Orizzonti di plastica
Capitolo settimo
Venerdì ventisette giugno, Luca Tarca vide le prime luci dell’alba seduto al suo computer. O meglio, non le vide, impegnato com’era a fissare lo schermo, scrivere qualche breve parola e cercare tra una sequenza monumentale di pagine e pagine, tutte uguali e tutte inutili. Dicevano molte cose, certo, e a volte anche cose sagge, ma nessuna diceva quello che voleva sapere lui.
Sospirando, allontanò un poco la sedia dalla scrivania e distese la schiena alla meno peggio. Aveva gli occhi pesanti e non solo per le tante ore spese al computer, sudando e sbuffando su una Rete con la velocità dell’Autosole in agosto. A quello ci era abituato, ormai. No, il problema era un altro, ed era che da due notti dormiva da schifo. Più precisamente, non dormiva proprio.
Il letto dietro di lui era appena riconoscibile, per come lo aveva ridotto a forza di girarsi e rigirarsi, nell’agonia dell’insonnia. Era quasi uno specchio di quello che si sentiva in testa. Ogni volta che si coricava e chiudeva gli occhi, riviveva la scena di mercoledì sera, l’atrio del condominio, Fedele, la bambina e soprattutto Sovrani, Sovrani col mitra in spalla, che la portava via e li scacciava.
Mille foto, mille video e mille reportage di guerra non lo avevano preparato a quella sola, minuscola scena: una camicia verde e un fucile puntato contro di te. Il suo cervello si era spento, il coraggio o ciò che credeva di possedere era evaporato come alcol. E lui aveva ceduto la bambina. Senza fare il minimo tentativo di salvarla. Sapeva che l’avrebbero eliminata, sapeva che l’avrebbero portata alla caserma per fare pulizia in silenzio, seguendo la legge non detta, e lui l’aveva ceduta a Sovrani.
Luca Tarca non si era mai sentito così merda come in quell’istante.
Che non aveva alternative, lo sapeva. Che Sovrani se la sarebbe presa lo stesso, con le buone o con le cattive, lo sapeva. Che Fedele Innocenti dipendeva da lui, per salvarsi, lo sapeva. Eppure niente di tutto ciò lo faceva stare meglio. Si era creduto un nobile eroe incompreso, invece era una merda.
Così non riusciva a dormire e soffocava la vergogna di sé in una ricerca disperata di informazioni su quanto stava accadendo là fuori, oltre confine. Era un modo per riabilitarsi, in parte: la bambina non l’aveva saputa salvare, ma almeno avrebbe scoperto ciò che il novantotto per cento degli italiani, in una stima per difetto, non sapeva. Ossia, la verità sul mondo dietro l’angolo.
Peccato che non trovasse nulla. I siti normali, accessibili a ogni occidentale non residente in Italia, avevano solo voci, dicerie e ipotesi vaghe. Notizie precise non esistevano. Le possedeva la Rete Chind, forse, ma era più sigillata della bocca di un mafioso. Anche gli spiragli nella protezione, che in altri momenti erano aperti di tanto in tanto, adesso erano bloccati e sorvegliati. Qualunque cosa si preparasse o fosse in corso dall’altra parte, loro non l’avrebbero saputa.
Rilesse di nuovo gli ultimi dati certi in suo possesso. La Cina aveva chiesto l’immediata liberazione dei prigionieri di Tucson. Gli Stati Uniti avevano risposto di no. La Cina aveva annunciato che, se i suoi cittadini non fossero stati liberati con le buone, ci avrebbe pensato lei stessa. Gli Stati Uniti le avevano risposto che poteva andare a liberare sua nonna. L’India aveva annunciato la chiusura dei suoi mercati ai paesi occidentali, in rappresaglia. L’Europa aveva risposto «Un attimo, parliamone.»
Sul fronte russo, intanto, la Cina aveva deciso di risolvere lo scontro tra le due etnie al confine, con una soluzione molto semplice: aveva spedito l’esercito a occupare il territorio. Territorio che, però, apparteneva alla Russia. Il comunicato ufficiale era secco: per salvaguardare la sicurezza dei propri confini, minacciati dalla guerra in corso, la Cina era intervenuta a pacificare la regione. In effetti era stata pacificata, senza dubbio, ma era anche stata occupata. La Russia non aveva gradito. Non aveva gradito per niente. E così, un altro esercito era in viaggio per quella regione dimenticata da Dio, per “salvaguardare l’integrità territoriale della Russia”.
Tarca scosse la testa. Sembrava che fossero impazziti tutti, là fuori, invece era il semplice, normale spettacolo di un mondo al tramonto. Finiva l’epoca dell’Occidente e degli USA, ma nessuno voleva accettarlo. Così ci si sbranava. Poi lo sguardo gli si fermò sulla prima pagina di un giornale italiano, divisa in due metà quasi precise. In alto si parlava dell’ultimo programma televisivo di successo, quello in cui si dovevano indovinare le prossime catastrofi. Nella metà bassa, invece, annunciavano che i lavori alle tre nuove centrali nucleari in Sardegna erano in via di completamento, dimostrando ancora una volta l’efficienza del libero popolo italiano.
No, la follia non era là fuori. O almeno non solo. La follia doveva essere piuttosto un virus letale e diffuso ovunque, che a poco a poco spappolava i cervelli. L’Italia se n’era presa una dose massiccia, ma con un po’ di fortuna anche le altre nazioni l’avrebbero prima o poi raggiunta in questo campo. Sempre se fossero sopravvissute abbastanza a lungo.
Luca Tarca si lasciò cadere sul letto, spingendo da parte la matassa di lenzuola. Aveva ancora senso continuare? Quando accendeva il computer e girava tra i siti esteri, credeva di sì. Ci poteva essere ancora una possibilità, forse. Ma quando si girava a guardare in casa propria, la depressione e lo sconforto lo schiacciavano. Lo schiacciavano ancora di più, quando vedeva i vecchi genitori in sala, imbambolati davanti allo schermo televisivo, a sognare nel loro paese delle meraviglie digitali.
Tutto è bene, tutto è bello, tutto è giusto e non c’è nessun problema, amici. Anzi, chi ha mai parlato di problemi? Venite qui, che ci divertiamo! Non pensate al resto del mondo, il resto del mondo se ne può andare all’inferno per conto suo. Intanto, voi ascoltate me e sarete felici. Il paradiso è qui.
Ecco il messaggio che usciva dallo schermo, il messaggio che i suoi genitori si bevevano un giorno dopo l’altro, assieme ad altri milioni di spettatori. Ma era una bugia. Era il velo di Maya, la caverna di Platone. Era l’incantesimo chiamato Italia, fuori dal mondo e avvolta in una bolla colorata.
