Orizzonti di plastica
Capitolo undicesimo
Quella sera, in casa, Fedele Innocenti fece passare tutti i notiziari locali, i telegiornali, i servizi di attualità , ogni cosa potesse anche per sbaglio fornire informazioni sugli avvenimenti di quel lunedì. Era la prima volta che la riaccendeva, dopo il litigio di venerdì, ma aveva un buon motivo per farlo. Cercava notizie sull’incidente alla stazione di Lambrate-Parco, ma non trovò nulla. Soltanto in una piccola finestra, sul canale digitale del trasporto pubblico, si accennava alla chiusura della stazione per qualche tempo, causa lavori di restauro della banchina e dei binari. Tutto qui. Di ciò che aveva visto lui stesso, quel giorno, non si faceva parola. Come aveva detto Tarca, non esisteva.
Fedele pensava ai binari sradicati, alle traversine in fiamme, alla banchina schiacciata e spazzata da un tifone metallico, da decine e decine di tonnellate di tifone metallico. Da un treno impazzito, che era deragliato e aveva travolto ogni cosa sul suo passaggio. Persone incluse.
Per sua fortuna, quelle non le aveva viste. C’era troppo fumo, troppe macerie, e le sagome di donne e uomini erano troppo piccole per notarsi, in mezzo a quel disastro. Credette di scorgere una gamba, o qualcosa che poteva essere una gamba, sporgere da sotto un vagone, ma forse era solo la fantasia di uno spettatore sconvolto, che vede infrangersi a uno a uno i muri portanti della sua realtà .
Come si erano infrante banchine, portici, pensiline e ogni altra struttura, sotto la furia del treno che si era liberato delle briglie. E tutto questo, in tv, era riassunto in un unico, piccolo trafiletto, forse un ripensamento dell’ultimo minuto: la stazione era chiusa per lavori di ristrutturazione. Il che era vero, certo, perché di restauri aveva gran bisogno, adesso. Peccato che avessero tralasciato il perché.
Peccato che nessuno sembrasse chiederselo.
Proprio come lui non si era mai chiesto il perché dei problemi sulla linea, dei treni che si fermavano di colpo durante il viaggio, delle deviazioni improvvise e di mille altre cose che, adesso, avevano ai suoi occhi un significato molto diverso. Al momento, lui aveva solo brontolato per il ritardo o per altre piccole questioni insignificanti. Non si era mai chiesto da cosa fossero provocate.
Bisogna guardare dietro la facciata di ogni realtà , per vedere cosa si nasconde in profondo. Proprio lui lo aveva detto a Eva, circa tremila anni prima, e proprio lui se l’era dimenticato. Da quando era entrato in azienda, da quando si era assunto le sue responsabilità davanti all’avvocato Bianchi, tutto il resto aveva perso importanza, si era sbiadito sullo sfondo. Il risultato era una casa vuota.
Dormì male, quella notte, per il poco che riuscì a dormire; dormì ancora peggio, perché sapeva che il giorno dopo ci sarebbe stato il funerale di Eva e si sarebbe trovato di fronte il suocero, con tutto ciò che ne conseguiva. Sarebbe stata un’altra giornata orribile, come gli ultimi quattro giorni, dalla scomparsa di Ettore Manovali in poi. Dormì poco, dormì male e sognò le facce dei colleghi che in tredici anni aveva venduto all’amministratore delegato. Gli apparvero una dopo l’altra, come in una galleria degli orrori. Quante famiglie aveva distrutto in quel modo? Di quanti gesti doveva assumere la responsabilità , adesso? Troppi, questa era la risposta. Troppi.
Il mattino di martedì primo luglio uscì presto, per raggiungere la vicina stazione. Come sempre il primo giorno di ogni mese, rinnovò l’abbonamento, stavolta pensando che forse sarebbe stato il suo ultimo abbonamento. Era probabile una promozione e il gradino successivo, nella piramide sociale, gli garantiva viaggi gratuiti su tutti i mezzi di trasporto. Molto utile, certo; sarebbe stato molto utile anche per Eva, che ogni giorno andava fuori città . Fissò l’abbonamento senza pensare.
Nella stazione c’era un cartello luminoso: avvisava che Lambrate-Parco era chiusa per lavori e sotto suggeriva percorsi alternativi, per limitare i disagi dei viaggiatori. Tante grazie. Fedele Innocenti si infilò l’abbonamento nuovo nel portafogli, poi tornò verso casa, a testa bassa. Lo attendeva un’altra giornata molto lunga, da concludere nel peggiore dei modi, di sera. Doveva prepararsi.
Anche per l’amministratore delegato Fabrizio Storti quel martedì primo luglio fu una giornata molto impegnativa e fastidiosa, fastidiosa proprio perché impegnativa. Neanche il tempo di sistemarsi per bene in ufficio, trovando la posizione più comoda sulla sedia, ed ecco che la prima telefonata era già lì a perseguitarlo. Ma era un vecchio amico e lo accolse con finta gioia.
«Buongiorno avvocato!» cinguettò al telefono. «Come mai così mattiniero, proprio oggi?»
Poi l’avvocato gli rispose e la fronte di Storti si rabbuiò.
«Sì, capisco... Ma è proprio sicuro che... Già , già , mai fidarsi. Eh, ma lo capisco anch’io, veh, sono brutte storie, guardi... Pure questo? Ah, beh... Ma no, ma no, si figuri, vedrà che sistemeremo tutto quanto, noi. Quelli lì non ci piacciono mica... Ma allora... Sì, sì, capisco... Non le prometto nulla, lo sa anche lei che qui dobbiamo fare le cose in un certo modo, ma vedrà che me ne occuperò io stesso, poco ma sicuro. Brutta storia, brutta storia... No, non ci vorrà molto, si figuri, vedrà che andrà tutto bene, come vuole lei. Ci mancherebbe... Allora ci vedremo stasera, a presto.»
