Adriano - racconti e altro

Orizzonti di plastica

Capitolo ottavo

Sabato ventotto giugno, Fedele Innocenti si svegliò presto da una pessima notte. Aveva mal di testa, aveva dormito male e aveva dormito solo. Guardando l’orario, che gli appariva come uno shangai di barre luminose, pensò se fosse il caso di darsi malato e saltare il lavoro. Era sabato e sarebbe stato impegnato solo al mattino. Poi vide la metà vuota del letto e cambiò idea. Meglio andare in ufficio, fuggire per un poco dalla realtà. Al ritorno, magari, le cose sarebbero migliorate.

Eva non era uscita dalla sua stanza privata. Non l’aveva più vista, dopo il litigio della sera prima, e ancora non capiva bene cosa fosse successo la sera prima. Era amica di Manovali, o almeno così gli aveva detto, ma era fuggita prima che lui potesse chiedere spiegazioni o anche solo riprendersi dallo shock delle lacrime. Eva non piangeva quasi mai. Cosa poteva essere?

Ma non l’avrebbe saputo, non quella mattina. Magari passerò da Tarca a chiedergli qualcosa, dopo il lavoro, pensò. Sì, poteva essere una soluzione. Tarca ed Eva erano amici, lui ne sapeva certo di più su questa storia. E poi doveva ancora ringraziarlo di persona per averlo salvato due volte. Forse anche Tarca c’entrava qualcosa, nella faccenda di Manovali, ma sentiva di poterlo perdonare, dopo l’aiuto che gli aveva dato. Senza di lui, sarebbe finito in galera, il mercoledì dell’intrusa, e quello era decisamente peggio di un litigio coniugale.

Con questo proposito nella mente, Fedele si preparò, lasciò un biglietto sul tavolo della cucina, uscì e si incamminò verso la stazione. Avrebbero sicuramente fatto pace; se non quella sera, domenica si sarebbe risolto tutto. Domenica in effetti avrebbe avuto anche l’incontro a casa dell’amministratore, ma a questo preferiva non pensare, per adesso. Un problema alla volta. Ringraziò di nuovo il cielo, per non essersi fatto sfuggire nulla sul conto del suocero, anche se c’era andato vicino. Quello sì che avrebbe reso tutto molto più difficile. Impossibile, forse.

E mentre la metropolitana lo trasportava verso l’ufficio, Fedele Innocenti non poteva immaginare che la sua ultima immagine di Eva sarebbe stata un volto in lacrime, che fuggiva da lui.

Neppure Eva Bianchi lo immaginava, uscendo dalla sua stanza privata. Aveva atteso che Fedele se ne andasse al lavoro, perché non se la sentiva proprio di vederlo, in quel momento. La sua era stata una notte pessima, dormicchiando a tratti su una scomoda sedia di legno, e non voleva che anche il mattino facesse altrettanto schifo, con un litigio a colazione. Perché sarebbe certo andata così, se si fossero incontrati a quel punto. No, meglio aspettare e lasciar sbollire l’acqua.

Fedele aveva torto marcio, questo era indubbio. In bagno, Eva riesaminò la serata precedente e non trovò un solo punto in cui il marito avesse più ragione di lei. Ok, doveva concedergli che, almeno in parte, Ettore aveva agito sapendo di poter mettere in pericolo la famiglia e la responsabilità della scelta ricadeva su di lui, ma questo non era un buon motivo per venderlo come un quarto di bue.

Me ne avrebbe dovuto parlare, di quel lavoro, pensò sotto la doccia. Sono sua moglie, non doveva nascondermelo! E poi, cosa avrebbe fatto, lei? Avrebbe avvisato Ettore, per dargli una possibilità di fuggire, mettersi al sicuro, qualsiasi cosa. E pazienza se poi Fedele avesse avuto qualche problema sul lavoro: una vita umana vale più di un problema sul lavoro, soprattutto la vita di un amico.