Sei ottobre duemiladodici: quello fu l’inizio di ogni cosa. Non che prima andasse tutto bene, perché non era mai andato tutto bene, ma da quel giorno era andato tutto peggio, questo sì. Per ironia, il sei ottobre era adesso festa nazionale. Unica festività laica, nel paese di peccatori bigotti.
Quel giorno era avvenuto il colpo di stato, anche se nessuno lo aveva mai chiamato colpo di stato e per le strade non avevano sparato neppure un colpo a salve. Non ne avevano avuto bisogno, tutto si era svolto in modo rapido, indolore e nascosto, mentre il governo era rimasto più o meno lo stesso che c’era il giorno prima. La forma non era cambiata, erano cambiati i contenuti.
Al termine di una crisi peggiore delle altre, in cui la maggioranza sembrava finita, il primo ministro di allora aveva deciso per una prova di forza, modificando in concreto quella costituzione che non era ancora riuscito a modificare per legge. Nessuno aveva protestato, anche perché nessuno se n’era accorto: tutto aveva la faccia di un normale rimescolamento dei poteri, un ammodernamento della parassitaria struttura statale. O almeno, così aveva detto la tv, quindi era vero. E poi non interessava a nessuno cosa facessero quelli là, i politici. Tanto era sempre la solita roba.
Da un giorno all’altro, il parlamento era stato sciolto e il governo si era assunto di diritto il compito di scrivere le leggi, cosa che peraltro faceva già da tempo, di fatto. Non cambiava granché. Senza il parlamento, però, al popolo era restituita tutta la sovranità di una democrazia diretta, qualcosa che non si vedeva più dall’Atene di Pericle. Basta coi rappresentanti, era il popolo stesso ad avere diritto di approvare le leggi e poteva esercitare questo diritto grazie alla tecnologia. Col semplice televoto, ogni cittadino era libero di governare il paese, senza bisogno di costosi parlamentari.
Il successivo passaggio era stato molto più complesso e non era stato possibile realizzarlo fino al duemiladiciotto: soltanto allora anche il potere giudiziario era stato restituito al libero popolo, che lo poteva esercitare nello stesso modo in cui esercitava quello legislativo. I processi erano televisivi e ciascuno poteva decidere le sentenze col televoto, dopo aver ascoltato entrambe le parti.
A Tarca, tutto questo aveva sempre ricordato Orwell. Non aveva mai votato per una legge, né aveva seguito uno di quegli orribili processi televisivi. Era uno studente laureando, nei mesi del colpo di stato e dei cambiamenti politici e sociali, quando ancora l’università era accessibile a tutti: lavorava a una tesi particolarmente noiosa e astratta, così aveva avuto il tempo per seguire, quasi dall’esterno, ciò che accadeva in Italia. Lo aveva disgustato.
Lo aveva disgustato soprattutto l’indifferenza della gente, che non si interessava al paese o a quello che facevano i governanti. Camminavano guardando a terra, attenti a non calpestare qualcosa, e dal cielo intanto piovevano meteoriti. Fu quell’autunno di tredici anni prima a trasformare Luca Tarca nell’eremita totale di oggi. Da allora, aveva studiato e basta, tenendosi il più possibile lontano dalla folla e dallo schifo che suscitava in lui. Non li potevi cambiare o migliorare, li potevi solo evitare, se non volevi finire anche tu con un missile nel cervello.
Perché non era stato il peggio. Mese dopo mese, aveva visto il paese andare a pezzi. Il tramonto del governo centrale era giunto assieme al colpo di stato: sgretolare la costituzione aveva sgretolato lo stato stesso, ma nessuno ci aveva pensato. Se nel marzo dell’anno dopo esisteva ancora un governo che controllava tutto, in qualche modo, per l’estate l’esplosione del potere era conclusa e le schegge di Italia galleggiavano in un mare di liquami, mentre gli italiani si abbronzavano in spiaggia. Morta a centocinquantadue anni, compianta da nessuno, cadavere infetto espulso dall’Unione Europea.
Il potere era scivolato dal centro alle regioni, dalle regioni alle province, dalle province ai comuni, in una discesa costante dell’amministrazione. E il governo stesso era tramontato a poco a poco, non rimpianto da nessuno. Per la gente, era più semplice così. Per i piccoli problemi c’era il comune, per i problemi medi la provincia, per i grandi problemi la regione. Esisteva ancora un livello superiore, un potere centrale a cui i poteri locali si rifacevano? Forse sì e forse no. In tv compariva ogni sera il ministro del tempo e spesso nei talk show c’era il ministro dell’opinione pubblica, quindi doveva esistere ancora un governo, da qualche parte. Ma era lontano e nessuno se ne curava. Era come era stato l’imperatore del Sacro Romano Impero, per i piccoli centri del medioevo.
Come siamo arrivati a questo?, si chiese Tarca, come si chiedeva almeno sei volte al giorno. E una risposta non esisteva: ci si era arrivati e basta, pian piano. C’era il sindaco, c’era il presidente della provincia, c’era il governatore della regione. C’erano tutti i capi che potevano servire, per la vita quotidiana. Non si sapeva bene chi ci fosse al governo, adesso, né se il governo ci fosse, ma non era importante. Ogni tanto usciva una legge e la gente l'approvava col televoto; intanto l'Italia andava avanti in un qualche modo e l'importante era questo. Il resto erano chincaglierie burocratiche.
Peccato che ormai l’Italia fosse un nome fuori dall’Europa e poco altro. Con la nuova mania della tradizione dialettale, anche quel poco di lingua italiana stava sparendo. Ogni area rispolverava il suo dialetto e gli abitanti erano invitati a farsi parte diligente e adottarlo. Il peggio è che lo facevano. E la tv li seguiva, precedendoli e guidandoli. A ogni regione il suo linguaggio.
E intanto, di quanto accadeva oltre il confine, a nessuno importava. Il mondo finiva sulle Alpi; al di là di quelle, si poteva lasciare in bianco la mappa e magari scriverci un bel “hic sunt leones”. Era un ritorno alla tradizione anche quello, in fondo: tradizione ben più nobile del finto dialetto di accatto, che al giorno d’oggi si ostinavano a spacciare come autentico. Suo nonno sarebbe morto dalle risate, a sentirli parlare in quella lingua storpiata, di cui si vantavano come mongolfiere.
Ovunque, lì, sui muri come nei tunnel pedonali, il simbolo della rosa camuna, assieme alla gemella rosa celtica, ben più inquietante e falsa. Niente più tricolore.
Il simbolo della rosa celtica compariva anche sull’auto che si fermò sotto casa di Ettore Manovali, un paio di ore più tardi. Quella notte, l’architetto Manovali aveva dormito abbastanza bene. Il caldo li aveva costretti a tenere acceso il climatizzatore per tutto il tempo, ma a parte questo il giovedì era stato più che soddisfacente per lui. Alla Rinascita i lombrichi lavoravano sodo e sembravano essersi adattati al terreno: così gli aveva detto Rainieri, per telefono. Dopo cena, Ettore era sceso a prendere un gelato assieme a moglie e figlio, per fare due passi e stare in compagnia. Poi la serata era finita nel migliore dei modi, dopo che avevano messo a letto il piccolo Paride.
