Orizzonti di plastica
Capitolo decimo
Alle quattro del mattino, Fedele Innocenti frugava i cassetti di mezza casa. Fuori, l’aria della notte era una poltiglia calda, stagnante; dentro, il ronzio del climatizzatore prometteva fresco e sollievo, il clima ideale per ogni onesto lavoratore. Fedele sudava lo stesso, sudava per lo sforzo della ricerca e per la tensione che non lo aveva lasciato dormire. Gli pulsavano le tempie. Doveva entrare.
Non aveva quasi chiuso occhio, in compenso il suo cervello si era agitato tra torrenti di immagini di ogni tipo, dallo sgradevole al deprimente, passando per tutti i gradi del lutto. Aveva sognato o forse fantasticato di inserire un rastrello nell’amministratore Storti, per vedere di raddrizzarlo, poi si era accasciato nel ricordo della moglie morta, aveva attraversato il classico fiume dei rimpianti e delle recriminazioni, infine era giunto alla spiaggia delle risposte. La spiaggia del bisogno di risposte, per essere più precisi. A quel punto era precipitato dal letto, per perquisire la casa in mutande, sulle sue gambe da trampoliere e l’accenno di pancetta. Cercava una chiave e non in senso metaforico.
Cercava la chiave per la stanza privata di Eva.
Quando gli avevano consegnato gli oggetti personali, in ospedale, era sicuro che lì in mezzo ci fosse anche un mazzo di chiavi. Ma, maledizione, poteva essere finito ovunque! Non c’era con la testa, in quei momenti, e non ricordava dove l’avesse appoggiato. Spero qui dentro e non su un sedile della metropolitana, pensò, mordendosi le labbra per soffocare parole poco pie e devote, che certo don Fausto, suo parroco e indiretto padrone di casa, non avrebbe apprezzato.
Lo trovò infine nel posto in cui meno si sarebbe aspettato di trovarlo, naturalmente. Nel frigorifero, proprio accanto a un vaso di sottaceti che non aveva mai visto prima, c’era un mazzo di chiavi, col pupazzetto a forma di pinguino che lei usava da almeno sette anni. La bastonata dei ricordi fu brutta e lo prese a tradimento in mezzo agli occhi. Raccolse il portachiavi, rabbrividendo al contatto.
Doveva entrare. Doveva entrare e scoprire tutto ciò che c’era da scoprire. E poi... ci avrebbe pensato poi, adesso non aveva importanza. Adesso contava solo usare quella chiave. Poteva essere inutile o poteva essere indispensabile, ma era secondario. Voleva distruggere il velo di ignoranza che si era a poco a poco costruito tra loro. E siccome a Eva non poteva più chiedere nulla, avrebbe chiesto a ciò che si era lasciata dietro. Doveva farlo.
Poi, avrebbe incontrato Tarca, per mettere assieme tutti i pezzi e trovare un senso a ogni cosa. Così si augurava, se non altro, poi si sa che la vita prende sempre altre strade. In questo caso, la strada fu quella del corridoio, che conduceva alla stanza privata di Eva. Una porta marrone, chiusa.
Con un tremito, Fedele infilò la chiave e la aprì.
La prima cosa che vide fu il buio. Questo gli ricordò che erano le quattro del mattino, la tapparella era abbassata e lui non aveva la vista di un gatto. Allungò la mano verso l’interruttore e accese. Due cose si illuminarono di colpo, sotto la luce bianca della potente lampadina: le forme che riempivano la stanza e il lato nascosto di Eva, quello che non si era mai rivolto verso il marito, negli anni della loro lenta rotazione, l’uno attorno all’altra.
Quasi al centro, c’era un cavalletto, coperto da un lenzuolo o un qualche straccio bianco, non ben definibile. Davanti c’era uno sgabello, dall’aria piuttosto scomoda, di quelli dall’altezza regolabile, come avevano nell’aula di chimica ai tempi del liceo. Più un là , accanto alla finestra chiusa e buia, una scrivania con una sedia imbottita, da ufficio. Sulla scrivania, fogli e foglietti. Sul lato opposto della finestra, una piccola libreria, piena di volumi cartonati, allineati in ordine. No, non tutti: due erano fuori posto, appoggiati in orizzontale sopra i compagni.
E basta. Non c’erano altri mobili. Perché le pareti della stanza, da qualunque parte guardasse, erano ricoperte di quadri, piccoli e grandi rettangoli di tela colorata e incorniciata con cura. Entrando in punta di piedi, quasi senza respirare, Fedele si sentì schiacciare da tutti quei mondi che lo fissavano dai muri, i resti che Eva si era lasciata indietro, sparendo. Era opprimente, quella stanza, era come il ripostiglio di una galleria d’arte, o come lui immaginava potesse essere il ripostiglio di una galleria d’arte. Non c’era un francobollo di parete che non fosse coperto.
Al centro della stanza, accanto al cavalletto, Fedele ruotò lentamente su se stesso, cercando invano di abbracciare in un colpo d’occhio quel panorama. Era inutile. C’era troppa roba lì dentro, e troppo lontana da lui, dalla sua realtà , per poterla capire e accettare con uno sguardo. E scoprirla così, alle quattro del mattino, era un colpo ancora più duro.
Incerto sulle gambe, si avvicinò alla scrivania, l’unico posto in cui forse avrebbe trovato qualcosa di comprensibile. Sbagliava. I fogli che vi si accumulavano non erano che schizzi, bozzetti, disegni di vario genere, a matita. Prove generali per i quadri? Forse sì, forse no. Niente di utile, in ogni caso.
