Orizzonti di plastica
Capitolo terzo
A Carlo Sovrani non piaceva lavorare di giorno.
Lavorare di giorno significava, prima di tutto, che si doveva alzare presto, e poi che doveva starsene in giro sotto il sole, per chissà quanto, all’aperto. Stare in giro sotto il sole, in giugno, era un inferno in terra. Che più avanti sarebbe stato ancora più caldo, nel corso dell’estate, non lo consolava: lui viveva il presente, non il futuro, e il presente era caldo. Molto meglio il turno di notte, quando la città è tua. Per questo, Carlo non era molto contento, mentre si preparava davanti allo specchio, quel sabato quattordici giugno.
Come sempre, ne approfittò per contemplarsi la muscolatura, tastandosi qui e là come un bue a una fiera del bestiame. Tutto tonico e scattante al punto giusto. Come gli piaceva la palestra! Gli sarebbe piaciuta in ogni caso, perché il corpo era al centro del suo universo e ogni cosa vi orbitava attorno, ma con gli sconti e gli incentivi garantiti dal lavoro, era un autentico paradiso.
Carlo Sovrani, però, non era un ignorante, come poteva sembrare a prima vista. Un fisico da gorilla, unito a una fronte molto bassa e torva, conclusa da uno scuro monociglio, danno spesso una brutta impressione a chi si ferma alle apparenze, ma il naso era dantesco e in salotto faceva bella mostra di sé una laurea in architettura, magna cum laude. Non l’aveva mai usata, perché dopo l’università si era trovato un ottimo posto in tutt’altro campo, ma erano dettagli. La tesi sull’arco etrusco rimaneva un gioiellino ineguagliato, a detta del suo relatore.
Dopo un’ultima strizzatina ai bicipiti, li coprì con la camicia verde d’ordinanza. Non era contento. Non lo era per niente. In giro di giorno, e di sabato per di più. Elena non avrebbe gradito. Si grattò la testa, sistemandosi allo specchio i capelli neri e robusti, tagliati corti per ragioni di servizio.
Per quella sera, aveva già comprato due biglietti dell’opera: c’era la Madama Butterfly, la preferita dalla fidanzata. Lui in effetti era orientato più verso Wagner e l’area tedesca, gli piacevano quei suoni possenti e l’orchestra che macinava le note, come un rullo compressore, ma si sapeva accontentare, non era un tipo difficile. Il problema però era il lavoro: doveva essere il suo giorno libero, invece lo avevano richiamato di urgenza. Così, niente opera e soldi nel cesso per i biglietti, anche se forse un modo per farseli rimborsare lo avrebbe trovato, o almeno per farseli cambiare. In fondo, lo avevano chiamato a fare il suo dovere, per il bene della città . Mica andava a divertirsi!
Dalla sala gli arrivavano forti le note del suo album preferito, una raccolta con le più belle arie, interpretate dai più grandi tenori del passato, da Enrico Caruso a Emporio Pitaciò, fino a Luciano Pavarotti, se non il più grande, certo il più largo. Carlo accennò qualche gesto insensato, da direttore d’orchestra, mentre faceva lo sguardo cupo davanti allo specchio.
Lavoro o non lavoro, come si vedeva in forma quel giorno!
Trent’anni e sentirsene venti: ecco la sintesi della sua vita. Unita alla consapevolezza di fare sempre la cosa giusta, specie al lavoro, gli metteva addosso un’energia spaventosa. Avrebbe spaccato tutto il mondo e per poco non spaccò il telefono, che gli sgusciò via tra le dita. Alla fine lo addomesticò e spedì un mieloso messaggio di scuse a Elena. Allacciò gli anfibi, sistemò in vita il fido manganello e caricò in spalla il mitra d’ordinanza. Era pronto al dovere.
Sul pianerottolo, dedicò uno sguardo disgustato alla porta dell’ascensore. Disprezzava quegli affari metallici e ne era ricambiato. Ricordava ancora con fastidio il giorno in cui era rimasto bloccato in una di quelle trappole, in vacanza al mare, e aveva scoperto quella che, a tutt’oggi, era la sua unica debolezza riconosciuta: la claustrofobia. Quando lo avevano liberato, la cabina dell’ascensore non era in buone condizioni, dopo che Carlo aveva preso a pugni e calci tutto ciò che aveva trovato, in preda a una crisi isterica, rimettendoci tre nocche. Da allora, sempre e solo scale.
E proprio per le scale si lanciò a testa bassa, col passo di chi vuole mangiarsi il mondo e chiedere il bis. Nell’atrio incrociò il tizio che abitava al piano di sotto, l’impiegato di mezza età che girava in giacca e cravatta. Come si chiamava? Era certo che si fossero presentati. Frugò nella memoria alla ricerca di un nome, ma non trovò nulla; si strinse nelle spalle e lasciò perdere. I tizi del genere erano l’ultimo dei suoi pensieri, specie quando aveva un incarico. Notò che aveva una brutta cera, ma in fondo i tizi di mezza età in giacca e cravatta hanno sempre una brutta cera. Non erano certo persone in forma come lui! Carlo Sovrani se ne dimenticò allegramente, uscendo dal condominio.