Anche dormire era stato piacevole. Nel fresco artificiale della stanza, aveva sognato di essere sulle colline della sua infanzia. Il cielo era azzurro, il sole caldo ma non troppo e l’erba frusciava sottile, nel vento. Non era solo. Accanto a lui, aveva il figlio Paride, che però in quel sogno aveva i capelli rossi come i suoi, non neri come quelli di sua moglie, Rossella. Camminavano, sulla cresta della collina. Non era stato un sogno particolarmente agitato, né ricco di eventi, ma a Ettore bastava così: essere fuori, col figlio, e camminare tranquilli. Tutto ciò che poteva chiedere al futuro.
Al risveglio, era corso a guardare dalla finestra, aspettandosi quasi di trovare un cielo azzurro anche lì. Non lo era. Nell’alba che si avvicinava, da qualche parte dietro i condomini, il cielo aveva la sua solita tinta malsana, di un grigio che sarebbe presto diventato bianco sporco. Aveva ancora molto da fare, se voleva che il sogno si realizzasse. Ma ci avrebbe provato, per Paride.
Chiacchierò un poco con Rossella, durante la colazione, e le raccontò il sogno che aveva fatto. Ne risero assieme. «Un giorno porterai anche noi alla vostra fattoria, vero?» gli chiese lei, imburrando una fetta di pancarré. «Certo!» rispose Ettore. «Se il nostro esperimento riuscirà, vi ci porterò subito, così potrete vedere qualcosa di verde, invece che campi secchi. A Paride piacerà.»
«Speriamo...»
Poi l’architetto Manovali finì di prepararsi per il suo ultimo giorno lavorativo della settimana, prese la valigetta, baciò la moglie e uscì tranquillo, diretto al tunnel pedonale sotto il condominio. Non lo raggiunse. Davanti al portone di ingresso c’era un’auto di lusso, con la rosa celtica sulle portiere. Ne scesero due uomini seri, abiti eleganti e cravatta verde. Potevano lavorare in banca, a vederli così, oppure in un’agenzia assicurativa.
«Il signor Ettore Manovali?» chiesero cordiali, avvicinandosi a lui e tendendo la mano.
«Sono io» rispose con un sorriso di cortesia, ricambiando il saluto. «Avete bisogno?»
«Beh, ecco, ci sarebbe una questione di cui dovremmo discutere con lei. Una questione di lavoro, sa. È per il consigliere Graziani. Non ci vorrà molto. Potrebbe gentilmente seguirci un attimo?»
Il consigliere Graziani? Avrà qualcosa di dire sul figlio, l’architetto Alberto. Ce n’era sempre una nuova, con lui! Ettore scosse la testa, sorridendo. Così l’architetto Ettore Manovali li seguì, sereno come non era il cielo sopra di loro. Entrarono in auto, le portiere si chiusero e nessuno lo rivide più.
Due eventi segnarono la giornata di Fedele Innocenti in azienda.
Il primo fu il messaggio che ricevette dall’amministratore delegato alle ore undici della mattina, in un momento in cui il ritmo dell’ufficio calava e i pensieri di tutti si orientavano verso un differente polo nord magnetico, cioè la pausa pranzo. Fu un messaggio breve, perché né l’amministratore, né la sua segretaria amavano troppo scrivere, ma per Fedele bastò. Lo aprì in uno stato molto vicino al panico, come succedeva spesso; lo richiuse con un vago senso di colpa e la consapevolezza di aver scampato il peggio. Per il momento, almeno.
“Complimenti per il suo lavoro. Il problema è risolto. La attendo domenica alle undici presso il mio appartamento, per discuterne.” Poi, la firma digitale di Fabrizio Storti. Niente altro. Fedele sapeva che si sarebbe dovuto sentire onorato per l’invito: non capitava a tutti di poter entrare addirittura in casa dell’amministratore, per parlare di un lavoro. Eppure non si sentiva onorato, né tranquillo. Era come se un tifone si stesse addensando attorno a lui, ma non sapeva il perché.
Immaginazione, si disse. Questo, e magari un comprensibile dispiacere per la sorte del collega, che proprio lui aveva consegnato nelle mani di Storti. Perché il secondo evento della giornata cominciò in mensa, ma prese corpo e sostanza solo alla fine della pausa caffè, mentre ognuno ritornava nel proprio ufficio per il lavoro pomeridiano.
L’architetto Ettore Manovali era assente.
Di per sé, la sua assenza non avrebbe dovuto stupire nessuno, che conoscesse il modo in cui le cose funzionavano oggi, nella società. A maggior ragione, non avrebbe dovuto stupire Fedele, che ormai era diventato un esperto in questo campo. Eppure lo stupì. Dopo il messaggio dell’amministratore, era chiaro che anche l’architetto Manovali avesse fatto la fine di Rossi e di tutti gli altri che avevano commesso errori o imprudenze. Era chiaro, logico, inevitabile. Eppure, quando in mensa vide che al tavolo degli architetti un posto era vuoto, qualcosa gli tolse l’appetito.
«Farai mica la dieta, nè?» L’ingegnere Sala lo fissava col suo classico sorrisetto, che istigava alla violenza fisica ogni suo ascoltatore. «Già che non ti farebbe mica male, con quella pancetta...»
Fedele lo guardò, valutò se fracassargli la saliera in fronte sarebbe stata una mossa vantaggiosa per il mondo, concluse che sì, sarebbe stata vantaggiosa per il mondo ma non per Fedele Innocenti, così gli sorrise a fatica. «No, è che non mi sento molto bene. Ho lo stomaco sottosopra.»
«Te la fai sotto perché il capo ti ha chiamato, va là!» E giù una pacca sulla schiena. Ecco un’altra cosa che Fedele non aveva ancora capito. Erano passate due ore circa da quando aveva ricevuto il messaggio di Storti, non ne aveva parlato a nessuno, eppure la voce era già diffusa ovunque. Prodigi della modernità, o forse di un collega dallo sguardo molto lungo.
Sospirò, posando la forchetta accanto ai resti del filetto. Tutti si complimentavano con lui, come se avesse vinto alla lotteria. Tutti gli davano pacche, gli stringevano mani, lo sgomitavano, facevano battute di ogni tipo sulla sua promozione. Ma non c’era ancora nulla di chiaro, nulla di detto: sapeva solo che l’amministratore lo aveva convocato a casa sua la domenica mattina, per discutere. E non c’erano accenni ad altro, il che non era proprio un buon segno, dal suo punto di vista. Ma forse era solo pessimismo, o la tensione per l’ennesimo incarico orrendo che aveva dovuto sbrigare.
