La leggenda della Morte
Capitolo VI
La partenza dell’anima
Alla morte, l’anima compare di fronte al tribunale di Dio per ricevere il giudizio specifico1. Non appena ricevuto il giudizio, però, ritorna sul proprio corpo (non dentro) e rimane lì per tutta la durata della sepoltura, subito dopo l’inumazione. In generale, non è possibile vederla se non al prete che celebra il funerale. Il signor Dollo la vedeva sempre e sapeva anche in quale luogo dei dintorni si sarebbe dovuta recare in seguito, per scontare la propria penitenza.
Questo signor Dollo, vicario parrocchiale di Saint-Michel-en-Grève, fu uno dei preti meglio informati su tutto ciò che riguardava l’Anaon2. Sapeva in quali direzioni si fossero disperse le anime di tutti i morti che aveva seppellito, eccetto due.
Oltre ai preti, possono ancora vedere la separazione dell’anima dal corpo3 le persone che ne hanno ricevuto il dono speciale o a cui, per una ragione o per l’altra, il mistero è stato svelato.
XXXIX – La finestra aperta
Ero andata una sera a vegliare uno dei miei parenti di Trélévern, che era in punto di morte. Era un pescatore di nome Jean Guilcher, che ai suoi tempi era stato uno dei ragazzi più forti del paese. Anche consumato dalla miseria e dall’età, conservava ancora un vigore poco comune. Lo si vide bene in questa occasione. Agonizzò per due giorni: il suo corpo non accettava di separarsi dalla propria anima.
In ogni momento, si diceva attorno al suo letto: «Sarà stavolta!» E si credeva di sentirlo esalare il suo ultimo respiro, ma l’istante successivo riapriva gli occhi, guardava le persone che lo vegliavano e faceva segno che gli si desse da bere.
Quando arrivai io, era al punto di maggiore debolezza, eppure mi riconobbe. Mi sedetti al suo capezzale e mi misi a recitare, assieme alle altre persone presenti, le preghiere per gli agonizzanti. Tutto a un tratto mi sentii toccare il gomito. Era lui, il vecchio Guilcher, che voleva attirare la mia attenzione. Mi chinai sopra il suo volto. «Avete qualcosa da dirmi?» gli domandai.
Fece un grande sforzo e, con una voce fievole fievole, mi mormorò all’orecchio: «Hanno dimenticato di aprire la finestra. La mia anima non se ne può andare4.»
Non c’era che una sola finestra nella stanza: vi corsi e, spingendo la spagnoletta, la spalancai completamente. Tornando a prendere il mio posto accanto al moribondo, sentii come un profumo imbalsamato, benché non ci fosse un solo fiore in tutta la casa, dato che eravamo in pieno inverno, in dicembre.
Quando stavo per risistemarmi sulla sedia, vidi che Guilcher aveva gli occhi fissi e le labbra socchiuse: in quel breve momento aveva reso l’anima.
(Raccontato da Françoise Bideau. - Trévor-Tréguignec.)
Quando un moribondo trapassa con gli occhi aperti, significa che l’Ankou non ha finito il suo lavoro in quella casa e ci si deve aspettare di rivederlo a breve per qualcun altro dei membri della famiglia5.
XL – L’anima vista nella forma di un topo bianco
Benché Ludo Garel non fosse che un domestico, non era certo il primo venuto. Aveva sempre l’animo occupato da una moltitudine di cose a cui il volgo solitamente non pensa. Le sue continue meditazioni lo avevano spinto molto lontano. Confessava lui stesso di possedere quasi a fondo tutto ciò che a un uomo è dato di conoscere.
«Tuttavia,» aggiungeva, «c’è ancora un punto che mi confonde e di cui non ho alcuna idea: è la separazione dell’anima dal corpo. Quando avrò fatto chiarezza su questo punto, non mi resterà più niente da imparare.»
Il suo padrone, uno degli ultimi superstiti della nobile famiglia di Quinquiz, aveva una grande fiducia in lui, sapendolo uomo d’onore e dai buoni consigli. Un bel giorno, lo chiamò nel suo ufficio.
«Mio povero Ludo,» gli disse, «non mi sento molto bene, oggi. Sto covando, credo, una qualche brutta malattia e ho il presentimento che non la scamperò. Se almeno i miei affari fossero in regola! Questo maledetto processo che ho a Rennes mi dà parecchio tormento. Sono quasi due anni che si trascina. Se almeno lo vedessi concludersi a mio vantaggio, prima di morire, me ne andrei col cuore molto più leggero. Ti considero un ragazzo oculato, Ludo Garel. D’altra parte, e me l’hai dimostrato a sufficienza, non c’è servizio che tu non sia pronto a fare per me. Ti domando questo, che sarà probabilmente l’ultimo. Domani mattina, alle prime luci dell’alba, ti metterai in viaggio per Rennes. Farai visita a ognuno dei giudici e domanderai loro di pronunciarsi al più presto o a favore, o contro di me. Tu hai una buona lingua; sono fiducioso che troverai il modo di predisporli a mio favore. Quanto a me, io mi metterò a letto. Piaccia a Dio che non mi richiami da questo mondo prima che tu sia di ritorno!»
Ludo, prima di prendere congedo, si sforzò di risollevare lo spirito abbattuto del suo padrone.
