La leggenda della Morte
Capitolo V
Modi per invocare la morte di qualcuno
Quando si vuole invocare la morte di qualcuno che si odia, è sufficiente rivolgersi a una persona esperta. Ce n’ è almeno una in ogni parrocchia. Lei vi consegnerà un sacchetto che contiene un miscuglio in cui sono presenti:
- Alcuni granelli di sale1;
- Un poco di terra presa nel cimitero2;
- Cera vergine3;
- Un ragno catturato personalmente in un angolo della propria casa;
- Dei ritagli di unghie (per procurarseli, si rosicchiano le proprie unghie coi denti).
Bisogna portare questo sacchetto appeso al collo per nove giorni consecutivi. Trascorso questo tempo, lo si sistema in un posto dove si suppone che passerà l’individuo di cui si vuole la morte. È importante che sia bene in evidenza, che attira l’attenzione, che incuriosisca. Lo si sistema, per esempio, nel mezzo di un sentiero o nel cortile di una casa. Il vostro nemico lo raccoglierà, credendo di avere trovato una borsa piena; lo palperà, lo aprirà. Questo è sufficiente. Morirà entro dodici mesi.
(Comunicato da François le Roux. - Rosporden.)
Il lanciatore di malocchio potrebbe anche darvi un pezzo da due liardi bucato; sarà sufficiente, mentre si è a digiuno, infilarlo la domenica a messa nella tasca della persona che si vuole far morire.
XXXIV – La scodella sotto il letto
Venti o venticinque anni fa, la domestica di una giovane signora di Morlaix, di cui non vi dirò il nome perché è ancora viva, fu molto sorpresa, un mattino, mentre puliva la camera della sua padrona, di trovare sotto il letto una scodella che sembrava riempita di sabbia. Pensando che fosse stata la signora a metterla apposta lì, le domandò se bisognava lasciarcela, ma la padrona non fu meno sorpresa della domestica.
«Una scodella sotto il mio letto, mi dici? Cosa mai ci potrà fare, buon Dio!»
«Davvero, venga e guardi lei stessa.»
Videro la scodella sul pavimento e constatarono che non conteneva soltanto sabbia, ma anche delle uova, degli spilli e infine dei minuscoli frammenti di osso. A quel punto la signora si incuriosì parecchio. Chi aveva potuto mettere là quegli oggetti, e per quale scopo?
«Cerca di informarti con discrezione tra i nostri vicini,» raccomandò alla domestica. «Bisogna fare luce su questa storia, c’è sotto qualcosa.»
La domestica percorse subito il quartiere. A forza di andare, venire e fare domande alle colleghe, finì per scoprire quanto segue: il suo padrone, prima di sposarsi, aveva avuto una relazione con una certa Catherine Jagoury, di via Bourret, che lavorava alla fabbrica di tabacchi; le voci pubbliche dicevano anche che questa Catherine aveva avuto un figlio da lui; quel che era certo è che lei non gli aveva perdonato di averla abbandonata e, in più occasioni, l’avevano sentita dichiarare che, in un modo o nell’altro, si sarebbe vendicata. Il «colpo della scodella sotto il letto» nascondeva evidentemente un qualche maleficio e non poteva essere stato immaginato che dalla ragazza abbandonata.
La domestica non perse tempo; senza aspettare di avere prima consultato la padrona, andò a raccontare tutto alla polizia. Il commissario fece immediatamente convocare Catherine Jaguory al suo ufficio.
«Sapete di cosa siete accusata, giusto? Diteci la verità, forza!»
La giovane sigaraia impallidì tutta. «È dunque morta!» gridò. «Ebbene sì, sono stata io... Lui mi aveva dato la sua parola... Bastava solo che lei non lo sposasse!»
«Dunque è per farla morire che voi avete messo la scodella?»
«Oh! Non sono stata io ad averla messa, ma non vi dirò chi... Me, figuratevi, mi avrebbero respinta già sulla porta.»
«E cosa c’era dentro questa scodella?»
«C’era quello che serviva: sabbia del cimitero, tre gusci di uova fresche deposte da tre galline diverse, due spilli in croce e frammenti di reliquie. Ecco. Ho pronunciato la formula su queste cose...»
«Quale formula?»
«Andatelo a chiedere a quella che me l’ha insegnata. Questo non è un mio segreto.»
«In breve, avete voluto commettere un crimine?»
«Un crimine è uccidere qualcuno. Io non ho ucciso: io non ho fatto che invocare la morte.»
«Sì... va bene, non ricominciate. La persona per cui l’avete invocata sta benissimo, fortunatamente per voi. Andatevene!»
La giovane avrebbe preferito essere gettata in prigione, piuttosto che sentirsi dire che il maleficio non aveva prodotto il proprio effetto (na oa ket deut da vad). Ne fece una malattia. La signora con cui lei ce l’aveva, dal proprio canto, fu infastidita dallo zelo della sua domestica, perché la storia si diffuse in tutta la città e i giornali la misero pure per iscritto.
(Comunicato da Joseph Le Coat. - Morlaix, 1896.)
Esiste un metodo ancora più infallibile per sbarazzarsi di un nemico. È di andare a votare (gwestla) la persona che si odia a sant’Yves-de-la-Vérité4. Si fa giudicare la questione a sant’Yves. Ma bisogna essere molto sicuri di avere la ragione dalla propria parte. Se siete voi dalla parte del torto, sarete voi a essere colpiti.
La persona che è stata votata giustamente a sant’Yves-de-la-Vérité deperirà per nove mesi. Non tirerà però l’ultimo respiro se non il giorno in cui chi l’ha votata o l’ha fatta votare attraverserà la soglia di casa sua. Piuttosto di metterci così tanto tempo a morire, capita spesso che la vittima inviti a casa propria chi sospetta che l’abbia votata, così da farla finita più in fretta.