E magari poteva approfittarne per trovarsi un lavoro migliore, già che c’era. Non aveva mai capito perché Fedele continuasse in azienda: era fuori posto, lì, lo pensava anche lui. Eppure continuava e accettava di svolgere i compiti più schifosi che si potessero immaginare. Perché? Aveva il sospetto che c’entrasse qualcosa suo padre Giulio. Anche la sera prima, adesso che ci pensava, Fedele aveva accennato un paio di volte a lui. Lei però non aveva insistito, preoccupata da altro. E ho fatto male, si disse, asciugandosi. Ho fatto proprio male. Era l’occasione giusta per scoprirlo.

Non l’aveva scoperto: peggio per lei. Poteva ritentare in futuro e così avrebbe fatto. Adesso, invece, c’erano cose più urgenti a cui pensare. Fino al primo pomeriggio, Fedele non sarebbe tornato a casa, ed era meglio: ancora non poteva perdonargli di aver distrutto Ettore. Col tempo, forse qualcosa sarebbe cambiato, ma adesso era troppo fresca la ferita. E poi, doveva risolvere altri problemi.

La famiglia di Ettore, prima di tutto. Eva sistemò la borsa frigo nel congelatore, si preparò lei stessa e uscì a fare la spesa per loro. Forse ci avrebbe pensato anche Anna, ma era meglio non lasciarle un compito come quello: Anna aveva molte qualità, ma si fermavano sulla porta della cucina. Avrebbe fatto tutto lei, invece. Con quel pensiero, anche il centro commerciale era meno squallido.

Rientrando, incrociò Luca Tarca nell’atrio, ma lo ignorò. Non era proprio arrabbiata con lui, ma non era ben disposta nei suoi confronti, quella mattina. Dopotutto, Fedele gli aveva parlato del lavoro e Luca sapeva che lei ed Ettore erano amici. Avrebbe dovuto avvisarla, farle capire in qualche modo quanto stava succedendo. Invece non le aveva detto nulla. Aveva anche lui una parte di colpa in ciò che era successo. Più avanti gli avrebbe chiesto spiegazioni ed era meglio per lui che ne avesse una buona da darle, altrimenti poteva cercarsi subito un buon ortopedico.

Sul pianerottolo, davanti alla porta di casa, si fermò a raddrizzare il crocifisso. Doveva aver sbattuto forte, uscendo, eppure non se n’era accorta. Potenza della rabbia, si disse. Ma era meglio calmarsi e tirare il fiato, per adesso. Arrabbiata, non serviva a nessuno; calma e razionale, poteva fare del bene a qualche persona. Come la famiglia di Ettore, per esempio.

Doveva parlarne con gli altri, raccontare ciò che aveva saputo dal marito. Di certo Samuele e Anna l’avrebbero aiutata, le avrebbero detto cosa fosse meglio fare, sia per Rossella e Paride, sia anche e soprattutto per lei e Fedele. Poteva immaginare la reazione di Anna e la fece sorridere: di certo lei le avrebbe consigliato di utilizzare il ginocchio per discutere col marito, invece della lingua. Diceva che era molto più efficace con gli uomini ed Eva era pronta a darle ragione. Parlarne con loro, però, l’avrebbe aiutata a inquadrare meglio il problema. Che era un bel problema.

Fedele non aveva tutti i torti. Una volta che l’amministratore l’aveva preso di mira, Ettore era finito; faceva poca differenza chi ne avrebbe consegnato la testa, suo marito aveva solo pensato a evitare i guai e obbedire. Istinto di sopravvivenza, l’avrebbero definito altri; vigliaccheria, la definiva lei, a maggior ragione in quel caso. D’altro canto, per Fedele il collega era una persona qualsiasi, quasi un perfetto sconosciuto: perché si sarebbe dovuto preoccupare di proteggerlo o aiutarlo?

Avrei fatto meglio a parlargli del mio lavoro, pensò Eva, mentre riempiva la borsa frigo. Invece gli ho tenuto tutto nascosto e adesso siamo finiti così. Mi arrabbiavo con lui per i suoi segreti, ma non sono stata migliore, io. Dovevamo parlarci di più, tutti e due.