Guardò di nuovo verso il tavolo degli architetti, sforzandosi di ignorare Sala, Mangiapane e tutto il resto della sgradevole compagnia d’ufficio. Il tavolo era sempre il tavolo, gli architetti erano sempre gli architetti, Carlo Baiocchi mangiava come un ossessivo compulsivo, Sergio Ruopolo mangiava come qualcuno tornato da una settimana di penitenza nel deserto, Alberto Graziani mangiava come il padrone della mensa e di mezza città. E la sedia vuota restava vuota.
Fedele Innocenti si era già sentito così, dopo il caso di Annibale Rossi, ma adesso era peggio. Era stato sempre peggio, dopo ogni collega consegnato all’amministratore, ma quel venerdì aveva forse raggiunto l’apice dell’abisso. Non era sicuro di poter reggere. Non era sicuro di cosa sarebbe potuto succedere domenica, in casa dell’amministratore. Se avesse ricominciato a ghignare, come quando gli aveva consegnato il plico... No, meglio non pensarci.
Durante la pausa caffè, si avvicinò furtivo a Baiocchi, mentre gli altri facevano capannello attorno a Graziani junior. Fedele fissò i piedi del collega, si schiarì due volte la voce e parlò.
«Ho notato che oggi manca Manovali» disse. «Per caso si sente poco bene?»
Carlo Baiocchi lo guardò come un insetto, appoggiando la tazzina. «Non saprei, non ha detto niente e non ha avvisato nessuno» rispose. «Aveva bisogno di lui?»
«No, no, si figuri. È solo che non l’avevo visto in mensa, come al solito, e così ho pensato che forse potesse essersi ammalato. È una persona molto puntuale, mi pare di aver capito...»
«Sì, è abbastanza puntuale» rispose Baiocchi, piegando le labbra in segno di dubbio. «Ma oggi non c’è e non ha lasciato detto nulla. Evidentemente, non è poi così preciso come lei crede.»
Oppure non gli hanno lasciato il tempo, pensò Fedele. «Beh, capisco» rispose invece. «La ringrazio per l’informazione e mi scuso per il disturbo.»
«Nessun disturbo» disse Baiocchi, riprendendo la sua tazzina. Dalla velocità con cui si allontanò da lui, a Fedele fu piuttosto chiaro che il disturbo invece c’era stato. Pazienza! Tornò in ufficio senza aspettare Sala: per oggi ne aveva abbastanza delle sue pacche e delle sue storielle sconce. Preferiva un po’ di solitudine e tranquillità, per liberarsi la testa da pensieri inutili. Quello che è fatto e fatto e non aveva senso tormentarsi con la sorte di Manovali: era stato un caso di mors tua vita mea, niente più che la legge della giungla aziendale. Non aveva avuto scelta.
Così, per il resto del pomeriggio, Fedele Innocenti sedette alla scrivania e pensò ad Annibale Rossi, il suo primo vero caso di coscienza lavorativa. Era agli inizi della carriera in azienda, assunto solo da cinque anni e ancora sotto la tutela morale del suocero. Il suo ufficio era sei piani più in basso e lo divideva con altri impiegati qualsiasi, facce anonime su una sedia, con cui scambiare una parola di tanto in tanto, ma niente di più. Aveva sempre avuto difficoltà a legare con la gente e in azienda, mondo per lui misterioso, si sentiva un uovo fresco in un microonde, pronto a esplodere alla prima accensione. Non era il luogo adatto a lui, ma doveva adattarsi per campare.
Una mattina di gennaio era arrivato prima del solito. Credeva di essere il primo, ma si sbagliava. In ufficio, seduto al computer, c’era un suo sottoposto: Annibale Rossi, un giovanotto assunto da poco, fresco di laurea e ancora un po’ ribelle di abbigliamento. Con tutta probabilità, anche Rossi pensava di essere solo in ufficio e anche lui si sbagliava. La differenza fu solo nella qualità dell’errore.
Annibale Rossi, al sicuro nella sua incoscienza, visitava siti proibiti sul posto di lavoro. Come se fosse a casa sua. Siti che in teoria non avrebbe dovuto neppure poter visitare, coi filtri che avevano in azienda, eppure lui li visitava lo stesso. Il che significava che aveva anche manomesso in qualche modo il computer, per aggirare la protezione.
Fedele aveva vissuto un momento dell’io. Il suo sottoposto non si era ancora accorto di avere una persona alle spalle, che lo aveva colto sul fatto. Fedele avrebbe potuto avvisarlo, ammonirlo, fare finta di niente e chiudere un occhio. Nessuno lo avrebbe saputo. Le sue mani invece tolsero di tasca il cellulare, lo puntarono contro Rossi e filmarono la scena. Perché? In seguito se lo sarebbe chiesto molte volte, senza trovare una risposta. Forse il demone della perversione, l’innata malvagità umana, un impietoso senso di giustizia, oppure l’ombra del suocero e del consigliere Storti, i suoi due padri spirituali che lo dominavano anche a distanza, imponendogli la loro volontà.
Forse fu proprio quell’ultima spiegazione, perché la mattina stessa Fedele mandò un messaggio al consigliere Storti, per avvisarlo di quanto avvenuto. Un messaggio con video in allegato. Due giorni dopo, Storti lo riceveva nel suo ufficio e lo promuoveva, con adeguamento di stipendio. Annibale Rossi, invece, era scomparso. Forse licenziato, forse trasferito: a nessuno importava e nessuno se lo chiese. Se lo chiedeva a volte Fedele Innocenti, ma non aveva mai voluto trovare una risposta.
Se lo chiese in quel pomeriggio di fine giugno, quando un altro dipendente era sparito per merito di una sua soffiata. Ettore Manovali, stavolta. Chissà come sarebbe stato orgoglioso di lui, l’avvocato Bianchi! In caso di nuova promozione, non era escluso che gli organizzasse una festa, per mostrare a tutti la bravura e la lungimiranza di chi lo aveva fatto assumere. Si sarebbe mai liberato dalla sua ombra? Avrebbe mai smesso di fargli pesare l’assunzione, quell’amore di suocero?
La risposta era no e lo sapeva benissimo. Poteva solo rassegnarsi e aspettare che la natura facesse il suo dovere. Così si rassegnò, mentre il pomeriggio gli scorreva attorno e due piani sopra una sedia era vuota, nello studio degli architetti. La parte peggiore della giornata doveva ancora arrivare, ma Fedele non lo sapeva, né lo avrebbe mai immaginato, ed era molto meglio così. Per il momento, si poteva almeno abbandonare al lavoro, cercando di non ascoltare i propri pensieri.
