Le origini degli tsukumogami
Con il termine tsukumogami si indica di solito una particolare categoria di personaggi del folklore giapponese, ossia gli oggetti che prendono vita e vanno in cerca di vendetta. Più nello specifico, gli tsukumogami sono oggetti artificiali che, dopo essere stati utilizzati a lungo, sono stai gettati via dal loro proprietario: trascorso un certo tempo, questi oggetti si animeranno e partiranno per sfogare tutta la loro rabbia sul proprietario, se possibile, oppure su un suo familiare o anche una persona che si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, a seconda della storia in cui compaiono. Se abbandonati a se stessi abbastanza a lungo, questi oggetti possono completare la loro trasformazione e diventare oni, ossia demoni a tutti gli effetti.
Il nome con cui sono indicati oggi questi “mostri”, ossia “tsukumogami”, non nasce però con questo significato, ma ha una storia piuttosto particolare e interessante, che vale la pena di esaminare. Sarà anche un breve viaggio in certi meandri della letteratura giapponese.
Come possiamo verificare su un qualunque dizionario giapponese, il primo risultato che troviamo sotto tsukumogami è la parola scritta in questo modo: 九十九髪. I primi tre caratteri, che si leggono “tsukumo” in questo caso, formano un numero: il numero novantanove. Il quarto carattere significa “capelli” ed è letto normalmente “kami”, ma in un composto può assumere la pronuncia “gami”, come succede appunto in questo caso. Presa così com’è, la parola tsukumogami significherebbe quindi “novantanove capelli”, ma è solo una illusione.
Il significato di tsukumogami che troviamo sul dizionario, infatti, è “capelli bianchi di una vecchia”, il che sarebbe parecchio difficile da ricavare, avendo a disposizione soltanto i caratteri con cui la parola è scritta. Questo se non conosciamo molto bene anche la letteratura giapponese e non siamo pronti a risolvere un piccolo gioco enigmistico, quantomeno. Da un lato, infatti, secondo i giapponesi i capelli di una donna anziana sarebbero così sottili da assomigliare a un particolare tipo di erba acquatica1, il cui antico nome era appunto tsukumo. Da un altro lato, una poesia contenuta nel sessantatreesimo episodio (o capitoletto) dello Ise monogatari2 cominciava con questi versi: “Ai cento anni/ solo un anno manca/ capelli sottili”3. Abbiamo così i numeri e i capelli, sottili come un certo tipo di erba acquatica. Manca ancora il bianco, il loro colore.
Per ottenere il bianco, bisogna risolvere una specie di rebus. In giapponese, la parola “bianco” è scritta con questo carattere: 白. La parola “cento”, un numero che abbiamo incontrato proprio nella poesia presa dallo Ise monogatari, si scrive con questo carattere: 百. Come vedete, la differenza tra le due parole, scritte in giapponese, è solo di un trattino: se togliamo il trattino superiore a 百, otteniamo infatti 白. Quel trattino singolo, però, è usato anche per indicare il numero uno: 一. Di conseguenza, se a cento (百) togliamo uno (一), otteniamo 白, ossia “bianco”. Il numero novantanove, che è cento meno uno, diventa così il colore bianco: per questo i capelli bianchi sono i novantanove capelli, ossia tsukumogami. Tsukumogami possono essere sia i capelli bianchi, sulla base del gioco di parole visivo che abbiamo appena esaminato, sia i capelli sottili come l’erba acquatica che i giapponesi nell’antichità chiamavano tsukumo.
Come si arriva dai capelli agli oggetti animati? Ci si arriva perché la parola giapponese “kami” ha anche un altro significato. Se la scriviamo col carattere 髪, significa “capelli”; se la scriviamo col carattere 神, allora significa “divinità”4. La lettura non cambia in entrambi i casi, resta sempre kami: a cambiare è solo il carattere con cui la parola è scritta, oltre ovviamente al significato. Senza mutamento di pronuncia, gli tsukumogami possono così diventare le divinità, o almeno gli esseri soprannaturali, che hanno novantanove anni. Più precisamente, le divinità nate da cose che si sono lasciate alle spalle almeno novantanove (tsukumo) anni di esistenza, raggiungendo così il loro centesimo anno.