Riagganciò. Se un qualunque suo dipendente lo avesse visto in quel momento, con ogni probabilità avrebbe deciso che una vacanza urgente a Guantanamo poteva essere la soluzione migliore, certo la più indolore per lui. Anni di lifting cedevano il passo alla rabbia, mentre la pelle, tesa con estrema cura, si accartocciava in un impeto di furia infastidita. Si prevedevano brutti momenti, per chiunque l’avesse provocata. Si prevedevano momenti ancora più brutti, perché Storti sapeva benissimo chi la aveva provocata. E se era così, significava che lui, l’amministratore, si era sbagliato.
Anzi, l’avevano fregato. Brutti, bruttissimi momenti.
Attese qualche minuto, per calmarsi e ritrovare l’innaturale giovinezza dei lineamenti, prima di fare altre cose. Quando l’ebbe ritrovata, entrò in azione, con l’istinto da cacciatore che lo aveva portato lì, ai vertici dell’azienda, assieme alle amicizie giuste e a qualche peccatuccio ormai prescritto.
Sfogliò l’agenda mentale dei dipendenti e ordinò a Ettore Sala di presentarsi nel suo ufficio, subito. Avevano cose molto urgenti di cui parlare. L’ingegner Sala obbedì al galoppo.
Un bussare educato alla porta, l’annuncio della segretaria e poi eccolo, pronto a fare il suo dovere. Ettore Sala entrò con un brivido, come accadeva praticamente a tutti quelli che in estate entravano nell’ufficio dell’amministratore: la temperatura stazionava attorno alla soglia del congelamento. In questo caso, però, l’ingegner Sala aveva anche un altro motivo per rabbrividire: il volto del capo, lo sguardo che gli rivolse non appena la porta si fu chiusa dietro di lui. Per un attimo, gli fece pensare che forse sarebbe stato meglio trovarsi in un bunker antiatomico, giusto per precauzione. Poi passò.
«Oh, benarrivato. Accomodati, accomodati» disse Storti, indicando un punto a caso dell’ufficio, in cui non c’erano sedie né altro. Come già Innocenti e molti altri impiegati prima di loro, anche Sala si dovette adattare a una postura da riposo militare, in piedi in mezzo alla stanza. Non contribuiva a metterlo a suo agio, ma era un problema secondario. Altre cose lo mettevano a suo agio; ad esempio l’ambizione. Mentre aspettava la sua sorte, un rapido pensiero attraversò la mente dell’ingegnere.
Il capo aveva convocato lui e non Innocenti. Come ogni altra forma di vita intelligente in azienda, e come molte di quelle non intelligenti, anche Ettore Sala conosceva il ruolo non ufficiale del collega e il perché l’amministratore lo convocasse spesso nel suo ufficio. Che stavolta fosse toccata a lui la convocazione, poteva significare due cose: Innocenti era stato destinato ad altro incarico; Innocenti aveva combinato qualcosa di grave. Il dubbio si dissolse alle prime parole di Storti.
«Ho un lavoro per te. Una cosa importante, capito? Bocca chiusa e fare in fretta, nè!»
Ettore Sala simulò un volto serio e concentrato, mentre lo shuttle dell’ambizione decollava dalla sua personale Cape Canaveral in un torrente di fuoco. «Capisco, capisco» rispose con voce grave. «È un affare delicato, saprò mantenere il massimo silenzio.»
Fabrizio Storti lo squadrò dubbioso. «Uhm... sarà meglio per te, che se no vai a finire male pure te, pistola. Sei un verme che vuol fare carriera e a me i vermi mi piacciono. Fai quello che ti dico io e vedrai che andrà tutto bene. Fai di testa tua e sei finito. Capito?»
«Naturalmente.» Come generazioni di dipendenti prima di lui, anche l’ingegner Sala cominciava a sudare, pur nel gelo assurdo di quella stanza. Erano tutte così, le convocazioni dell’amministratore? Nel caso, poteva capire perché Innocenti avesse sempre quella faccia da moribondo, in ufficio.
«Uhm. Allora, te quanto lo conosci il coso, l’Innocenti? Siete colleghi, no? Ti racconterà ogni tanto qualche cazzata, no? Si fiderà di te, no? Un idiota come lui si fiderà di sicuro di uno come te.»
«Beh, sì, parliamo spesso, in ufficio...»
«Voglio la sua testa.»
Eccolo. Fedele Innocenti ne aveva combinata una. Era facile cadere, quando dovevi camminare tutti i giorni sul filo di una lama: per anni aveva fatto la pelle agli altri, adesso sarebbe stato un altro a far la pelle a lui. Semplice legge dell’azienda. Ettore Sala abbozzò un sorriso. Non è che lui aspettasse un’occasione per fregare il posto al collega, intendiamoci. Siccome però si era presentata, certo non si sarebbe tirato indietro, l’ingegnere. Dedicò a Innocenti un pensiero di compassione, poi cancellò la sua immagine dalla mente. «D’accordo» rispose al capo.
«Non è che la voglio proprio io, intendiamoci, che a me non me ne frega niente di quello lì. Ma mi ha chiesto di farlo fuori un amico e io agli amici faccio sempre favori. Poi loro li faranno a me. Hai capito? Ma deve essere una cosa veloce. Un po’ di roba ce l’ho già » continuò Storti, gesticolando a caso sulla massa di fogli che aveva davanti, «ma voglio che me lo pigli sul fatto. Come lo farai, è un problema tuo, ma lo devi fare e subito. Capito?»
«Lo farò, glielo assicuro.»
«Bravo! Ma assicura meno e lavora di più, che se fai tutto bene, poi magari parleremo del tuo posto. Se fai male, ne parlerai con qualcun altro. E adesso fila, che ho fretta.»