Neppure Eva Bianchi poteva immaginare come si sarebbe conclusa quella giornata. La mattina era stata tranquilla, a tratti noiosa. Aveva fatto le solite pulizie in casa, cambiato le lenzuola, lucidato i pavimenti e insomma tutte quelle cose che possono rendere sgradevoli anche le ore più belle. C’era stata poi la spedizione al centro commerciale, per la spesa di rito, e al ritorno si era fermata per un po’ nell’atrio, a parlare con Luca Tarca. Sembrava che qualcosa non andasse, con lui.
«Ma sei sicuro di star bene?» gli aveva chiesto alla fine. «Scusa se te lo dico, ma facce come la tua non si vedono spesso, fuori dagli obitori...»
«Carina come sempre, eh?» le aveva risposto, sorridendo. «È un paio di notti che dormo da schifo, niente di grave. Sarà il clima, forse.»
«O forse sarà che non fai movimento. Vieni con me oggi pomeriggio e poi vedrai come dormi!»
Tarca alzò una mano. «Grazie, ma preferisco passare. Le scale sono più che sufficiente, per tenermi in forma. E poi mi scotterei subito, là fuori.»
Eva non aveva insistito oltre. L’aspetto di Luca non le piaceva, sembrava qualcosa che si era fatto un giro nello stomaco e poi ne era uscito dalla parte sbagliata. Dopotutto, però, non aveva mai l’aria molto sana, neanche quando stava bene. Così l’aveva salutato ed era salita con la spesa.
Dopo pranzo, la metropolitana l’aveva portata fino ai limiti estremi dell’area urbana. Era scesa alla stazione, aveva aspettato circa tre minuti nell’afa soffocante e fetida del primo pomeriggio e poi era spuntata la sagoma di Anna in tandem, una visione sufficiente a ridurre la temperatura di dieci gradi. Con un sospiro e un paio di battute, era salita dietro l’amica, per affrontare la consueta sfida mortale, due donne e un rottame di alluminio contro il fiume incessante di auto. Avevano vinto.
Nei campi, i lombrichi lavoravano sodo e la terra in cui si erano stabiliti aveva adesso un colore che, con qualche licenza poetica, si sarebbe potuto definire quasi normale, o almeno sano. Ancora troppo presto per provare a piantarci qualcosa, certo, ma tutti lo consideravano un buon segno.
«Potrebbe essere la volta buona» aveva detto Rainieri, il botanico, stringendosi nelle spalle. «Non lo sapremo con certezza per almeno un’altra settimana, ma forse un passo avanti lo stiamo facendo. O almeno possiamo credere che lo sia, male non ci farà di sicuro.»
A loro bastava così. Guardavano la porzione di campo in cui avevano liberato i lombrichi, come se fosse la cosa più bella del mondo. Per certi versi, lo era, soprattutto in una zona in cui il resto era un alternarsi di giallo, grigio, capannoni sfatti e fossili di cemento o plastica.
«Chissà con cosa li hanno fatti, quei lombrichi» aveva detto Anna Bruno, le mani posate sui fianchi asciutti. «In questa terra ci sono tante di quelle schifezze chimiche, che la potresti quotare in Borsa! E loro la filtrano tutto il giorno. Devono essere immortali...»
«Non chiedere a me, non sono entomologa» aveva risposto Eva. «Per me, basta che funzionino.»
Funzionavano così bene, che stavano preparando un altro campo, quel pomeriggio, quando l’auto di Paolo Esposito arrivò. C’erano a bordo due passeggeri, che nessuno aveva mai visto.
«E quelli chi sono?» chiese Anna, rialzandosi dal lavoro.
Eva scosse la testa, non ne aveva idea. Una donna, che poteva avere un paio di anni meno di lei, e un bambino sui quattro o cinque, entrambi vestiti da città, senza cappello e senza mascherina. Non le pareva una scelta molto saggia, chiunque fossero. Vide infatti Rainieri correre da Esposito, il loro guardiano, probabilmente per chiedergli chi avesse portato e perché li avesse portati. La sua ombra di totem oscurava gli ospiti.
Se glielo disse, loro non lo sentirono. Rainieri annuì, guardò meglio i nuovi arrivati, poi fece loro un cenno e li accompagnò nella fattoria, al riparo. Esposito andò con lui. Gli altri, nei campi, avevano sospeso il lavoro, per osservare curiosi la scena insolita. Non c’erano mai sconosciuti che venissero lì: prima di tutto perché non era saggio che qualcuno studiasse da vicino il loro lavoro, ma anche perché a nessuno piaceva starsene all’aperto, specie in estate.
Perché Esposito li aveva portati alla Rinascita? Erano suoi parenti, per caso?
Lo seppero più tardi, quando Rainieri uscì e li radunò nella cucina. Dovevano parlare. A Eva tutto questo non piacque. Era una novità e le novità non promettevano mai niente di buono, non da quelle parti. Fu un sollievo scoprire che anche l’amica la pensava come lei.
«Quei due sono un guaio» disse Anna, mentre camminavano insieme verso la cucina. «Non che ci vogliano danneggiare, ma ci porteranno problemi lo stesso. Spero solo non sia successo qualcosa di grave a qualcuno. Ci mancherebbe solo questo.»
Si guardarono attorno, entrambe, e fecero la conta degli assenti. Mancavano in tre, quelli che non si potevano assentare durante la settimana, perché avevano lavori di ufficio o un negozio da gestire. Renato, Ettore e Tiziano: che fossero i familiari di uno di loro? Speravano di no, perché significava una sola cosa: che a uno di loro era capitato un guaio.
E il guaio era successo. Nel fresco artificiale della cucina, Samuele Rainieri presentò agli altri i due ospiti: la donna si chiamava Rossella Scarpa, il bambino Paride Manovali. Non ci fu alcun bisogno di specificare che erano moglie e figlio di Ettore, il loro compagno. Ci fu però bisogno di spiegare perché Paolo li avesse portati lì, a metà pomeriggio di un venerdì lavorativo.
Rossella lo raccontò in breve, con l’aiuto di Samuele. Non c’era molto da raccontare, in fondo. Nel silenzio del gruppo, spiegò che quel mattino Ettore era uscito come al solito per andare al lavoro, in perfetto orario. Verso le undici, un collega aveva telefonato a casa, un certo Sergio Ruopolo, con un accento strano. Lei aveva risposto, ma era stato un dialogo breve.
«Buongiorno, scusi il disturbo, ma sono un collega di Ettore. Come mai oggi non si è presentato in ufficio? Per caso è malato? Perché avevamo un lavoro da terminare con urgenza e...»
Ma Rossella aveva già smesso di ascoltare. Aveva risposto meccanicamente, con parole che adesso non ricordava neppure, poi era cominciato il panico. Nel condominio, soltanto uno lo aveva visto uscire, quella mattina, mentre ritornava da una passeggiata col cane. Diceva di averlo visto salire su un’auto ufficiale, piuttosto costosa, ma non aveva idea di chi ci fosse con lui. Nient’altro.