La suddetta trasformazione in kami si applicherebbe in linea di massima a qualunque cosa che abbia vissuto molto a lungo: può essere una persona, oppure un animale, o anche un oggetto. Una lunga vita è un fenomeno che, soprattutto in passato, poteva suscitare meraviglia ed essere dunque collegato a qualcosa di soprannaturale, un evento “non normale”. Chi viveva a lungo doveva per forza avere qualcosa di speciale rispetto agli altri della sua categoria, che morivano prima. Da un lato, c’era una forma di divinizzazione riservata agli umani molto longevi; dall’altro, c’era una forma di divinizzazione riservata agli animali molto longevi, che ci porta in un campo più vicino a quello dei mostri. Gli esempi letterari non mancano, anche se di solito sono in negativo.
Nel Konjaku monogatari, raccolta di racconti vari risalente al tardo periodo Heian (circa XI secolo, forse inizio XII secolo), troviamo almeno una storia di una vecchia che, al termine di una lunga vita, divenne un oni, ossia un demone, con annessa spiegazione finale secondo cui tutti i genitori, se arrivano a una età estrema, diventano oni e cercano di divorare persino i propri figli. Sul lato degli animali, abbiamo numerose storie di volpi, gatti e altre specie che, vissuti a lungo, ottennero la capacità di cambiare forma e altri poteri magici. Una credenza molto diffusa era quella secondo cui nei gatti e nelle volpi, superata una certa età, la coda si dividesse in due, diventando così biforcuta, e questo cambiamento fisico avrebbe conferito loro poteri soprannaturali, rendendoli qualcosa più che semplici animali. Con gli tsukumogami, la trasformazione è estesa anche agli oggetti.
Questa è l’idea di base, quantomeno. Per una spiegazione dettagliata, dovremo affidarci a un’altra opera letteraria giapponese, anche se di livello decisamente meno aristocratico rispetto al già citato Ise monogatari: non proprio un passaggio dalle stelle alle stalle, niente di così estremo, ma è pur sempre un bel salto. Il testo in cui si parla per la prima volta di tsukumogami come di una categoria di oggetti animati è infatti lo Tsukumogami ki, un otogizōshi di data incerta, ma risalente al periodo Muromachi (1336-1573). Gli otogizōshi erano storie relativamente brevi, di intrattenimento, in cui spesso ma non sempre compariva una qualche morale, di solito buddhista5. Lo Tsukumogami ki, nello specifico, è fondamentalmente una storia di ispirazione buddhista, da collegare alla scuola Shingon6, in cui si parla di come anche gli oggetti possano raggiungere l’illuminazione, in un certo senso. Di seguito, un riassunto della storia.
Tutto comincia nell’antica capitale di Heian (odierna Kyōto) durante il decimo secolo. Nel corso del rito annuale del susuharai, che sarebbe (anche) una specie di grande pulizia di fine anno7, oggetti vecchi erano gettati nei vicoli, per liberarsene ed evitare che, restando in uso troppo a lungo, potessero diventare senzienti. Accade proprio così. Gli oggetti si arrabbiano per questo trattamento e decidono di punire i loro vecchi proprietari. Un solo oggetto è contrario: un rosario buddhista. Per tutta risposta, un bastone lo picchia quasi a morte. Un libro (raffigurato di solito come un rotolo) propone di trasformarsi tutti in spettri e così faranno, grazie all’intervento di una divinità indicata come Zōkashin e capace di far cambiare forma ad altri.
Questi mostri-oggetti, gli tsukumogami, cominciano ad attaccare umani e animali per divorarli, fanno baldoria nei tempi morti, celebrano come grande divinità il loro aiutante Zōkashin e combinano danni di ogni tipo, fino a che non si imbattono nel principe imperiale nel corso di una processione in onore del loro dio Zōkashin. Il principe ne esce indenne, protetto da riti buddhisti, ma l’imperatore suo padre non prende bene la notizia dell’incidente e convoca monaci buddhisti per eseguire le cerimonie necessarie a riportare la pace. Intervengono figure buddhiste soprannaturali, che combattono contro gli tsukumogami e li sconfiggono tutti. Per salvarsi, i mostri giurano di convertirsi al buddhismo. Il rosario che avevano disprezzato all’inizio diventerà così il loro nuovo capo o almeno maestro, insegnando loro la dottrina e aiutandoli a diventare monaci. Aderiscono poi alla scuola buddhista Shingon, si impegnano a fondo con la pratica e tutti vissero felici e illuminati.