Molto vero, ma non l’avevano fatto e ormai era andata così. Poteva prenderne nota per il futuro, ma per il presente serviva altro. Tanto per cominciare, dovevano occuparsi della famiglia di Ettore; poi avrebbe pensato anche al marito. E forse qualcosa sarebbe migliorato tra loro, dopo quella crisi.

Con un sorriso stanco, si caricò in spalla la borsa, raccolse il cappello e uscì di nuovo. La meta era più lontana del centro commerciale, adesso: era fuori città, dove i mezzi pubblici non arrivavano. In un modo o nell’altro si sarebbe arrangiata. Solito tratto di piedopolitana, poi la metropolitana che la scaricò al capolinea, nella periferia deserta a quell’ora del sabato mattina. Poteva quasi immaginare i cespugli che rotolavano in strada, spinti da un vento altrettanto immaginario. L’autobus fu quasi puntuale e la portò avanti un altro pezzo, il confine ultimo della civiltà urbana. Più in là c’era solo il far west dell’abbandono, la terra di nessuno che separava una città dall’altra. E stavolta non c’erano dei ex machina a darle un passaggio, e neppure deae ex tandem. C’erano i suoi piedi, il margine di una strada larga e trafficata e quattro chilometri di rottami, a separarla dalla fattoria e dagli amici.

Con un sospiro, Eva si aggiustò la borsa in spalla, infilò il cappello di paglia e si avviò a passi larghi sul ciglio della statale, strusciando quasi il braccio contro i capannoni in rovina e gli edifici deserti, di tanto in tanto separati da slarghi improvvisi di nulla ed erbacce rachitiche. Il caldo era orrendo, i piedi le cuocevano sull’asfalto e le auto le sfrecciavano accanto, suonando il clacson come fossero isteriche. Poteva sentire il loro spostamento d’aria, che le agitava i capelli e la faceva tremare. Era orribile, peggio di ogni viaggio in tandem con Anna, anche i più avventurosi.

Non farò più una cosa del genere, si ripeteva a ogni passo. Dovevo chiamare Anna, avvisarla, farmi venire a prendere. Che stupida che sono! Lo era davvero, perché l’amica sarebbe passata di sicuro ad aiutarla, soprattutto se le avesse raccontato i suoi problemi. Bene, altra cosa da annotarsi per il futuro. Non erano ancora le undici e già aveva accumulato una bella lista: chissà quanta saggezza in più l’aspettava, prima di arrivare all’ora di cena.

Non lo avrebbe scoperto. Dietro una curva trovò una sgradevole sorpresa sul suo cammino: un cane morto, travolto da un’auto. Molto morto. Senza mascherina lo avrebbe fiutato prima, così invece lo aveva visto solo all’ultimo minuto. Poveraccio, pensò. Potrei finire così anch’io, su questa strada.

Eva si allargò per evitarlo e fu una pessima mossa. Una mossa da scacco matto. Evitò il cane, ma l’auto in arrivo non evitò Eva. Uno specchietto agganciò la tracolla della borsa termica e la strattonò in avanti per qualche metro, prima che la borsa cedesse e le cadesse dalla spalla. Cadde anche Eva, grattando gomiti e ginocchia sull’asfalto. Bruciavano. Bruciava tutto, lì a terra: odore di asfalto e polvere le riempì le narici, anche attraverso la mascherina. Erano odori di morte e la strada era così nera e ruvida e screpolata, vista da vicino. Erano anni e anni che non le capitava di trovarsi così, con la guancia sull’asfalto. Forse da quando era bambina? Ma non lo ricordava bene.

Cercò di rialzarsi, spaventata e stordita, col sangue che le scorreva sulle mani, mischiato ai sassolini e alla sporcizia. Doveva togliersi di lì e togliersi in fretta. Pensò al cane, poco più indietro. Era una brutta strada ed era una brutta situazione, la sua. Quando sentì il clacson, ebbe giusto il tempo per girare un poco la testa, poi fu troppo tardi per tutto. La seconda auto arrivava a piena velocità. Forse abbozzò una frenata, forse esitò soltanto, forse non se ne curò. Svolse in fretta il suo lavoro, senza uno sguardo per ciò che aveva lasciato sull’asfalto. Neppure sbandò, anche se forse si sarebbe poi dovuto fermare dal carrozziere, a pulire e sistemare il muso del veicolo. Una seccatura.