Il dovere lo chiamava.
Ah, era dura essere l’unica forza di sicurezza, in un paese senza carabinieri e polizia! Una volta era tutto più facile, ma la vera sfida era proprio questa: mantenere la legge e assicurare una protezione a tutti i cittadini che la meritavano. E lui era orgoglioso di essere tra i prescelti. Certo, doveva anche ammettere che molto spesso il lavoro si riduceva a un normale pattugliamento, e questo lo frustrava un po’, ma erano comunque una forza di pace. I tutori dell’ordine.
E poi stavolta pareva che ci fosse qualcosa di grosso. Lo avevano richiamato in servizio proprio per questo, perché era uno dei migliori e ci volevano i migliori per affrontare una possibile emergenza e gravi rischi per la sicurezza. Lui l’avrebbe affrontata a testa alta. Peccato solo per l’opera, ma Elena avrebbe capito. In fondo, lavorava anche per il suo bene. Sorrise all’afa pomeridiana.
Fedele Innocenti aveva vissuto come sempre un attimo di terrore, trovandosi all’ingresso un tizio in camicia verde e mitra in spalla. Generazioni di sensi di colpa repressi tornavano ogni volta a galla, quando succedeva. Poi riconobbe il vicino del piano di sopra e si rilassò. Usciva tutto carico, come se andasse in guerra, con la faccia di chi ha gravi e prolungati problemi di stipsi. Fedele si fece da parte, per lasciarlo passare. Andasse pure! Lui, per oggi, col lavoro aveva chiuso.
Quel sabato, come ogni sabato, era stato in ufficio solo al mattino. In teoria poteva starsene a casa, ma c’era andato lo stesso, per guardarsi attorno e fiutare un po’ l’ambiente. Non era servito.
Nella sala del caffè, aveva chiacchierato col geometra Mangiapane, senza ascoltare una sola parola di ciò che gli raccontava. Era interessato ad altro, alla fauna impiegatizia che si aggirava da quelle parti, per abbeverarsi. Passò il segretario Tombini, stavolta in giacca e cravatta, che gli dedicò uno sguardo poco amichevole. Passò un gruppetto di ingegneri del sedicesimo piano, che non conosceva e che non gli importava di conoscere. Passarono infine gli architetti e a quel punto Fedele spense le orecchie, cancellò Mangiapane dall’universo conosciuto e si concentrò.
C’era Alberto Graziani, sempre elegante, lampadato e strafottente, che lo salutò con un cenno; c’era Carlo Baiocchi, circonfuso dalla permanente aura di efficienza e dedizione alla causa, qualunque essa fosse. Ma c’era soprattutto Ettore Manovali, il suo bersaglio.
Fedele seguì ogni movimento della preda, nella sala del caffè, ne studiò ogni tratto, ogni espressione. Poco più alto della media e poco meno alto di lui, capelli rossicci tagliati corti, snello, abbronzato e con un ricordo di scottatura sulla fronte, Ettore Manovali si presentava come una persona normale, né più né meno della maggior parte degli altri dipendenti. Anzi, era vestito meglio della media e di certo faceva bella figura, in azienda. Cosa poteva aver commesso di tanto grave?
Non aveva precedenti, il suo curriculum era candido come cotone idrofilo, era sposato e aveva un figlio: pareva l’emblema della stabilità modello. Eppure all’amministratore era giunte voci sul suo conto; eppure l’amministratore lo voleva eliminare, in fretta e senza rumore. Perché?
Mentre il geometra Mangiapane parlava e parlava, Fedele strisciò più vicino agli architetti, un passo alla volta, per averli a portata di orecchio. Non ne ricavò nulla. Solo chiacchiere da ufficio, discorsi sul progetto a cui lavoravano e sulle possibilità di concluderlo entro fine mese. Ciarpame di nessun interesse, per lui. Gli sarebbe servita qualche confidenza, qualche pettegolezzo a mezza voce, anche il più insignificante accenno a una vita fuori dall’azienda. Invece niente, parlavano del lavoro anche sul lavoro, come se ci credessero davvero.
Li aveva osservati tornare al ventiduesimo piano, seri seri, e si era sentito sgonfiare dentro. Sarebbe stato un inferno, una vera schifezza, quell’incarico dell’amministratore. Ma era comunque l’incarico del suo amministratore e lui doveva eseguirlo. O quello, oppure trovarsi un altro impiego. E poi spiegarlo al suocero, quell’amabile gestapo dell’avvocato Bianchi. Dirgli che aveva fallito.
Uscendo sconfitto dalla sala del caffè, sentì uno sguardo poco amichevole che lo trapanava. Si girò, in tempo per scorgere Tombini fermo in un angolo, a fissarlo. Doveva essersene rimasto lì per tutta la pausa, ancora più silenzioso e mimetico di lui. Ma perché?
Fedele sbuffò e si strinse nelle spalle. Al diavolo il Tombino, aveva altri problemi a cui pensare e il segretario non vi era incluso.