Per votare qualcuno a sant’Yves-de-la-Vérité bisogna:
- Infilare un liardo nella scarpa della persona di cui si desidera la morte;
- Effettuare a digiuno tre pellegrinaggi consecutivi alla dimora del santo; il lunedì è il giorno consacrato;
- Afferrare il santo per la spalla e scuoterlo rudemente, dicendo: «Tu sei il piccolo santo della Verità (Zantik-ar-Wirioné). Io ti voto il tale. Se il diritto è dalla sua parte, condanna me. Se il diritto è dalla mia parte, però, fallo morire nel tempo rigorosamente prescritto5»;
- Porre come offerta ai piedi del santo un pezzo da diciotto denari, segnato con una croce;
- Recitare le solite preghiere, cominciando dalla fine;
- Fare tre volte il giro dell’oratorio, senza voltare la testa6.
Un tempo, davanti all’oratorio di sant’Yves-de-la-Vérité, dietro la statua del santo, c’era una lesina, simile a quelle di cui si servono i calzolai. Per essere più sicuri di farsi ascoltare dal santo, si piantava questa lesina per tre volte nel legno della sua statua, recitando ogni volta: «Pa’z out ar jug braz, clew ac’hanon! (Poiché tu sei il grande giudice, ascoltami)»
(Lise Bellee. - Port-Blanc.)
All’uscita di La Roche-Derrien, sulla strada per Langoat, c’era un tempo una cappella di sant’Yves, oggi distrutta, dove si venerava parimenti sant’Yves-de-la-Vérité, come si poteva vedere dalla statua del santo. Questa statua di sant’Yves-de-la-Vérité si distingueva dalle altre immagini di sant’Yves dal fatto che aveva il dito centrale, il medio della mano destra sollevata per benedire, molto più lungo delle altre dita.
(Mme. Longeard. - La Roche-Derrien.)
XXXV – La storia del maniscalco
C’era una volta un maniscalco che si chiamava Fanchi e che aveva la sua forgia nel paese di Caouennek7. Coltivava inoltre un piccolo podere attiguo alla sua forgia e trovava il modo di nutrire due o tre vacche. Avrebbe dovuto essere tranquillo coi suoi affari, perché lavorava duro. Purtroppo, sua moglie era un pozzo di spese. Il denaro che Fanchi le affidava, non lo rivedeva più, senza poter mai sapere per cosa l’avesse utilizzato. Non aveva dubbio, quel brav’uomo, che Marie Bénec’h, la sua triste metà, trascorresse il tempo a spettegolare da una locanda all’altra mentre lui faticava all’incudine, e pagasse del micano, ossia del caffè corretto con acquavite, a tutte le Jeannette del vicinato.
Fanchi aveva un apprendista, di nome Louiz, che si trovava nella sua bottega da molti anni e in cui aveva grande fiducia. Una sera disse all’apprendista: «Sii in piedi di buon’ora domattina. Marie Bénec’h sostiene che la sua borsa è vuota. Noi andremo alla Roche-Derrien a vendere la vacca rossa. È la “fiera della stoppia” (foar-ar-zoul), può darsi che ci faranno un buon prezzo.»
La vacca rossa, in effetti, fu venduta bene: trecento scudi sonanti, senza contare la caparra. Mentre Louiz e Fanchi se ne tornavano verso Caouennek, l’apprendista disse al maestro: «Al vostro posto, io non darei quei soldi a Marie Bénec’h tutti in una sola volta. Li metterei in un cassetto e non me ne separerei che a mano a mano che serviranno per gli affari.»
«Questa è una buona idea,» rispose Fanchi, che non ci aveva mai pensato.
Rientrato a casa, mise i trecento scudi, sistemati in varie pile, in un grosso armadio di quercia, la cui chiave infilò sotto il suo capezzale.
I suoi traffici, però, non sfuggirono all’occhio di Marie Bénec’h. Non appena sentì russare il marito, stancato da quella giornata alla fiera, si alzò con discrezione, rubò la chiave, corse all’armadio e fece razzia dei soldi.
Chi ricevette una bella sorpresa, l’indomani? Fu Fanchi, il fabbro. I suoi sospetti ricaddero ciecamente sul suo apprendista.
«Louiz!» gridò, pallido di collera. «Ho seguito il tuo consiglio. Ecco cosa ne ho ricavato. Restituiscimi i miei trecento scudi.»
«Non li ho presi io.»
«Tu neghi? Così sia! A questo punto mi accompagnerai a sant’Yves-de-la-Vérité!»
«Sono pronto ad accompagnarvi dovunque volete.»
Si misero in cammino.
Quando furono arrivati alla porta dell’oratorio, il maniscalco pronunciò le parole consacrate. Il santo inclinò la testa per tre volte, per mostrare che aveva capito e anche per dichiarare che avrebbe fatto giustizia.
Fanchi ritornò a Caouennek con sollievo. Quanto a Louiz, che era stato allegro alla partenza, non lo fu di meno al ritorno. All’ingresso del paese, Fanchi gli disse: «Tu pensi bene che di qui a non molto tempo non lavoreremo più assieme.»
«Come volete, maestro,» rispose Louiz. «Ritengo comunque che a breve vi accorgerete che non sono io il colpevole.»
Si separarono.
Marie Bénec’h spiava il marito sulla soglia della forgia. «Dove sei stato?» gli domandò.
«A sant’Yves-de-la-Vérité.»
«A fare cosa?»
«A votare alla morte, nel giro di dodici mesi, la persona che mi ha rubato i miei trecento scudi.»
«Ah! Disgraziato! Disgraziato!» gridò Marie Bénec’h, che aveva già sul collo il colore della morte. «Se almeno tu mi avessi avvertita! I tuoi trecento scudi non sono stati rubati. Sono io che li ho presi, stanotte, mentre tu dormivi. Torniamo in fretta a disfare quel che tu hai fatto!»