Nel pomeriggio, era passato di lì Esposito, per lasciare due pacchi per Ettore. Lei gli aveva detto ciò che sapeva, chiedendogli se avesse notizie del marito. Paolo Esposito ci aveva riflettuto per un po’, aveva fatto una telefonata a sua volta e poi aveva caricato in auto lei e il bambino, per portarli lì.
«E ha fatto bene» aggiunse a quel punto Diego Zorro. «È facile che qualcuno abbia fatto la spia sul suo lavoro qui in fattoria. Lo avranno preso per questo. Meglio che restiate qui anche voi, almeno per un po’. Sarete più al sicuro, non si sa mai.»
Annuirono. Quando Rossella aveva accennato all’auto ufficiale, il pensiero era stato lo stesso per tutti loro. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima, purtroppo. Nessuno contava di vedere ancora Ettore Manovali, anche se non ebbero il coraggio di dirlo alla moglie. Era il rischio che tutti correvano, soprattutto adesso che avevano cominciato a trafficare con lombrichi modificati.
La più sconvolta fu Eva Bianchi. Rimase in silenzio per tutto il tempo, fissando il tavolone di legno sintetico, e ogni tanto si controllava le mani, come a voler verificare di avere ancora tutte le dita. La testa le suggeriva brutti pensieri, a cui avrebbe preferito non credere. Temeva il momento in cui gli stessi pensieri avrebbero attraversato la mente di Rossella, spingendola a fare la domanda a cui Eva non avrebbe saputo rispondere. Alla fine la domanda arrivò, ma non da Rossella.
«Eva, tuo marito lavora con Ettore, no?» le chiese Diego, girandosi verso di lei. Anna gli scagliò un fulmine virtuale, ma per sua sfortuna i fulmini virtuali non possono ancora incenerire le persone.
«Lavora nella stessa azienda, sì, però sono in uffici diversi. Non so neanche se si conoscono.» Eva giocherellava con la fede all’anulare sinistro, mentre guardava dovunque non ci fossero altre facce o altri occhi. Aveva una sensazione terribile su quale potesse essere il lavoro tanto brutto, che per due settimane aveva tormentato Fedele e di cui non le aveva mai voluto dire nulla.
«La prego, potrebbe chiedere a suo marito?» intervenne Rossella. La voce la collocava alle porte di una crisi di pianto, peraltro comprensibile. «Magari ha sentito qualcosa, non so, qualche problema in azienda! Una qualche voce! Anche se non si conoscono, magari...»
«Proverò a chiedere» rispose Eva. «Non è detto che ne sappia qualcosa, ma magari sì, qualche voce in azienda potrebbe essere girata. Non le assicuro niente, però.»
«Non si preoccupi, grazie lo stesso! Basta anche una parola, per me...»
Eva si morse le labbra. Di parole ne avrebbe fatta dire più di una a Fedele, quella sera. Sapeva cosa fosse successo anni prima, con un altro suo collega, ed era stato forse l’unico vero litigio della loro vita matrimoniale. Stavolta era possibile che avrebbero fatto il bis, se davvero era andata come lei sospettava. Era quello che gli aveva chiesto, il suo capo? Che facesse sparire Ettore, come aveva già fatto con quell’altro dipendente? E con chissà quanti altri, pensò, sospirando tra sé.
«Potrebbe anche non essere una questione di lavoro» intervenne Anna Bruno. «E comunque, non è questa la cosa più urgente. Vi fermerete qui per un po’, giusto per sicurezza. Non è un gran posto e non siamo abituati ad accogliere ospiti, ma una stanza o due la troveremo, al piano di sopra. E non ti preoccupare, faremo il possibile per scoprire che fine ha fatto Ettore. Intanto» aggiunse alzandosi in piedi, «andiamo a preparare una stanza. Venite, su!»
La seguirono in tre, Eva rimase seduta al tavolo, in silenzio
Sì, quella sera ne avrebbero discusso. Ne avrebbero discusso a costo di tirare giù la casa. Ettore o no, c’erano questioni di lavoro accettabili e altre che non potevano essere accettate. Avrebbero discusso a lungo, sì. Ma com’era possibile che Fedele fosse diventato così? Com’era possibile che lo avesse accettato senza dire nulla? Era questo il problema maggiore. Ma lo avrebbe risolto, altroché!
Ignaro di tutto, Fedele Innocenti ritornava dalla giornata peggiore della sua esistenza lavorativa. Il messaggio dell’amministratore prometteva premi, ricompense e gloria, d’accordo, ma a quello non pensava più. Era accaduto in un altro mondo, a un’altra persona. Adesso, pensava solo alle facce dei colleghi, man mano che si diffondeva insieme la doppia notizia: Manovali scomparso e Innocenti convocato a casa di Storti. Non ci voleva Einstein a fare due più due.
Nessuno gli aveva detto niente, nessuno aveva anche solo abbozzato lontane allusioni alla storia, ma tutti lo guardavano a disagio. Sapeva già di non essere amato in azienda, ma non sapeva ancora fino a che punto. Lo scoprì quel giorno, negli occhi e nelle facce dei colleghi. Persino Sala, tra una pacca e l’altra, lo trattava come se stesse incubando qualche malattia sospetta.
«E cosa avrei dovuto fare, dire di no all’amministratore?» avrebbe voluto gridare. «Gli avrei dovuto dire di arrangiarsi da solo? Mi ha dato un ordine e io l’ho eseguito. Dovevo eseguirlo.»
Rimase invece in silenzio. Sopportò il resto della giornata con la faccia più falsa che riuscì a trovare, nascosto dietro sorrisi di circostanza, e aspettava solo che l’incubo finisse. Tempo una settimana al massimo e l’avrebbero dimenticato: era successo in passato e sarebbe successo in futuro. Ma come era difficile aspettare così a lungo, lì in mezzo! Anche il segretario Tombini lo fissava, in un angolo, e sogghignava sarcastico. Il suo disprezzo era scritto in caratteri da locandina cinematografica. Un brindisi al verme del padrone, sembrava dirgli, coi suoi occhi da pecora.
Scendendo dalla metropolitana, Fedele aveva un solo desiderio: staccare. Staccare tutto, rilassarsi in poltrona e dimenticare il lavoro, l’ufficio, l’amministratore. Sognava la pace di casa, magari parlare un po’ con Eva del più e del meno, tutte questioni accuratamente banali e prive di importanza, e poi abbandonarsi a un sano oblio, che lo lasciasse fuggire dalla realtà. Non era stato un bell’incarico, il suo, ma lo aveva concluso e adesso voleva solo dimenticarne l’esistenza.