In apertura della storia, è l’autore stesso a spiegarci che cosa siano gli tsukumogami di cui ci racconterà le imprese. Scrive infatti che, secondo un particolare testo della dottrina Yin-Yang8, dopo cento anni gli oggetti di uso comune ottengono un’anima e possono fare dispetti ai proprietari: gli oggetti animati sono chiamati tsukumogami. Da notare che qui sono utilizzati caratteri diversi per la parola tsukumogami: non più i novantanove capelli, 九十九髪, che avevamo visto nel gioco di parole usato dallo Ise monogatari, o anche solo le “divinità del novantanove”, 九十九神, ma sono diventati gli “oggetti fantasma”, 付喪神. La pronuncia non cambia in tutti questi casi: cambiano solo i caratteri con cui è scritta la parola e, di conseguenza, il significato della parola stessa.
L’autore continua, informandoci subito dopo che le cerimonie eseguite per il nuovo anno, le quali consistono nel rinnovare il focolare domestico, rinnovare vestiti e mobilia e attingere acqua nuova, servono a evitare la calamità degli tsukumogami. Eliminando le cose vecchie ma non troppo che si trovano nelle nostre case, infatti, non daremo loro il tempo di sviluppare una personalità. Se poi le eliminiamo durante un apposito rituale, allora tutto andrà bene. Se non lo faremo, il resto della storia ci avverte di cosa potrebbe accadere. Se però prendiamo in considerazione anche il finale, si può dire che tutto si concluderà per il meglio in ogni caso, a patto che ci affidiamo alla giusta scuola buddhista, ma questo è un altro paio di maniche.
Gli oggetti che possono diventare animati sono indicati come utsuwamono (器物), cioè “oggetti (mono) contenitori (utsuwa)”, una parola che può anche essere letta kibutsu ed è solo uno dei tanti giochi di parole presenti nel testo. Nonostante siano chiamati “oggetti contenitori”, oggetti di qualunque tipo possono trasformarsi in tsukumogami, anche quelli che non contengono alcunché. Già nel breve riassunto abbiamo visto che sono coinvolti anche rosari e bastoni, non certo famosi per la loro funzione di contenitore. Il ricorso alla parola utsuwa, cioè “contenitore”, per descrivere gli oggetti che diventano tsukumogami è con tutta probabilità dovuta a un gioco di parole, che richiama certi insegnamenti della scuola Shingon, dove la trasmissione della dottrina buddhista è paragonata al passaggio dell’acqua da un contenitore (il maestro) all’altro (il discepolo). Gli oggetti finiranno appunto per ricevere gli insegnamenti di un maestro, dopotutto.
Che la parola utsuwa si possa leggere anche ki è un altro gioco di parole. Gli tsukumogami parlano di se stessi usando appunto la parola utsuwa all’interno del testo, oppure la sua altra pronuncia, ossia ki. La seconda pronuncia, però, è anche uguale alla seconda pronuncia della parola oni, 鬼, ossia “demone”: di conseguenza, oltre che “contenitori”, gli tsukumogami sono anche “demoni”, a seconda di come si vuole leggere la parola che utilizzano per indicare se stessi. Il che è in linea col loro modo di agire, almeno all’interno della storia. Questi oggetti “contenitori” ricevono prima la vita, che li spinge a comportarsi da demoni, e poi ricevono gli insegnamenti buddhisti, che li spingono all’illuminazione. Cambiano a seconda di quel che vi viene versato, si potrebbe dire. Per ulteriori giochi di parole costruiti attorno a questa scelta di nome, rimando all’articolo di Noriko T. Reider già citato in una nota, che contiene anche una traduzione in inglese del testo.