«Ormai è troppo tardi, donna. Per tre volte il santo ha chinato la testa.»
A partire da quel giorno, Marie Bénec’h non fece in effetti che languire8 e, scaduti i dodici mesi, morì.
(Raccontata da Marie-Hyacinthe Toulouzan. - Port-Blanc.)
XXXVI – La storia del fucile
Abbiamo un bel ginestraio, situato sul pendio della collina, molto lontano da casa. Non mancavano mai persone che venissero a tagliare delle ginestre senza il nostro permesso, così che mio fratello maggiore decise una sera di andarvi a fare la guardia, per cercare di catturare il ladro. Quando stava per partire, lo vidi dirigersi prima verso il camino9.
«Di grazia,» gli dissi. «Non prendere il fucile!»
Ma non mi volle ascoltare. Un’ora più tardi rientrò, fumante di collera.
«Che cos’hai?»
«Ho che, non contenti di rubarci le nostre ginestre, mi hanno rubato la mia arma.»
E ci raccontò che, nel momento in cui superava la scarpata del ginestraio, con l’arma in pugno, qualcuno che era nascosto sull’altro lato aveva afferrato il fucile per la canna, glielo aveva strappato all’improvviso ed era fuggito portandolo con sé.
«E tu non hai visto chi è stato?» domandò mio padre.
«Certo che sì! L’ho ben riconosciuto Hervé Bideau, il sellaio.»
«Oh! Beh, è un furbastro. Puoi tirare una croce sul fucile, perché non lo rivedrai più.»
«Come? Non più tardi di domani mattina, con le buone o con le cattive lo riavrò.»
«No, perché il sellaio andrà a portarlo al municipio, dicendo che ti ha sorpreso a caccia con quello, in periodo vietato. Tu ti prenderai un processo e una multa, e il fucile sarà confiscato dai giudici.»
«Magari abbiamo anche il diritto di difenderci dai ladri, no?»
«Come dimostrerai che lo ha rubato? Dove sono i testimoni?»
«Dio lo maledica!» gridò mio fratello. «E sia, non andrò a reclamare il mio fucile, ma se, prima di domani sera alla stessa ora, Bideau non me lo avrà riportato, ebbene!, quanto è vero che io sono qui, io lo farò votare a sant’Yves.»
«Non pronunciare parole simili,» disse mio padre. «Tu non sai in cosa ti immischi.»
«Tanto peggio! Non mi arrenderò. Bisogna che si sappia da che parte siano il Diritto e la Verità!»
Noi sperammo che la notte lo avrebbe calmato, ma il mattino seguente era in piedi ancora arrabbiato come la sera prima.
«Dove vai?»
«A cercare Anna Rouz.»
Questa Anna Rouz era una vecchia pellegrina che conosceva tutte le preghiere possibili per dare la vita alla gente, ma anche per togliergliela. Abitava a poca distanza da noi, in una specie di capanna di paglia e di argilla dove, a ogni ora del giorno e della notte, c’era gente che l’andava a consultare. Mio fratello si recò dunque da lei e la pregò, come era abitudine fare quando si ricorreva ai suoi servigi, di venire a cena da noi quella sera stessa. Rientrò più calmo, ci annunciò che la vecchia sarebbe venuta al calare del crepuscolo e se ne andò a lavorare nei campi.
Mio padre, però, rimase in pensiero: «Se però Youen – Youen era il nome di mio fratello – non avesse il buon diritto dalla sua parte...» Non smetteva di ripeterlo.
Alla fine, non riuscendo più a stare fermo, si decise ad approfittare dell’assenza di mio fratello, per cercare di ottenere che il sellaio restituisse il fucile spontaneamente. Andò così a trovarlo in paese.
«Ascolta,» gli disse. «Youen ha deciso di non lasciar perdere. Se tu non rimedierai, incaricherà sant’Yves-de-la-Vérité di emettere la sua sentenza10.»
«Me ne frego di sant’Yves, di tuo figlio e pure di te,» rispose l’insolente sellaio.
«Se ti capiterà qualche sciagura, non te la dovrai prendere che con te,» replicò mio padre. E rientrò a raccontarmi come fosse stata accolta la sua ambasciata.
«Non parlarne con tuo fratello,» mi disse. «Non ci resta che lasciare che le cose accadano.»
Alla fine del giorno, mentre la nostra gente tornava dal lavoro, vedemmo apparire Anna Rouz. Si era messa i vestiti della domenica e indossava le sue calzature da strada, che erano grosse scarpe da uomo. Si sedette a tavola con noi e, concluso il pasto, attese che i domestici avessero lasciato la cucina, prima di discutere dell’affare per cui mio fratello l’aveva chiamata.
«Allora,» disse, rivolgendosi a mio padre. «Voi acconsentite, Zacharie Prigent, che io faccia per parte di vostro figlio il viaggio di sant’Yves-de-Vérité?»
«Sì,» rispose mio padre, chinando il capo.
«E voi, Youen Prigent,» riprese lei, girandosi verso mio fratello, «voi siete ancora della ferma intenzione di correre il rischio?»
«Più che mai!» dichiarò con una voce forte. «Bisogna che sant’Yves decida tra me e l’altro.»
«Ripetete dunque dopo di me quanto segue:
Otro sant Erwan ar Wirionè
A oar deus an eit hag eguilè,
Laket ar guir étec’h ma man,
Hag an tort gant an hini man ganthan.
Signor sant’Yves-de-la-Vérité/ che i pro e i contro conoscete/ mettete giustizia dove deve essere/ e il torto con cui lo ha.»
Mio padre ed io non avevamo più una sola goccia di sangue nelle vene che non fosse ghiacciata, ma mio fratello ripeté senza tremare la preghiera che stava recitando la vecchia.