Che ci faceva poi un pedone, in mezzo alla strada? Era vietato.

Per Fedele Innocenti, tutto ciò che accadde dopo il mezzogiorno del sabato fu un sogno. Un brutto sogno. Un incubo. Fu la realtà. L’avrebbe ricordata solo a tratti, in seguito, ma la visse in uno stato di confusione, da pugile al tappeto. Le cose gli accadevano intorno e lui non sapeva il perché.

Era andato tutto bene, al mattino. Come ogni sabato, c’era poca gente in azienda e poco era il lavoro da sbrigare. Poco o tanto che fosse, però, significava non pensare ad altre cose, almeno per adesso, e al momento era l’unica cosa che Fedele desiderasse. Vi si era dedicato con un’attenzione che non ci metteva più da anni, come se il suo lavoro contasse davvero.

«Hai battuto la testa?» gli aveva chiesto l’ingegner Sala, guardandolo tutto impegnato alla scrivania.

Fedele aveva bofonchiato qualcosa di poco impegnativo in risposta. L’ingegnere non era proprio la persona con cui avrebbe voluto parlare, adesso, e forse lo aveva capito anche il collega: per il resto della mattinata non aveva più detto nulla, non a lui. Parlava però con altri e ogni tanto si sentivano gli echi delle sue risate, nei corridoi.

Poi, più o meno verso mezzogiorno, quando già stava pensando di fare un salto in mensa, perché a casa poteva non esserci un pranzo per lui, ecco il messaggio. Secco, chiaro. Gli aveva attraversato il cervello, cauterizzandolo. Non poteva essere vero, eppure lo era. Ma era falso lo stesso. Sì, doveva essersi addormentato in ufficio, tra una cosa e l’altra, e tutto il resto non era che un sogno.

Aveva quindi sognato di salutare i colleghi, con una faccia che sembrava pronta per essere spalmata sul pane e servita a un malato. Aveva sognato di scendere alla stazione della metropolitana, leggere gli orari e studiare la fermata che gli interessava. Aveva sognato di salire, aveva sognato di sedersi e aveva sognato di uscire alla stazione dell’ospedale privato. Aveva sognato di attraversare il breve tunnel pedonale, aveva sognato di raggiungere l’accettazione e aveva sognato di chiedere notizie sul paziente ricoverato. Aveva sognato che il paziente si chiamava Eva Bianchi.

Ma il paziente non era più un paziente, al suo arrivo. Ormai era solo un corpo. Aveva accompagnato il medico in una stanzetta dalle luci soffuse, aveva guardato mentre quello sollevava il lenzuolo e sì, aveva riconosciuto ciò che rimaneva sotto il lenzuolo. Non era proprio identica a come la ricordava, ma a grandi linee era lei. Aveva accettato la pastiglia che gli offriva l’infermiera, con un bicchiere di acqua fresca. Aveva bevuto il tutto e si era seduto da qualche parte. Poi era rimasto solo.

Era lì che le cose si complicavano. La pastiglia, in effetti, lo aveva fatto rilassare e aveva accentuato l’effetto di essere in un sogno. Fedele non sapeva bene cosa fosse quella medicina, ma forse sarebbe stato meglio chiederne qualcuna di scorta, giusto per precauzione. Era bella, era rassicurante. Anche il corridoio deserto sembrava piacevole, in quel momento, anche le luci così basse. Forse faceva un po’ troppo freddo, in effetti, ma andava bene così.

Poi erano cominciate le voci. Nella sua testa, qualcosa o qualcuno cercava di parlargli, di perforare la barriera del sogno, per trascinarlo a galla. Voci cattive, voci da cui bisognava fuggire. Era tutto un sogno, doveva esserlo, non poteva che esserlo. Perché non aveva senso. Niente aveva senso, né il suo lavoro, né la sua vita, né ciò che aveva fatto fino ad allora. Era un sogno, un brutto sogno.

Eva era morta.