Sia come sia, gli tsukumogami sono oggetti che diventano demoni minori quando è trascorso un certo tempo: cento anni, per fare cifra tonda, ma la scelta numerica è dovuta solo a un altro gioco di parole, quello da cui deriva la parola tsukumo e che abbiamo già esaminato in precedenza. Non è il caso di prenderlo alla lettera e contare gli anni trascorsi da quando sono entrati in casa nostra, per vedere se gli oggetti si animeranno: i cento anni sono un modo come un altro per indicare un lungo periodo di tempo. Un oggetto che esiste da tanto tempo può diventare uno tsukumogami e questo è quanto: i numeri servono solo a divertirsi con le parole.
Oltre alle battute di gusto più o meno buono, lo Tsukumogami ki contiene anche riferimenti e citazioni di altre opere letterarie giapponesi, sia contemporanee che antiche. Certi passaggi sono di fatto una parodia di Shuten Dōji, un altro otogizōshi che è anche una storia di demoni a tutt’oggi molto famosa in Giappone. Se i demoni di Shuten Dōji sono minacciosi e costituiscono un reale pericolo, quelli dello Tsukumogami ki sono un poco ridicoli: per quanto cattivi, restano comunque oggetti di uso comune e questo riduce di parecchio il loro status di demoni. Essere inseguiti da un paio di scarpe non è proprio la stessa cosa che essere inseguiti da un demone cornuto e gigantesco, anche solo come impatto visivo. Anche per questo, agli tsukumogami sarà concessa una possibilità di redimersi, invece di essere sterminati tutti come accade agli oni normali.
Sempre per continuare con le parodie e per dimostrarci che questi oggetti animati sono più ridicoli che minacciosi, l’autore ce li mostra anche impegnati in attività umane: compongono poesie, a volte la caricatura di reali poesie giapponesi, ma costruiscono anche un baldacchino per portare in processione il loro dio, come in un qualunque matsuri, oppure si ubriacano tutti assieme. Sono mostri, ma anche umani, a modo loro. Niente di strano in questo: sono comuni oggetti umani, fatti da esseri umani e utilizzati da esseri umani. A differenza degli oni, i classici demoni del folklore giapponese, gli tsukumogami non sono qualcosa di esterno alla società umana, un’entità aliena che la minaccia da fuori; sono solo una parte di questa società che si è deteriorata per cause non del tutto dovute alla loro volontà. La storia ci racconta proprio come saranno redenti, alla fine.
Lo Tsukumogami ki è dunque il testo in cui questa particolare categoria di mostri fa il suo esordio nella letteratura giapponese e riceve il nome con cui diventerà famosa. Questo non significa che in precedenza non esistesse qualcosa di simile. Se è difficile trovare tracce di oggetti che sviluppano autonomamente una personalità e diventano vivi senza bisogno di interventi esterni, almeno nella letteratura scritta che possediamo delle epoche più antiche, abbiamo in compenso diversi episodi in cui oggetti diventano “malefici” a causa di influssi esterni, in particolare oggetti utilizzati in rituali: quando questi oggetti sono utilizzati come raccoglitori di impurità, maledizioni e altro, l’idea che un oggetto possa accumulare spontaneamente questi influssi malefici è giusto dietro l’angolo.
Nel norito recitato in occasione del Minazuki tsugomori no Ōharae, ossia la grande purificazione dell’ultimo giorno del sesto mese, leggiamo ad esempio che tutti i “peccati” dell’imperatore e della corte imperiale saranno trasferiti all’interno di bambù e altre canne, da gettare poi in acqua, così che la corrente possa portare via tutte le impurità. Questo rituale era antico a sufficienza da essere già una tradizione ai tempi in cui fu trascritto nello Engishiki, nel X secolo, ma oggetti utilizzati come “contenitori” per divinità sono descritti pure nel Kojiki, la più antica opera letteraria giapponese, proprio come sono descritti altri oggetti che una divinità di alto grado può usare per generare nuove divinità, per esempio gli abiti gettati via dal demiurgo Izanagi, oppure le gemme masticate da Susanoo9. Nel già citato Konjaku monogatari, poi, facciamo un passo avanti e troviamo una storia in cui un oggetto (una brocca o una caraffa di rame) si trasforma in un essere umano e in quel caso il nome ricevuto dall’oggetto mutaforme è mono no ke, un tipo di spirito piuttosto innocuo.