Nell’atrio del condominio non c’era nessuno e ricordò di non aver ancora ringraziato a dovere Tarca. Ci avrebbe pensato domani, semmai. Nel pomeriggio, avrebbe avuto tutto il tempo. L’ascensore lo scaricò al terzo piano, pochi passi lo portarono davanti all’amata porta di casa, con crocifisso bene in vista. Arrivato, finalmente! Poi entrò nell’appartamento e scoprì che il peggio non era indietro.
Il peggio era l’espressione di Eva, quando lo vide entrare.
Non gli disse nulla. In silenzio, sistemava la tavola, tornando ogni tanto ai fornelli per un controllo della cena. Sullo sfondo, la televisione riempiva l’aria di rumore, ma serviva solo a sottolineare il silenzio di Eva. A Fedele tutto questo non piacque. Cosa era successo? Aveva forse telefonato quel caro individuo dell’avvocato Giulio Bianchi, per lamentarsi di qualcosa? Non sarebbe stata la prima volta, ma non aveva senso! Fedele aveva appena concluso al meglio un lavoro difficile. E dunque? Ne aveva combinata una anche a casa? Non gli sembrava. Sedette a tavola, con cautela.
La cena si svolse tranquillamente, ma nessuno dei due la apprezzò. Fedele sentiva che il temporale era nell’aria e si aspettava da un momento all’altro il primo tuono. Eva, invece, mangiava in totale silenzio, con gli occhi fissi sulla tavola. Toccava a lui fare la prima mossa e aprire le ostilità? O era meglio fare finta di niente e vedere se fosse riuscito a scamparla? Nel dubbio, Fedele si astenne.
Dopo cena, si sistemò come al solito in poltrona, mentre Eva sparecchiava e spazzava. Il notiziario in televisione parlava di un altro attentato nel Myanmar, stavolta a un’ambasciata europea, ma erano fatti lontani, remoti, che precipitavano come foglie morte nel silenzio della sala, soffiate dal pesante accento milanese dell’annunciatore. Perché proprio quando volevo solo riposare?, si chiese Fedele in un sospiro, ma non c’era una risposta; non c’erano mai. Le cose succedono e basta e succedono sempre quando meno le vorresti. È una legge di natura, forse, o una legge di Murphy.
Così, dopo aver caricato la lavastoviglie, Eva sistemò una sedia davanti alla poltrona del marito e si sedette a braccia incrociate, fissandolo in faccia. «E adesso ne parliamo.»
Fedele sospirò mentalmente. «Di cosa?» chiese, tentando un abbozzo di sorriso conciliante.
«Del tuo lavoro.»
«Ah...» L’umore gli precipitò in un istante al livello dei talloni o giù di lì. Poteva quasi sentirlo che si dimenava sotto le ciabatte, come un pesce che soffoca sulla sponda. Avrebbe preferito discutere delle prospettive di cura per il cancro al colon, piuttosto che del suo lavoro.
«E dell’incarico che ti hanno dato un paio di settimane fa, quando sei tornato a casa con la faccia da morto. Ricordi?» continuò Eva, con la determinazione di un’incudine in caduta libera.
«Non mi hanno dato nessun incarico...» cercò di mentire Fedele. Eva lo troncò con un gesto.
«Ettore Manovali. Lo conosci, per caso?» gli chiese, fissandolo.
Il volto del marito si tinse del colore del cielo. Dove aveva sentito quel nome, sua moglie? E perché se ne saltava fuori con quel discorso? Che fosse stato Tarca a raccontarle tutto?
«Te ne ha parlato Tarca, per caso?» le domandò con voce non proprio sicura.
«Ah, così lo sa anche lui?» Eva sembrava quasi ridere, adesso. «Ti confidi col tuo vicino di casa e non con tua moglie? Interessante. Non è che stai cambiando sponda, eh? Oppure no, ti fidi di più di uno che abita due piani sopra di te, che non della persona che abita assieme a te da dieci anni e che, casualmente, hai pure sposato? Molto interessante. Continua, ti prego.»
Fedele passò dal bianco al rosso, per tornare al bianco e stabilizzarsi su un verdognolo malsano, che nel complesso lo faceva assomigliare a un semaforo difettoso. Si sarebbe strappato molto volentieri la lingua. «Non è una questione di fiducia» disse infine.
«Non è una questione di fiducia? E allora che questione è? Raccontami un po’ questa storia, su!»
«L’architetto Manovali lavora in azienda da me. Ha l’ufficio al ventiduesimo piano, assieme ad altri colleghi. Non lo conosco molto, lo vedo solo in mensa e nelle pause, ogni tanto.»
«Tutto qui? Non ti sei dimenticato qualcosa? Qualche piccolo particolare, dai... come il fatto che oggi non sia venuto al lavoro, per esempio.»
Altra pugnalata nella schiena di Fedele. «Beh, sì, può darsi che oggi fosse malato, non saprei. Ma te l’ho detto, lo vedo solo di tanto in tanto, bisognerebbe chiedere ai suoi colleghi» rispose, fingendo indifferenza e distacco. Non ci riuscì molto bene.
Eva cambiò posizione, mordendosi le labbra. «Cosa gli hai fatto?» chiese, con una voce che poteva essere di chiunque, tranne che la sua.
«Non gli ho fatto niente, ti dico! Non capisco...» tentò di protestare Fedele, ma la moglie lo troncò di nuovo con un gesto secco. Tacque.
«Tu non ti muovi di qui finché non mi hai raccontato tutto. Non me ne frega niente se sei stanco, hai mal di stomaco, mal di testa o altro. Adesso mi racconti tutto, una buona volta. O devo andare anche a chiamare Luca, come persona informata dei fatti? Visto che con lui hai parlato...»
Fedele chiuse gli occhi, respirò a fondo, condusse una breve lotta contro se stesso e come al solito la perse. «Non puoi capire» le rispose. «Sono questioni di lavoro.»
«Non posso capire? Allora spiegamelo tu! Ho tutto il tempo che vuoi. Ti ascolto. Spiegami queste famose questioni di lavoro, che io non posso mai capire. Oppure io non sono intelligente come il tuo caro Tarca e non arriverei mai a capirle, eh?»
Fedele guardò in faccia Eva, per la prima volta dall’inizio della discussione. Non scherzava. Era arrabbiata come poche volte l’aveva vista ed era anche molto più viva del solito, con le guance arrossate e gli occhi accesi. Assomigliava molto a com’era quando l’aveva conosciuta, ma non era il caso di farle complimenti, adesso, sperando di cambiare discorso. Se lo sarebbe mangiato intero, come minimo. Così si arrese, consegnandosi al suo destino crudele. Che schifo di giornata!
«Tu cosa sai di Manovali?» le chiese, abbassando gli occhi.
Eva lo fissò, comprimendo le labbra. «So che è uscito per andare al lavoro, ma al lavoro non è mai arrivato. Dicono però che stamattina sia salito su un’auto ufficiale, ma nessuno lo ha più visto e sua moglie adesso è abbastanza disperata e ha dovuto abbandonare la casa.»