Ettore Sala chinò la testa, ringraziò e filò, mentre l’amministratore allungava una sua vecchia zampa verso il telefono. Congedato, con un bel lavoro di cui occuparsi e una vaga promessa di promozione, che faceva sempre bene alla salute. In un angolo della testa si chiese cosa potesse aver combinato di tanto grave l’Innocenti, ma non sarebbe stato difficile scoprirlo. Anzi, una mezza idea l’aveva già .
Scendendo in ascensore, l’ingegnere riassunse alcuni punti sulle dita della mano destra. Prima cosa, la moglie di Innocenti era appena morta. Per quanto ne sapeva, era figlia di un avvocato importante e si diceva che il marito fosse stato assunto per merito del suocero. Perché il suocero avvocato, per combinazione, era amico dell’avvocato Alfieri, legale di fiducia dell’amministratore, e quindi anche amico dell’amministratore stesso. Subito dopo l’incidente in cui era morta la donna, ecco che una persona voleva la testa di Innocenti. E chi poteva mai essere quell’amico del capo?
Ettore Sala sorrise, mentre le porte si aprivano e lo scaricavano al suo piano. Vantaggi e svantaggi di essere sposato, si disse. Se ti scegli la donna giusta, puoi far carriera come un razzo; se però alla donna giusta succede qualcosa, la tua pelle vale meno della carta igienica usata. Sì, era stato molto più saggio lui, rispetto all’Innocenti. Intanto, si teneva lontano dai matrimoni. Poi, si era trovato la Bastiani, la capocontabile, che gli faceva conoscere le persone giuste e lo aiutava a salire. Pazienza se era vecchia e se al tatto pareva una bambola gonfiabile, tutta plastificosa e gonfia. Bisogna pure essere pronti ai sacrifici, se si vuole qualcosa. Lui era pronto, sempre e comunque.
Col sorriso ancora scolpito in faccia, si accomodò alla scrivania, nel suo ufficio. Sarebbe stato lui il prossimo a guadagnarsi l’esenzione fiscale, con la testa del collega. Fischiettando, si mise all’opera.
L’amministratore delegato Fabrizio Storti, nel suo ufficio a zero gradi, aveva terminato per adesso con le telefonate e si rilassava. In attesa del pranzo, che avrebbe dovuto consumare con alcuni dei più noiosi e ostili membri del consiglio di amministrazione, per controllare che tutto andasse bene e non ci fossero strani movimenti dietro la schiena, si concesse un attimo di respiro, per rasserenarsi l’animo ed elevare lo spirito. Dalla tasca della giacca arancione, abbinata con cura alla cravatta blu e alla camicia verde malinconia, tolse il suo fidato palmare, che aveva caricato prima di uscire con i video della sera precedente. Video in cui la vicina si provava i costumi nuovi, per l’estate. Fin verso l’una del pomeriggio ammirò lo spettacolo, con un sorrisetto che Fedele Innocenti avrebbe subito riconosciuto, con disgusto. Il morale si risollevò e lo spirito prese il volo.
All’ora del pranzo, uscì con un sospiro dal suo regno di ghiacci eterni e raggiunse i consiglieri, che lo attendevano in fondo all’ascensore. C’erano quella befana della contessa Véronique Zappavigna, tanto nobile quanto lui era giovane, con quel titolo comprato all’asta dal padre industriale; c’era il Bruno Acquaragia, col bastone da passeggio, il monocolo e le sue manie da lord inglese, quando si sapeva che era solo un vecchiaccio pluridivorziato; c’era Giorgio Peti, il cui nome costringeva ogni volta l’amministratore a guardare altrove, per non fare battutacce. A completare il quadro, ecco pure l’avvocato Alfieri, che doveva fare da paciere in caso di guai. Fu verso di lui che Storti si diresse.
«Buongiorno, avvocato, buongiorno! Poi le dovrò parlare, per stasera. Ma credo che lo sappia già anche lei, no?» Lo prese sottobraccio, avviandosi verso la mensa. Gli altri tre li seguirono, un poco più indietro e parlottando a voce bassa tra loro.
Raggiunsero la saletta riservata, accompagnati come sempre dagli sguardi dei dipendenti, a volte di ammirazione, a volte di odio, a volte di disgusto. Fabrizio Storti sorrise al segretario Tombini, che lo fissava dal suo tavolino solitario e gli sparava raggi della morte dagli occhi. Che simpatico fallito, il Tombino! Ma gli ricordava la sua giovinezza, i tempi eroici della Expo e della scalata al potere: per questo lo teneva, invece di licenziarlo a calci come meritava.
Di ritorno dal pasto spiacevole, in elegante ritardo, l’amministratore trovò una nuova, brutta novità che lo attendeva, nell’anticamera dell’ufficio. Un pirla in camicia verde, che aveva avuto almeno la decenza di lasciare a casa il mitra, ma non il manganello. Lo guardò con sommo disgusto.
«È il signor Carlo Sovrani» gli disse la segretaria, presentando l’ospite indesiderato. «È venuto per parlare di un suo dipendente. Avrebbe bisogno di informazioni.»
Fabrizio Storti lo squadrò come se fosse la latrina di un autogrill. Grande e grosso, senza fronte, col monociglio nero e una faccia da galera: un pezzente, né più né meno. Ma aveva sul petto una specie di medaglia e probabilmente era da lì che gli veniva l’arroganza di presentarsi nel suo ufficio, come se ne avesse il diritto. Annotò il nome nella sua agenda mentale: ne avrebbe parlato coi superiori di quel pirla, perché lo mettessero in riga e gli spiegassero come funzionava il mondo.
«E le viene a chiedere a me?» rispose Storti. «C’è l’ufficio del personale, no? Li paghiamo, dovran pur fare qualcosa nella loro vita, quei pezzenti. Che vada là a chiedere informazioni, né!»
«Si tratta di Innocenti» disse la segretaria, in perfetta calma.