Provò allora con la libreria, che magari poteva dargli qualche spunto o suggerimento. Fiasco anche da quella parte. I libri erano in gran parte opere di narrativa, normalissime, titoli che aveva sentito a scuola e molti altri, recenti o meno. I volumi fuori posto erano un manuale di botanica, che pareva fatto per principianti, e una specie di trattato di meteorologia, dall’aria molto noiosa. Niente che lo potesse sorprendere: Eva si era trovata come hobby quello di fare la contadina alla Rinascita, era del tutto ovvio che adesso si documentasse su certi argomenti. In sintonia col suo carattere, da maniaca perfezionista. Ma non era quello che lui cercava. Non era la risposta.
Sospirò. E adesso? Anche i cassetti della scrivania contenevano solo cianfrusaglie, normali oggetti di cancelleria e ciarpame assortito, per di più inutile. Scuotendo piano la testa, Fedele si abbandonò sulla sedia imbottita, confuso. Era entrato pieno di domande e non aveva saputo niente; anzi, adesso le domande erano pure aumentate. Sperava di trovare qualcosa, un diario, appunti, notizie, qualsiasi cosa potesse servire a riempire dieci e più anni di silenzio. Invece, tutto ciò che aveva trovato erano quadri, quadri e ancora quadri. Una novità , d’accordo, ma una novità incomprensibile, per lui.
Sapeva che Eva era brava a disegnare. I suoi studi erano quelli, dopotutto. Quando erano giovani, lei gli mostrava spesso le sue opere, per sentire il suo parere di perfetto Neanderthal artistico. E poi rideva, per i commenti astrusi che Fedele si inventava, cercando di fingersi esperto. Gli aveva anche fatto e regalato un ritratto, per il suo compleanno: lo conservava ancora nella sua stanza privata, in un cassetto. Dopo il matrimonio, però, non l’aveva più vista disegnare e aveva pensato che quella passione giovanile se ne fosse andata.
Sbagliava. Eva aveva continuato a disegnare, o meglio a dipingere, ma aveva smesso di parlarne a lui. Perché? Forse sono io che ho smesso di ascoltarla, pensò, fissando i quadri che lo fissavano dai muri, a decine. Ero troppo impegnato col lavoro e non mi sono più interessato a quello che faceva lei. Era andata così? Ricordarselo, dopo tutto quel tempo! Di certo non ne avevano più parlato, ma il motivo era andato perso negli anni, se mai c’era stato. Adesso, l’unica possibile risposta era in quei dipinti, ammesso che ce ne fosse una. Peccato solo che lui non sapesse farli parlare.
Si alzò, puntando verso un quadro che lo aveva attirato. Poteva essere un paesaggio postatomico, o la Brianza contemporanea. Due capannoni diroccati, un condominio abbandonato a metà , finestre e porte ridotte a buchi neri nel cemento grigio, un cavalcavia all’orizzonte. Il resto, una distesa di erba gialla e rada, con ampie chiazze di terra grigiastra. Sicuramente una natura morta, come la si poteva vedere dalla Rinascita. Una natura parecchio morta. Fedele abbozzò un sorriso infelice.
Più in là , un altro paesaggio, questa volta urbano. Una strada larga e dritta che tagliava in due la tela, perdendosi verso l’orizzonte; ai lati, file e file di condomini grigi, ognuno con un breve marciapiede coperto, che portava all’ingresso delle gallerie. Non un segno di vita. Anche i condomini parevano disabitati, per qualche motivo misterioso. Fedele passò oltre, inquieto.
Un tunnel pedonale, adesso. Una galleria di luci al neon e pavimento di gomma, dalle pareti coperte di manifesti colorati, piena di gente che camminava. Gente senza faccia. No, si corresse, guardando meglio: avevano naso e sopracciglia, ma niente occhi, né bocca, né orecchie. Questo era parecchio inquietante e toccò qualcosa dentro Fedele. Qualcosa di addormentato. Qualcosa che in effetti aveva avvertito talvolta, tornando dal lavoro, in metropolitana. Passò oltre, con un brivido.
Una veduta dell’area pedonale al centro. Il duomo sullo sfondo, massiccio e coperto di guglie; sulla destra si intravedeva Palazzo Reale, a sinistra l’entrata della galleria. In primo piano c’era la piazza: pochi piccioni e molte persone, sparpagliate sul suolo grigiastro. Il cielo, sopra, era biancastro, ma non era il cielo a catturare i suoi occhi, né la piazza. Era qualcosa che stava tra l’uno e l’altra, come a unirli. I fili luccicanti, che si alzavano da mani e piedi delle persone e si perdevano in alto, verso un punto fuori del quadro. Come fili di marionette. Fedele si fermò a lungo a fissarlo, mentre quel qualcosa dentro di lui si muoveva un po’ di più, rigirandosi nel sonno. Passò oltre.
Ancora. Una stanza di ufficio, dalla prospettiva distorta, in cui gli oggetti si ingrandivano a mano a mano che si allontanavano. Oggetti storti e deformi, oppure con qualche dettaglio fuori posto, tanto da farti fermare per un attimo a guardare meglio. Seduto a una scrivania, un uomo che fissava fuori dalla finestra. Era senza bocca e a Fedele non piacque. La fisionomia gli ricordava troppo qualcuno, qualcuno che vedeva ogni giorno nello specchio. Rabbrividì. Faceva freddo, in quella camera, senza bisogno del climatizzatore. Quel freddo speciale che riempie i luoghi abbandonati, dove non ci vive più nessuno: freddo da stanza in affitto, anche. Passò oltre.