«Va bene così,» disse lei. «Adesso, bisogna che mi procuriate due cose: prima di tutto, un pezzo da diciotto denari, poi una manciata di chiodi non contati.»
A quei tempi, era raro che non si tenesse in casa ogni tipo di monete antiche che non avevano più corso legale, ma che, si diceva, portavano fortuna. Mio padre andò dunque al suo armadio, prese una scatoletta piena di soldi vecchi e ne tolse per Anna Rouz il pezzo che aveva richiesto; poi, scendendo al piano inferiore dell’alloggio, afferrò a occhi chiusi una manciata di chiodi dal cassetto di una cassapanca dove conservava a casaccio piccole ferraglie.
«Ecco!» disse, tendendo il tutto alla “votatrice”.
Lei si inumidì il dito di saliva e tracciò una croce sul liardo11, prima di farlo scivolare nel suo corpetto; quanto alla manciata di chiodi, la fece sparire in una delle tasche del suo grembiule.
«Senza essere troppo curioso,» domandò mio padre, «possiamo sapere, Anna, come agirete?»
«Non ho niente da nascondervi,» rispose lei, «perché è per voi che lavorerò. Domani mattina, al canto del gallo, dopo aver vegliato tutta questa notte, ben vestita, mi recherò prima di tutto alla chiesa della parrocchia, dove reciterò una breve preghiera, poi farò una sosta davanti alla soglia di Hervé Bideau, vostro avversario, dove mi segnerò tre volte con la mano sinistra; soltanto dopo aver fatto questo mi metterò in viaggio, stando ben attenta a non parlare a nessuno, nemmeno per rispondere a un saluto, fino a che non avrò perso di vista il nostro campanile. Sulla strada, bisogna che mi fermi a tre incroci e che ripeta ogni volta i tre segni della croce, sempre con la mano sinistra. Arrivata a Tréguier, aspetterò il calare del sole prima di passare sull’altra sponda, là dove è costruita la cappella. Se i dintorni sono deserti, mi avvicinerò al lucernario senza vetri che si trova nel pignone e, girando la testa, lancerò all’interno la manciata di chiodi. Farò poi tre volte il giro della casa del santo, camminando in senso opposto rispetto al sole, così come si fa per i morti12, recitando tre De profundis per la liberazione delle anime abbandonate. Poi entrerò, depositerò il liardo sull’altare ai piedi del santo e dirò: «Tu sai perché e per chi io vengo; tu sei pagato: fai giustizia». Ecco, Zacharie Prigent: adesso ne sapete tanto quanto me.»
«Sì,» mormorò mio padre. «Ma è comunque una cosa terribile.»
«Se voi ve ne siete pentiti, sia l’uno che l’altro, nel corso della notte rifletteteci; farete ancora in tempo a disdire tutto, fino all’ora in cui canterà il gallo.»
Con questo, Anna Rouz ci augurò una buona serata e se ne tornò a casa propria. Anche mio fratello si incamminò verso la scuderia, dove dormiva; io stessa me ne andai a letto e mio padre rimase solo, a pensare davanti alla cenere calda, alla luce del golo lulic (una candela di resina). Era molto triste. Siccome non riuscivo ad addormentarmi, attraverso le ante del mio letto chiuso potevo vedere che si teneva la fronte tra le mani e piangeva. Lo avrei voluto consolare, ma non ero meno desolata di lui e non trovavo niente da dirgli. Tutto a un tratto, mi sembrò che qualcuno camminasse nel letame del cortile. Allora chiamai: «Padre!»
«Sì, figlia mia?»
«C’è qualcuno là fuori.»
Si alzò, andò a togliere la sbarra che chiudeva la porta, aprì il battente e domandò: «Sei tu, Youen?»
«No,» rispose una voce. «Sono io, Hervé Bideau, il sellaio. Vi ho accolto male stamattina, in questo ho avuto torto: sono venuto a fare la pace e restituire il fucile.»
«Entra,» disse mio padre.
Respirai come se mi avessero tolto dal petto un peso di cinquecento libbre. Mio padre andò a prendere una bottiglia di sidro e i due uomini bevvero assieme alla salute l’uno dell’altro, in amicizia. Quando Bideau stava per congedarsi, mio padre gli disse: «Aspetta. Vengo con te. Devo passare a casa di Anna Rouz.»
E portò due scudi per pagare la vecchia, perché le doveva il prezzo di questo genere di pellegrinaggio, anche quando lo cancellava.
(Raccontato da Marie-Anne Prigent. - Pédernec, 1894.)
XXXVII – La rivincita dei pellegrini
Abitavo allora a Trédarzec, dove sono nato e dove esercitavo il mio lavoro di sarto. Una sera d’estate, mentre cucivo, le gambe accavallate sulla tavola, accanto alla finestra aperta, vidi spuntare sulla strada di Pleudaniel due viaggiatori, un uomo e una donna, che venivano evidentemente da lontano, perché mostravano la fatica sulla propria figura e le loro calzature erano coperte da uno spesso strato di polvere. Notandomi, si fermarono e l’uomo si avvicinò per domandarmi: «Signore, potreste per cortesia dirci se è questa la strada giusta per arrivare a sant’Yves-de-la-Vérité?»
«Sì,» risposi io. «Ma se è il santo che state andando a vedere, vi avverto che non lo troverete in casa.»
Lo straniero credette che io stesso scherzando. «I sarti amano scherzare ovunque,» osservò.
«Al contrario, io parlo molto seriamente, compagno, e col desiderio di risparmiarvi, a lei e a sua moglie che sembra così stanca, un viaggio inutile.»
