Adriano - racconti e altro

Non gettate via cose utili

Un certo uomo aveva un bambino piccolo. Un bambino divino e una bambina divina erano soliti venire e giocare con lui ogni giorno. Ma solo il bambino li poteva vedere. I suoi genitori non li potevano vedere, ma credevano che il loro figlio fosse da solo.

Ora, un giorno si ammalò e durante la sua malattia i suoi due compagni di gioco non vennero a trovarlo. Soltanto all’ultimo vennero, quando sembrava ormai in punto di morte. Allora vennero e la bambina disse: «Noi conosciamo la causa della tua malattia. Tuo nonno possedeva una bella ascia. Io stessa sono un piccolo vassoio che lui ha intagliato con quell’ascia, e il bambino che viene con me è un pestello che è stato pure lui tagliato con quella. Dunque l’ascia era il nostro capo, e noi siamo i suoi figli. Ma tuo padre è stato cattivo. Lui ha buttato via l’ascia, che adesso sta arrugginendo sotto il pavimento. Per questo ti sei ammalato, per punire tuo padre, perché l’ascia nostro capo è arrabbiata. Dunque, siccome noi siamo tuoi compagni di gioco, siamo venuti ad avvertirti che, se vuoi vivere, devi dire a tuo padre di cercare l’ascia, lucidarla, fare un nuovo manico per lei e preparare simboli divini in suo onore. Allora tu potrai essere curato e anche l’ascia ti farà visita in forma umana.»

Così il bambino raccontò al padre di questo. Il padre pensò che suo figlio aveva ricevuto istruzioni in un sogno. Cercò sotto il pavimento della casa e trovò l’ascia, e la lucidò, fece un nuovo manico per lei e collocò simboli divini in suo onore. Così suo figlio fu guarito immediatamente.

Dopo questo, l’ascia (che appariva come un uomo molto bello), il vassoio e il pestello vennero tutti, e divennero fratelli e sorelle del bambino. L’ascia, essendo un dio, sapeva tutto ciò che succedeva e le cause di ogni cosa; e lei, e il vassoio, e il pestello, avevano l’abitudine di dire sempre ogni cosa al bambino. Così, se qualcuno era malato, lui sapeva perché la malattia fosse venuta, e come la si dovesse trattare. Lo consideravano un grande veggente e mago, che poteva trasformare la morte in vita. Questo era perché le altre persone vedevano solo lui. Loro non vedevano i suoi informatori divini, l’ascia, il vassoio e il pestello.

Per questo motivo, mai gettare via qualcosa che apparteneva ai vostri antenati. Sarete puniti dagli dèi se lo fate.

[In una variante di questa storia, la morte di un bambino dopo l’altro, nati da una certa donna, era attribuita al fatto che la bambola con cui lei stessa aveva giocato da bambina (un pezzo di legno a forma di uccello) era stata gettata via nell’erba, e la sua rabbia si era così svegliata. Una conversazione su questo argomento tra il cucchiaio, la ciotola e la catena di ferro per mezzo della quale la pentola era appesa sopra il focolare a un gancio nel soffitto, è origliata da un pezzo di legno mezzo bruciato, che avvisa il marito della donna in un sogno. La bambola è cercata e, quando trovata, i simboli divini sono sistemati in suo onore. In seguito la donna partorì di nuovo. Questa volta il figlio sopravvisse, per la gioia di entrambi i genitori.]

(Trascritta a memoria. Raccontata da Ishanashte il 2 dicembre 1886.)

Commento

Oggetti di uso comune che, dopo un certo tempo, acquistano uno spirito e una forma di volontà sono molto diffusi nel folklore giapponese, dove li troviamo raggruppati sotto il nome generico di tsukumogami. Allo stesso modo, e collegata a questa, in Giappone è esistita fin da almeno il periodo medievale la credenza che gli oggetti “maltrattati”, oppure scartati e gettati via senza il giusto rispetto, si potessero animare per vendicarsi degli umani che li avevano trattati in quel modo.

Il motivo alla base di questa storia ainu deriva dunque dal Giappone? Possibile, certo. È però anche possibile che entrambe le convinzioni, sia quella ainu che quella giapponese, derivino da una radice comune, dato che i due popoli sono vissuti a lungo a stretto contatto, seppure non proprio in pace. Se è comune ai due popoli il nome con cui sono indicate le divinità e le entità soprannaturali in genere, kami per i giapponesi (ma è kamu nella versione più arcaica della parola) e kamui per gli ainu, se i gohei giapponesi presentano una notevole somiglianza visiva con alcuni tipi di inau degli ainu, è possibile che sia comune anche l’idea che certi strumenti di uso quotidiano possano ricevere un’anima, dopo un tempo sufficientemente lungo, oppure che la possiedano già e che si risvegli dopo un certo tempo di uso. È possibile che un popolo l’abbia “prestata” all’altro, certo, ma non è necessario che sia andata così.

Che gli oggetti possano avere uno spirito, o più precisamente che possano essere la manifestazione nel mondo fisico di un essere spirituale, un kamui, è una componente di base della visione del mondo ainu. Che gli oggetti possano animarsi e apparire occasionalmente con l’aspetto di esseri umani, soprattutto bambini, è un elemento che troviamo anche in altre storie ainu, in particolare gli uepeker, che corrispondono approssimativamente alle nostre fiabe: in una delle “fiabe” ainu pubblicate all’interno di Fiabe giapponesi di Maria Teresa Orsi, troviamo l’esempio di un pentolino che assume l’aspetto di un bambino e danza durante una cerimonia dell’orso, giusto per citare un testo facilmente accessibile in italiano.

Come al solito, gli inau sono lo strumento con cui si placano gli spiriti, ma questa non è certo una novità. Inau sono intagliati e sistemati attorno alla testa della selvaggina catturata, sono intagliati per aiutare a guarire da certe malattie, sono intagliati per invocare certi favori e insomma sono la prima risorsa a cui ricorreva ogni buon ainu, quando doveva interagire col mondo spirituale. Cambia l’aspetto, cambia il modo in cui sono intagliati, perché ogni pratica religiosa richiedeva un tipo specifico di inau, ma se ne preparavano di continuo e la loro produzione era un compito specifico degli uomini, quando erano a casa, come in generale tutta la pratica religiosa era compito degli uomini. Ma sono dettagli secondari.