E adesso, nell’ascensore del suo condominio, correva proprio verso uno di quei problemi. Eva. Dal brutto incidente della discussione di giovedì sera, non aveva più detto nulla. Si capiva che di cose da dire ne avrebbe avute a vagonate, ma non le diceva. Non un buon segno, come sapeva Fedele. Se parlava, brontolava e litigava, ci si poteva fare qualcosa: nel peggiore dei casi, prendere il temporale e aspettare il sereno. Ma se stava zitta, significava che era oltre il punto del litigio. Ricordava solo un precedente: la storia di Annibale Rossi. Ma era un pessimo precedente e non ci voleva pensare.
Anche perché era fin troppo in sintonia col presente.
Così, quando aprì la porta blindata, poco prima delle ore quattordici, non fu sorpreso di scoprire che nel loro appartamento mancava qualcosa: la moglie. Doveva essere stata lì fino a poco tempo prima, perché in cucina il pranzo era quasi pronto, ma adesso non c’era. E non aveva lasciato messaggi.
Con la faccia che perdeva pezzi, Fedele si accasciò in poltrona, ad aspettare e pensare al peggio.
Non fu un’attesa lunga. Circa cinque minuti dopo, Eva rientrava, coi suoi classici abiti da casa e un molto meno classico binocolo appeso al collo. Fedele la fissò perplesso, alzandosi.
«Dove sei stata?»
Eva proseguì, posò il binocolo sul mobiletto accanto al corridoio, rispose un rapido «In terrazzo» e sparì in bagno, a lavarsi le mani e la faccia. Sembrava sudata.
«In terrazzo?» Fedele sapeva, a livello intellettuale, che il condominio aveva un terrazzo, sul tetto o giù di lì, ma sapeva anche di non averci messo più piede da almeno quattro anni. In fondo, cosa c’era da vedere, lassù? Un bel panorama di palazzi, tetti, cupole. Nei giorni più limpidi, potevi scorgere i riflessi dei capannoni in periferia. Per il resto, cielo bianchiccio e aria pestilenziale. Wow. «Cosa ci sei andata a fare?»
«A guardarmi intorno» rispose Eva, asciugandosi. «Una volta ci venivi anche tu, ogni tanto.»
Era vero. Fedele piegò la bocca, studiando il pavimento. «Vabbè, ma non è che ci sia poi molto da vedere, adesso. Con tutte quelle case attorno...»
«Sempre meglio che fissare una pentola, aspettando che sia pronta.» Entrò in cucina, col marito che la seguiva a distanza di sicurezza. «Ti aspettavo più tardi.»
«Ho finito prima.»
E la loro brillante conversazione si spense così.
Del terrazzo non parlarono più. Vi ripensò però Eva, quel pomeriggio, mentre lavorava al dipinto nella sua stanza privata e il marito faceva chissà cosa nella propria stanza privata. Dormiva, quasi di sicuro. Dormiva sempre, nei giorni festivi. Non dovevano essere sonni molto tranquilli, se almeno in parte assomigliavano a quelli notturni. Il suo lato del letto era un disastro, la mattina, e di notte la svegliava più volte, urtandola con piedi o braccia.
Il terrazzo, dunque. Uno dei pochi luoghi aperti, da cui poter vedere l’orizzonte. O il poco che dalla città si riusciva a scorgere, dell’orizzonte. Ci arrivavi in ascensore, se non eri così pazzo da volerti fare tutte quelle rampe di scale. E se anche eri così pazzo, o così in forma, ci arrivavi in ascensore lo stesso, perché dall’ultimo piano solo l’ascensore ti portava in terrazzo. Che poi era il tetto.
Per metà riparato da una tettoia a punta e per metà aperto, offriva un invidiabile panorama dei primi tratti di periferia, tra un palazzo e l’altro. Il centro cittadino no, era chiuso da condomini ancora più alti, che coprivano ogni visuale. Si poteva però guardare verso l’esterno ed era ciò che aveva fatto.
Cinque anni prima, avevano scelto quell’appartamento anche perché, come dicevano all’agenzia, da lì si poteva vedere la celebrata piramide di Lambrate. A Fedele piaceva molto, a lei sembrava più un incubo da digestione pesante, ma lo aveva fatto contento e si erano trasferiti in quel condominio. In effetti, nelle giornate molto limpide e con un buon binocolo, dal tetto si poteva scorgere la sagoma della piramide. Peccato che le giornate molto limpide, in città , si potessero contare sulle dita della mano di un lebbroso. La prima volta, Fedele era salito tutto entusiasta, per vedere la piramide. Non l’aveva vista. Le dieci volte successive era andata allo stesso modo. Da allora, sul terrazzo non era salito più. Delusione e rassegnazione avevano vinto, come al solito. Era il suo carattere.
Eva ci era tornata spesso, invece. Della piramide non le importava nulla, ma le piaceva osservare le cose dall’alto. Così non si limitava ai particolari, ma poteva cogliere il disegno di insieme. Almeno, questa era la spiegazione che dava agli altri e a se stessa; il vero motivo non l’aveva mai capito, le piaceva e basta. Spesso portava anche un cappello e ogni tanto aggiungeva una mascherina, giusto per non incatramarsi troppo i polmoni. Non quel sabato, perché doveva essere una cosa veloce, un modo per passare il tempo, mentre aspettava che il pranzo cuocesse.