«Ah.» L’amministratore studiò meglio quel pirla in camicia verde. Cosa gli aveva combinato ancora, l’Innocenti, per far venire una guardia a cercarlo fin in azienda? Si era proprio allevato una serpe in seno, per tutti quegli anni! Ah, che errore aveva commesso, ad assumerlo! Ma ne avrebbe parlato di sicuro col Bianchi, quella sera. Avevano molte cose da dirsi, loro due.
«Cos’ha combinato ancora l’Innocenti, nè?» chiese alla guardia.
Carlo Sovrani lo guardò serio serio, quasi sull’attenti. «Sono informazioni riservate. È in corso una indagine sul suo conto e non posso rivelare niente, fino a che non sarà conclusa.»
Fabrizio Storti alzò gli occhi al cielo. Era proprio un pirla, quello lì! Aveva visto di certo troppi film americani e adesso si credeva un poliziotto, un vero duro, tutto di un pezzo. «Va be’, va be’, meglio lasciare perdere. Senta, anche qui stiamo indagando su di lui. Se vuole collaborare, vada di sotto, al ventesimo piano, e chieda dell’ingegner Sala. È lui che se ne occupa. Potete parlare e far quello che ne avete voglia. Per il resto, non mi pare ci sia altro da dire. Quindi, se vuole scusarmi, ho molto da fare e la saluto. Buona giornata.»
Senza dargli il tempo di rispondere, l’amministratore Storti infilò la porta dell’ufficio e, per stare sul sicuro, la chiuse a chiave alle proprie spalle. Tutti da lui venivano, i pirla! Come se non avesse già abbastanza cose per la testa. Con un sospiro, sedette alla scrivania, disgustato dal mondo e dalla sua continua degenerazione. Erano tempi bui, davvero!
Carlo Sovrani, scaricato lì in anticamera, si rivolse alla segretaria, che gli spiegò dove trovare quel Sala e come arrivarci. Tornando verso l’ascensore, si strinse nelle spalle. Sapeva che i pezzi grossi erano sempre poco disposti a collaborare, ma in fondo era il suo lavoro. Si sacrificava per difendere anche loro e lo faceva volentieri. Certo, un poco di gratitudine non gli avrebbe fatto schifo, ma era un altro paio di maniche. Con molta filosofia, andò alla ricerca dell’ufficio di Sala.
Lo trovò, ma era vuoto.
L’ingegner Ettore Sala, in quel momento, era nella sala caffè, a concedersi una meritata pausa. Col collega Mangiapane e altra gente del loro gruppo, parlavano e spettegolavano sulle ultime novità . Il tema del giorno, naturalmente, era proprio Innocenti, assente per lutto. Con la disinvolta naturalezza del verme, Sala raccoglieva voci e insinuazioni, schedando con cura le più verosimili. Più tardi, poi, le avrebbe verificate a una a una, per trattenere le notizie utili. Le altre, invece, gli potevano sempre tornare buone per altri momenti, anche solo per diffondere calunnie infondate.
L’eco della scomparsa di Manovali si era ormai spento, anche tra i colleghi architetti. Storia vecchia, storia di ieri, goccia tra le tante che riempivano il mare dell’azienda. Ruopolo ne parlava ancora, di tanto in tanto, ma Baiocchi lo aveva già dato per disperso e rimosso di conseguenza dalla memoria, mentre Graziani... beh, Graziani aveva altro a cui pensare, come al solito. La scomparsa di colleghi maschi non era certo argomento che lo potesse interessare. Adesso c’erano il neovedovo Innocenti e la prossima inaugurazione del PalaGheddafi, a risucchiare ogni discorso; il resto poteva attendere.
Quel giorno, Sala usò più le orecchie che la lingua, in sala caffè. Fu un record, per lui, e non passò inosservato tra gli altri. Un mal di gola politico saziò la curiosità , ma gli insegnò anche che doveva fare pratica e allenarsi di più, per quel ruolo. Non aveva ancora l’esperienza dell’Innocenti e i suoi tentativi di non farsi notare davano spesso un risultato opposto. Ma era un uomo intelligente, attento, e confidava di poter apprendere in fretta i trucchi del mestiere.
Così, tornando in ufficio, reagì solo bloccandosi a bocca aperta, quando vide la guardia in camicia verde che lo aspettava. Con un manganello appeso alla cintura, che accarezzava la sedia.
«Mi scusi, non volevo spaventarla» disse subito Sovrani, alzandosi e avvicinandosi a Sala. «Ero qui per cercarla, ma siccome non c’era nessuno mi sono seduto un po’, ad aspettare.»
«Ah, bene» rispose Ettore Sala, recuperando una vaga traccia di colore. Non era bello sapere che lo cercava una guardia e non era bello sapere che si era accampata nel suo ufficio, in attesa. Sensi di colpa che non sapeva neppure di avere si agitavano sotto la superficie della sua coscienza. «Di cosa ha bisogno, dunque?» gli chiese, tentando un sorriso.
«Mi ha mandato il suo superiore, l’amministratore Storti.» Nuovo azoto liquido, pompato dritto in vena all’ingegner Sala. Il suo sorriso vacillò. «Ma non è niente che la riguarda, sia chiaro.»
«Ah, bene.» Con la coda dell’occhio, Ettore Sala controllò che l’uscita fosse libera, nel puro caso in cui avesse avuto bisogno di scappare. Non si poteva mai dire, giusto per precauzione. «Allora di che cosa si tratta? Se l’amministratore l’ha mandata da me...» Non se la sentì di terminare la frase.
«Riguarda un suo collega, Fedele Innocenti. Sto investigando su di lui.»
«Ah!» L’energia dei suoi trentacinque anni ben palestrati tornò a riempirlo, cancellando la senilità precoce da timor panico. «State investigando sull’Innocenti? Bene, bene, perché anch’io ho appena ricevuto un compito simile. Limitato all’azienda, si intende, ma sempre un’investigazione.»