«Non preoccupatevi che di rimettervi in piedi, signor conte. Non siete ancora maturo per l’Ankou. Fate in modo che io vi ritrovi in piena forma. Io mi occuperò del resto, in fede mia!»
Trascorse tutto il pomeriggio a fare i suoi preparativi per il viaggio e a rimuginare nella sua mente i discorsi che avrebbe fatto ai giudici. Alla cattura-notte6, si coricò, per svegliarsi di buon’ora. Dormì male. Mille idee, mille propositi incoerenti gli galoppavano nella testa.
A un tratto gli sembrò di sentire il canto del gallo. «Oh! Oh!» si disse. «Ecco le prime luci dell’alba. È tempo di sloggiare.» E Ludo Garel si mise in cammino.
Si era in pieno inverno. A malapena si vedeva un poco di luce per viaggiare. Dopo un’ora, un’ora e mezza di marcia, si ritrovò ai piedi di un muro che gli sbarrava il cammino. Cominciò a costeggiarlo e arrivò davanti a una scala di pietra sui cui gradini si inerpicò. Era la scalinata di un cimitero.
«Hum!,» pensò Ludo, vedendosi circondato da tombe e croci. «Per fortuna che l’ora malvagia deve essere trascorsa da un pezzo.»
Non aveva fatto in tempo a finire di dire questo, quando vide un’ombra alzarsi da terra e dirigersi verso di lui lungo uno dei vialetti laterali. Quando l’ombra gli fu abbastanza vicina, Ludo si accorse che aveva a che fare con un giovane uomo dalla figura distinta, vestito di stoffa nera e pregiata.
Augurò buongiorno al giovane uomo.
«Buongiorno,» gli rispose quello. «Siete in viaggio di buon’ora.»
«Non so esattamente che ora potrebbe essere, ma il gallo cantava quando sono uscito di casa.»
«Sì, il gallo bianco7!» rispose il giovane. «Che strada state facendo?»
«Vado verso Rennes.»
«Anch’io. Se vi va, possiamo fare un tratto di strada assieme.»
«Non chiedo di meglio.»
L’aspetto e il tono del giovane ispiravano fiducia. Ludo Garel, un poco inquieto all’inizio, fu presto contento di averlo come compagno, tanto più che il giorno tardava terribilmente a venire. Cammin facendo, chiacchierarono. A poco a poco, Ludo divenne espansivo. Mise lo sconosciuto del cimitero al corrente di tutto ciò che lo riguardava, della malattia misteriosa del suo padrone, dei macabri presentimenti che gli aveva espresso la sera prima e del motivo per cui era stato incaricato di compiere quel viaggio. Lo sconosciuto ascoltava, ma non diceva quasi nulla.
Nel frattempo, il canto del gallo risuonò da una fattoria vicina.
«Per la miseria!» esclamò Ludo. «L’alba sta spuntando.»
«Non ancora,» rispose il giovane. «Il gallo che ha cantato è il gallo grigio.»
In effetti il tempo trascorse e la notte rimase sempre nera allo stesso modo.
I nostri due continuarono a camminare, ma Ludo aveva vuotato il sacco delle sue confidenze e lo sconosciuto non sembrava disposto a svelare le proprie. La conversazione languì, poi finì per spegnersi.
Quando non si chiacchiera, di giorno ci si annoia; di notte, si ha paura8.
Ludo Gazel cominciò a scrutare il suo compagno con la coda dell’occhio e a trovare singolare il suo portamento. Invocava la luce con tutto il cuore.
Alla fine, il terzo gallo cantò.
«Ah!» fece Ludo, con un sospiro di sollievo. «Almeno stavolta è quello buono!»
«Sì,» rispose il giovane, «questa volta è il gallo rosso. Adesso l’alba imbiancherà il cielo. Vedete però che l’avete anticipata di parecchio. Era a malapena mezzanotte, quando siete entrato nel cimitero dove mi avete incontrato.»
«Possibile?» disse Ludo a voce bassa.
«Un’altra volta, cercate di tenere meglio il conto delle ore. Se io non vi avessi accompagnato fino a questo momento, vi sarebbe capitata più di una spiacevole avventura9.»
«Grazie di cuore, in questo caso!» mormorò umilmente Ludo Garel.
«Non è tutto. Vi devo dire che è inutile che proseguiate il vostro cammino. Il processo del vostro padrone è stato giudicato già ieri sera ed è a favore del vostro padrone che i giudici si sono espressi. Ritornate dunque da lui, per annunciargli questa buona notizia.»
«Jésus-Maria Credo! Tanto meglio, in verità. Il signor conte ne guarirà di colpo!»
«No. Ne morirà, al contrario. A questo proposito, Ludo Garel, vi sarà permesso di vedere la separazione dell’anima dal corpo. È una cosa, lo so, che voi desiderate vedere da molto tempo.»
«Ve l’ho detto io!» esclamò Ludo, che si domandò un poco in ritardo se non avesse chiacchierato troppo lungo la strada.
«Voi non me l’avete detto, ma chi mi ha mandato in vostro soccorso vi conosce meglio di quanto voi non conosciate voi stesso.»
«E io potrò vedere la separazione dell’anima dal corpo?»