«Chi ti...» cominciò Fedele, prima di capire che era una pessima mossa. Meglio rifare tutto. «Io non so cosa gli sia successo stamattina, però sì, il mio incarico riguardava lui. È stato l’amministratore a chiederlo, io non sapevo niente di Manovali, prima di questa storia. Era solo una faccia.»
«L’amministratore, già. E cosa ti ha chiesto, di preciso?»
«Due settimane fa mi ha convocato nel suo ufficio, ha detto che circolavano voci strane sul conto di Manovali e mi ha ordinato di scoprire tutto. Ha anche minacciato di licenziarmi!» aggiunse, come a rafforzare la sua posizione e alleggerire la responsabilità.
Non funzionò. Eva non batté ciglio, come se il licenziamento del marito non significasse niente per lei. «E tu hai obbedito» disse soltanto, mentre la tv, sullo sfondo, parlava e parlava.
«Dovevo! Sai cosa sarebbe successo, se no?»
«Che Ettore Manovali sarebbe ancora con la sua famiglia. Invece lo hai fatto sparire.»
Fedele sbuffò. «Non l’ho fatto sparire io. L’altroieri ho consegnato tutto e al resto ci hanno pensato altri. Non sono certo un poliziotto, io.»
«Ma lo hai denunciato tu. Potevi rifiutare.»
Fedele si strinse nelle spalle. «Potevo rifiutare, sì, così mi avrebbe licenziato. E poi avrebbe dato il compito a qualcun altro. Per Manovali non sarebbe cambiato nulla, in compenso adesso saremmo in strada anche noi. E poi glielo avresti spiegato tu, a tuo padre» aggiunse. Nella voce aveva soltanto amarezza, ed era stanco, stanco di quella giornata e di tutto il resto. Finire in fretta, ecco.
Eva rimase in silenzio per un poco. «Ma hai distrutto una famiglia» disse poi, «e ne hai messe molte altre in pericolo, che ti piaccia o no. Lo sai questo?»
«Una famiglia che era già condannata. Se non fossi stato io, sarebbe stato un altro, ma intanto avrei distrutto anche un’altra famiglia. La nostra. Mi avrebbe licenziato davvero, se avessi disobbedito.»
«Potevi sempre trovare un altro lavoro.»
«Fosse solo quello il problema...»
«E allora qual è il problema? In ogni caso, sei tu che hai accettato e sei tu che hai portato a termine il tuo incarico. Avresti putto rifiutare, invece lo hai voluto tu. Non scaricare le tue responsabilità!»
«Credi che mi sia piaciuto?» rispose Fedele, cominciando a scaldarsi. «L’ho fatto perché lo dovevo fare! L’ho fatto per avere un futuro! Tuo padre...»
«E smettila con mio padre!» lo interruppe Eva. «Tu lo hai scelto, tu lo hai fatto e la responsabilità è tua! Dove sono finiti tutti i bei discorsi che facevi una volta, eh? Com’è che dicevi, scusa? Siamo liberi di agire come vogliamo, purché ci assumiamo sempre la piena responsabilità di ogni nostra azione, nel bene e nel male, e ne accettiamo tutte le conseguenze, prevedibili e non. Quante volte lo hai ripetuto, quando eravamo più giovani? O te lo sei dimenticato, la testa che mi facevi?»
«Ascolta...»
«Tu lo hai condannato ed è colpa tua se adesso è sparito! Perché non glielo vai a spiegare, alla sua famiglia? Chissà come saranno contenti di sentire i tuoi discorsi... Non è colpa mia, io ho fatto solo quello che mi ha chiesto l’amministratore. Dovevo farlo.» Eva era riuscita a non urlare fino a quel momento, tenendosi su un volume piuttosto basso, ma sembrava molto vicina ad alzarlo. Sembrava anche molto vicina alle lacrime, cosa insolita per lei. Fedele non capiva il perché.
«Manovali si è condannato da solo» rispose, cercando di rimanere calmo. «Aveva una famiglia, lui, e poteva fare una vita normale. Invece ha scelto di agire contro la legge, sapendo che così avrebbe messo in pericolo anche la sua famiglia. Non deve assumersi anche lui le proprie responsabilità, nel bene e nel male? O vale solo per me? E poi scusa, che cos’ha di tanto importante questo Manovali, di punto in bianco? È una persona qualunque.» Il suo tentativo di rimanere calmo stava fallendo, ma non ci fu il tempo per rimediare o preoccuparsene. Eva scoppiò prima di lui.
«Vaffanculo!» gli urlò in faccia, forse per la prima volta da quando la conosceva. «Ettore era mio amico e tu lo hai distrutto! Contento, ora? Vuoi una medaglia? Hai fatto proprio un bel lavoro, vai a festeggiare con quel porco del tuo amministratore, adesso! Non te le sei portate, le paste?»
Fedele fissava ancora la sedia a bocca aperta, quando la porta della stanza privata di Eva si chiuse, sbattendo da far tremare i muri. Se n’era andata, abbandonando la discussione. Peggio ancora, stava piangendo, quando si era alzata dalla sedia, per fuggire in camera. E lui non ci aveva capito nulla. E lui ancora non capiva cosa significasse tutto quanto.
Capiva solo una cosa: quello era stato il giorno più brutto della sua vita, superando anche il famoso viaggio con l’avvocato Bianchi. Quando si alzò per spegnere il televisore e ritirarsi nella sua stanza, chiudendo la bocca a una specie di presentatrice con più trucco che vestiti, Fedele pregò che tutto si potesse risolvere senza danni gravi. Qualunque cosa potesse avere a che fare Manovali con Eva, qualunque tipo di amicizia potesse esserci tra loro, comunque si fosse mai potuta costituire, per Fedele bastava solo che tutto potesse tornare a posto, come prima.
Ripensò al sabato passato in campagna, o in quella che poteva definirsi campagna, con uno sforzo di fantasia. Ripensò alle figure chine sul terreno, a infilare vermi in un suolo moribondo e disfatto. C’erano Manovali, un tizio grande e grosso, altri uomini ma anche donne, tre o quattro. Ripensò al particolare del terriccio sul pavimento, quando domenica sera era rientrata Eva. Poi cancellò tutto e si strinse nelle spalle. Non aveva importanza. Bastava solo risolvere tutto e dimenticare. Al diavolo quel Manovali, che gli aveva provocato più danni di un terremoto. Risolvere e dimenticare.
Questo continuava a ripetersi, mentre si avviava verso il bagno, per affogarsi nel freddo della doccia, sperando che con lo sporco se ne andasse pure la depressione. Che tutto torni come prima, che tutto torni come prima. Non chiedeva altro.
Come succede spesso, la sua preghiera non fu esaudita.