«È quello che mi ha detto anche il vostro amministratore, per questo mi ha mandato da lei.»
«L’ha mandata dalla persona giusta, vedrà .» Ettore Sala sorrideva come un bambino la mattina di natale, adesso. «Ma la prego, si accomodi nel mio ufficio. Penso che noi due avremo molte cose di cui discutere, è meglio che ci sistemiamo per bene. Venga, venga.»
L’ingegner Sala chiuse la posta, facendo strada e quasi sospingendo Carlo Sovrani. La divisa verde e il manganello non contavano più, neppure li vedeva, come non vedeva il monociglio minaccioso e lo sguardo severo del nuovo arrivato. Adesso era solo una preziosa fonte di informazioni, limone da spremere, gradino che lo poteva condurre più in alto nella piramide sociale.
«Visto che abbiamo obbiettivi comuni, penso che faremo bene a parlare un po’ di questo Innocenti. Qui in ufficio circolano di quelle voci sul suo conto...» continuò Sala.
«Che tipo di voci?» chiese Sovrani, aggrottando la fronte, per quanto gli fosse possibile.
«Oh, adesso ne parliamo, vedrà . Le racconterò tutto e poi, magari, lo confronteremo con quello che sapete voi, giusto per sicurezza. Sarà uno scambio di informazioni alla pari, tanto par aiutarsi un po’ a vicenda con questo lavoro. È proprio una brutta storia e bisogna darsi una mano, tra noi.»
Ne parlarono a lungo, nel confessionale del suo ufficio. Un pomeriggio di lavoro non passò mai così veloce e piacevole, per Ettore Sala. E ridendo e scherzando, venne anche la sera.
L’avvocato Giulio Bianchi non era più un giovanotto, come era sempre pronto ad ammettere senza problemi. Nella terra di nessuno tra i settanta e gli ottanta, ma più vicino alla decina inferiore, aveva una folta chioma bianca che lo incoronava, tagliata corta, e rughe seminate qui e là sul volto. Era un piccolo motivo di contrasto tra lui e Storti, forse l’unico, e molto lieve: accettare il tempo. Storti non lo accettava, lui sì: filosofie diverse, per uomini in sintonia su tutto il resto.
Di altezza media, ormai pingue nel girovita, non spiccava tra gli invitati nella chiesa, quel martedì sera, se non per l’eleganza estrema dei suoi abiti neri. Fino a che non lo guardavi negli occhi: allora tutto cambiava. Lì era concentrato tutto lo spirito che animava la vecchia carcassa: negli occhi, così lucidi e penetranti da poterci tagliare un diamante senza una goccia di sudore. Occhi puntati su una persona sola, quella sera. Sul suo caro, amato genero Innocenti.
Se si potesse uccidere con lo sguardo, quel martedì sarebbero stati due i funerali, al prezzo di uno. Ma gli sguardi non hanno ancora questo potere, per cui la cerimonia era soltanto una: protagonista unica e indiscussa era Eva Bianchi, figlia di Giulio Bianchi e moglie di Fedele Innocenti.
La chiesa era quella del loro quartiere ed era piena. Don Fausto, dietro l’altare, non ricordava altri giorni in cui avesse visto così tanta gente lì dentro, a parte qualche volta per natale. Non c’erano più posti liberi, sulle panche di finto legno, e persone in piedi riempivano persino le navate laterali, tra gli archi di marno e le riproduzioni perfette di quadri famosi e sacri. Di fronte a tanto pubblico, così generoso nelle offerte, don Fausto diede il meglio di sé, in una cerimonia indimenticabile, con canti, letture scelte personalmente dall’avvocato Bianchi e consorte e una predica anch’essa concordata con l’avvocato. Era un uomo molto serio, Bianchi, nonché munifico, e voleva che ogni cosa fosse perfetta, per l’addio alla figlia. Don Fausto si dichiarò d’accordo su tutte le proposte.
Meno d’accordo era Fedele Innocenti, privato del diritto di parola e lasciato in un angolo, mentre il suocero organizzava tutto. «La figlia era mia e ci penso io» gli aveva detto l’avvocato Bianchi. «Tu prova a metterci il becco e io ti distruggo. Capito?» Sì, aveva capito. Aveva capito molto bene, così bene che si era seduto in una delle ultime file, come un passante occasionale o un lontano parente, assieme a Luca Tarca, mentre le prime file erano occupate militarmente dalla famiglia Bianchi, da amici e parenti, colleghi e altri individui di ceto medio-alto. Il marito era stato solo un incidente di percorso, da dimenticare in fretta. In fondo, di chi era la colpa, se Eva era morta così giovane?
L’avvocato Bianchi aveva espresso la sua opinione senza troppa diplomazia, per telefono, già quel venerdì tremendo. Giusto per essere sicuro che il messaggio arrivasse a destinazione e rimanesse a lungo nella memoria, don Fausto lo aveva ribadito nella sua omelia, in cui parlava di diritti e doveri nel matrimonio, invocando le fiamme dell’inferno sui mariti che trascuravano le mogli e che non mantenevano la propria parola. Giulio Bianchi la ascoltò impettito, Fedele Innocenti curvo al suolo, col solo conforto delle occhiate di comprensione che gli rivolgeva Tarca, per una volta vestito quasi da persona civile, completo nero ripescato chissà dove. Gli andava corto e largo.
«Vedo che il suo carattere è sempre aceto, peggiora con gli anni» aveva commentato Tarca, rivolto senza bisogno di specificarlo al padre di Eva. Si erano conosciuti di sfuggita ai tempi del liceo, ma ovviamente l’augusto genitore non si era curato di salutare l’amico della figlia, né aveva dato segno di riconoscerlo. I suoi occhi erano passati oltre, per fermarsi su Innocenti e fulminarlo ancora un po’, in amicizia. Poi si era accomodato in prima fila, assieme a moglie e figlia minore, ormai unica.