Alla fine del periodo Heian, dunque, circolava già l’idea che certi oggetti potessero animarsi, anche se era tradotta in un oggetto che assume forma umana, invece di diventare un oggetto senziente e mobile come saranno poi gli tsukumogami. Ancora prima, esisteva già la convinzione che gli oggetti potessero funzionare come “contenitori” in cui riversare le impurità umane per liberarsene. In epoca ancora precedente, la distinzione tra animato e inanimato poteva essere cancellata dall’azione di un kami di alto livello, il quale aveva il potere di usare oggetti per generare nuovi kami, che potevano contare come suoi “figli” a tutti gli effetti. A questi potrebbero essere aggiunte figure come Futsunushi, dio-spada che compare in un episodio nel Nihonshoki e che nel Kojiki è sostituito da Ame no Torifune10, un dio-barca, come aiutante di Takemikazuchi, a propria volta figlio putativo della spada usata da Izanagi per uccidere Kagutsuchi, dio del fuoco. Che nel periodo Muromachi si sia arrivati all’idea di oggetti che si animano da soli, dunque, può essere considerato come lo sviluppo naturale di una idea che esisteva già da secoli in Giappone.
Questa almeno è una possibile interpretazione. Se prendiamo però in considerazione anche l’altra grande etnia che era presente nell’arcipelago giapponese, ossia gli ainu, allora il discorso potrebbe farsi un poco più complicato. Anche in alcune storie ainu, infatti, troviamo esempi di oggetti dotati di vita, senzienti e capaci di risentimento per essere stati gettati, scartati o dimenticati. Un esempio è il racconto Non gettate via cose utili, contenuto nella raccolta di storie ainu redatta nel 1887 da Basil Chamberlain, dove alcuni oggetti si vendicano per il modo in cui sono stati maltrattati, assumendo anche forma umana. Una volta placata la loro ira, però, diventeranno spiriti benevoli e aiuteranno la famiglia in questione. Una delle fiabe ainu pubblicate da Maria Teresa Orsi all’interno della sua raccolta Fiabe giapponesi è presentata col titolo “La pentolina che aveva tempo libero” e ci racconta invece di una pentola che assume l’aspetto di un bambino e danza per intrattenere un kamui, nello specifico un orso.
La storia riportata da Chamberlain è la più interessante in questo caso, perché è piuttosto vicina ai racconti di tsukumogami che troviamo in Giappone. Il problema nella vicenda ainu scaturisce dal modo in cui è trattata un’ascia alla morte del suo proprietario. Non ci è specificato se l’ascia fosse speciale già in partenza, oppure se lo sia diventata con l’uso: sappiamo solo che era bella, era usata dal nonno e che, alla morte del proprietario, il figlio l’ha gettata via. Sappiamo però che due oggetti costruiti usando l’ascia, ossia un vassoio e un pestello, hanno la capacità di assumere forma umana e giocano assieme al nipotino del fu-proprietario dell’ascia. Questi oggetti considerano l’ascia sia come un padre, sia come un capo. Possiamo interpretarla in due modi, dunque: l’ascia ha sviluppato un’anima nel corso dell’uso, diventando anche capace di rendere vivi i propri prodotti, oppure tutti gli oggetti sono vivi fin dall’inizio, ma possono interagire con gli umani soltanto in casi particolari. Entrambe le opzioni sono plausibili, in base alla cultura ainu.
Come vale spesso per i kamui, di qualunque forma essi siano nel mondo umano, anche questi oggetti animati non sono di per sé malvagi. I due oggetti-figli giocavano assieme al bambino umano e l’ascia, una volta soddisfatta la sua richiesta, diventa benevola e utile agli umani in generale. Niente di strano, almeno per gli ainu. I kamui erano in maggior parte neutrali, di base, quando si tratta di figure naturali o atmosferiche11: potevano diventare benevoli o malevoli a seconda del comportamento degli umani, oppure anche in base a come gli girava quel particolare giorno. Anche i kamui buoni potevano avere la luna storta e lo vediamo in diverse storie. Di base, però, la regola è che se tratti bene i kamui, i kamui tratteranno bene te; se non li tratti bene, dovrai pagarne le conseguenze. L’ascia ce lo conferma, in questa storia.