Sentendo questo, vennero entrambi ad appoggiarsi al davanzale esterno della finestra e io spiegai loro in quale modo, dall’anno precedente, il signor Kerleau, rettore della parrocchia, dicendo che fosse per far cessare uno scandalo, avesse ottenuto dalla proprietaria, la signora Bécot di Paimpol, il permesso di rimuovere il santo e aveva intenzione perfino di far demolire l’oratorio.
«Allora,» mormorò la donna con un tono desolato, «il rettore di Trédarzec non vuole proprio che ci sia un poco di giustizia per i poveri in questo mondo.»
«Sapete,» le dissi, «non è del posto: è arrivato da noi dall’altra sponda del fiume13: è di Goëlo e da quella parte non hanno lo spirito fatto come il nostro.»
L’uomo ci rifletté un momento. «Comunque non avrà bruciato il santo per scaldarsi i piedi, vero?» mi domandò.
«No. Lo ha mandato in pensione nel suo solaio. È almeno quello che si dice, ma non vi servirà a niente andarci a guardare.»
«Perché?»
«Perché il signor Kerleau non ha un carattere paziente. È costruito come un Ercole e, quando gli prudono le mani, distribuisce con la stessa facilità un pugno come una benedizione.»
«Ma! (Sarà),» disse l’uomo. «Sarà quel che sarà. Grazie comunque del vostro avvertimento.»
Così si allontanarono a testa bassa, l’aria più esausta che mai, in direzione del cimitero. Li seguii con lo sguardo. Arrivati tra le tombe, si sedettero l’uno accanto all’altra su una di queste e sembravano discutere, per un quarto d’ora circa, mentre si riposavano. Alla fine di questo intervallo, si alzarono e girarono attorno alla chiesa, come per raggiungere il presbiterio. Non so altro di cosa fecero quel giorno.
Il mattino seguente, però, una notizia sorprendente percorreva il paese: il vicario parrocchiale, così robusto, così pieno di salute il giorno prima, aveva le gambe paralizzate per metà. Solo trascinando i piedi era riuscito a raggiungere l’altare per dire la messa. In una notte, Kerleau “il potente”, come lo chiamavano, era diventato quasi debole come un bambino che azzarda i suoi primi passi senza reggersi a qualcosa. Ecco come si raccontava quello che era successo. Lo sconosciuto e la moglie si erano presentati al presbiterio e stavano discutendo con la domestica, offrendole una bella somma di denari se lei avesse acconsentito a portarli nel solaio, davanti alla statua del santo.
«Pensate che abbiamo camminato per diciotto leghe per implorare il suo aiuto!» supplicava la donna.
La domestica stava forse per cedere, quando il vicario, che dalla sua stanza aveva probabilmente visto i due stranieri suonare al presbiterio, fece bruscamente irruzione nella cucina.
«Che succede? Che cosa cercate?»
«Sant’Yves, signor vicario.»
«Andatelo dunque a trovare dove abita, in chiesa. È facile da riconoscere sull’altare della navata laterale, a destra del coro.»
«Sì, ma non è con quello che noi abbiamo da fare.»
«Ah, capisco! Siete di nuovo voi, dei pagani che disonorano la religione, usandola per pratiche di stregoneria! Ebbene! Non voglio cose simili, io! Fuori di qui!»
Prima che l’uomo avesse avuto il tempo di formulare una protesta, lo aveva preso per il colletto e messo alla porta. Poi, siccome la donna non seguiva abbastanza in fretta il marito per i suoi gusti, si dimenticò di sé fino al punto di darle una pedana all’altezza delle terga per spingerla con più velocità a raggiungerlo nel cortile. Allora lei, pallida d’indignazione, si girò verso il prete che la scacciava e, indicando il solaio al di sopra della sua testa: «Malvagio ministro di Dio, in nome di colui che tieni prigioniero lassù, in mezzo alle fascine, le ragnatele, la vecchia polvere e i ratti, per impedirgli di colpire i forti e vendicare i deboli, io ti annuncio che il gesto che hai appena fatto, con proposito così malvagio, non lo ripeterai mai più nella tua vita.»
Non aveva finito di parlare, che il sangue si gelò a metà nelle due gambe del vicario. E mai più ne avrebbe ricuperato il completo uso14.
Le cose sono andate davvero così, dunque? Io non ero sul posto e non posso che riferirvi quanto ho sentito dire. Di contro, quello che vi confiderò adesso, io sono pronto a certificarvelo con la stessa esattezza come se io fossi stato testimone, perché è a mio figlio, Urbain Morvan, che accadde la storia.
Prima di tutto, però, sappiate che abbiamo sempre avuto, nella nostra famiglia, una bella voce, una vera voce da sacrestano. Quella di Urbain, per quanto non ancora completamente formata, perché all’epoca non aveva che sedici anni, gli era valsa il posto di primo accolito nel coro. Si comportò così bene e si era messo, peraltro, così al corrente di tutte le mansioni della chiesa che, quando il sacrestano di Trédarzec, nel frattempo, era stato convocato alla caserma di Guingamp per il suo periodo di ventotto giorni, non esitarono a domandargli di farne le veci durante la sua assenza.
Erano ormai quasi due settimane da quando aveva assunto questo nuovo incarico. E dunque, quel mattino, che era la seconda domenica di settembre, se non mi ricordo male, si era recato proprio sul fare dell’alba in chiesa, per preparare tutto in vista delle messe. Dopo aver riempito le acquasantiere e portato fuori dalla sacrestia i paramenti sacerdotali, si preparava ad aprire le porte prima dell’arrivo dei fedeli, cominciando come d’abitudine da quella che dava sul presbiterio e serviva unicamente ai preti. Ora, non aveva fatto neppure in tempo a girare la chiave che la levetta di chiusura fu sollevata con violenza da fuori e con grande sorpresa di mio figlio, che fece giusto in tempo a spostarsi per non essere travolto da loro, tre individui estranei alla parrocchia si infilarono nella navata come una raffica di vento. Il trio comprendeva due uomini di una certa età e una donna pure lei alquanto vecchia, che zoppicavano. Tutti avevano facce così determinate che Urbain, un poco spaventato, si rifugiò nel coro e, per darsi un contegno, si mise ad accendere i ceri dell’altare maggiore, benché non fosse ancora l’orario.