Mai si sarebbe aspettata che Fedele potesse tornare a casa prima delle quattordici. Quando l’aveva visto, in poltrona, Eva si era preparata a rispondere a chissà quante domande. Sarebbe stato normale. Entri in casa, pensi di trovarci tua moglie, ma tua moglie non c’è. Chiunque avrebbe fatto valanghe di domande, per avere una spiegazione. Lui no. Sedeva in poltrona, con la sua faccia da reperto di autopsia, e pensava a chissà cosa. Certo non pensava a lei.
Ecco uno dei difetti di lui, che non aveva mai capito. Non era curioso. D’accordo, a volte non è un difetto; al contrario, la riservatezza può essere un pregio. Ma un minimo di curiosità ci voleva, tanto per far capire a un’altra persona che ti interessa di lei, che ti preoccupi di quello che fa. Fedele era il perfetto modello dell’uomo da una domanda e una scrollata di spalle. Lasciava perdere subito tutto, non insisteva mai. Aveva insistito una sola volta, in vita sua: quando si erano conosciuti.
Meglio non ripensarci. Quel Fedele, a quanto pareva, non esisteva più e lei doveva arrangiarsi con quello che si trovava adesso per le mani. L’uomo tutto casa e lavoro, che non le confidava mai nulla. Avrebbe desiderato altro, ma se la sarebbe cavata con ciò che aveva. E così, mentre continuava a dipingere, Eva si abbandonò ai ricordi, tanto per rallegrarsi la giornata.
Fuori, la città sonnecchiava la pigrizia di un sabato estivo. L’afa avvolgeva di bianco ogni forma, le strade larghe e trafficate come le sagome dei palazzi, le mille guglie del duomo come lo stadio oggi deserto e vuoto, le cupole vecchie e nuove degli ultimi spazi pedonali come il vetro luccicante che proteggeva gli ultimi parchi. Soltanto un pazzo avrebbe sfidato quelle ore del pomeriggio, all’aperto, e i pazzi erano tutti fuori città , in periferia. In centro, vivevano solo le gallerie di aria condizionata, sotto la superficie. Sopra, c’era troppo caldo per tutto.
Da qualche parte, Carlo Sovrani partecipava a un’importante operazione di sicurezza, per il bene del paese, sudando e maledicendo tutto ciò che capitava a tiro. Da un’altra parte, il segretario Maurizio Tombini attraversava in metropolitana la città , in un vagone semideserto e senza suoi conoscenti: si rilassava, adesso, per prepararsi a ore e ore in un caldo quasi solido. L’amministratore delegato, nel suo appartamentino, si crogiolava nel pigro ozio digestivo, avvolto in una vestaglia arancione, senza un pensiero per il resto del mondo, ma con gli occhi per certi suoi video. Luca Tarca sudava davanti al computer, stretto nell’aria rovente delle ventole, e cercava novità che non arrivavano.
E mentre il mondo, bene o male, girava per i fatti suoi, Fedele Innocenti era chiuso nella sua stanza privata. Non dormiva, no, non ci sarebbe mai riuscito. Aveva troppe cose per la testa e troppo poco tempo per sistemarle. Il centro di tutto era ovviamente Manovali, l’architetto.
Pessimista di natura, adesso si sentiva molto prossimo alla disperazione. Non ce l’avrebbe fatta, non stavolta. Sarebbe stato costretto ad ammettere il suo fallimento davanti all’amministratore, il quale lo avrebbe guardato come un rifiuto organico solido, senza parlare. Non ce ne sarebbe stato bisogno. Dall’amministratore all’avvocato Alfieri, dall’avvocato Alfieri al suocero Bianchi: un domino in cui l’ultima tessera era proprio lui, Fedele. Sarebbe caduto sotto il peso delle altre.
C’era un modo per scoprire qualcosa su Manovali? Gli bastava un appiglio, un dato in più, che non fosse solo nome e numero di matricola. Ma non riusciva a pensare a nulla. Poteva solo fantasticare, affascinato e inorridito, sulla fine del suo matrimonio, la cacciata dalla città e la sua morte, nel giro di pochi anni, in una catapecchia abusiva di bassa periferia, consumato dall’afa e dallo smog, in mezzo ai clandestini. Non sarebbe stato improbabile. La fine di un fallito.
Così, nella notte più nera dell’animo, Fedele prese una decisione a suo modo eroica. Strisciando in silenzio per la casa, senza farsi sentire da Eva, si infilò le scarpe, uscì e raggiunse l’ascensore. C’era qualcuno con cui poteva parlare, nonostante tutto. L’ultima thule.
Quella sera, a cena, Eva notò subito la differenza. Aveva trascorso tutto il pomeriggio chiusa nella sua stanza, persa in una specie di trance creativa, e non aveva sentito il marito né uscire, né rientrare. Al contrario, pensava che non si fosse mai mosso da casa. Eppure, che qualcosa fosse successo era chiaro. Ce l’aveva praticamente scritto in faccia.