«La vedrete. Il vostro padrone morirà tra poco, alle ore dieci, dieci e mezza. Poiché si crederà che siete andato fino a Rennes e tornato indietro (perché voi non farete parola del nostro incontro), insisteranno perché andiate a riposare. Rifiutate però di coricarvi. Rimanete al capezzale del conte e non distogliete lo sguardo dalla sua figura. Quando sarà morto, vedrete la sua anima sfuggire dalle sue labbra sotto forma di un topo bianco. Questo topo sparirà subito in un qualche buco. Non preoccupatevi di questo. Per esempio, non lascerete a nessuno il compito di andare a cercare la croce funeraria alla chiesa del paese. Ci andrete voi stesso. Arrivato sotto l’androne, aspetterete che il topo vi abbia raggiunto. Non entrerete in chiesa prima di lui. Accontentatevi sempre di seguirlo. È essenziale. Se voi vi manterrete strettamente fedele alle mie raccomandazioni, entro stasera voi saprete ciò che aspirate tanto a conoscere. E adesso, Ludo Garel, addio!»
A questo punto, lo strano personaggio svanì in un vapore leggero, mischiandosi rapidamente a quelli che salivano dal suolo umido nel giorno nascente.
Ludo Garel se ne tornò a Quinquiz.
«Dio sia lodato!» disse il padrone. «Hai avuto ragione, bravo servitore, a essere sollecito. Sono al mio punto più basso. Se tu avessi tardato anche una mezz’ora, non avresti trovato che un cadavere. Come è andata dunque a Rennes?»
«Avete vinto il vostro processo.»
«Te ne sono molto grato, amico mio. Grazie a te posso morire tranquillo.»
Questa volta Ludo Garel non tentò affatto di confortare il suo padrone con parole di speranza. Sapeva che il destino10 si doveva compiere. Andò tristemente a sistemarsi alla testa del letto, in modo da non perdere mai di vista il volto del conte. La stanza era piena di gente in lacrime. La contessa prese Ludo per un braccio e gli disse all’orecchio: «Siete distrutto di fatica. Non manca gente per vegliare il mio povero marito, qui. Andate a dormire.»
«Il mio dovere,» rispose il domestico, «è di restare al capezzale del mio padrone fino all’ultimo momento.»
E ci rimase, malgrado tutte le richieste.
Suonarono le ore dieci. Proprio come aveva predetto lo sconosciuto, il signore di Quinquiz entrò in agonia. Una vecchia intonò le «grazie». L’assistente mormorò le risposte. Ludo Garel mescolò la propria voce a quelle degli altri, ma il suo pensiero non andava alla preghiere che borbottava. Era tutto teso verso ciò che sarebbe successo di lì a poco, al momento della separazione dell’anima dal corpo.
Il conte, intanto, cominciava ad agitare la testa a destra e sinistra11, sul capezzale. Significava che la morte voleva venire, ma non sapeva ancora da quale direzione.
Tutto a un tratto s’irrigidì. La morte l’aveva toccato.
Esalò un lungo sospiro e Ludo vide la sua anima uscire dalle sue labbra con la forma di un topo bianco. L’uomo del cimitero aveva detto la verità.
Il topo non fece allora che apparire e sparire.
La vecchia che aveva intonato le «grazie» cominciò il De profundis. Per andarsene, Ludo approfittò dell’emozione causata dalla dipartita del conte e trottò per un sentiero traverso fino al paese. A Quinquiz non era ancora stato dato l’ordine di andare a cercare la croce funeraria che lui era già sotto l’androne della chiesa. Il topo bianco vi arrivò quasi in contemporanea con lui. Lo lasciò entrare per primo nella navata. Quello si mise a trotterellare veloce e minuto, ma lui lo poteva seguire senza troppa fatica facendo grandi passi. Per tre volte fece il giro della chiesa dietro a quello. Concluso il terzo giro, il topo uscì di nuovo nell’androne. Ludo si precipitò sulle sue tracce, tenendo stretta al petto la croce funeraria che aveva preso di passaggio. I sonagli della croce tintinnavano, tintinnavano, e il topo scappava, scappava. Il topo, la croce e Ludo che la portava percorsero assieme tutti i campi di Quinquiz. La bestiolina bianca saltava al di sopra di ogni ostacolo, come il padrone aveva l’abitudine di fare, da vivo, poi costeggiava i quattro fossi.
Una volta concluso il giro dei campi, riprese la direzione del maniero. Arrivato nell’aia, si incamminò verso un edificio isolato, dove si riponevano gli strumenti da lavoro. Su ognuno di essi posava le zampe12. Aratri, zappe, vanghe, a tutti diceva addio.
Da là, ritornò in casa.
Ludo lo vide aggrapparsi al cadavere e lasciarsi mettere assieme a quello nel feretro.
Il chierico venne a cercare il corpo. La messa di sepoltura fu cantata; il feretro fu calato nella fossa. Ma dopo che il prete celebrante l’ebbe asperso di acqua benedetta, dopo che i parenti prossimi vi ebbero gettato sopra le prime manciate di terra, Ludo ne vide uscire di nuovo il topo bianco.
Il giovane sconosciuto gli aveva espressamente raccomandato di seguirlo fino alla fine, che fosse attraverso rovi, spine o pantano.
Eccolo dunque abbandonare la sepoltura e rimettersi a vagare dietro il topo.