Doveva aver cominciato a piangere, in un qualche momento del pomeriggio, perché ricordava che si era soffiato il naso e asciugato gli occhi, quando aveva sentito i passi e la mano gli aveva toccato la spalla. Una mano solida, un contatto reale. Aveva alzato la testa e Luca Tarca era lì.

Non aveva parlato. Si era seduto un poco distante da lui, le mani giunte in grembo e gli occhi che si posavano sulle piastrelle bianche del pavimento, come se fossero un affresco di Michelangelo. Solo allora Fedele si era accorto che la sua sedia si trovava su un lato della porta; Tarca era seduto invece sull’altro lato e formava assieme a lui una bizzarra guardia di onore, per Eva.

Potevano essere rimasti così per mille anni, o mille secondi. Il tempo non aveva senso, Fedele non lo percepiva neppure: era melassa che lo avvolgeva e lo imprigionava, come un insetto. Il tempo era la cosa sotto il lenzuolo, nella stanza dietro di loro, e aspettava l’attimo giusto per balzargli addosso e trascinarlo di nuovo nella realtà. Non voleva. La realtà era troppo brutta.

Nel silenzio dell’ospedale, gli unici suoni erano i loro respiri e i pensieri che si sforzavano di tenere lontani. Da qualche punto più remoto, arrivava il brusio di sottofondo della vita normale, che anche in quel luogo proseguiva, nonostante tutto. Tacevano.

Era stato Tarca a cominciare, in un momento qualsiasi del sabato pomeriggio.

«Non immaginavo che mi avrebbe preceduto. Soprattutto, non in questo modo.»

Fedele Innocenti lo aveva guardato per un attimo, prima di tornare a fissarsi i palmi delle mani, con l’attenzione di una chiromante. «Vi conoscevate da molto?» aveva chiesto infine.

Tarca si era stretto nelle spalle, piuttosto larghe ma magre. «Eravamo a scuola assieme, al liceo. In classi diverse, ma pur sempre nello stesso edificio. Io ero un anno avanti, sa.»

«Ah.» Guardando il vicino, Fedele aveva pensato che sembrasse almeno cinque anni più vecchio di Eva, ma non aveva commentato. Non era molto importante, adesso.

«Non lo sapeva?» aveva continuato Tarca.

«Non me ne aveva mai parlato. Non abbiamo mai parlato molto, in effetti, specie in questi anni. Ero troppo preso a pensare ad altro, per parlare con lei.» Aveva sospirato, invecchiando di colpo.

«Neanche Eva è mai stata una chiacchierona. Se il silenzio è una colpa, allora non è solo colpa sua, mi creda» aveva detto Tarca, girandosi verso il vicino. «È stato un concorso di colpa, semmai.»

Fedele lo aveva guardato, non aveva detto nulla e poi era tornato a fissare il pavimento. C’era un disegno molto interessante, nella disposizione delle piastrelle. Era ipnotico. Pacifico.

«Parlo sul serio» aveva ripreso Tarca. «Lei forse avrà sbagliato, non parlandole del suo lavoro e non facendo più domande, ma anche Eva le ha nascosto alcune cose.»

Stavolta Fedele lo aveva fissato con maggiore attenzione e un vago segno di attività cerebrale, negli occhi appannati dal dolore e dal tranquillante. Era un sogno, un normale dialogo assurdo da sogno.

«Le hanno detto come è successo, vero? E non si è chiesto cosa ci facesse là sua moglie?»

Fedele ci aveva riflettuto a lungo. Gli avevano detto come era successo? Gli pareva di sì, ma nella mente aveva un’anguilla, che non si voleva far prendere. Era stato... era stato...

«Un’auto» aveva sussurrato. «L’ha investita un’auto. Non pensavo succedesse ancora, alle persone normali. I tunnel sono fatti apposta, no? Così siamo separati dalle auto. È più sicuro.»

«Già, non succede più alle persone normali. Le persone con la carta di identità, il tesserino sanitario e la cittadinanza giusta, insomma.» Il sarcasmo nella voce di Tarca era forte e stonava con il luogo in cui si trovavano. Nessuno ci badò. «Eppure succede ancora, per quelli che abitano in periferia e nelle aree fuori città. O per quelli che vanno da quelle parti, per qualsiasi motivo. Succede spesso, in effetti. Ma nessuno ne parla. A nessuno interessa.»