Non disse nulla lei e non disse nulla lui. Eva non sapeva come accennare il discorso, senza causare una delle solite discussioni, che non portavano a niente; Fedele, invece, era convinto di aver fatto tutto in perfetto segreto e che la moglie non si fosse accorta della sua scappatella. Così tacevano, lui sicuro e lei incerta. Tutto si sarebbe concluso come a pranzo, se non fosse stato per la tv.
Quel sabato sera, al posto del solito gioco a premi c’era un servizio speciale del notiziario. Fedele lo accolse sollevando un sopracciglio e stringendosi nelle spalle, prima di sedersi a tavola. Eva invece sbuffò, piegò un angolo della bocca e posò i piatti quasi sbattendoli sulla tavola, come faceva le rare volte in cui si arrabbiava. Per precauzione, Fedele si guardò attorno, studiando le vie di fuga. Che lo avesse scoperto, nonostante tutto? O era di nuovo la storia del suo lavoro?
«Possiamo cambiare canale, almeno? Questa roba non mi piace» disse Eva, dopo qualche minuto.
Fedele mosse lo sguardo dal piatto allo schermo, per poi fermarsi sul volto della moglie. «Cosa c’è? Non ti piace il notiziario? A me sembra normale, poi boh...»
In tv, sulla musica, passavano adesso le immagini di giovani muscolosi in camicia verde, pettinature perfette e un sorriso da pubblicità di dentifricio, che trascinavano via tra i mitra due o tre sagome coperte da cappotti, o forse lenzuola stracciate. Sembrava la sequenza di un normale arresto.
«Ma hai seguito almeno una parola?» gli chiese Eva, fissandolo in modo non proprio amichevole.
Fedele si spostò sulla sedia, a disagio, mentre la testa gli ciondolava da un alto all’altro. «Beh, ecco, in effetti non ho ascoltato molto, sai. Però è una delle solite operazioni di polizia, no? Guarda, lì ci sono i miliziani e anche gli arrestati... Non ci trovo nulla di strano. Ah, aspetta,» aggiunse un attimo dopo, «ma quello non è il nostro vicino, il tizio del piano di sopra? Com’è che si chiamava...»
«Carlo Sovrani» rispose Eva, continuando a fissarlo. «E sì, è lui, e sì, è quello che abita al quarto piano, proprio sopra di noi. Bella roba che abbiamo!»
«Ah, ok» e si strinse nelle spalle. Di quel Sovrani non gli poteva importare di meno, né del lavoro che faceva. Aveva arrestato qualche delinquente? Bene, ottimo, tante grazie. La città sarebbe stata più sicura. Aveva solo fatto il suo lavoro, però, come ogni altra persona. Nessuno riprendeva mai lui, né gli davano una medaglia, quando sbrigava qualcosa per l’amministratore.
Le immagini mostravano adesso Sovrani in bella posa, assieme ai colleghi. Diritto, petto in fuori e pancia in dentro, labbra compresse e sguardo serio: pareva quasi una persona perbene. Fedele aveva qualche difficoltà a sovrapporre il Sovrani televisivo al Sovrani che incrociava per le scale, sfatto e con gli occhi spiritati di un tossico, nonché armato, ma erano dettagli di nessun interesse.
«Continuo a non capire quale sia il problema» disse alla moglie.
Eva sbuffò. «Quando mai. Lo sai cosa ha fatto il nostro caro vicino?»
Non lo sapeva. Sapeva però che la moglie era in uno di quei momenti polemici col mondo, aveva in testa una delle sue fisse strampalate ed era saggio non contraddirla. Le sarebbe passata, poi.
«Avrà arrestato qualcuno, no? È il suo lavoro.»
Eva lo guardò. «Ma sì, ha arrestato qualcuno, mettiamola pure così. Se ti interessa, lo speciale parla di una spedizione per sgominare una banda di pericolosi clandestini, testuali parole.»
«Beh, e allora? Non vedo cosa ci sia di male. Se non lo vuoi vedere, cambiamo canale, ma davvero non capisco tutta questa storia. Se la tv dice che ha arrestato pericolosi clandestini, ha fatto bene.»
«E chi è che decide che sono pericolosi, se non hanno fatto niente? La tv?»
«Beh, se lo dice la tv che sono pericolosi, perché non dovrebbero esserlo? Poi comunque erano dei clandestini, no? Quindi un reato lo hanno commesso. Era giusto arrestarli.»
«Non mi pare che qualcuno abbia arrestato noi, quando andavamo a colonizzare i loro paesi. O noi siamo sempre buoni e loro sempre cattivi?»
Fedele roteò mentalmente gli occhi e sospirò. Ecco, aveva parlato di nuovo con Tarca. Non aveva nulla in contrario se erano amici, per carità , ma il loro vicino aveva idee tutte sue e spesso cercava di contagiare gli altri, anche se a volte era utile. A quanto pareva, oggi aveva contagiato Eva.
«Sono storie vecchie, queste, adesso non hanno più importanza...»
«Vecchie? Il nostro colonialismo è durato fino alla metà del secolo scorso, come occupazione vera e propria, e continua tuttora come controllo e sfruttamento economico. Ti sembra una cosa vecchia?»