Attraversarono boschi, guadarono acquitrini, scarpinarono su fossati13, attraversarono paesi, tanto e così a lungo che giunsero a una vasta landa nel mezzo della quale si alzava il tronco mezzo seccato di un albero. Era così vecchio, così spelato che sarebbe stato difficile dire se fosse il tronco di un faggio o di un castagno. Il suo interno era cavo. Davvero, non si reggeva in piedi che per miracolo. Perfino la sua magra scorza era tagliata dall’alto in basso. Il topo si infilò in una di quelle fenditure e Ludo vide subito apparire il signore di Quinquiz nel cavo dell’albero.
«O mio povero signore!» gridò, le mani giunte. «Che cosa ci fate qui?»
«Ogni uomo, mio caro Ludo, deve fare la propria penitenza nel luogo che Dio gli ha assegnato.»
«Posso almeno venirvi ad aiutare in un qualche modo?»
«Sì, tu puoi.»
«E come?»
«Digiunando per me per un periodo di un anno e un giorno14. Se lo farai, io sarò liberato per sempre e la tua beatitudine arriverà poco dopo la mia.»
«Lo farò,» rispose Ludo Garel.
Mantenne la promessa. Terminato il digiuno, morì.
(Raccontato da Marie-Louise Bellec, sarta. - Port-Blanc.)
XLI – Il morto nell’albero
Jean-René Brélivet, agricoltore a Trégarvan, disse un mattino alla moglie: «I venti sono girati verso la pioggia. Se non raccolgo oggi la canapa, rischia di essere annacquata. Non potrò dunque andare alla sepoltura di François Quenquis: vi assisterai tu al mio posto. Non dimenticare che la cerimonia è alle ore nove.»
«Va bene,» gli rispose la moglie. «Mi andrò a preparare.»
Questo François Quenquis era stato per loro un vicino e un poco anche un genitore, deceduto due giorni prima.
Arrivato nel canapaio, una delle cui scarpate era il divisorio col frutteto di François Quenquis, Jean-René Brélivet si mise al lavoro, non senza un poco di rimpianto, tuttavia, per colui che si preparavano a mettere sotto terra e con cui lui aveva sempre avuto ottimi rapporti.
«La vita dell’uomo è poca cosa,» pensava, radunando in mucchi i fusti della canapa secca.
Verso le ore nove, quando i rintocchi funebri cominciarono a suonare nella chiesa del paese, smise per un momento di lavorare e guardò in direzione della fattoria del morto, cercando di scorgere il convoglio. Ora, quale non fu il suo spavento, quando sulla scarpata comune alle due proprietà vide François Quenquis in persona che si intrufolava tra gli alberi, facendo una piccola pausa accanto a ciascuno di essi, e li esaminava uno dopo l’altro con aria preoccupata!
«Questo è proprio strano,» si disse Jean-René Brélivet, facendosi un rapido segno della croce.
Sulla strada, non lontano di là, si sentiva il canto dei preti: prova che il funerale era in corso. Eppure, non poteva esserci alcun dubbio: era proprio il morto che il raccoglitore di canapa aveva davanti agli occhi. Di quale razza di scherzo si trattava?
«Ecco! Sembra che abbia scoperto quello che gli serviva,» mormorò Jean-René a se stesso, «perché eccolo che si appoggia al tronco del vecchio olmo.»
In mezzo alla scarpata c’era un olmo molto vecchio, di cui l’anno scorso avevano tagliato i rami più grandi, non lasciandogli altro che i giovani germogli. François Quenquis vi si tenne appoggiato per qualche istante, poi, tutto a un tratto, senza che Jean-René Brélivet si fosse accorto di come avesse fatto, ecco che era appollaiato a cinque piedi dal suolo su un rametto grosso a malapena come il dito di un bambino e che, nonostante tutto, non sembrava piegarsi sotto il suo peso. Jean-René fu così sorpreso dalla cosa, che si dimenticò del proprio spavento. Vedendo poi che il morto lo guardava con dolcezza dall’alto del suo strano sedile, si azzardò a fargli una domanda.
«Abbiamo sempre vissuto d’amore e d’accordo, François Quenquis. Spiegami dunque perché, volendoti sedere, non hai scelto il ramo maestro di una delle grandi querce che si trovano accanto a te sulla scarpata, ma quel rametto così minuto, forte a malapena per reggere un regolo.»
François Quenquis scosse dolcemente la testa e rispose: «Non ho avuto scelta, Jean-René. Dio assegna a ciascuno il luogo e la durata della sua penitenza. Per quanto riguarda me, mi toccherà rimanere qui fino a che questo germoglio sia diventato così robusto da poter fornire il legno per il manico di un qualche attrezzo di lavoro.»
Parlando così, il morto aveva un volto tanto triste, che Jean-René Brélivet ne ebbe il cuore commosso.
«Oh, bene!» esclamò lui. «Sarai dunque liberato subito! Proprio in questi giorni, mia moglie mi diceva che il suo piccolo rastrello per stendere la pasta sulla teglia per le crêpes aveva bisogno di un manico nuovo. Suppongo che sia uno strumento di lavoro come un altro, no?»
E senza attendere la risposta del morto, saltò sulla scarpata, si arrampicò sull’olmo e tagliò col suo coltello il rametto a filo dell’albero. Nello stesso momento in cui lo staccava, sentì un gioioso «grazie». L’apparizione era svanita come si disperde nel vento un filo di fumo. Era esattamente l’ora in cui ponevano nella terra il feretro di François Quenquis.