Nella variante riassunta da Chamberlain alla fine della storia principale, troviamo un altro oggetto malefico, arrabbiato per il pessimo trattamento ricevuto. Troviamo anche altri oggetti animati, in un certo senso, o almeno capaci di discutere tra loro e di interagire coi sogni degli esseri umani. Che gli oggetti possano comunicare con gli umani attraverso un sogno non è così strano ed è un evento che un ainu del passato avrebbe accettato anche nella vita reale. Nella cultura ainu, i sogni erano spesso un modo utilizzato dai morti e dai kamui per comunicare con noi12. Che anche gli oggetti possano farlo, sembra confermarci che per gli ainu gli oggetti possedevano una qualche forma di vita e che forse, a modo loro, appartenevano alla sfera dei kamui.
Se usciamo dall’ambito delle storie e prendiamo in esame la cultura ainu in generale, troviamo che, in occasione di un funerale, il morto era seppellito assieme agli oggetti che aveva utilizzato durante la vita, perché continuassero a servirgli anche nell’aldilà. Siccome però gli oggetti non lo avrebbero potuto accompagnare da vivi, erano prima spezzati o strappati, a seconda che fossero oggetti rigidi o vestiti: in questo modo, sarebbero “morti” anche loro e il loro spirito avrebbe potuto viaggiare fino all’aldilà, proprio come lo spirito del loro proprietario. Alla base di questa credenza c’era l’idea che il corpo fisico fosse un involucro, utile per interagire col mondo normale, ma destinato a essere lasciato indietro al momento della morte: distrutto l’involucro, la vera essenza di una persona, così come la vera essenza di un animale, di una pianta o di un oggetto, poteva andare a vivere nel kamui mosir, che era sia il mondo delle divinità che il mondo dei morti13.
Abbiamo così una conferma nella pratica funebre che gli oggetti di uso quotidiano erano considerati “vivi”, in un certo senso, o almeno erano contenitori: per consentire al loro spirito di liberarsi e raggiungere il loro proprietario nell’aldilà, dovevano essere uccisi, il loro involucro spezzato. Che ciò avvenisse per i vestiti del morto non è strano, se consideriamo la lingua ainu. Esistono infatti due modi per esprimere il possessivo: una forma è riservata alle proprietà transitorie e un’altra alle proprietà inalienabili. Per parlare della mia casa, ad esempio, io direi kukor cisehe, che significa “la casa (cise) che io (ku) ho (kor)”; per parlare della mia testa, invece, direi kusapaha, che potrebbe essere “la io (ku) testa (sapa)”14. Gli abiti utilizzano la seconda forma di possessivo, quella riservata alle proprietà inalienabili: sono considerati una estensione del mio corpo, in pratica, parte integrante di ciò che sono. Le mie scarpe (scarpa è ker) sono dunque kukerihi, non kukor kerihi.
E gli oggetti di uso quotidiano? Quelli sono transitori, ma per gli ainu sono proprietà importanti a sufficienza da meritare di essere mandate nell’aldilà assieme al loro proprietario defunto. In certi casi, pare che anche l’abitazione potesse essere bruciata, perché il suo inquilino defunto potesse continuare ad abitarvi anche nell’aldilà: poteva capitare quando a morire era la moglie del pater familias, ad esempio, almeno secondo quanto ci riferisce Batchelor, aggiungendo però che ai suoi tempi quella tradizione non era più applicata. Identificati come parte della persona o come semplici strumenti, gli oggetti usati in vita dal morto erano sepolti assieme a lui, dopo essere stati “uccisi”: in questo modo, avrebbero vissuto con lui nel paese dei morti, continuando a servirgli come avevano fatto in questo mondo.
Tornando al racconto di Chamberlain, l’ascia sarebbe stata soddisfatta anche se fosse stata sepolta assieme al suo proprietario. Siccome il figlio del morto le ha negato la possibilità di accompagnare il proprietario nel suo viaggio verso l’aldilà, si sarebbe almeno dovuto impegnare a renderla ancora utile, dando un senso alla sua esistenza. Siccome non ha fatto niente di tutto ciò, buttandola via come un rifiuto, l’ascia si è vendicata, facendo ammalare il figlio del colpevole. Ma l’ascia non è un mostro, è solo un oggetto maltrattato: così i suoi “figli”, due oggetti costruiti da lei, sono diventati prima amici e compagni di gioco del bambino e poi gli hanno spiegato come risolvere il problema. Una volta ricevuti gli onori che le erano dovuti, l’ascia ha abbandonato ogni proposito di vendetta ed è diventata una divinità benevola e benefica. Non troppo diversa dai personaggi dello Tsukumogami ki, insomma, che hanno abbandonato ogni rancore e malvagità dopo avere scoperto la via del Buddha.