«Hai ragione, scusa, mi sono espresso male» rispose Fedele, mentre cercava una via per liberarsi da quella discussione inutile. «Ammetto che le attuali leggi siano un po’ troppo severe, ma finché sono in vigore, bisogna applicarle e rispettarle, no?» Abbozzò un sorriso distensivo.
Eva lo guardò di nuovo e capì il messaggio subliminale. Hai vinto tu, mi arrendo, parliamo di altro: era la sua strategia più usata, per i momenti di crisi. Ma sì, pensò Eva. Seguiamola pure. Se proprio dobbiamo litigare, facciamolo sui nostro problemi. Non ha senso scannarsi per un notiziario. E dire che una volta i loro ruoli erano l’opposto. Quando lo aveva conosciuto, lei era quella che viveva un po’ fuori dal mondo e non si interessava all’attualità ; lui era il polemico idealista, sempre pronto per una campagna contro qualcosa. Ma col tempo si cambia, e non sempre in meglio.
«A volte è anche giusto disobbedire, se le leggi sono ingiuste» gli rispose. «Magari ne discuteremo un’altra volta, però, non è il caso di guastarsi la cena. Giusto?» Sorrise.
«Giusto!» A Fedele non sembrava vero. «Allora proviamo a guardare su un altro canale, magari ci sono programmi migliori, più adatti. Questo poi è noioso, non so perché lo trasmettano proprio ora, in questa fascia. Dovrebbero progettarli meglio, i palinsesti...»
Continuando a parlottare tra sé, per rassicurarsi e riempire l’aria della stanza, Fedele spense il volto cupo, severo e sorridente di Carlo Sovrani, ancora più minaccioso sotto il suo monociglio. E per il resto della serata non pensò più a immigrati, leggi, arresti e notiziari, mentre la tv riempiva l’aria di chiacchiere innocue e canzoni di nessun impegno.
Ci pensava invece Luca Tarca, due piani più in alto. Incollato al suo fedele computer, aveva seguito minuto per minuto i risultati e le conseguenze del raid di quel pomeriggio. Da una parte i bollettini ufficiali, dall’altra le prime notizie che avevamo cominciato a circolare nel sottobosco criptato della Rete già verso le sette di sera, per aumentare di numero e di precisione a mano a mano che la notte si mangiava le cupole della città . Adesso, alle ventitré e trentasette, il quadro per lui era completo.
Spizzicando da un testo all’altro, Tarca stava ricostruendo su un file a parte l’azione della squadra per la sicurezza, a cui aveva partecipato anche il poco amato vicino del quarto piano, Sovrani. C’era ancora qualche buco da riempire, qualche dettaglio poco chiaro, ma in linea di massima il lavoro era stato fatto. Adesso poteva tradurlo in inglese, alla meglio, e poi pubblicarlo sotto falso nome su una bacheca internazionale, dove spesso scriveva nella sezione riservata ai paesi a libertà ridotta. Come era diventato il suo, del resto, anche se nessuno se ne accorgeva o se ne curava. La parola proibita, gli venne di pensare, con un sorriso amaro per il buon vecchio Buzzati.
Aggiunse anche qualche nota personale, ma non troppo accurata, per rendere più diretta e vissuta la sua cronaca: sul piano letterario non era un granché, ma in fondo lui non era uno scrittore. Credeva però che il particolare della porta al piano di sotto che sbatteva e del suono degli anfibi sul marmo delle scale, mentre il vicino scendeva, avesse qualcosa di affascinante, che avrebbe fatto presa su un pubblico anglosassone. O almeno, ci sperava.
Il bollettino ufficiale, su cui avrebbero poi costruito il servizio speciale in tv, era molto scarno e non diceva pressoché nulla: omertoso, lo si poteva definire. La squadra per la sicurezza era partita dalla caserma “G. Miglioâ€, sita in via Ciano, alle ore quindici e ventisette minuti. Aveva poi raggiunto la meta, presso la periferia di Sesto San Giovanni, alle ore sedici e diciotto minuti: intervallo di tempo fin troppo sospetto, per Tarca, specie col traffico della zona, in un sabato pomeriggio. L’azione preventiva di sgombero contro il pericoloso gruppo di clandestini era cominciata alle ore sedici e trenta minuti, per concludersi alle ore diciassette e dodici minuti. Il bilancio era di ventisei arresti e dodici morti in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza: avevano opposto resistenza. Nessun ferito, invece, per la squadra di sicurezza. Missione completata a regola d’arte.
Tutto molto bello, tutto molto giusto, tutto perfetto per essere offerto come specialità della casa al pubblico televisivo per l’ora di cena. Giustificava benissimo anche gli scontri nelle periferie, dando la colpa agli immigrati clandestini, e anche regolari. Così era avvenuto. Con mezzo orecchio, Tarca aveva ascoltato il servizio, dallo schermo del salotto in cui i suoi genitori si marinavano davanti alla tv. Aveva scosso la testa e si era rimesso al lavoro, frugando tra i mozziconi di notizie in arrivo.