Un altro paesaggio. Una casa di campagna, probabilmente la Rinascita, con pareti di mattoni e tetto di tegole chiare. Sterpaglia grigia la circondava e un vialetto costeggiato di alberi moribondi, in fila come condannati alla fucilazione, si allontanava sulla destra. No, forse non era la Rinascita, ma una fattoria immaginaria. Dietro, come sfondo, le alpi azzurrine. Non gli diceva molto, quel quadro, e forse non voleva proprio dire nulla: un semplice dipinto, senza messaggi subliminali. Passò oltre.
Di nuovo in città , o appena fuori. La piramide di Lambrate, il mastodonte in calcestruzzo armato, vetro e materiali plastici assortiti, stagliato come un bassorilievo contro un cielo bianco e vuoto. Nei dintorni non aveva nulla, come se sorgesse davvero in un deserto, anziché alla periferia di un paese: un deserto di terra grigia e morta. La piramide non luccicava, i neon dei centri commerciali e degli hotel erano spenti, i parcheggi abbandonati. E il simbolo della rosa camuna era uncinato. Fedele lo trovò prima di pessimo gusto, poi inquietante e basta. Chissà cosa aveva in mente, Eva, dipingendo quella roba. Passò oltre, mordendosi un labbro.
Adesso era lui e non poteva avere dubbi. Di schiena, ma si sarebbe riconosciuto ovunque. Avanzava in un tunnel, un tunnel cupo e dalle pareti di cemento vivo. No, era più un tubo che un tunnel, come quei tubi di cemento che a volte si vedono per terra, nei cantieri. E lui c’era dentro. Fuori, attorno, il sole splendeva e il cielo era azzurro. Nel tubo era penombra.
Che senso aveva quel quadro? E perché Eva ci aveva messo suo marito? Fedele lo guardò più e più volte, come se bastasse a trovare una risposta. Non bastava. Era una fantasia, un dipinto allegorico, uno studio prospettico? Non capiva, ma non gli piaceva per niente. Soprattutto, gli metteva addosso una tristezza infinita: si vedeva lì, di spalle, a camminare nel buio di un tubo di cemento, da solo, mentre appena fuori c’era il sole e c’era la luce. Passò oltre, turbato.
E mentre Fedele Innocenti passava di quadro in quadro, due piani più su Luca Tarca si svegliava da un pessimo sonno. Erano quasi le sei e aveva dormito tre ore al massimo, non consecutive. La testa gli galleggiava in un lago di confusione e ricordi, in cui le scene si rimescolavano e si fondevano tra loro. Non poteva andare avanti così, doveva ricominciare a dormire decentemente. Non ci sarebbe riuscito quel giorno, di sicuro. Con un sospiro si alzò, arrancando dal letto verso il bagno.
Poco dopo, si sistemò nell’orbita gravitazionale del computer, nel solito posto. Ormai la sedia aveva cambiato forma, per adattarsi alla sua anatomia, o così gli sembrava, sedendosi. Ma l’entusiasmo di essere di nuovo collegato al mondo passò subito, perché il mondo taceva. O meglio, una metà del mondo taceva, quella della Rete Chind; l’altra metà ciarlava e ciarlava, ma non diceva nulla, perché nulla sapeva. Le parole, però, esorcizzavano il silenzio e così parlavano.
Perché fa paura, il silenzio. A volte ha i denti.
Dopo la consueta rassegna stampa del mattino, sui siti stranieri, Tarca si sentì avvolgere di nuovo da una cappa di depressione. Non c’era niente che andasse nel verso giusto. Là fuori succedevano cose, cose ancora peggiori si preparavano, con ogni probabilità , ma nessuno ne sapeva niente, nessuno ne aveva notizia. I prigionieri restavano prigionieri, le zone occupate restavano occupate, i commerci ristagnavano, le borse precipitavano allegramente e non due notizie che fossero concordi.
Era il braccio di ferro finale? Lo avrebbero scoperto solo col tempo e forse allora sarebbe stato già troppo tardi. Ma non poteva farci niente, non certo un Luca Tarca qualunque. Così sfogò tutto il suo malumore commentando articoli, blog, siti e seminando i forum internazionali di messaggi ironici o sarcastici, a seconda dei casi. Alla fine fu ancora più depresso, per l’inutilità di ogni suo gesto, ma era un altro paio di maniche. E poi, c’era abituato da anni, a essere inutile.
Giusto per masochismo, controllò in fretta anche la situazione nostrana, cronache locali e quel poco che rimaneva di prospettiva nazionale. Tutto bene, tutto perfetto, naturalmente. Retate qui e là , per tutelare la pura razza lombarda, veneta, piemontese, toscana o quel che era; retate per spazzare via il terribile nemico straniero. Come ogni volta, a Tarca venne da pensare alle riserve indiane, a piccoli appezzamenti di terreno in cui i suoi ex compatrioti si rinchiudevano contenti. O le poleis greche, in continua guerra le une contro le altre, aspettando l’arrivo del macedone che le conquistasse. Ecco a cosa aveva portato, la tanto strombazzata riforma dello stato. Alla fine dello stato e alla nascita dei canili regionali, provinciali, comunali. Staterelli tribali. Topi incattiviti in un angolo. Allegria di naufragi.
Ancora più depresso di prima, Luca Tarca si alzò, abbandonando il computer al suo screensaver. Si avvicinò alla finestra, alzò la tapparella e gettò gli occhi sul panorama incantevole che lo attendeva lì fuori. La parete del condomino accanto. E basta. Verso il basso, sporgendosi, poteva anche vedere lo spazio stretto del cortile tra i due palazzi, ingombro di rifiuti in attesa che passassero gli spazzini.