Fedele ne avrebbe quasi voluto ridere, ma gli mancava la forza. Guardava il suocero, là davanti, a capo chino come un devoto credente, e ripensava al loro viaggio insieme. «Sei un fallito e non te la meriti, ma lei si è fissata così» gli aveva detto. «Fila dritto e fai tutto quello che ti dico. Obbedisci e vedi di farti un futuro in azienda, se vali qualcosa. Altrimenti, ti distruggo io. Capito?»
Sì, Fedele aveva capito molto bene. Mai aveva pensato che potesse essere uno scherzo, o che stesse solo esagerando, per fargli paura. Bastava guardarlo in faccia per capirlo: quell’avvocato Bianchi, in cravatta anche a casa, era così rincoglionito dal potere e dallo stato sociale da parlare sul serio. E ne aveva anche i mezzi, per distruggerlo. Proprio accanto a lui, sul lato opposto rispetto alla moglie, la sagoma di Fabrizio Storti si faceva riconoscere anche lì, anche a un funerale, anche in un completo scuro, per lui così insolito. Gli aveva fatto una certa impressione vederlo procedere chino e serio, a ricevere la comunione, e si era anche chiesto se e quanti peccati avesse confessato al sacerdote, per purificarsi l’anima. Probabilmente nessuno: oltre un certo reddito, i peccati non esistono più.
Nelle pause, Fedele li vedeva borbottare fitti fitto, il suocero e il capo, come due vecchie comari. Di cosa borbottassero, era facile immaginarlo. Non certo di dipinti sacri, di questioni spirituali, oppure di come superare gravi lutti in famiglia. No, quei due non potevano che parlare di quello scapestrato di un Innocenti, fallito come pochi altri al mondo. Chissà cosa complottavano, ai suoi danni...
No, forse nonostante tutto non ci sarebbe stata una promozione per lui. E scoprì proprio allora che non gliene importava nulla. Ma non voleva pensarci adesso, non al funerale: sarebbe stato un segno di scarso rispetto, a parer suo. Così chinò anche lui la testa, mentre il prete parlava e parlava, e con la memoria rivedeva tutte le domeniche trascorse lì dentro, assieme a Eva. Lei era credente, lui no, ma si era adattato. Si trattava solo di sedere per un’oretta, ascoltare in silenzio, fare offerte e niente di più. Magari annuire, ogni tanto. Non era un gran sacrificio, in fondo. Don Fausto era un parroco ex giovane, con la simpatia del tafano, ma lo si poteva sopportare.
Non come fu un sacrificio restare zitto, quando la messa finì.
L’allegra comitiva era uscita in colonna ordinata dalla chiesa, abbandonando il fresco profumato di incenso per tuffarsi nel caldo profumato di polvere. Uno dopo l’altro, avevano salutato Fedele, con le condoglianze di rito, e si erano infilati nel confortevole habitat delle loro auto. Prossima tappa, il cimitero, ancora piuttosto accogliente nella sera luminosa di inizio luglio. E poi, ognuno per sé e dio per tutti. Sarebbero stati a casa in tempo per la cena, se don Fausto faceva in fretta.
Nel suo nuovo status di vedovo, Fedele Innocenti se li vide passare di fronte tutti, fermo davanti alla porta della chiesa. Passarono Sala e la Bastiani, e lo salutarono. Passarono alcuni vicini anonimi di casa, e lo salutarono. Passò un tizio grande e grosso, che ricordava di aver intravisto alla Rinascita, e lo salutò. Passò una donna alta e magra, quasi un lampione, e lo salutò guardandolo storto. Passò l’amministratore Storti, insieme all’avvocato Alfieri, e lo salutò. Passò la famiglia Bianchi, guidata da Giulio, e lo ignorò con disprezzo. Fedele si strinse nelle spalle e si avviò anche lui verso l’auto, in compagnia di Luca Tarca. Partirono, in fila come formiche rombanti.
Al cimitero, il rito fu breve. Non c’era più molto da dire e non c’era più molta voglia di seguire la cerimonia: tutti sentivano che il lavoro era finito in chiesa, la sepoltura vera e propria era solo una specie di straordinario, appendice tecnica di manovalanza, da liquidare in fretta. Così avvenne
Quando infilarono la bara nel muro, Fedele Innocenti si guardò le scarpe e sospirò. Adesso sì che la storia era chiusa. Murarla in quel forno di cimitero era il gesto che rendeva reale, definitivo tutto ciò che era successo negli ultimi giorni. Era il triplice fischio, la bandiera a scacchi, l’ululato di sirena, il nastro da tagliare all’arrivo. Eva era morta e lui era solo.
Luca Tarca gli posò una mano sulla spalla. «Possiamo andare, se vuoi. Gli altri fuggono già .» Era la parola più adatta, perché proprio questa impressione davano: scarafaggi in fuga, tutti neri e tutti che si disperdevano in ogni direzione. Fedele li osservò con un vago disgusto, mentre ritornavano verso il parcheggio chiacchierando. Ci fu una risata, chissà di chi e chissà perché. Quel tratto di corridoio era ormai vuoto, restavano solo lui, Tarca, due inservienti e un foro nel muro, pronto a essere chiuso coi mattoni, in attesa della lapide di marmo. E due corone di fiori, appese lì accanto.
«Andiamo pure. Non c’è più molto da fare, ormai» rispose Fedele. Non si sentiva né depresso, né disperato, non ancora. Oscillava più che altro in un vago stordimento, mescolato all’apatia di chi ha i sensi ormai sovraccarichi e non può più percepire nuovi stimoli. Soprattutto, era in attesa. Di cosa fosse in attesa, non ne aveva idea, ma qualcosa aspettava.
Lo scoprì proprio accanto all’auto, uscendo dal cimitero.
L’avvocato Giulio Bianchi era fermo lì, a tagliargli la strada. Poco distante, poteva vedere anche sua moglie, assieme all’altra figlia. Sembravano un poco imbarazzate, ma non era facile dirlo per certo: poteva essere semplice dolore, per la scomparsa di Eva.