(Raccontato da Pierre Le Goff. - Argol.)
XLII – Il segreto della morte
La signora Tanguy, di Penhars, raccoglieva legna caduta nella foresta di Quistinic. D’un tratto, mentre passava accanto a un castagno molto vecchio e molto traforato, vide, in piedi nel cavo dell’albero, la forma di una donna senza testa15. Malgrado il suo spavento, ebbe la presenza di spirito di domandarle: «È da parte di Dio o da parte del Diavolo che siete là?»
«Da parte di Dio,» rispose lo strano personaggio.
«Cosa posso fare per voi?»
«Sono qui per la mia penitenza, fino a che un’anima caritatevole non mi libererà di un segreto. Vorreste essere voi?»
«Parlate: vi ascolto.»
«No, non è né l’ora, né il luogo. Trovatevi però domani a mezzanotte in punto sul ponte di Trohir. Là io parlerò.»
«Va bene. Sarò all’appuntamento.»
Di ritorno a casa, Anna Tanguy raccontò l’avventura a una vicina e la pregò di accompagnarla l’indomani al ponte di Trohir. Sfortunatamente, si misero in cammino troppo tardi e i dodici colpi suonarono a Penhars quando si trovavano ancora a duecento passi dal ponte. Quando infine vi giunsero, si guardarono inutilmente attorno: non c’era nessuno.
«Cosa fare?» domandò la signora Tanguy, molto addolorata per aver mancato di parola alla morta.
«In fede mia, al vostro posto io farei celebrare una messa dedicata a lei: se non altro, in questo modo le avrete dimostrato le vostre buone intenzioni,» disse la vicina.
Anna Tanguy si recò così dal vicario parrocchiale di Penhars non appena fece giorno e gli pagò il costo di una messa a cui assistette con grande devozione. La sera stessa, quando si stava per coricare, si sentì chiamare tre volte per nome. Non si voltò affatto. Allora una voce che riconobbe come quella della donna senza testa gridò da fuori: «Dove volete che posi questo?»
«Sulla pietra della soglia16,» rispose quasi per caso Anna Tanguy.
«Dio vi benedica!» rispose la voce. «Mi avete liberata dal mio fardello.»
E dal rettangolo della finestra Anna Tanguy vide una grande luce17 che, a poco a poco, si perdeva in lontananza nella notte. È stato il suo angelo custode, senza dubbio, a ispirarle la risposta che aveva dato. Perché ciò che quella morta aveva da posare non era altro che il suo segreto. Se, al posto di farglielo posare sulla pietra della soglia, Anna Tanguy l’avesse ricevuto lei stessa, avrebbe poi dovuto prendere il posto della defunta nell’altro mondo, in attesa di essere a propria volta liberata nello stesso modo.
(Raccontato da Dupont. - Quimper.)
XLIII – L’anima vista sotto forma di moscerino
18Yvon Penker era un uomo saggio, che viveva nel timore di Dio. Aveva come migliore amico Pêr Nicol. Pêr Nicol si ammalò gravemente e fece subito chiamare Yvon Penker.
«Sento che sto per morire,» gli disse. «Tu sei l’uomo che più ho amato e stimato in questo mondo. Vorrei che tu mi assistessi fino al mio ultimo momento.»
Penker rispose: «Non ti abbandonerò.» E si installò in effetti al capezzale dell’amico.
Verso mezzanotte, Nicol gli disse con una voce oppressa: «Dammi la tua mano.»
Non appena Penker ebbe messo la propria mano nella sua, il moribondo trapassò.
Penker, che lo guardava morire con gli occhi pieni di lacrime, vide allora uscire dalla sua bocca un moscerino (eur fubuenn)19, un moscerino gracile, dalle ali tenui, simile alle effimere che si vedono turbinare nelle sere d’estate ai bordi dei ruscelli.
L’insetto andò a bagnare le zampe in una tazza di latte che si trovava là su un tavolo, poi svolazzò tutto attraverso la stanza e svanì bruscamente.
«Cosa gli potrà essere accaduto?» si domandò Yvon Penker.
Non tardò a vederlo riapparire. Questa volta, il moscerino si posò sul cadavere e vi rimase. Si lasciò anche rinchiudere nella bara assieme al morto.
Penker lo rivide solamente al cimitero. Quando le prime zolle di terra rotolarono nella fossa, il moscerino evase dal feretro. Penker capì soltanto allora che quel moscerino doveva essere l’anima di Pêr Nicol e decise di seguirlo in qualunque luogo sarebbe andato.
Ora, il moscerino si recò in una landa situata non lontano dalla fattoria dove Pêr Nicol abitava in vita. Là si posò su una spina di ginestrone.
«Povera, cara piccola mosca, cosa venite a fare qui?» si domandò Penker, l’uomo saggio.
«Dunque tu mi vedi!»
«Io vi vedo, per questo vi parlo. Ditemi, non siete voi l’anima del fu Pêr Nicol, che fu il mio miglior amico in questo mondo?»
«Sì, Yvon, io sono il tuo amico morto. Io sono Pêr Nicol.»
«Vieni dunque con me a casa mia. Ti sistemerò in un angolo dove sarai tranquillo e converseremo assieme di tanto in tanto, come facevamo un tempo.»
