Giovanni dell’Orso
In mezzo a un bosco c’era una volta una capannetta di legno. Dentro abitava la vedova d’un carbonaio, e viveva poveramente. Una notte, mentr’era a letto, sente un rumore. Si fa alla finestra, e vede avvicinarsi alla sua capanna una cosa nera nera. Era un orso d’una grandezza fuor d’ogni misura, il quale, spinto l’uscio della capanna ed entrato, prese per forza la donna e la portò via. La poveretta, mezza morta di spavento, pregava il rapitore che non la uccidesse. L’orso taceva e seguitava la sua via. Dopo molto cammino giunge ad una buca in mezzo a densi cespugli. Entra per quella, alza una pesante pietra, che subito colloca a suo posto, e depone la donna in un bel palazzo. La donna, quando si vede in quel palazzo, s’inginocchia, e scongiura l’orso che non l’ammazzi e che le dia la libertà. E l’orso le dice: Non temere di nulla, qua entro avrai tutto quello che puoi desiderare, ma non parlarmi di libertà. Tu sarai mia sposa. - Tornò a pregare, e non avendo risposta, le convenne acconciarsi alla sua trista sorte. In capo a un anno ebbe un bambino maschio, che dette un po’ di consolazione alla povera donna. - Quando sarà grande, pensava, potrà muovere la pietra che serra la buca, e donarmi la libertà. - Il bambino cresceva a vista, e già a cinque anni aveva la statura di un uomo e la forza d’un gigante. Giunto a quindici anni, tentò di smuovere la pietra, ma non riuscì; bisognava ancor aspettare. Passò un anno, e il ragazzo che si chiamava Giovanni dell’Orso, ritentò la prova, e con l’aiuto della madre, potè smuovere la pietra e fuggirsene. Camminava alla ventura, e poco dopo incontra un ragazzo della sua età circa. Gli domanda: Dove vai?
- In cerca della fortuna.
- E come ti chiami?
- Paletta; e tu?
- Giovanni dell’Orso. Se non ti spiace, ti sarò compagno. Anch’io sono un povero disgraziato, e vo in cerca della fortuna.
Furono d’accordo, e si misero in via. Camminarono per alcuni giorni e s’abbatterono in un uomo. Gli domandarono: Dove vai, buon uomo?
- Vo in cerca della fortuna, cari miei, e voi?
- Noi anche; dunque possiamo unirci assieme, che così saremo più forti. Come ti chiami?
- Molle. E voi?
- Io mi chiamo Giovanni dell’Orso, e questo compagno Paletta.
S’avviarono, e una sera giunsero a un palazzo. Avevano fame e picchiarono. L’uscio s’aperse da per sè. Entrano, e non c’è anima nata. Dice uno di loro: Muoio di fame io, fratelli miei. - Appena dette queste parole, ecco una tavola imbandita. Senza far complimenti, sedettero, mangiarono e bevvero allegramente. Dopo ai tre compagni venne un gran sonno, e Giovanni disse: E adesso ci vorrebbe una buon dormitina. - Detto questo, tre bei letti son pronti a riceverli, ed essi senz’altro si cacciano sotto le colti e dormono.
La mattina si svegliano e Giovanni dice: Tutto va bene finora, ma noi non dobbiamo starcene qui oziosi. Io penso che due di noi devono uscire per provvedersi de’ viveri e l’altro resta a custodia della casa. - Il partito è subito accettato. Paletta è quello che resta nel palazzo. Già da parecchie ore i compagni erano usciti, e Paletta accendeva il fuoco per la cena, quando si vede innanzi un vecchio che gli dice: Fammi la carità d’un pane, buon giovane, muoio di fame. - Risponde Paletta: Se non ho per me! va pure, non mi seccare. Il vecchio in un tratto si fa gigante, e con un bastone dà giù botte da orbo al povero Paletta e lo lascia mezzo morto, e poi se ne va. Quando vengono a casa i due compagnoni, vedono l’amico lungo disteso per terra che non dava segno di vita. Gli si fanno attorno, e poco dopo il giovane apre gli occhi. Domandano: Che vuol dire questa faccenda? - E Paletta, che non voleva confessare d’essere stato bastonato, risponde che gli è venuto male e s’è rotto la testa. Non gli credono, e Molle dice: Domani vo’ restare io a casa, e se c’è il diavolo qua entro, ho caro vederlo. - E così fu, che il giorno dopo uscirono Giovanni e Paletta, e restò Molle. Venne il vecchietto, si fece gigante e picchiò ben bene Molle. Tornati i due a casa, trovarono il compagno quasi morto. Paletta sapeva come doveva esser accaduta la cosa, ma non parlava. Interrogano Molle, ed egli, che si vergognava di confessare d’esser stato picchiato, risponde che, scendendo una scala, è caduto e s’è fatto male. - Corpo di bacco, - dice Giovanni, - domani resterò io a guardia del palazzo e vedrò che faccia ha questo diavolo, perchè non può essere che il diavolo a far di queste burle. E così fece. All’indomani, usciti Paletta e Molle, capita il vecchio e domanda del pane per carità. Giovanni risponde che non ne ha, e che se ne vada. Allora il vecchio cresce, cresce, fino a che col capo tocca le travi, e piglia un grosso bastone per picchiare il giovane. Ma questi, che se l’aspettava, coglie il tempo, e con un coltello ferisce mortalmente il gigante. Il gigante scomparisce. Tornano i compagni e trovano Giovanni sano e salvo. Loro conta com’è andata la faccenda, e mostra il coltello insanguinato. Poi tutti e tre vanno in cerca del gigante. Trovano una buca. Giovanni dice che lo calino giù per vedere che c’è dentro. Lo calano con una fune, e quando è giunto nel fondo, si trova in una magnifica sala piena di ricchi vestiti e di vettovaglie di ogni sorta. Passa in una seconda e vede tre ragazze, l’una più bella dell’altra; va innanzi ancora in una terza sala, e qui vede il gigante seduto che dettava il suo testamento. Giovanni gli è addosso e lo ammazza. Poi torna sui propri passi, piglia le tre giovani e le fa tirar su di quella buca per mezzo della fune; quando sente che i compagni dicono tra loro: Non caliamo la fune, è meglio che Giovanni resti laggiù chiuso e che noi abbiamo le tre giovani, e che ci godiamo le ricchezze del gigante. Il giovane, che ha sentito tutto, non si sbigottisce per questo. Si guarda attorno e vede un’aquila, e le dice: Senti, aquila, se tu mi metti fuori di questa buca, io ti do il mago che ho ucciso, e tu te lo mangi. - Non parlò invano, chè l’aquila affamata accettò il partito, si mangiò il mago, e mise fuori della buca il giovane. Quando questi fu all’aperto, corre dietro le orme de’ compagni, li raggiunge, e dentro di sè pensava di farne vendetta. Poi, mosso dalle preghiere delle tre ragazze, perdona loro, toglie la più giovane e più bella d’esse in moglie e lascia le altre due a Paletta e a Molle. E tutti sei tornarono al palazzo incantato del gigante, e qui fecero un bel pasto e un bel pastone e a me non diedero neppur un boccone.