Era pronto ad affogare il malumore in una intensa sessione di videogiochi sparatutto fine anni ’90, e sperperare così la mattinata, quando il messaggio arrivò. Era Fedele Innocenti; scriveva di dovergli parlare con urgenza. Possiamo vederci verso le nove? Con un sospirò, Tarca accettò.
Orario strano, le nove del mattino. Non doveva lavorare? Forse no, forse era a casa per il lutto, cosa più che comprensibile, anche se contrastava con tutto ciò che Eva gli aveva sempre raccontato su di lui. Sospirò. L’uscita dal tunnel si avvicinava, con ogni probabilità , peccato solo che il prezzo fosse stato schifosamente alto. Troppo alto, in effetti. Ma ne avrebbero parlato.
Mancava un’ora e mezza, circa. Tutto il tempo necessario per distrarsi un po’, prima di prepararsi. Col cervello acceso solo a metà , tornò a sedersi davanti al computer, per perdersi in uno sparatutto di molti anni prima. L’ideale, per scaricare i nervi senza mettere in moto i neuroni. In un angolo del suo cranio, però, un’attività continuava: sarebbero arrivate nuove notizie, prima o poi?
Ci pensava ancora, quando la metropolitana li scaricò alla fermata di Lambrate-Parco, alle ore nove e cinquantotto minuti di quel lunedì trenta giugno. Durante il viaggio, si erano lasciati trasportare in silenzio dal vagone, persi nella musica e negli insignificanti bollettini falsi, sparati in dialetto dagli schermi attorno a loro. Non avevano molto da dirsi, per il momento. Quando Tarca si era presentato a casa di Fedele Innocenti, alle nove in punto, c’era stata solo una battuta tra loro. «Vieni, andiamo a parlare da un’altra parte. Ho bisogno di stare all’aperto.» E la battuta era stata proprio di Fedele.
Erano usciti, avevano attraversato in silenzio il tunnel pedonale, erano saliti in metropolitana senza una parola e adesso erano arrivati. Lambrate-Parco, il che significava una cosa sola. Una cosa che era proprio davanti a loro, quando riemersero dal guscio di cemento e plastica.
«Vuoi parlare qui?» chiese Tarca, guardando il vicino.
La piramide li dominava dall’alto dei suoi cento e più metri. I vetri che la ricoprivano luccicavano nella vaga luce del giorno, distogliendo lo sguardo dalla pesante struttura di calcestruzzo dorato. Il centro commerciale ai suoi piedi era aperto, ma non si vedevano auto nell’enorme parcheggio, né si vedevano file di clienti entrare. Non si vedevano quasi mai. Le insegne degli alberghi erano spente, come spenta era l’illuminazione al neon, che di notte la trasformava in un faro. Adesso era soltanto una massiccia, mastodontica figura solida, precipitata alla periferia di una ex cittadina, inglobata a poco a poco dalla grande città bulimica.
Fedele la fissò a lungo, in silenzio, poi rispose. «Da questa parte, vieni.»
Arrancarono nel caldo del mattino, spostando a braccia quell’aria che puzzava di polvere e di altre cose non ben definibili. Il parco comunale era quasi ai piedi della piramide, in parte allo scoperto e in parte protetto da una cupola di vetro, quasi come una serra. Puntarono verso la parte coperta, tra file di cespugli troppo verdi e sani per essere naturali.
Entrarono nella cupola e l’aria condizionata li avvolse, assieme al profumo di erba appena tagliata. C’era poca gente a quell’ora, quasi tutta dispersa qui e là , attorno al laghetto, oppure seduti accanto alle aiuole ben curate. Quasi tutti vecchi, notò Tarca, più qualche casalinga di mezza età . I bambini erano merce rara anche lì, come al solito.
Trovarono una panchina isolata, in un vialetto laterale. Davanti, oltre la cupola trasparente e oltre un largo parcheggio, si alzava la piramide; dietro avevano una siepe; ai lati, ippocastani verdi.
«Adesso possiamo parlare» disse Fedele Innocenti, sedendosi. Luca Tarca lo imitò.
«Come mai oggi non sei al lavoro?» gli chiese, fissandolo. Sembrava invecchiato in una notte.
Fedele si strinse nelle spalle. «Ufficialmente sono in lutto, oggi e domani. E poi, non sarei riuscito a entrare in azienda, non oggi.» Si strinse di nuovo nelle spalle, guardando davanti a sé.
«Beh, così per una volta avrai la possibilità di ammirare la città di giorno» rispose Tarca. «È sempre un modo per vedere la realtà da altre prospettive.»
Stavolta Fedele si girò a guardarlo. «Sapevi che Eva dipingeva?» gli chiese, dopo un momento.
«Certo. Abbiamo anche frequentato lo stesso liceo, anche se poi io ho preso un’altra strada.»
«Già , dimenticavo.» Tornò a fissare davanti a sé, il parco o forse la piramide là fuori. «Sapevi anche cosa dipingeva? I soggetti, dico.»
Luca Tarca sospirò. «Mah, grossomodo. Ogni tanto mi parlava di qualche suo lavoro, ma non mi ha mai fatto vedere niente. Era un po’ fissata, per certe cose.»
«Già . Io non lo sapevo neppure, che dipingesse. Cioè, sì, sapevo che disegnava, quando ci eravamo conosciuti, e anche bene. Forse aveva anche provato un quadro, non mi ricordo. Ma non sapevo che avesse dipinto tutta quella roba, in questi anni. Neanche me lo immaginavo.»