La storia, così come l’aveva ricostruita lui dalle fonti non ufficiali, era un po’ diversa. Gli orari sì, erano quelli, e anche il luogo corrispondeva. Erano particolari difficili da falsificare, del resto, ma senza dubbio lo avrebbero fatto, in caso di bisogno. Stavolta però non ce n’era bisogno. La squadra di sicurezza aveva condotto un’operazione di sgombero contro un gruppo di clandestini, altra cosa vera. Sempre vero, infine, era anche il numero degli arresti e delle vittime.
Però. Quello che la tv non aveva detto, i notiziari non avevano detto e nessuno avrebbe mai detto al pubblico, era l’identità delle vittime e degli arrestati. Immigrati? Senza dubbio. Clandestini? Molto probabilmente sì. Criminali pericolosi, magari terroristi? Dipende dai punti di vista. Tarca, dal canto suo, non li definiva certo così, ma si sa che le parole sono volatili e soggettive. Erano poveri diavoli, che cercavano di campare alla meglio nella nicchia in cui la società li aveva spinti. E come tutti i poveri diavoli, erano anche potenzialmente pericolosi, per chi stava al vertice della piramide. Tutto ciò che non puoi controllare è potenzialmente pericoloso, per te.
Cosa avevano arrestato, dopotutto? Alcune famiglie, genitori e figli. Soprattutto figli, perché buona parte degli adulti era stata uccisa nel corso dell’operazione. Avevano opposto resistenza, si sa. Per il bene delle inquadrature tv, ne avevano salvati tre o quattro, da filmare mentre venivano portati via in manette, coperti come i mafiosi di una volta. E adesso chissà dove erano finiti, assieme ai figli.
Tarca aveva un’idea piuttosto precisa di dove potessero essere finiti, ma la tenne per sé. Non era il caso di inserirla nel suo articolo, in cui aveva riassunto i dettagli dell’operazione, in un inglese più che passabile. Preferì lasciare qualche punto aperto: altri li avrebbero chiusi per lui.
C’era anche un interessante video, filmato da un satellite. Non era chiaro, non si vedevano bene le facce, difficile riconoscere chi fosse l’uomo in camicia verde che falciava con una raffica di mitra i due bambini che scappavano. Per Tarca era stato molto facile, invece, perché quell’uomo in camicia verde lo incrociava ogni giorno lungo le scale del condominio. Proprio un eroe, complimenti!
Sospirando e stendendo la schiena, lesse per l’ultima volta il suo testo, poi lo inserì nella bacheca internazionale. Il suo contributo alla causa. Controllò in fretta se ci fossero altre notizie, ma nulla di nuovo era comparso. Capitolo chiuso, dunque, almeno per adesso.
Doveva passare al capitolo Innocenti, allora.
Era stata una sorpresa per lui, quando quel pomeriggio si era presentato alla porta il vicino del piano di sotto. Di due piani più sotto, per la precisione. Conosceva Fedele Innocenti, già da tempo: Tarca era amico di Eva, sua moglie, e se anche non avevano mai parlato molto, si salutavano e ogni tanto avevano scambiato qualche parola. Non ne avevano mai scambiate tante come quel giorno, però.
Verso le tre o le quattro del pomeriggio, Fedele era salito al quinto piano. Aveva suonato alla porta dei Tarca, era entrato salutando l’anziana coppia e dopo cinque minuti abbondanti, tra un dubbio e una esitazione, Luca Tarca era riuscito a strappargli di bocca il motivo della visita.
Aveva bisogno di un aiuto col lavoro.
Tarca era rimasto perplesso, guardando l’altro uomo che arrossiva e fissava il pavimento, poi aveva chiesto dettagli sull’aiuto che gli serviva, offrendosi di fare ciò che poteva per lui. Era stato ancora più difficile sapere quei dettagli, ma alla fine si era fatto un quadro generale. Non gli piaceva.
Fedele Innocenti doveva cercare informazioni su una persona, un collega, e non sapeva come fare. Lo pregava dunque di suggerirgli almeno qualche punto da cui partire, magari archivi in cui potesse trovare informazioni di tipo personale, o cose del genere. Sapeva che lui era esperto di computer ed era bravo a occuparsi di queste cose, o così lo aveva descritto Eva. Per cui, magari...
Tarca lo aveva fissato a lungo, mordendosi un labbro. Chissà cosa ne avrebbe detto Eva, di quella storia? Chissà quanto ne sapeva Eva, semmai. Nulla, probabilmente. Il nome del collega sul quale cercava informazioni, Manovali, gli aveva fatto scattare qualcosa in testa. Lo aveva già sentito da qualche parte, ma al momento non sapeva dove o quando. Però non gli era nuovo.
«Se vuole, posso fare un paio di ricerche io» gli aveva risposto. «Non è detto che si trovi qualcosa, sia chiaro, soprattutto se questo collega sta svolgendo attività illegali. In quel caso, di solito si usano canali criptati, per comunicare, e non sarebbe facile accedere. Ma darò un’occhiata, intanto, e le farò sapere. Può darsi che qualche notizia ci sia.»