I tre intrusi, nel frattempo, erano avanzati parimenti verso la balaustrata. Si fermarono là in gruppo, discutendo animatamente tra loro, a voce bassa. La donna sembrava particolarmente agitata. A un certo punto, mio figlio poté sentire che ripeteva: «Sì! Sì! Bisogna votarlo! Bisogna votarlo!»
Quando Urbain finì di accendere i ceri, l’uomo anziano lo interpellò: «Mabik15! Vorresti farmi il piacere di accendere anche queste candele per noi davanti a sant’Yves?»
«Se è questo che voi desiderate, non domando di meglio,» rispose Urbain, scendendo i gradini dell’altare maggiore.
Quello che gli aveva parlato si tolse di tasca una candela e, col suo coltello, la tagliò in tre parti di lunghezza uguale e poi, dopo avere preparato lo stoppino, le porse a Urbain, che le accese.
«Abbi la bontà,» disse l’uomo, «di sistemare in un semicerchio ai piedi del santo.»
Urbain fece quanto gli era stato richiesto e poi non si occupò più dei tre strani pellegrini, che a propria volta erano impegnati con le loro preghiere, lo sguardo fisso sulle fiammelle che salivano dai tre pezzi di candela. Dietro di loro, le persone della messa bassa vennero a inginocchiarsi a una a una. La chiesa si riempì a poco a poco, poi si svuotò al termine della cerimonia, quindi si riempì di nuovo, quando Urbain ebbe finito di suonare i tre rintocchi della messa grande. Questa era sempre il signor Kerleau a celebrarla. Di solito, a causa dei problemi che aveva a camminare, dopo l’avvenimento di cui vi ho già parlato, arrivava molto prima del secondo rintocco. Stavolta, però, erano passati circa dieci minuti da quando si era spento il terzo rintocco e il vicario non si mostrava ancora. Preoccupato, mio figlio attraversò la folla dei fedeli radunati, per andare ad avvisare il sacerdote che si occupava di alcuni penitenti al confessionale.
«Corri al presbiterio,» gli ordinò il prete, «e torna subito indietro per riferirmi quello che avrai saputo.»
Un istante dopo, Urbain era di ritorno, senza fiato: «Presto! Presto! Il signor vicario è in agonia e la perpetua, da sola con lui, è mezza impazzita per lo spavento.»
Il sacerdote si precipitò verso la sacrestia per recuperare la borsa nera contenente i sacri olî.
Pensate voi che confusione in chiesa! Tutti si erano alzati, con l’eccezione dei tre pellegrini misteriosi che, dal mattino, erano rimasti immobili sulle loro sedie, come persi nelle preghiere. Quando si alzarono a propria volta, Urbain, passando accanto a loro, notò che l’ultimo pezzo di candela si stava spegnendo e sentì dietro di sé la donna mormorare: «È fatta. Abbiamo avuto la nostra rivincita.»
In quello stesso momento, ricevette dal sacerdote l’ordine di suonare i rintocchi funebri, per annunciare che il parroco era morto.
Ecco tutto.
(Raccontato da Jean Morvan. - Penvénan, 1912).
XXXVIII – Il battello stregone
Sull’isola di Sein, siccome la proprietà è estremamente frazionata, i conflitti tra gli interessi sono frequenti e scatenano a volte rancori inestinguibili. Le donne soprattutto sono inclini alla vendetta. Troppo deboli per accapigliarsi apertamente con un nemico, quando si tratta di un uomo, si arrangiano votandolo al mare, ossia alla morte.
Ecco come procedono.
Sull’isola c’è un certo numero di vedove che si crede abbiano ricevuto alla nascita il dono di votare. Non le si nomina ad alta voce, ma le si conosce. Si dice che abbiano contatti con gli spiriti malvagi delle acque, che di notte le accolgono al «sabba del mare». Per recarsi a questo sabba, si servono di una imbarcazione dalla forma del tutto speciale. Avete visto le nostre isolane raccogliere alghe fra i ciottoli. Loro le ammucchiano nelle ceste di vimini, col fondo rientrante come quello di una bottiglia, e per tenere fissato il carico ci piantano una corta asta, chiamata bâ bédina (bastone per raccogliere alghe). Ebbene! È in una cesta di vimini di questo tipo che le Vecchie del Sabba (Groac’hed ar Sabbad) fanno i loro viaggi di notte. Bag-Sorcèrès (battello stregone) è il nome con cui si indica questo tipo d’imbarcazione. Le vecchie non vi possono trovare posto se non accovacciandosi sui propri talloni ed è in questo modo che raggiungono il largo, munite solamente del bâ bédina come remo e timone. Non è raro che i pescatori le incontrino, ma stanno bene attenti a non vantarsene, ben sapendo che la più piccola indiscrezione sarebbe loro fatale.
E dunque, quando c’è qualcuno di cui si desidera la morte, ci si rivolge a una di queste vedove. In generale, non è a casa sua che si va. Si fa in modo di trovarsi sul suo percorso e le si dice, con aria molto naturale: «Moereb (zia), avrei bisogno di voi.»
Se è disposta ad ascoltare la vostra richiesta, vi indicherà lei un luogo deserto dove aspettarla, dopo il tramonto del sole. È di solito dietro l’enorme blocco di roccia chiamato An Iliz (la chiesa), a metà strada tra il paese e il faro.
Là, voi le direte il nome dell’uomo che volete vedere morto. Lei vi chiederà: «Quanto tempo gli concedi per pentirsi del torto che ti ha fatto e per rimediare?»