«Io non posso, mio povero Yvon. Questo è il luogo che Dio mi ha assegnato per farvi penitenza e io ci dovrò rimanere per cinquecento anni. Bisogna che il buon Dio ti ami molto, per averti permesso di riconoscere la mia anima sotto questa forma di moscerino.»
«Oh! Non ti ho perso di vista un solo istante dall’ora in cui ti sei separato dal tuo corpo. Anzi no, mi sbaglio: sei sparito per qualche minuto, senza che io mi sia potuto rendere conto del luogo in cui potevi essere andato. Ma prima dimmi, per favore, perché ha cominciato bagnandoti le zampe nella tazza di latte?»
«Non dovevo io sbiancare, prima di presentarmi al cospetto del grande Giudice?»
«E poi, quando te la sei svignata, dopo aver volato di qua e di là attraverso tutta la casa, cosa ti è successo?»
«Se tu mi hai visto svolazzare di qua e di là per tutta la casa, è perché dovevo congedarmi da ciascuno dei mobili. Quando poi me la sono svignata, è stato di nuovo per andare in cortile e nelle stalle a prendere congedo dagli strumenti che mi avevano servito un tempo e dalle bestie che mi avevano aiutato col lavoro20. Fatto questo, mi sono presentato al tribunale di Dio.
«Non ci hai messo molto a fare tutto questo.»
«Le anime hanno ali che vanno veloci.»
«Ma perché ti sei lasciato rinchiudere nella bara assieme al tuo corpo?»
«Ero tenuto a rimanere lì fino a che Dio non avesse pronunciato la mia sentenza.»
«Avrei sperato che ti permettesse di trascorrere una parte della tua penitenza in casa mia, accanto a me, per il tempo che ancora mi resta da vivere. Dio deve sapere che ci amiamo di un’amicizia rara, Pêr Nicol.»
«Lo sa, in effetti, Yvon Penker. Sii certo che non tarderà a riunirci. Fra non molto, la tua anima sarà venuta a raggiungermi in questa landa.»
Tre mesi dopo, nello stesso giorno, seppellirono Yvon Penker, l’uomo saggio21.
(Raccontato da Catherine Carvennec. - Port-Blanc.)
L’anima appare anche sotto forma di fiore, di un grande fiore bianco; è più bella a misura che ci si avvicina a lei e si allontana quando la si vuole cogliere.
XLIV – La separazione dell’anima e del corpo
22L’anima.
Addio a voi, mio Corpo, addio io dico.
Voi ed io non eravamo che una cosa sola nella nostra prima stagione:
Se oggi Dio ha deciso di separarci,
Poiché abbiamo vissuto bene, non ce ne dobbiamo rattristare.
Il corpo.
Ahimè, mia povera Anima, mia essenza immortale,
Sento forgiare le mie catene, voi mi lascerete!
Ho fatto per voi il sacrificio delle mie propensioni,
E adesso voi mi lascerete solo.
L’Anima.
È vero, mio compagno, mio camerata di fortuna,
Per quanto riguarda i Comandamenti, non ne avete infranto alcuno.
Ma Dio ordina, con tutta la sua potenza,
Che noi cessiamo, io di essere tua padrona e tu di essere il mio servitore.
Dio, se è soddisfatto del nostro buon comportamento,
Nulla può cambiare nella nostra condizione
E lasciarci insieme, senza separarci,
Per vivere a riposo, uniti come in passato.
Così avveniva sotto la sua prima Legge:
Ma Adamo stravolse tutto con la sua disobbedienza
E adesso il Corpo è separato dall’Anima.
Voi andrete in terra e io andrò in cielo.
Il Corpo.
Se sono io la casa che fu costruita per ospitarti,
Adesso che ci separiamo, chi ti riceverà?
Voi sarete triste di lasciarmi, vostro fratello,
E io sarò ancora più triste senza di voi, mia vera anima.
L’Anima.
Quando sarò liberata dai legami con cui mi tenete prigioniera,
Il palazzo della Trinità, dei Santi e degli Angeli
È pronto per accogliermi, più magnificamente ornato
Delle case del Sole quando splende a Oriente.
Il Corpo.
Se è per averlo ben servito
Che Dio il Padre vi dà un posto nel suo palazzo,
Pretendo in tutta giustizia la mia parte nei vostri onori,
Perché io sono stato lo strumento delle vostre virtù.
L’Anima.
Aspettate, amico mio, che venga di nuovo
La Resurrezione: mi aggrapperò alla vostra mano
E, siate voi anche pesante come il ferro, dopo aver soggiornato in cielo
Avrò la forza di un amante per portarti dietro di me.
Il Corpo.
Quando sarò il prigioniero rinchiuso nella tomba,
E le mie membra si saranno decomposte nella terra,
Quando non avrò più intatti né mano, né piedi, né braccia,
Sarà troppo tardi per cercare di sollevarmi lassù.
L’Anima.
Chi creò il mondo, senza modello e senza materia,
Ha la potenza sufficiente per restituirvi la forma.
Chi vi creò la prima volta, in un tempo in cui ancora non eravate,
Sarà capace di trovarvi là dove non sarete più.
Il Corpo.
Voi mi avete in disprezzo e mi respingete, me, il vostro amico,
Perché mi vedete pieno d’imperfezioni;
Non c’è amore che là dove c’è uguaglianza:
Giudicandomi inferiore, mi lasciate da parte.
L’Anima.