«Ha dipinto molto?»
«Una stanza piena, in pratica. La sua stanza privata.»
Tarca guardò per un attimo la piramide davanti a loro, poi si girò. «Me li puoi descrivere?»
Fedele glieli descrisse, a uno a uno, tutti quelli che si ricordava e che più lo avevano impressionato. Finì con un sospiro e gli occhi che gli caddero al suolo, sulla ghiaietta che copriva i sentieri in quel parco. Ghiaia sottile, regolare, sparsa con precisione da impiegato.
«Capisco» disse Luca Tarca, augurandosi che fosse vero.
«Hanno qualche senso, per te? Perché per me sono quasi tutti arabi, non ci capisco niente di arte.»
«Quasi tutti.» Tarca lo fissò. «Quindi alcuni hanno un senso.»
Fedele si strinse nelle spalle. «Forse... ma forse mi sbaglio io. Però mi dicono qualcosa.»
«Qualcosa dicono anche a me, ma forse non è la stessa cosa.» Di nuovo pensava al tunnel, a ciò che Eva gli aveva detto un giorno, parlando del marito. Così, lo aveva anche dipinto. Alcuni erano di sicuro dipinti normali, semplici vedute più o meno realistiche, oppure ricostruzioni di fantasia. Ma i quadri più importanti erano altri ed era curioso che fossero proprio quelli che più avevano colpito lui, Fedele Innocenti, il marito col paraocchi, che camminava nel tunnel. Era il caso di parlarne.
«Dipingeva in gran parte il suo punto di vista sulla realtà , come credo facciano tutti» riprese Tarca, in un tono che per metà spiegava e per metà rifletteva. «Dipingeva il mondo così come lo vedeva lei, nel bene e nel male. Probabilmente era il modo di comunicare che le riusciva più facile.»
«Il mondo come lo vedeva lei? Ma erano paesaggi... inquietanti, non so. E poi quelle persone come marionette, oppure senza bocca, senza occhi... Che senso ha? È arte?»
Luca Tarca si strinse nelle spalle. «È realtà . Guardati attorno, anche qui, e lo capirai da solo. Forse è questo che Eva si aspettava da te. Che te ne accorgessi anche da solo. Che vedessi il mondo come lo vedeva lei, invece che attraverso uno schermo della tv.»
«Ma...» Fedele si fermò, guardandosi davvero intorno.
C’era più gente nel parco, adesso, rispetto a quando erano arrivati loro, ma rimaneva sempre poca. I pensionati, in gruppetti o da soli su una panchina, donne mature, un paio di bambini, alcuni giovani, per lo più in coppia. Giravano nella zona coperta dalla cupola, dove la vegetazione era più sana e il clima fresco era garantito dall’aria condizionata. Fuori, nel parco aperto, non c’era quasi nessuno.
La luce si era fatta più cupa, un acquazzone improvviso scaricò tonnellate di pioggia sulla zona, per poi perdersi in lontananza. Il sole tornò in fretta e si poteva quasi vedere il vapore salire dalle strade, mentre il caldo evaporava la pioggia. Solito giorno di bassa estate, in città .
Una vecchia malmessa zoppicava piano verso di loro, lì sotto la cupola. La guidava un uomo avanti con gli anni, forse sulla sessantina, forse qualcosa in più. Assomigliava un po’ al segretario Tombini. Fedele incrociò il suo sguardo, poi l’uomo cambiò direzione e si allontanò, portandosi dietro la sua vecchia da compagnia. Puntavano verso il laghetto, ora.
«Ehm, non penso che intendesse guardare il mondo in questo senso» disse Tarca, con un tono un po’ imbarazzato. «Era più in senso metaforico.»
Fedele Innocenti abbandonò la scansione dei paraggi, per concentrarsi di nuovo sul vicino. «Sì, beh, questo lo so anch’io» rispose, imbarazzato a sua volta. Si sentiva arrossire. «Però mi hai fatto venire in mente che è da un bel po’ che non mi guardo più attorno davvero. A parte forse quel sabato alla Rinascita, fuori città » aggiunse per un ripensamento.
«E hai visto qualcosa di interessante, là ?»
«Non ho visto quello che avrei dovuto vedere.»
Tacquero, mentre il tempo scorreva addosso a loro. Fuori, qualche auto parcheggiò davanti al centro commerciale della piramide, persone entrarono e persone uscirono, con sacchetti di plastica in mano. La città si svegliava e si animava, al ritmo di un lunedì mattina di prima estate. Poco più in là , sulla destra, l’ingresso della stazione inghiottiva e vomitava viaggiatori, di continuo. E nel parco era tutto tranquillo, tutto calmo e silenzioso. Non sembrava vero.
Quella scena ricordò a Fedele un episodio di molti anni prima. Prima che si sposassero, prima del viaggio col futuro suocero e l’assunzione presso l’azienda. Sedevano assieme in un parco, forse era il Sempione o forse un altro, ai tempi in cui l’aria era ancora respirabile e il clima decente, o almeno così diceva la tv. Sedevano assieme e parlavano, cose che poi non avrebbero più fatto. O meglio, lui parlava, perso in uno dei suoi soliti monologhi sul nulla, e lei lo ascoltava.
Sorrise amaro al ricordo. Le parlava proprio dell’importanza di guardare, di studiare con attenzione ogni cosa, senza fermarsi alla superficie. Perché la facciata è sempre bella e luccicante, ma dietro ci si può nascondere di tutto. Per questo era importante guardare a fondo.
«E se poi dietro c’è qualcosa di brutto?» le aveva chiesto lei, semplice studentessa dell’accademia.