È possibile che gli ainu abbiano preso dai loro vicini giapponesi l’idea degli oggetti animati e in cerca di vendetta? Possibile sì, ma personalmente lo trovo poco probabile. Le storie giapponesi potrebbero avere esercitato un qualche influsso, modificando un poco l’immagine originale e dando nuovi elementi per le storie ainu, ma che anche gli oggetti potessero avere un’anima mi pare una idea troppo in linea con la loro cultura per essere stata importata interamente. Se consideriamo poi quanto potessero essere “vivaci” gli oggetti già nei miti giapponesi del Kojiki, si potrebbe semmai ipotizzare che l’idea di oggetti in possesso di spirito, in una forma o nell’altra, fosse presente tra le varie popolazioni che occupavano l’arcipelago giapponese durante il periodo Jōmon e da cui i giapponesi e gli ainu di epoca storica sarebbero derivati, non senza “contributi” dall’esterno. Ma è solo un pensiero vago, indimostrabile.
L’immagine degli tsukumogami così come li conosciamo oggi è stata formulata nel Giappone del periodo Muromachi, dunque, ma l’idea di oggetti animati e contenitori di emozioni negative era già presente almeno dal periodo Heian. L’idea che divinità potessero nascere da oggetti, poi, compariva nei primi testi scritti giapponesi all’inizio dell’ottavo secolo. Allo stesso modo, tra gli ainu possiamo trovare storie di oggetti animati, divinizzati e rancorosi, anche se non è possibile datare il periodo a cui risalgano: gli ainu non conoscevano la scrittura, per cui possiamo sapere soltanto la data in cui per la prima volta sono state messe per iscritto le storie che si sono tramandati oralmente, ma non possiamo certo sapere per quanto tempo se le siano tramandate, forse breve o forse lungo. L’idea di oggetti capaci di prendere vita e manifestare sentimenti, ostili o meno, era presente in entrambi i popoli: forse uno dei due l’ha trasmessa all’altro, forse si sono in parte contagiati a vicenda, forse altro ancora. Questo è quanto.
Se in un primo momento, almeno per i giapponesi, gli tsukumogami erano sì pericolosi, ma non davvero malvagi, tanto è vero che potevano essere redenti e raggiungere l’illuminazione, col tempo queste figure hanno assunto un ruolo sempre più negativo nelle storie, fino a che non sono diventate mostri a tutti gli effetti. Questo è il ruolo in cui li troviamo più spesso al giorno d’oggi. Si possono suggerire varie ipotesi per spiegare il modo in cui l’idea si sia evoluta nel corso degli ultimi secoli, ma qui ci interessava solo ricercare l’origine degli tsukumogami e questo abbiamo fatto. Il resto lo lascio più che volentieri ad altri.
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NOTE
1 - Quale erba acquatica? Il suo nome giapponese è 水草フトイ e dovrebbe corrispondere a quella che è classificata come Scirpus Tabernaemontani, nota in italiano come Lisca del Tabernemontano o Scirpo del Tabernemontano, a quanto pare, ma non chiedetemi dettagli, perché me li dovrei inventare di sana pianta. È sicuramente acquatica, perché i primi due caratteri giapponesi significa rispettivamente “acqua” ed “erba”.
2 - È una curiosa raccolta di brevi aneddoti che accompagnano poesie, oppure di poesie incorniciate in brevi aneddoti, a seconda di come lo preferite interpretare. Di autore anonimo e di data incerta, cominciò a circolare nella capitale giapponese tra la fine del IX e l’inizio del XI secolo, e buona parte delle sue poesie è attribuita al poeta Ariwara no Narihira (825-880), che dovrebbe dunque coincidere col protagonista anonimo del testo. Quasi tutti gli aneddoti (oppure storielle, scenette, quello che volete), che vanno dai 110 ai 143 a seconda dell’edizione, si aprono infatti con l’espressione “Mukashi wotoko arikeri”, ossia “Un tempo c’era un uomo”. Chi fosse quest’uomo, però, non è mai specificato, anche se alcuni riferimenti interni sembrano indicare che fosse davvero Ariwara no Narihira o almeno una sua versione poeticizzata.