I corpi virtuosi, come voi lo siete stato,
Sono tesori preziosi sulla terra benedetta,
Come lo sono le radici della rosa, della lavanda, del giglio,
Nell’angolo di un giardino, così voi sarete nella chiesa.
Il Corpo.
La rosa, il giglio e altri mazzi di fiori dello stesso tipo
Perdono i petali, poi di nuovo li ritrovano;
Se io sono simile a loro, come voi dite,
Prima che sia passato un anno, sarò resuscitato.
L’Anima.
Un anno composto di tanti giorni quanti gli anni ordinari,
Ma di cui ogni giorno durerà mille anni,
Condurrà forse a noi la Resurrezione,
Mille anni, davanti a Dio, non sono che un giorno.
Il Corpo.
Addio a voi, vita mia, addio ancora, perché così bisogna!
Dio vi conduca al luogo a cui aspirate!
Voi resterete sempre sveglia. Io, ahimè, dormirò.
Quando verrà il momento, non mancate di avvertirmi.
L’Anima.
Addio, corpo prediletto, e grazie
Per la vostra obbedienza e il vostro buon servizio.
Quando verranno gli angeli a suonare le trombe
Per chiamare al Giudizio finale, noi ci rivedremo.
Il Corpo.
Andiamo dunque, vita mia, a ricevere il premio
A cui voi puntate nella grande eredità
Delle gioie eterne del Firmamento!
Per me, la mia agonia è prossima, i miei occhi si chiudono,
Sto per esalare il mio ultimo respiro23.
NOTE
1 - Questo giudizio avrà luogo tre giorni dopo la morte (I. Paquet, Revue des traditions populaires, t. XV, p.617).
2 - Si veda il capitolo XIII.
3 - In Galles, si crede che durante i sogni l’anima sia separata dal corpo. Un giorno in cui un mietitore si era addormentato in un campo, fu visto uscire dalla sua bocca un piccolo uomo nero che, dopo aver fatto il giro del campo ed essere arrivato fino ai bordi di un corso d’acqua, tornò indietro e rientrò nella bocca del mietitore. Costui non tardò a svegliarsi e raccontò di avere sognato di avere fatto un giro nel campo e di essere arrivato fino al fiume. - Per questo è pericoloso svegliare un uomo che sogna (ossia la cui anima è in giro), perché quest’uomo morirebbe o diventerebbe pazzo. Spesso, l’anima assume la forma di una lucertola nera (Rhys, Celtic folklore, pp. 602-603, 606). Nell’epopea irlandese, si trova pure l’idea che non bisogna muovere un uomo che sta meditando (H. d’Arbois de Jubainville, L’épopée celtique en Irlande, p. 179, l. 12). In Scozia, si racconta che l’anima di un uomo addormentato che sogna può uscire dal suo corpo sotto forma di ape (G. Henderson, Survivals in belief among the Celts, pp. 83-85).
4 - In Galles, quando una persona muore, si aprono le finestre (Rhys, Celtic folklore, p. 601). In Scozia, si aprono le porte e le finestre al momento della morte (W. Gregor, Notes on the folklore of the North-East of Scotland, p. 206; J. G. Frazer, Death and burial customs, Scotland, The Folklore Journal, t. III, p. 282). In un racconto riferito da Luzel (Légendes chrétiennes de la Basse-Bretagne, t. II, p. 140), è dalla finestra che esce un morto chiamato dal Diavolo.
5 - «A Plouédern, se l’occhio sinistro di un morto non si chiude, uno dei suoi parenti più prossimi è in pericolo a breve termine di morire» (Cambry, Voyage dans le Finistère, t. II, p. 169; Cfr, Verusmor, Voyage en Basse-Bretagne, p. 341). In Scozia, se le palpebre non sono chiuse, vi si pone sopra un penny (W. Gregor, Notes on the folklore of the North-East of Scotland, p. 207).
6 - In Irlanda e in Scozia, è la non rigidezza del cadavere a essere presagio di morte; se un corpo non si irrigidisce dopo la morte, significa che in casa ci sarà a breve un’altra morte (G. H. Kinahan, Notes on Irish folklore; The Folklore record, t. IV, p. 106. W. Gregor, Notes on the folklore of the North-East of Scotland, p. 210).
7 - I galli bianchi e i galli grigi, mi dice la mia narratrice, sono considerati degli scervellati, privi di buonsenso. Non sanno distinguere quando cominci il vero giorno e cantano a sproposito. Non bisogna dunque fare affidamento sul loro canto.
8 - Devo sottolineare che è una donna a raccontare.
9 - Cfr. in una storia irlandese, lo spettro buono che consiglia di non rimanere fuori di notte e che indica come proteggersi dai folletti (G. Dottin, Contes et légendes d’Irlande, pp. 24-27).
10 - Ar blanédenn (il pianeta) aveva detto la mia narratrice. È l’espressione consacrata.
11 - In Cornovaglia, si crede che se si scuote il corpo nel momento in cui la respirazione s’interrompe, lo si richiamerà in vita (M. A. Courtney, The Folklore Journal, t. V, p. 218).
12 - Il signore di Quinquiz, di cui si parla in questa leggenda, era apparentemente uno di quei gentiluomini di campagna, un tempo numerosi nella Bassa Bretagna, che giravano per i campi con la spada al fianco e l’appendevano a qualche tronco di quercia per impugnare il manico dell’aratro. Tra di loro, ce n’erano alcuni che non disdegnavano di contendere ai semplici lavoratori, nei marradek, la palma dell’aratura.