«Se c’è qualcosa di brutto, lo accetteremo così com’è e lo affronteremo così com’è» aveva risposto lui, semplice disoccupato con lode. «È la nostra responsabilità .»
Quanto era fissato con la storia della responsabilità , allora! Ed era stato proprio questo a fregarlo, di lì a poco, quando era partito assieme all’avvocato Bianchi. Responsabilità . Se davvero voleva Eva, si doveva assumere la responsabilità di costruire una famiglia con lei. Non poteva restare un fallito per il resto della sua vita. Così gli aveva detto Giulio Bianchi, il padre di Eva, e lui aveva accettato. Perché non la voleva perdere. E alla fine, per ironia, l’aveva persa in un modo mille volte peggiore, proprio per dimostrare di non essere un fallito e assumersi le sue responsabilità .
Avrebbero dovuto continuare a parlare, come quel pomeriggio al parco, invece non lo avevano fatto. E lui aveva dimenticato proprio la cosa più importante: guardare, scavare a fondo, non fermarsi alla superficie. Il mondo dell’azienda gli richiedeva proprio quello, di fermarsi alla superficie, eseguire gli ordini e tacere. E lui vi si era perso, al piede di Storti.
«Ero io quello nel tunnel» disse Fedele, girandosi verso Tarca. «L’aveva capito lei, ma non lo avevo capito io. Per questo mi ha dipinto così, dentro la galleria al buio.»
Luca Tarca stava guardando la piramide e pensava ai problemi internazionali. Tacque per qualche secondo, mentre raccoglieva le idee e cercava di trovare un senso alle parole di Innocenti. Ci riuscì.
«Già , il quadro» gli rispose. «Sì, probabilmente si riferiva a questo. Una volta aveva detto anche a me qualcosa del genere, parlando di te. Diceva che eri finito in un tunnel e non vedevi più il mondo intorno. Sperava che ne saresti uscito, prima o poi.»
Fedele si morse le labbra, mentre il peso della comprensione gli incideva nuovi anni sul volto. Ora capiva, ma ora era tardi. «Perché non ne ha mai parlato con me?» chiese, più a se stesso che al suo vicino. Tarca non gli rispose, non c’erano risposte. Era andata così.
Davanti a loro passò una donna, con una specie di barboncino al guinzaglio e una specie di cappello in testa, versione economica della signora col cagnolino narrata da Cechov. Lanciò un’occhiata agli uomini, sollevando un sopracciglio, probabilmente li classificò male e allungò il passo, sdegnosa e indifferente. La ignorarono.
«Ti ha detto altre cose, a parte la storia del tunnel?» riprese Fedele.
Tarca si strinse nelle spalle. «Niente di particolare. Si lamentava perché non le parlavi mai del tuo lavoro, brontolava per gli incarichi che ti davano e così via. Probabilmente le stesse cose che diceva anche a te. No, niente che si possa riferire ai quadri, a parte appunto la cosa del tunnel.»
«Capisco.»
La piramide di Lambrate luccicava enorme oltre la cupola, sotto il cielo bianco e il chiarore diffuso del giorno. Si animava un poco, mentre il mezzogiorno si avvicinava. Tarca e Innocenti parlarono ancora, dei quadri e di altre cose, ricordi piccoli e grandi che conservavano di Eva. E probabilmente avrebbero continuato a parlare per altri mille anni, scambiandosi brandelli di vita, cercando di usarli per ricomporre il mosaico e ricostruire, anche solo per un istante, l’immagine della donna come era stata in vita, se non ci fosse stata l’esplosione.
Giacomo Monigo smontava proprio allora da un turno devastante sul lavoro. Non era normale che a mezzogiorno tornasse a casa, ma a volte gli toccava fare il turno di notte e a volte gli toccavano gli straordinari, soprattutto alla fine del mese. Come un trenta giugno, per esempio.
Era stanco, era affamato e aveva la testa imbottita di ovatta. Sedeva anestetizzato su una panchina di metallo un poco arrugginito, guardava il binario su cui entro breve sarebbe arrivato il treno e per tenersi sveglio sgranocchiava una schifezza a caso, comprata al distributore con le monete che si era trovato in tasca. Pessima notte, la sua, ma almeno aveva un pregio: era finita.
Trent’anni, piuttosto muscoloso, Giacomo osservò i vicini di attesa con una pigrizia che in realtà era solo sfinimento. Pensionati, qualche giovane, casalinghe con la borsa della spesa. La classica fauna da lunedì in tarda mattinata, gente che rientrava da un’oretta di svago o da una spedizione per fare provviste. Lui invece tornava da una nottata in fabbrica e si sentiva come un’arancia dopo che si è sacrificata per una spremuta. Aveva borse nere da tossico sotto gli occhi e forse per questo la gente si teneva un po’ lontana da lui. Per questo, o per il sudore che non poteva mascherare. Una doccia e poi a letto, ecco il suo programma. E magari ingurgitare qualcosa, nel frattempo.
Aveva perso il conto delle ore chiuso là dentro, a lavorare in una delle poche fabbriche superstiti, in un’epoca in cui gli operai erano in via d’estinzione, o almeno non se ne parlava mai. Sapeva solo di aver raggiunto la stazione di Lambrate-Parco in un vago sonnambulismo, ricordando solo a tratti ciò che era successo nel mezzo. Non escludeva fenomeni di iperrealtà , come quando gli era sembrato di veder svanire nel nulla due persone che camminavano davanti a lui, ma forse era solo il suo cervello a essersi addormentato per un istante. Forse.