«Buonasera» disse Fedele, educato. Cercò di superarlo, ma il suocero lo placcò.
«Lo sapevo che sarebbe finita così, con uno come te» gli sputò in faccia Giulio Bianchi, con un tono tutt’altro che educato. «Glielo avevo detto mille volte, ma lei niente. Questa me la paghi.»
Fedele lo fissò, senza rispondere. Al suo fianco, Luca Tarca si contorceva a disagio, forse cercando di sparire, forse segnalandogli qualcosa. Lo ignorò. L’avvocato era sempre stato un problema suo e lo avrebbe affrontato da solo. Qualunque fosse il risultato.
«Hai fatto morire mia figlia come un cane, perché sei un fallito» proseguiva intanto l’avvocato, con la determinazione di una slavina. «Ma questa è l’ultima che mi hai fatto. Non dovevo neanche farti conoscere Fabrizio, uno come te doveva sparire e basta, senza appestare la mia famiglia.»
Fedele continuava a tacere. Pensava all’amministratore Storti, tutto devoto a ricevere la comunione; Storti che di notte filmava di nascosto una bambina, che si cambiava per dormire. Il buon Fabrizio.
«Questa la paghi, ricordatelo. La pagherai per tutte.»
Fedele taceva. Dalla destra venne la voce della moglie, un vago «Giulio dai, andiamo», che era una richiesta e una preghiera assieme. L’avvocato la guardò, accennò a raggiungerla, poi ci ripensò e si rivolse ancora verso il fu genero. Aprì la bocca, la richiuse, l’aprì ancora.
«Non è finita qui» disse infine, prima di voltargli le spalle e riunirsi al resto della sua famiglia. Luca Tarca aspettò che fosse salito in auto, scosse la testa e borbottò a filo di labbra. «Un uomo di merda come sempre. Uguale a vent’anni fa.»
Fedele si strinse nelle spalle. «Andiamo via anche noi, prima che le zanzare ci mangino vivi.» Entrò in auto e aprì la portiera per Tarca. «Non ne posso più di questa giornata.»
«Amen» e si infilarono nel toboga di rotonde e traffico, diretti verso il loro condominio.
Fu una serata tranquilla, quel martedì, un tipico momento in cui l’universo sembra fermarsi a tirare il fiato e raccogliersi in sé, preparandosi al balzo successivo. Il balzo sarebbe arrivato molto presto e li avrebbe sorpresi tutti allo stesso modo, pronti o non pronti che fossero, ma per adesso c’era solo il calmo trascorrere di una sera estiva, rilassante e pacifica dopo un giorno tormentato.
Mentre il buio sgomitava con le luci artificiali della città , per contendersi le strade, anche gli ultimi residui di lavoro si spegnevano qui e là , braci in agonia di un fuoco ormai estinto. Dietro alla sua finestra schermata e invisibile, l’amministratore delegato Fabrizio Storti spiava e filmava col fidato binocolo la ragazzina di fronte, che indossava il pigiama. L’angolazione era ottima, la luce pure, lo zoom forse difettava in qualcosa, ma il contrasto era perfetto: il risultato sarebbe stato un video al bacio. Nonostante l’aria condizionata, aveva caldo e sudava, nella sua raffinata e languida vestaglia di seta, color ghiacciolo alla menta. Il funerale di poco prima era un ricordo perduto.
Maurizio Tombini consumava le ore davanti al computer, tra lampi del passato e sguardi attenti allo schermo. Pensava all’immenso trogolo della Expo 2015, dal quale tutti avevano mangiato, a parte il nobile e sconfitto se stesso, e intanto si consolava coi vecchissimi videogiochi della sua giovinezza. Erano probabilmente i primi della storia, attorno agli anni ’80, ma per lui restavano i migliori in assoluto. Nessuna roba contemporanea poteva pareggiarli. Nessuna grafica plastificata ne poteva cancellare l’alta giocabilità e la vita eterna che li animava.
Eccolo, eccolo il Tombino giallo che scappava dai colleghi di ufficio, inseguito dalle risate. Ma poi bam, una pastiglia e adesso sono loro a scappare da lui, quei porci. Gnam, e il maledetto avvocato Alfieri non c’è più; gnam, e anche il consigliere Frombola è sistemato; gnam, fuori il capocontabile Bastiani, quella vacca con il corpo di plastica. Solo occhi, adesso, inoffensivi. Ma la magia finisce e sono di nuovo loro a inseguirlo, loro a chiuderlo in un angolo e farlo fuori. Loro, e l’amministratore Storti a guidarli. Il capoporco. La magia buona dura solo un istante, anche in un videogioco. Con un sospiro, si asciugò la fronte e cominciò un’altra partita.
Ettore Sala era in un pub riservato, con la sua ultima preda sottobraccio. L’aveva trovata proprio nei paraggi, forse un regalino lasciato per lui dal proprietario. Era una vecchia volpe, quell’uomo, e sapeva sempre prevedere ogni desiderio dei clienti: per questo faceva ottimi affari. Ettore gradiva e riceveva, senza farsi pregare. Non si faceva mai pregare: sapeva sempre prendere la fortuna per il ciuffo, quando si voltava verso di lui. Come con l’Innocenti, e la guardia che gli era piombata quel pomeriggio in ufficio. Uno due, l’esca era sistemata. Bastava solo attendere. E quale modo migliore di attendere, che in un pub con una bella ragazza, tutta da esplorare?
In fondo, poteva anche ammetterlo: la Bastiani era una gran donna, di certo, e un solido appoggio in azienda, ma ogni tanto gli piaceva sentire il sapore di carne giovane e fresca sotto i denti. La troppa chimica, alla lunga, ti può anche stancare, appesantisce il palato. E poi, quella sera si divertiva solo un po’, dopo un giorno di duro e onesto lavoro. Niente di serio, per carità .