13 - In Bretagna si dà il nome di fossati alle scarpate, spesso elevate, che separano i campi gli uni dagli altri.
14 - Questo intervallo è di origine giuridica.
15 - In un racconto irlandese (Curtin, Tales of the fairies, p. 141), un contadino, in viaggio di notte, vide un uomo senza testa inseguito da un fantasma. Alla croce di Nignoll, sulla strada da Carnac ad Auray, un giovane tagliatore di pietre ha visto in due occasioni diverse un busto umano, la testa, le braccia e il torso, che procedeva saltellando sulla via (Le Rouzic, Carnac, p. 69).
16 - Cfr. il racconto CIV.
17 - Cfr. capitolo VII.
18 - Cfr. F. M. Luzel, Légendes chrétiennes, t. II, p. 189.
19 - Diversi insetti nei paesi celtici sono associati al soprannaturale. In Cornovaglia, lo stesso nome piskey designa le fate e la cimice verde che si trova sui roveti (W. Bottrell, Traditions and hearthside stories, p. 292). Secondo Rhys, pisky indica le farfalle della notte. In Irlanda, si crede che le farfalle sono le anime degli antenati (Rhys, Celtic folklore, p. 612). Cfr. un passaggio della vita di san Vincent Ferrier, da Alberto Magno, edizione Thomas e Abrgall, p. 128: “si vide per tutta quella mattina un gran numero di farfalle bianche di meravigliosa bellezza volteggiare accanto alla finestra della sua camera, da cui non si allontanarono se non quando lui ebbe emesso il suo ultimo respiro”. In Scozia, la farfalla notturna è un segno di morte, o la forma assunta da uno spettro (G. Henderson, Survivals in belief among the Celts, p. 79).
20 - Lo spirito, nel momento in cui abbandona il corpo, deve viaggiare ovunque sia stato durante la vita e per tutto quel tempo è visibile (Bryan J. Jones, Traditions and superstitions collected at Kilcurry, co. Louth, Folklore, t. X, p. 121). Nella seconda Visione di Adamnan (XI secolo) si racconta che l’anima, dopo aver lasciato il corpo, si reca in quattro posti: il luogo della sua nascita, il luogo della sua morte, il luogo del suo battesimo e il luogo della sua sepoltura (Revue celtique, t. XII, p.425).
21 - Mi ricordo di aver sentito raccontare, nella mia infanzia, questa stessa leggenda, ma con dettagli molto più circostanziati, da Miliau Arzur, il re dei raccontatori del paese di Ploumilliau. Ho fatto molte ricerche per ritrovarla in questa sua forma più completa. Non le ho ancora concluse. C’era in particolare un dialogo molto avvincente tra l’anima del morto da una parte e gli strumenti di lavoro, più le bestie, dall’altra. A ogni bestia e a ogni strumento l’anima domandava: Pe drouk, pe vad am eus grét ganid? (È il bene o il male che ho fatto con te?). Aveva l’aria di chiamarli a testimoni. La frase che ho citato mi è rimasta impressa nella memoria, senza dubbio a causa della persistenza con cui si ripeteva nel racconto. Questo dialogo fa pensare al Dibattito del corpo e dell’anima così famoso nel medioevo e che è penetrato in Irlanda (H. Gaidoz, Le débat du corps et de l’âme en Irlande, Revue celtique, t. X, pp. 463-470; G. Dottin, Une version irlandaise du dialogue du corps et de l’âme attribué à Robert Grosseleste, Revue celtique, t. XXIII, p. 1). Una versione gallese di questo dibattito è stata segnalata da M. J. Loth nel Libro Nero di Carmarthen, manoscritto della fine del XII secolo.
22 - Cfr. H. de la Villemarqué, Barzaz Breiz, sesta ed., pp. 500-506).
23 - Questo “dibattito” tra l’anima e il corpo mi è stato recitato da una donna della comunità di Vieux-Marché, Catherine Maho, che abitava non lontano dalla cappella dei Sette Santi. Questa Catherine Maho è una “pregatrice” di professione. Lei va, come dice, «attorno ai morti». Conosce una moltitudine di preghiere appropriate per le diverse fasi della veglia funebre. Quando l’agonia si annuncia come qualcosa che sarà particolarmente lungo e penoso, lei fa ricorso a strofe di cui abbiamo appena letto la traduzione e che, al sentirle, hanno la virtù di stimolare il corpo a lasciar fuggire l’anima. Questa composizione, del resto, si trovava anticamente in commercio tra gli ambulanti. Ne possiedo un esemplare in questa forma, senza nome dello stampatore, con la differenza che il “dibattito” propriamente detto è preceduto da una sorta di introduzione (di quarantotto versi) e che le battute di ogni interlocutore non sono separate in modo netto. Alla fine del dialogo, si legge quanto segue: “Composto dal signor Allin, vicario parrocchiale di Béy”. Il testo intero ha come titolo: Cantic spirituel var ar separation eus an Ene eurus hac e Gorf. Il mistero del Giudizio finale contiene una scena che ha per soggetto la separazione dell’anima e del corpo (A. Le Braz, Histoire du théâtre celtique, pp. 297-299).