Si dà un termine qualunque: una settimana, quindici giorni, un mese. Più l’intervallo di tempo che si indica è breve, più la «votatrice» si farà pagare cara.
Una volta concluso l’affare, potete tornare tranquillamente a casa vostra. Il vostro nemico morirà nel giorno indicato.
Per ogni individuo che vota, è necessario che la vecchia compia tre viaggi, assista a tre sabba e consegni ogni volta ai demoni del vento e del mare16 un oggetto che era appartenuto all’uomo che si deve far scomparire.
Si citano numerosi isolani che sono scomparsi a causa di queste pratiche. Per esempio, io ho sentito raccontare questo. Due fratelli erano diventati nemici mortali a causa di eredità e spartizione. Un mattino, quando presero il mare – e naturalmente non sulla stessa barca – le loro mogli andarono, come è abitudine sull’isola, a sorvegliare dalla punta del molo le loro imbarcazioni, per paura che andassero a ubriacarsi in una qualche osteria. Ora, mentre erano là, senza alcun riguardo, una di loro disse all’altra: «Vai piuttosto a casa tua, a vedere se la sarta ha finito di confezionare la tua cuffia da vedova.»
E il marito, in effetti, non rientrò mai. Era dovuto affondare nel luogo stesso in cui era stato votato.
(Raccontato da Cheffa, matrona sull’isola di Sein, 1898.)
NOTE
1 - Il sale è utilizzato in svariate pratiche funebri in Galles e in Scozia. Nel sud del Galles, quando un povero muore, si posa sul suo corpo un piatto pieno di sale e si conficca nel sale una candela accesa, per proteggersi contro lo Spirito malvagio. Inoltre, si traccia una croce sul sale e si sistema a ogni vertice della croce un quarto di mela o di arancia (L. Chaworth-Musters, Revue des traditions populaires, t. VI, p. 485).
In Scozia, si posa sul petto del morto un piatto contenente un poco di sale e, sul ventre, un piatto contenente un poco di terra e una zolla di prato erboso (W. Gregor, Notes on the folklore of the North-East of Scotland, p. 207; J.G. Campbell, Superstitions of the Highlands and islands of Scotland, p. 241; Goodrich-Freer, More folklore from the Hebrides, Folklore, t. XIII, p. 60. Avviene lo steso in Irlanda, the Gentleman’s Magazine library, popular superstitions, p. 199). Il piatto di sale è a volte messo nella bara (J.G. Frazer, Death and burial customs, Scotland, The Folklore Journal, t. III, p. 281).
Nel Galles del sud, alla morte di una persona, si fa venire il sin-eater, “mangiatore di peccati”, della parrocchia, che posa sul petto del defunto un piatto pieno di sale e sul sale un pezzo di pane; mormora poi alcune parole sul pane, lo mangia e se ne va rapidamente. Ha assunto su di sé, si crede, tutte le colpe del defunto. Il sin-eater è visto come responsabile delle colpe che in questo modo ha incorporato ed è generalmente disprezzato (Archaeologia Cambrensis, t. III (1852), p. 330-331. Cfr. Revue des traditions populaires, t. VI, p.484).
In Bretagna, un tempo si usava il sale per conservare dei cadaveri (Le Fureteur breton, t. VII, p. 239; t. VIII, p. 22).
2 - In Scozia, la terra di cimitero serve per certe pratiche di stregoneria. Gettata nel ruscello di un mulino, blocca il movimento della mola (W. Gregor, Notes on the folklore of the North-East of Scotland, p. 216).
Esistono anche pratiche di medicina popolare che utilizzano la terra presa al passaggio di un funerale. In Irlanda, per liberarsi delle verruche, bisogna prendere della terra da sotto il piede destro al momento del passaggio di un carro funebre e lanciarla nella direzione seguita dal corteo (Haddon, A batch of Irish folklore; Folklore, t. IV, p. 356).
3 - È senza dubbio il ricordo della figura di cera che serviva nelle pratiche di maleficio. In Scozia, ci si serviva di una grossolana bambola di argilla (G. Henderson, Survivals in belief among the Celts, pp. 15-16).
4 - La cappella di sant’Yves-de-la-Vérité. - Di fronte al molo di Tréguier, sull’altra sponda del Jaudy, su una graziosa altura tappezzata di ginestra e di erica, si innalzava lì una piccola cappella sotto il patronato di san Sul. Apparteneva ai signori di Verger, della famiglia di Clisson, che vi aggiunse verso la fine del XVIII secolo un ossario in granito. La cappella andò in rovina, ma l’ossario le sopravvisse. Vi si accatastavano le immagini del santi rimasti senza riparo e fra queste si trovavano due immagini di sant’Yves, una delle quali, molto antica, era considerata agli occhi della gente la più rappresentativa di sant’Yvest-de-la-Vérité. Sant’Yvest-de-la-Vérité divenne a poco a poco il patrono di questo ossario trasformato in oratorio, escludendo ogni altro taumaturgo. È là che si andò da allora in poi a invocare giustizia.
Oggi, anche l’ossario è sparito. Non era già più in piedi nel 1882; a quell’epoca, un coltivatore, rimasto celebre nella regione sotto il nome di «crocifisso» di Hengoat, fu trovato assassinato e appeso in croce alle stanghe di una carretta. I suoi assassini, che si crede siano stati i suoi cognati, avevano tentato all’inizio di liberarsi di lui senza spargimento di sangue facendolo dedicare a sant’Yves. Ma l’anziana incaricata di questa missione obbiettò che la cappella era stata demolita e che sant’Yves non c’era più.