«Ma Eva non era una di quelle persone. Cosa ci faceva là?»

«Ecco, il punto è questo. Le hanno detto dove è avvenuto l’incidente?»

«Sì... più o meno.»

«E cosa ci faceva sua moglie da quelle parti, a piedi, in piena mattina?»

Fedele ci aveva pensato un poco, poi si era stretto nelle spalle. Non lo sapeva. Non ci aveva neppure pensato. E in fondo non aveva importanza, perché era solo un sogno, un pessimo sogno. Si sarebbe svegliato, presto, e tutto sarebbe tornato a posto. Come prima.

Eva era morta.

«Non lo so.»

«Lo sa invece cosa c’è più avanti, lungo quella strada? Dovrebbe saperlo, perché ci è stato anche lei, una settimana fa. Non se lo ricorda? Era sabato anche allora.»

Fedele aveva respirato a fondo, poi si era sgonfiato in un sospiro che sembrava non voler finire mai. Sì, lo sapeva. Lo ricordava. Perché c’era un solo posto fuori città in cui fosse andato, di recente, e lo aveva indicato proprio Tarca. La Rinascita, quella maledettissima topaia di una fattoria, dove quel maledetto di Manovali spendeva il suo tempo libero. Sentiva i tasselli che si attiravano tra loro, nel suo cervello, mentre componevano un mosaico brutto, ma plausibile. Li avrebbe voluti disperdere, con un colpo di mano, invece li osservava sistemarsi in ordine. I tasselli della sera prima.

«È lì che ha conosciuto Manovali?» aveva chiesto a Tarca, con una voce che non sentiva sua.

«Era lì che passava il pomeriggio, quasi tutti i giorni. Si era appassionata a quel lavoro, le piaceva e la faceva sentire viva. O almeno, così diceva lei, poi non so se ci fosse anche altro.»

Fedele si era stretto nelle spalle, fissando il vuoto. «Non lo sapevo. Come potevo saperlo? Non me ne aveva mai parlato. Non diceva nulla sulle sue giornate...»

«E lei non le diceva nulla sulle sue. Come le ho detto, è stato un concorso di colpa, un silenzio per un silenzio. È stato un problema di comunicazione, un problema che hanno tutti, al giorno d’oggi.»

«Un problema...» Per un poco era diventato una statua, poi aveva parlato di nuovo. «Ma a lei lo raccontava. Parlava con lei. Questo non lo capisco. Non lo capisco proprio.»

«Non so che dirle» rispose Tarca. «Eravamo amici da tempo, anche se non ci sentivamo più da un po’, prima che veniste ad abitare qui. Forse in quel momento pensava che lei non la ascoltasse più, così ha deciso di parlarne con un vecchio amico, ritrovato per caso. Ma sinceramente non lo so.»

«Non la ascoltavo più.» Altro silenzio che era passato tra loro, mentre il pomeriggio scivolava sopra tetti e strade, in un’afa che non lasciava respirare. Fuori. Lì dentro, invece, c’era fresco e buio, non c’era nulla. C’erano pensieri che sbattevano l’uno contro l’altro, cercando di farsi sentire. Fedele li aveva ignorati. Era un sogno, era un sogno. Il sogno di un fallito.

«Possiamo anche darci del tu, invece di continuare col lei» aveva proposto Tarca all’improvviso, a rompere quel silenzio. «Sempre se non ci sono problemi.»

«No, va bene, possiamo darci del tu. Devo ancora ringraziarla... ringraziarti per l’aiuto.»

«Ah. Sinceramente, pensavo che dopo questo... beh, io sapevo che Eva frequentava la Rinascita, ma non ti ho detto nulla. Cioè, è anche colpa mia se...»

Fedele lo aveva interrotto con una voce ancora più stanca. «Eravamo sposati, toccava a me parlare. Invece ci siamo allontanati sempre di più, mentre io pensavo al lavoro. È andata così. Dovevamo parlare, ma non lo abbiamo fatto. Non è colpa tua, né di nessun altro.»