3 - “Momotose ni/ hitotose taranu/ tsukumogami”, ossia “百年に、一年たらぬ、九十九髪”. Ci sono altri due versi in questa poesia, ma qui non ci interessano e li possiamo ignorare.
4 - Esistono anche altre parole che in giapponese si pronunciano “kami” e hanno sia un significato, sia una scrittura diversa: per esempio “carta”, che si scrive 紙 e si legge “kami”. Non che abbiano rilevanza in questo discorso.
5 - Per una definizione accurata di questo genere, chiedete al vostro esperto di letteratura giapponese di fiducia: nel nostro caso è irrilevante disquisire sui dettagli tecnici, ci basta una idea generale di cosa fossero, ossia racconti di origine orale, trascritti soltanto in epoca successiva.
6 - Questa è almeno la tesi sostenuta da Noriko T. Reider nel suo articolo “Animating Objects: Tsukumogami ki and the Medieval Illustration of Shingon Truth”, Japanese Journal of Religious Studies 36/2 (2009), pp. 231-257.
7 - Pulizia è anche purificazione, soprattutto nello Shintō. Su un piano pratico e mondano, nel corso di un susuharai si ripuliva la casa sia dalla sporcizia, sia dalle cose vecchie, per prepararsi all’arrivo del nuovo anno; su un piano più spirituale, il susuharai consisteva anche in riti di purificazione per liberarsi dalle impurità accumulate nel corso dell’anno, sia che fossero “sfortune”, sia che fossero colpe e cattive azioni commesse. Serviva anche per dare il benvenuto al kami del nuovo anno, oppure al kami del nuovo raccolto, a seconda del periodo in cui si svolgeva. Ricordiamo che “anno” e “raccolto” erano anticamente indicati con la stessa parola, ossia toshi.
8 - Con tutta probabilità un libro inventato, come accade spesso nelle storie di questo tipo in tutto il mondo.
9 - Da una di queste gemme sarà creato il padre di Ninigi, da cui discenderà la famiglia imperiale. Pur essendo stato generato da Susanoo, la sorella Amaterasu lo conterà come proprio figlio, perché la gemma usata per generarlo apparteneva a lei.
10 - Una imbarcazione funebre? È almeno possibile ipotizzarlo: esistono pitture parietali risalenti al periodo Kofun in cui compaiono barche (fune) con un uccello (tori) a prua e presumibilmente rappresentavano il viaggio del defunto (l’uccello-anima) verso l’aldilà, così come era immaginato da quella cultura.
11 - Esistevano anche eccezioni, ovviamente, animali e piante considerati sempre positivi o sempre negativi: l’artemisia era positiva, come il pino e la quercia, mentre il nocciolo era negativo.
12 - Che i morti potessero apparirci in sogno e interagire con noi era considerata una prova che la loro vita proseguiva da un’altra parte, anche dopo aver abbandonato questo mondo. Meno chiaro era dove fosse l’altra parte, ma spesso era un paese inverso rispetto al mondo dei vivi.
13 - Di solito, ma non sempre. In molte storie, i morti raggiungono il paese in cui vivono gli antenati e i kamui “al naturale”, ossia privi dei travestimenti da animale o da pianta che utilizzano per manifestarsi nel mondo umano. In altre storie, però, non è chiaro se l’aldilà coincida col paese dei kamui: forse è così, forse non è così. Gli ainu non erano neppure concordi su dove si trovasse questo mondo: di solito era immaginato in una terra sottoterra, ma non mancano storie in cui un paese misterioso con caratteristiche da aldilà e collocato in cielo.
14 - Lo -ha finale è una terminazione possessiva, che si può aggiungere o meno. Posso dire kusapa o kusapaha, indifferentemente, proprio come posso dire kukor cisehe o kukor cise. Per ragioni fonetiche, poi, in alcune zone kukor cisehe diventerebbe kukon cisehe, ma questo è un altro paio di maniche ed è irrilevante qui.