Fedele Innocenti lo aveva ringraziato, si era scusato almeno sei volte e poi era uscito di fretta. Tarca era rimasto a lungo a meditare su quell’incontro, nel pomeriggio. Adesso, probabilmente, era giunto il tempo adatto per provare qualche ricerca preliminare.
Finì che non le cominciò, non quella notte.
Prima che potesse aprire un qualunque motore di ricerca, arrivò il messaggio che capovolse tutti i suoi programmi. Non era ancora qualcosa di grosso, come temeva potesse accadere da un momento all’altro, ma era facile che diventasse un invito ufficiale per qualcosa di grosso. Con tanto di posto in prima fila, per i più fortunati o sfortunati.
C’era un problema tra due etnie diverse, in una regione sconosciuta della Russia, sul confine con la Cina. Un problema che in effetti si trascinava ormai da anni, tra alti e bassi, ma apparentemente i due popoli avevano deciso che il mondo sarebbe stato un posto migliore e la vita sarebbe stata assai più bella, se avessero sterminato i rispettivi vicini. E così, quasi un’ora prima, i due popoli di etnia diversa avevano cominciato allegramente a massacrarsi tra loro.
Poteva essere una notizia come tante, come ne arrivavano ogni mese dall’Africa, per esempio. Ma non lo era. Non lo era proprio perché non veniva dall’Africa, un continente di cui non importava a nessuno, ma veniva dal confine tra la Russia e la Cina, una zona che importava a tutti. La sfortuna dei due popoli era quella di trovarsi nel posto sbagliato, altrimenti si sarebbero potuti massacrare a piacimento, senza che nessuno li infastidisse.
C’erano già stati attriti tra Cina e Russia, nel passato recente. L’incidente del gasdotto, per esempio, o le falde acquifere accidentalmente inquinate, in una zona in cui l’acqua valeva ben più del petrolio. E adesso, due popoli che si scannavano proprio sul loro pianerottolo. Non era difficile capire come si sarebbe potuta svolgere, quella storiaccia.
Più per scrupolo che per altro, Tarca controllò in fretta se ci fossero notizie nei siti italiani. Niente di niente, come era prevedibile. L’Italia era troppo impegnata a togliersi i pelucchi dall’ombelico e ad autoconvincersi di essere il migliore dei mondi possibili, cantando le magnifiche sorti e progressive della sua civiltà : non aveva importanza se intanto le segavano il ramo su cui sedeva a cinguettare. Dettagli, quisquilie, vili menzogne di parte. Eppure quei dettagli stavano ormai riempiendo i canali di tutto il resto del mondo, mentre in Italia nessuno sapeva.
Senza convinzione, ma provandoci lo stesso, Tarca tentò di inserirsi nella rete Chind, passando per i canali giapponesi. Niente da fare. Ogni tanto capitava di trovare qualche porta aperta e il Giappone era il punto di contatto migliore: era la logica testa di ponte, tra la rete dei paesi occidentali e la rete Chind. Quella notte, però, era tutto sigillato. Ecco gli svantaggi di non avere più una rete unica.
Tarca sospirò, passando ad altro. Non si era ancora riuscito a trovare un modo stabile e sicuro, per entrare in quella rete, provenendo da un paese che non ne faceva parte. O almeno, nessun modo che lui conoscesse. Se ci fossero riusciti, sarebbe stato un gran bene per tutti; intanto, doveva cavarsela come poteva e ringraziare, ogni volta che qualcuno lasciava una porta aperta.
La Chind era stata la novità degli ultimi dieci anni. Il mondo della Rete era troppo occidentale e gli Stati Uniti ne avevano il predominio: dunque, era necessario spezzare questa dittatura. Così era nata la rete Chind, messa assieme dai due grandi paesi dell’Asia, una rete in cui erano loro a decidere le regole del gioco. Dopo una fase di contrasti violenti e cyberterrorismo, adesso si era stabilizzata e includeva non solo India e Cina, ma l’intero sudest asiatico, le Coree, vari arcipelaghi dell’Oceania, qualche repubblica satellite del territorio russo e cominciava ad allungarsi verso il blocco islamico, al centro. E se non fosse stata per la forte ostilità degli Stati Uniti, forse anche il Brasile vi sarebbe già entrato, portandosi in dote una buona fetta di Sudamerica, con tanti saluti allo zio Sam.
Come risultato, adesso c’erano la rete occidentale, cioè il vecchio internet che tutti conoscevano, e il nuovo mondo di Chind, in continua espansione e sigillato dietro cortine di filtri e blocchi. Passare dall’uno all’altro era un lavoraccio, che solo in pochi riuscivano a compiere. Tarca di solito non era tra questi. Così, doveva accontentarsi delle notizie che trapelavano, di contrabbando.
Quella notte assalì la fortezza in ogni modo a lui noto, fallendo alla grande. Con un ultimo sospiro di delusione, e il rimpianto di non aver mai studiato a sufficienza l’informatica, si abbandonò alle bacheche e ai forum internazionali, aspettando che altri gli passassero le notizie che, da solo, lui non avrebbe mai potuto ottenere, con le sue miserabili capacità .
E dell’aiuto che Fedele Innocenti gli aveva chiesto nel pomeriggio, ormai si era già dimenticato.