Fedele non ricordava cosa fosse successo dopo, di preciso. Forse avevano parlato ancora, o forse se n’erano rimasti in silenzio, a continuare la loro veglia ai lati della porta. Era tutto confuso, tutto così vago e fumoso nella sua mente. Era arrivato un medico, o qualcuno vestito di bianco, che gli aveva portato delle cose da compilare, o da firmare. Fogli pieni di scritte. Tarca lo aveva aiutato, leggendo i fogli e indicandogli cosa doveva scrivere e dove doveva scriverlo. Potevano essere certificati, così come potevano essere qualsiasi altra cosa. Non aveva importanza.

La persona vestita di bianco, che forse era un medico, aveva fatto un lungo discorso. Fedele non ne aveva sentita una sola parola, ma Tarca accanto a lui ascoltava e rispondeva, quando serviva. Sì, era un vicino utile. Lo aveva sempre disprezzato, perché vestiva da pezzente ed era strano, però sapeva anche essere utile. Lo aveva aiutato molto, in quegli ultimi giorni. Anche con lui avrebbe dovuto parlare di più, forse. Ascoltarlo, comunicare, discutere, conoscersi. E forse adesso non ci sarebbe la cosa sotto un lenzuolo, dietro di loro.

Erano usciti che ormai cominciava a calare il sole, da qualche parte sopra il bianco del cielo. C’era stato il viaggio in metropolitana, poi la fermata del loro condominio, le scale e Tarca che lo salutava davanti alla porta, chiedendogli se avesse bisogno di qualcosa. No, grazie, tutto a posto. Magari mi farò sentire io. Grazie ancora. Poi Tarca aveva continuato a salire, Fedele era entrato in casa, aveva chiuso con cura la porta blindata ed era crollato nella poltrona.

Fu solo a quel punto, con il televisore spento, la sala deserta, i fornelli morti e il divano vuoto, che la realtà della giornata lo colpì davvero e lo colpì basso. Non era un sogno, non era un incubo: era reale, folle ma reale. Un’auto aveva travolto Eva, mentre camminava sul ciglio della strada. Aveva risolto e dissolto il loro litigio, in un colpo solo. Tutto il resto era tra parentesi, non contava più, né contavano le scuse che non le avrebbe mai potuto porgere. E adesso?

Fedele se lo chiese con metà cervello disattivato, mentre lo sguardo correva in ogni punto della sala. E adesso? Cosa avrebbe fatto? C’era ancora qualcosa che avesse senso fare? Tutta la sua vita, o se non altro tutti gli ultimi quindici anni, aveva d’improvviso perso la strada. Poteva continuare come sempre, certo, poteva alzarsi la mattina, andare al lavoro, pranzare, scherzare coi colleghi, tornare a casa stanco la sera e sedere in poltrona a guardare la televisione, senza ascoltarla. Poteva, certo.

Ma perché?

Era come ritornare al periodo dopo la laurea. Aveva concluso gli studi, aveva il suo pezzo di carta in mano, con un voto di cui andare fieri, aveva in teoria diverse possibilità davanti, se solo si fosse impegnato per ottenerle. Ma gli mancava proprio questo, un motore che lo spingesse, un vento che lo portasse oltre la fascia di bonaccia. La vita scolastica era stata una corrente marina, che lui aveva solcato senza problemi e che lo aveva spinto lì, alla fine del percorso. Ma quando si sarebbe dovuto fare strada con le proprie forze, aveva scoperto che le forze non c’erano. La magia era finita, la sua corsa interrotta. Non sapeva più che fare, dove rivolgersi.

L’aveva trovata in Eva, quella forza.

Non aveva fatto nulla, lei, ma vederla, sapere che esisteva, era stato tutto ciò di cui Fedele aveva bisogno. Per lei si era dato una scossa, per lei aveva ricominciato a correre, per lei aveva accettato il patto con quella persona adorabile di suo padre, l’avvocato Giulio Bianchi. Patto o ricatto che fosse, ma lo aveva accettato per Eva. Perché era l’unico modo per averla e per garantirle una vita decorosa, per quanto potesse costare a lui. Aveva venduto l’anima all’azienda, in cambio di un futuro.