Il vicario parrocchiale di Trédarzec, nella parrocchia dove era situato l’oratorio, aveva tolto la statua e l’aveva relegata nella corte del suo presbiterio, perché «essendo stato votato il suo stesso sacrestano, era morto qualche tempo dopo, in seguito a una coincidenza singolare». Il vicario senza dubbio si augurava di farla finita con la superstizione in questo modo radicale. Non fu così. Si continuò ad andare a inginocchiarsi sulla postazione dell’ossario. I più audaci non temettero di bussare alla porta stessa del rettore, per chiedergli di vedere il santo. Il vicario li metteva alla porta all’inizio con riguardo, ma in seguito, perdendo la pazienza, si dice che ci abbia messo anche un poco di brutalità. Dei pellegrini che aveva fatto gettare fuori dalla propria casa lo consegnarono al tribunale di sant’Yves e, se si vuole credere alla leggenda, quello stesso giorno, che era una domenica, morì alla fine della messa principale (Si veda più avanti una versione di questa leggenda. Cfr. Au pays des pardons, pp. 22-25).
Quanto alla superstizione, è più viva che mai. Nel mese di agosto 1891 mi fu additata una donna afflitta da una malattia di deperimento, dicendomi: «Guardate quella! C’è un tale che l’ha votata. Non attende che la fine». Alla minima discussione che prende una piega aspra, ancora si minaccia l’avversario di andarlo a votare a sant’Yves e la minaccia produce sempre il proprio effetto.
Le informazioni che riferisco su questo culto omicida sono di provenienza diversa, ma le ho raccolte in particolare a Penvénan, dalla bocca di Pierre Simon e da quella di Perrine Le Moal.
Si è visto sopra, d’altra parte, che l’altare in pietra di sant’Yves-de-la-Vérité fu acquistato dalla signora Ambroise Thomas e che fu proprio questo che lei fece installare nel piccolo oratorio privato collegato alla dimora di Ziliek, a Penvénan. La voce pubblica sostiene che lei abbia ugualmente dato rifugio alla statua del santo e l’isola Ziliek divenne per qualche tempo il luogo di un pellegrinaggio sospetto. Secondo la versione più recente, però, questa statua, in seguito a numerose vicissitudini, sarebbe emigrata a Guingamp, dove sarebbe stata acquistata dal signor G. de Kerguézec, deputato delle Côtes-du-Nord.
Sulla storia della cappella e della leggenda, si veda P. Hémon, Saint Yves-de-la-Vérité, Annales de Bretagne, t. XXV, pp. 20-46. Cfr. Le Fureteur breton, t. IV, p. 128; t. V, p. 5, e anche L. Jobbé-Duval, “L’adjuration à saint Yves-de-la-Vérité”, Nouvelle revue historique de droit français et étranger, t. XXXIII, p. 550, 722, che studia la leggenda dal punto di vista giuridico.
5 - Ecco la formula in bretone: Te eo Zantik ar Wirione. Me a westl dit heman. Mar man ar gwir a du gant-han, condaon ac’hanon. Mes, mar man ar gwir a du ganin, gra d’ez-han merwel a-berz ann lermenn rik. In Cornovaglia, per votare qualcuno alla morte, si recita il salmo 109 applicando le sue maledizioni alla persona che ha torto (W. Bottrell, Traditions and hearthside stories, 2° serie, p. 229). Gli Status de Saint-Malo, ed. del 1620, p.486, mettono sullo stesso piano della stregoneria quelli che pregano sant’Yves per fare morire di mala morte qualcuno nei cui confronti sono indignati (H. de Kerbeuzec, Revue des traditions populaires, t. XXVII, p. 139).
6 - Cfr. A. Le Braz, Au pays des pardons, pp. 16-17.
7 - Tra Pluzunet e Tonquédec.
8 - Habasque (Notions historiques... sur le littoral du département des Côtes-du-Nord, t. I, p. 285) parla di venti malvagi soffiati dalle persone invidiose, che fanno morire di languore.
9 - È alla cappa del camino che sono agganciate le armi nelle fattorie bretoni.
10 - Fin quasi ai nostri giorni, in Galles, il contadino a cui un oggetto di valore era stato rubato consultava uno stregone e “votava” il presunto colpevole; immancabilmente, l’oggetto rubato faceva ritorno in suo possesso nell’intervallo fissato. (E. Owen, Welsh folklore, p.217).
11 - Lo si chiama indifferentemente liardo o pezzo da diciotto denari.
12 - In Irlanda, in un cimitero, c’è l’abitudine di camminare, quando è possibile, assieme al sole, con la mano destra verso il centro del cerchio (Haddon, A batch of Irish folklore, Folklore, t. IV, p. 358).
13 - Il Trieux, che separa il Trégor dal Goëlo e costituisce agli occhi delle popolazioni rivierasche una linea di separazione etnografica.
14 - Secondo un’altra versione registrata a Trédarzec nel 1920, dalla bocca di Marguerite Quellec, il signor Kerleau si trovava un giorno da solo in chiesa, quando fu avvicinato da una povera, estranea alla parrocchia, ma che si vedeva spesso passare a piccoli passi minuti, perché era invalida, e che era indicata col nomignolo di Mari Goz (Maria la vecchia). Veniva a chiedere il permesso di fare visita a sant’Yves-de-la-Vérité nel solaio del presbiterio. Il vicario le rispose rudemente: «Oh, sì! State ancora macchinando qualche stregoneria, vecchia trascinazampa (coz ruzérez coz)!»
«Oh!» rispose lei. «Benedetta, la trascinerai anche tu, signor vicario (c’hwi ruzo iè, otro Person).» E da quel giorno in poi, in effetti, il signor Kerleau non camminò più se non con grande difficoltà, appoggiandosi a due bastoni.
15 - Diminutivo di mab, figlio.
16 - Cfr. Le sacerdotesse dell’isola di Sein (Pomponio Mela III, 6, 48) che potevano scatenare tempeste.