Amaterasu, come una delle sue divinità protettrici.
9 - Per le interpretazioni di questi due sacrifici di sangue, rimando alla nota 434 alle pagine 167 e seguenti di Harima Fudoki. A Record of Ancient Japan Reinterpreted, Translated, Annotated, and with Commentary by Edwina Palmer, dove troverete elencate una serie di ipotesi e la bibliografia necessaria per approfondire il discorso.
10 - Cerimonia per invocare un buon raccolto futuro, che si svolgeva di solito il secondo mese dell’anno. È interessante notare come la parola toshi, che in genere significa “anno” in giapponese moderno, qui sia usato per indicare il raccolto dei cereali, del riso in particolare: non l’anno ma il raccolto annuale, in pratica. È possibile che il significato più antico di toshi fosse proprio questo, ossia “raccolto”, e che poi sia passato a indicare l’anno perché il raccolto (del riso) è annuale, ma io non sono un filologo e lascio il responso a chi è più competente di me in materia. Sia come sia, ritroviamo toshi anche nel nome di varie divinità del raccolto.
11 - Indicate nel testo col nome collettivo di Mitoshi no sumegamitachi. In apparenza, questo è un epiteto sotto cui sono raggruppate tutte le divinità che soprintendono alle varie fasi del ciclo del riso, dalla semina al raccolto, o almeno così sembra essere utilizzato in questo norito.
12 - Il dio del raccolto.
13 - Il padre di Mitoshi dovrebbe essere Ōtoshi no Kami, dio del grano figlio di Susanoo e fratello di Uka no Mitama, dea del cibo. Sorellastra di Mitoshi (stesso padre, diversa madre) è Okitsuhime no Mikoto, dea del focolare domestico. Una famiglia dedita al cibo e all’alimentazione in generale, insomma.
14 - Ricordiamo che la locusta/cavalletta è chiamata inago in giapponese, ossia “figlia del riso”.
15 - Le opinioni non sono concordi su come interpretare questi due tipi di divinazione. Letteralmente, si possono tradurre come “divinatore (kannagi) della spalla (kata)” e “divinatore (kannagi) del gomito (hiji)”, ma questo non ci chiarisce molto le cose. Alcuni interpretano il primo come un augure, che osserverebbe il volo di certi uccelli, mentre il secondo utilizzerebbe chicchi di riso in un forno domestico; altri li vedono l’uno come un divinatore per colture di riso a secco e l’altro per colture di riso acquatico. C’è anche chi ha interpretato il tutto come una forma di divinazione mediante ossa di uccello, come è il caso di Matsushita Kenrin, per esempio. In sintesi, non sappiamo di preciso che tipo di divinatori siano stati coinvolti, ma ognuno li interpreta come preferisce.
16 - Se in origine era un cinghiale selvatico, in seguito fu sostituito da un maiale domestico, molto più facile da reperire. Cinghiali bianchi, assieme a buoi bianchi e pecore bianche, erano offerti in sacrificio anche in una zona che corrisponde circa all’attuale Cambogia, almeno secondo una storia della Cina del VII secolo, il Suishu: anche questo sacrificio serviva a garantire il raccolto, nello specifico quello dei cinque cereali, non solo del riso.
17 - Possiamo confrontarlo con quanto scriveva ad esempio Vladimir Propp nel suo Le radici storiche dei racconti di fate, capitolo settimo, sezione V, “Il serpente acquatico”, se vogliamo sentire anche un parere altrui su questo tema.