Il treno era in ritardo. Era sempre in ritardo, quando aveva fretta, ed era sempre in anticipo quando era in ritardo lui. Guardò l’orario, poi rimise il cellulare in tasca. Meglio non pensarci, distrarre la mente e staccare un poco, prima di impazzire del tutto. Per sua fortuna, localizzò una distrazione sul binario di fronte al suo. Una distrazione con gonna abbastanza corta e occhiali da segretaria, come se tornasse dall’ufficio o ci stesse andando. Non proprio il suo tipo, ma sufficiente per fantasticarci un paio di minuti, senza impegno, e tenersi così sveglio, in attesa del treno. Si sistemò meglio sulla panchina e procedette con la fantasticheria, orientando la testa per un’inquadratura migliore.
Quando di lì a poco arrivò il treno, Giacomo Monigo ebbe di nuovo la sensazione di smarrirsi su un livello di iperrealtà , oppure di sonno. Tanto per cominciare, il treno si avvicinava veloce, anche un po’ troppo veloce per i suoi gusti. Sembrava più in transito che in arrivo e la cosa non gli piacque. I treni in transito lo mettevano sempre a disagio, per motivi che non gli erano del tutto chiari. Vedere un mastodonte di tonnellate e tonnellate che ti sfreccia davanti, ruggendo, su binari che tremano e ti sembrano voler saltare via da un momento all’altro, gli dava brutte sensazioni. E se un giorno fosse volato via davvero dai binari? Poteva immaginare il treno che deragliava, si rovesciava su un fianco, come un bisonte ferito, e con la semplice sua massa spazzava via ogni cosa sulle banchine, come la mano di un bambino dispettoso. Era un’immagine brutta, ma ritornava sempre, in quei momenti.
Ritornò anche quel lunedì trenta giugno, mentre il treno avanzava lungo il binario e rallentava meno di quanto avrebbe dovuto. E si inclinava su un lato. Stava sognando? Sì, certo, doveva essere solo un altro sogno, un momento di pausa del suo cervello, fantasia che si fondeva con la realtà , salendo a un altro livello. Iperrealtà , appunto. Per questo non si agitò più di tanto, quando il treno lasciò il binario e si rovesciò sulla banchina. Non avrebbe avuto il tempo di agitarsi, dopotutto.
Fu rapido ma hollywoodiano vedere il locomotore che sbandava di lato, usciva dalla rotaia, urtava il rialzo della banchina e si coricava sul fianco, senza curarsi di tutto ciò che finiva sotto di lui. Per chi la vide, fu una scena impossibile da dimenticare. Anche a distanza di anni, Giacomo Monigo si sarebbe svegliato da incubi strazianti e avrebbe dovuto trascorrere chissà quanto tempo in analisi, per liberarsi dal trauma di un treno che decolla e cancella il tuo mondo. Questo sarebbe successo, di certo, se il treno stesso non avesse provveduto con misericordia a travolgerlo e schiacciarlo, assieme agli altri viaggiatori in attesa. Fu rapido e non raggiunse neppure la soglia della coscienza. Inoltre, gli risparmiò anni di terapie psichiatriche, in modo quasi indolore.
Il boato del crollo e dell’esplosione, quando il treno terminò la sua corsa tra le macerie di pensiline e banchine esterne, superò anche il vetro della cupola e raggiunse Innocenti e Tarca, sulla panchina dove ancora chiacchieravano di Eva. Tacquero di colpo, alzando la testa.
«Cos’è stato?» chiese Fedele, guardando nella direzione da cui era arrivato il rumore. Fumo grigio si alzava dalla stazione e qualcosa sembrava crollato. O meglio, la stazione non aveva più la forma che ricordava lui, ma non sapeva dire di preciso cosa fosse cambiato. Un portico, forse? Si rivolse di nuovo a Tarca. «Ma è un attentato? Hanno messo una bomba in stazione?»
Tarca lo guardò, poi sorrise amaro, girandosi a propria volta verso il fumo. «Attentato?» rispose. «È improbabile, no. No, direi piuttosto un qualche incidente, come ne capitano spesso. Avrà ceduto una pensilina, forse, oppure è esplosa una caldaia. Cose del genere, insomma.»
«Ma...» Fedele era perplesso. Nel parco, anche l’altra gente si era fermata a guardare, subito dopo il rumore di esplosione. Poi era tornata a farsi i fatti propri. Si erano fermati, avevano alzato la testa in perfetto ordine, come cani da caccia, avevano guardato il fumo sulla stazione e poi la loro vita era ripresa come se niente fosse successo. Non c’era neppure il solito gruppetto di vecchi e vecchie che si affollavano attorno alla scena, curiosi di vedere e sapere. Gli sembrava irreale.
«Qualcosa non ti convince?» gli chiese Tarca.
«Ma quello non era il rumore di qualcosa che crolla. Era un’esplosione! E perché la gente non ci fa neppure caso? Perché se ne fregano tutti? Cioè, potrebbero esserci dei feriti, o qualche pericolo...»
Si alzò mentre parlava, con gli occhi sempre fissati sulla stazione. Sì, adesso era quasi sicuro che un pezzo fosse crollato. Non la struttura principale, ma probabilmente le tettorie sui binari. Forse...
Tarca gli afferrò un braccio, restando seduto. «Lascia perdere» gli disse. «È stato solo un cedimento strutturale, o magari intonaco che si è staccato. Nessun incidente, solo cose secondarie. E se non è stato così, vedrai che lo sarà lo stesso. Non esistono incidenti, qui.»
Fedele lo guardò come se fosse un alieno. «Cosa vuol dire?»