Elisa Bastiani, capocontabile, era sveglia e attenta, davanti allo specchio del bagno. Studiava con la pazienza di un certosino ogni millimetro del suo volto, pronta per eventuali rilassamenti o segni che il giorno prima non c’erano. Tutto bene, tutto liscio. Si praticò un paio di iniezioni sottocutanee, poi osservò la pelle stendersi a poco a poco, in quegli angoli delle labbra che si arricciavano sempre un po’. A posto anche loro. Prima di andare a letto, sfogliò di nuovo il bilancio preventivo dell’azienda, sforbiciò tre uscite di cui era poco convinta e che non le sembravano necessarie, poi spense la luce e si addormentò. Sognò di perdersi in nuvole di zucchero filato, dal sapore di pesca.
Carlo Sovrani riposava soddisfatto. Aveva sacrificato il suo giorno libero, per investigare sui vicini, ma ciò che ne aveva ricavato lo ripagava di tutta la fatica. Andare in azienda era stata la scelta più indicata: aveva trovato quel Sala, che l’aveva messo sulla buona strada. Diceva di avere un piano in mente, per incastrare l’Innocenti: forse era vero e forse no, ma non aveva importanza. Sovrani non si fidava di lui, ma se gli avesse semplificato il lavoro... beh, era pronto ad approfittarne. Un paio di giorni e sarebbe stato risolto tutto, così gli aveva detto. Glieli avrebbe concessi, si sentiva generoso. Poi, semmai, avrebbe agito di persona, con le buone o le cattive. Lucidò ancora un poco la medaglia, davanti allo specchio, mentre canticchiava un passaggio del Parsifal.
Luca Tarca sedeva al computer. Aveva smaltito il funerale di Eva, accantonandolo per il futuro nel suo ripostiglio delle cose brutte; sarebbe riemerso, più avanti, e avrebbe fatto male come nuovo, ma adesso erano altre le priorità . Nel pomeriggio italiano, sulla Rete estera avevano cominciato a girare due notizie, entrambe preoccupanti, ancora più preoccupanti perché non confermate. La prima era che l’esercito russo, nel territorio conteso al confine con la Cina, aveva attaccato. Con armamento americano. La seconda, invece, veniva dalla rete Chind, frammento di notizia filtrata chissà come e chissà da chi. Era apparsa su una bacheca giapponese e da lì aveva fatto il giro dell’occidente, in un clima non proprio sereno. Notizia scarna, senza fronzoli: diceva che Cina e India avevano spedito a Washington un ultimatum congiunto. Ma non ne precisava il contenuto, né i termini.
La rete era impazzita come un formicaio, in quelle ore, in un accavallarsi di ipotesi, interpretazioni e voci di corridoio. Tarca le seguiva, cercando di cogliere qualcosa di comprensibile e fondato nel mezzo di quel caos generale. Non ci riusciva. I siti italiani tacevano, i giornali italiani raccontavano le mirabolanti imprese di attori, sportivi o governi di varie regioni, la televisione cantava e ballava e tutti erano contenti. Luca Tarca si strofinò gli occhi, stanco e depresso, e riprese a cercare.
Fedele Innocenti era disteso nel letto così grande e fissava il soffitto, al buio. Rigido come il manico di una scopa, aveva un flipper di pensieri nella testa. Partivano da Eva, passavano all’avvocato suo suocero, poi dirottavano sull’azienda, sbattevano contro Fabrizio Storti, rimbalzavano su Tarca e si infilavano in qualche quadro. C’era anche posto per una stazione distrutta, all’ombra della piramide di Lambrate. E il silenzio, che copriva alcune cose e ne sottolineava altre.
Non sapeva cosa gli sarebbe successo il giorno dopo, ed era meglio così, ma sentiva che qualcosa si stava per chiudere. Forse per la minaccia di Bianchi, forse per la morte di Eva, forse per mille altre ragioni che non erano chiare neppure a lui. Ma si avvicinavano i titolo di coda, o almeno la fine di un atto, e non sapeva il perché. Sperava solo di non essere schiacciato dalle quinte.
Fuori, nella notte, la famosa città civile dormiva il sonno del giusto, se dormiva, o si godeva i sani divertimenti del giusto, se si divertiva. Fiera e imponente, nella sua riserva indiana di preistoriche rose e postmoderni grattacieli, si sentiva padrona del mondo, o almeno del suo piccolo mondo, e coi neon e i palazzi combatteva l’oscurità delle strade, trapassandola con colonne di luce. Il suo traffico ronzava anche a quell’ora, come ronzava quasi sempre, più o meno forte. Calabroni distanti, fuori dalle pareti di cemento. Ma viveva, nel suo orgoglio da paraocchi, all’ombra di una madonna d’oro.
Nel buio degli spazi tra le città , in compagnia di capannoni cadaveri ed edifici smembrati o lasciati a mezzo, anche la Rinascita dormiva, tra i sogni della campagna morta e dei lombrichi nel suolo. In una stanza del primo piano, Rossella Scarpa e Paride Manovali attendevano il nuovo giorno. Paride aveva pianto anche quella sera, prima di addormentarsi, perché voleva tornare a casa e gli mancava il papà . Rossella lo aveva consolato come poteva, poi la stanchezza aveva fatto il resto, portandolo in un mondo di sogni. Lo avrebbe raggiunto anche lei? Per adesso, Rossella vegliava al buio, con la mano sinistra a sfiorare il figlio e i pensieri altrove. Avrebbero mai rivisto Ettore? Il giorno dopo, li sarebbero venuti a prendere, per riportarli a Padova. Al sicuro, forse, ma senza una risposta.
Intanto il mondo girava per i fatti suoi, ignorando speranze e paure dei germi che lo popolavano e lo percorrevano. Aveva cose più importanti a cui pensare.