Commento
La fiaba si apre all’insegna della zoofilia, con l’orso che rapisce una vedova per farne la propria moglie. Niente di insolito, perché i mostri hanno spesso l’abitudine di rapire donne per farne le proprie mogli: la differenza principale è che qui ne nasce anche un figlio, mentre di solito non si scende nei dettagli della loro vita coniugale (per fortuna). Si potrebbe postulare che la fiaba risalga a tempi lontani, quando la distinzione tra umani e animali era percepita molto meno (troviamo spesso fiabe che, già nell’incipit, ci specificano che la storia si svolge ai tempi in cui gli animali parlavano, oppure ai tempi in cui vivevano assieme agli uomini), ma non mi pare il caso di lanciarsi in fantasie di questo tipo. Le lascio volentieri ad altri.
Due motivi: i tre compagni aggrediti uno alla volta da uno sconosciuto, poi l’eroe tradito dai compagni e abbandonato in fondo al pozzo, qui presente nella variante più famosa con l’aquila che vuole cibo per riportarlo in superficie. Se il primo motivo lo abbiamo già visto in altre fiabe di questa raccolta, il secondo compare qui nella sua forma più tradizionale e forse più antica, dove l’eroe di turno deve farsi trasportare a destinazione da un’aquila, che in cambio gli chiede cibo. È più comune che il cibo debba essere consegnato a rate, ogni volta che l’aquila si gira per chiederlo: in queste storie, quasi sempre succede che l’eroe finisce la riserva di carne appena prima di arrivare e così deve tagliarsi una parte del corpo per sfamare l’animale. Spesso la parte tagliata gli sarà poi restituita all’arrivo. Quasi sempre, la parte tagliata è un polpaccio o al limite un gluteo.
Come già detto, Carlo Ginzburg collega la mutilazione dell’eroe, costretto a questo sacrificio per sfamare l’aquila che lo sta riportando in superficie, al motivo diffuso dello zoppo come figura liminale tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, almeno secondo la sua interpretazione. Bloccato nel mondo ctonio in fondo al pozzo, l’eroe ricorre all’aquila per tornare al mondo superno, ma deve cedere parte della gamba per arrivare alla meta, azzoppandosi. Questo per dirla in forma molto breve: per i dettagli vi rimando alla parte terza di Storia notturna. Una decifrazione del sabba.
La fiaba di un Giovanni dell’Orso è peraltro piuttosto diffusa in Europa: la troviamo anche nella Lorena francese, in Catalogna, nel Tirolo italiano e tedesco, in Germania e così via. Il nome del protagonista è sempre lo stesso, tradotto nelle varie lingue, così come identiche o quasi sono la sequenza iniziale, il mostro che aggredisce i compagni uno alla volta, la discesa nel pozzo e il tradimento ai danni dell’eroe. Potremmo considerarla la struttura base della fiaba, a cui si possono aggiungere altri elementi a seconda dei gusti del narratore. Che gli episodi di una fiaba si possano utilizzare come mattoncini da aggiungere o togliere a seconda dei gusti del narratore e del pubblico è qualcosa che diventa presto evidente quando si cominciano a leggere raccolte di fiabe.
Emmanuel Cosquin, nel primo volume del suo Contes populaires de Lorraine, dedica ampio spazio alle varianti di questa storia nelle note alla versione francese (la prima fiaba del libro), tra confronti e ipotesi sulla possibile diffusione, più molte altre speculazioni che gli studiosi di fine Ottocento adoravano. Per chi fosse interessato ad approfondire, quel testo può essere un buon punto di partenza. Buon divertimento.
Notiamo poi il nome curioso dei due compagni del protagonista. In altre versioni di questa fiaba, i nomi sono collegati a un potere particolare posseduto dai compagni; qui, invece, sono entrambi incapaci o quasi e i nomi non sembrano avere alcun significato speciale. Forse questa parte si è perduta strada facendo, o forse non è proprio mai esistita e il narratore ha solo usato i primi nomi che gli sono venuti in mente. Non lo sapremo mai, non avendo altre versioni che Visentini potrebbe avere raccolto e poi eliminato.