Luca Tarca sospirò. «Lo so anch’io che è stato un incidente, forse un treno che ha deragliato, o un guasto a un locomotore, cose del genere. Ma non è questa la notizia che daranno. Non esistono, non possono esistere incidenti, qui. Tutto è perfetto. Il nostro sistema di trasporti pubblici è il migliore e il mondo ce lo invidia. È perfetto. Quindi, gli incidenti non possono esistere. Capisci?»
«Ma non è vero! Ci sono spesso ritardi e...»
«Non è importante. Basta farlo credere e la gente lo renderà vero. E non vedrà più il resto. Anche tu sei passato per molti di questi incidenti, ma non te ne sei mai accorto. Credimi.»
Fedele Innocenti era sconvolto. «Ma no! Me ne sarei accorto, se fosse esploso qualcosa mentre mi ci trovavo sopra, o mentre...» Si bloccò. Se ne sarebbe accorto davvero? Quante volte aveva visto in città blocchi di transenne ed era passato oltre, senza badarci? Quante volte i treni su cui viaggiava avevano avuto ritardi per problemi sulla linea? E quali erano quei problemi, poi? Quante volte era passato col paraocchi accanto alle cose, senza vedere né sentire, proprio come non aveva mai visto niente di Eva e della sua vita? «Sono solo problemi sulla linea, vero?»
Tarca alzò le spalle. «Problemi di qualche tipo. Ormai anche la gente lo ha imparato e non ci fa più caso. Il cane di Pavlov esteso a un popolo intero. Torneranno a casa, sentiranno al notiziario locale che alla stazione di Lambrate-Parco ci sono lavori in corso per una ristrutturazione e diranno che sì, loro c’erano ed era vero. Avevano visto di persona cadere i calcinacci. Al fumo e all’esplosione non ci penseranno più, così non esisteranno più. Tutto risolto, nel migliore dei mondi possibili.»
Si alzò, sempre tenendo Innocenti per il braccio. «Andiamo, è meglio tornare verso casa. Dovremo prendere la fermata dopo e probabilmente ci saranno ritardi sulla linea, per problemi. Ormai qui non c’è più niente da fare, né da dire. Ci penseremo su e magari parleremo di nuovo domani.»
Fedele si lasciò guidare per pochi passi, ancora confuso, poi si liberò dalla mano del vicino, con un gesto brusco. «No! Voglio vedere cosa è successo.»
Tarca sospirò. «Non te lo lasceranno fare e poi non serve a niente. Già stasera ci saranno di sicuro le prime notizie, in Rete, e io ti farò sapere tutto ciò che vuoi sul vero incidente. Adesso è meglio che cambiamo aria, prima che le squadre di sicurezza vengano a isolare la zona.»
«Tu torna pure a casa, io voglio vedere» rispose Fedele. Prima che il vicino lo potesse trattenere di nuovo, si allontanò a passi lunghi verso l’uscita del parco coperto e la stazione. Luca Tarca lo seguì, più lento, scuotendo la testa. A quanto pare, aveva proprio deciso di uscire dal tunnel; peccato solo che avesse scelto il modo peggiore per farlo.
Poco distante, un’altra persona studiava la scena. L’uomo che accompagnava la vecchia zoppicante, ferma ora accanto al laghetto, sorrise guardando i due che si allontanavano verso la stazione e il suo pennacchio di fumo. Uno sviluppo imprevisto. Lisciò gli abiti dimessi, che gli pendevano come da un attaccapanni sul suo corpo piccolo e secco, da sessantenne tenuto male. «Pare che anche l’esimio Innocenti sia schizzato, alla fine» mormorò il segretario Tombini. Poi la vecchia lo chiamò, con la sua voce gracchiante, e Maurizio Tombini si dimenticò del collega. Aveva altri impegni.
Il collega, intanto, era uscito dal parco, seguito a una certa distanza da Tarca. Il caldo afoso di un mezzogiorno cittadino lo colpì duro, decorandogli di sudore la camicia, ma lui neppure lo notò. La sua attenzione era per una cosa, una cosa soltanto: la stazione. Fumava ancora, ma il fumo non era acre. Era polveroso, semmai, con un vago retrogusto di benzina. No, non benzina, ma una qualche sostanza chimica che forse somigliava alla benzina, o forse no. Non era facile capirlo, nell’aria che puzzava di ogni schifezza immaginabile. Il fumo c’era, però, ed era reale.
Attorno alla stazione si stava raccogliendo il personale, a sistemare cartelli e transenne. Bloccavano tutto, ma la gente non sembrava farci caso, come se fosse normale. E forse lo era per loro, come lo era stato anche per lui, in tutti quegli anni. Quante volte era passato oltre, davanti a quelle scene? E quante scene non aveva neppure notato, invece? Troppe. Forse anche per questo Eva era morta.
Non sarebbe successo più.
Cercò di entrare in stazione, ma un inserviente lo respinse gentilmente. Era chiuso per lavori, molto spiacente, ma era operativa la stazione dopo, Lambrate-Centro. Poteva salire là . Grazie mille per la comprensione. Fedele comprese e ringraziò a sua volta, poi cominciò ad aggirare l’edificio, in cerca di passaggi laterali, o almeno di un punto da cui poter guardare dentro. Lo trovò.
Quasi arrampicato su un cartellone pubblicitario, con Luca Tarca che lo osservava da più lontano e si torceva le mani, Fedele Innocenti sporse la testa oltre le barriere protettive, oltre le tettoie e oltre i mille altri ostacoli. I binari si spalancavano là sotto, avvolti di fumo. E vide.