Tu obbedisci a lui ed Eva ti sposa; rifiuta e sei finito. O fallito, forse. Era più o meno lo stesso, nelle parole di Giulio Bianchi. Fedele aveva accettato, diventando lo schiavo personale di Storti.

Erano stati anni vivi come mai ne aveva conosciuti. Riservato e timido di natura, Fedele Innocenti non aveva mai lottato per nulla, sia perché non aveva avuto bisogno di lottare, sia perché non aveva trovato niente che ne valesse la pena. Soltanto una volta si era messo in gioco sul serio ed era stato proprio allora, per Eva, per farsi notare e amare da lei. Aveva vinto. Il prezzo era stato altissimo, ma lo valeva tutto. Non se ne sarebbe mai pentito.

Si erano sposati nell’anno dell’Expo di Milano, praticamente all’ombra della piramide di Lambrate, e da allora Fedele aveva avuto un solo obiettivo: dimostrare di non essere un fallito, di meritarsi Eva, salendo sempre più in azienda e assicurandosi un futuro solido con le proprie mani. Soltanto allora avrebbe potuto risputare in faccia al suocero tutto ciò che era successo durante il loro viaggio, forse spezzare anche il patto malsano che avevano stipulato. Liberarsi da Storti.

Ma proprio quando era a un passo dal riuscirci, una stupidissima auto gli aveva portato via Eva, su una stupidissima strada fuori città. E tutto ciò che desiderava dalla vita, tutta la sua forza, era finita schiacciata sotto quattro ruote motrici, sull’asfalto bollente e consumato di una statale, quasi come un riccio o un gatto. Game over.

Fissava il divano dove lei si sedeva sempre. Adesso era vuoto. Fissava lo schermo della tv, sempre acceso a riempire la casa. Adesso era spento. Avrebbe voluto piangere, ma i suoi occhi erano vuoti, come la stanza e l’appartamento attorno a lui. Domani lo attendeva l’incontro con l’amministratore, forse il premio per la testa di Manovali, ma non contava nulla. Niente contava più nulla. Contava una cosa: era sera ed era solo.

Due piani sopra di lui, anche Luca Tarca aveva gli occhi asciutti. Non piangeva quasi mai, o almeno non ricordava di aver pianto, negli ultimi trent’anni. Forse qualche lacrima, quando si era rotto una gamba alle elementari, scommettendo che avrebbe saltato l’intera rampa di una scala. Scommessa persa. Da allora, nulla. Non pianse neppure quella sera, anche se gli era appena morta la più vecchia amica che fosse riuscito a conservarsi. Sedeva al computer, come sempre.

Era stata una pessima giornata e gli era anche toccato occuparsi delle questioni burocratiche, giù in ospedale. Fedele Innocenti era semplicemente su un altro pianeta e vagava da un punto all’altro con l’attenzione di un drogato in pieno trip. Non gli piacevano le scartoffie e gli piacevano ancora meno, quando servivano a chiudere il capitolo di una persona cara. Probabilmente, neppure quella notte ci sarebbe stato sonno, per lui. Conosceva le sue responsabilità nella storia.

Doveva avvisarli entrambi e invece se n’era rimasto zitto. Rimaneva sempre zitto, lui. Parlava solo nei forum e nelle bacheche virtuali: nella realtà aveva la voce di una cernia. Solo che stavolta aveva causato un disastro. Le scope dell’apprendista stregone si erano ribellate contro di lui.

Dovrò aiutare almeno Innocenti, tirarlo fuori da dove è finito, si disse, mentre apriva il sito di un quotidiano straniero. Lo potrebbe davvero far uscire dal tunnel, questa storia. Peccato solo che sia costata così tanto. E forse non ha ancora pagato tutto.

Già, poteva salire ancora, il prezzo. Avevano preso Manovali, avevano una nuova arma da usare per attaccare la Rinascita. La domanda era: avrebbero attaccato? Volevano schiacciare l’associazione in via definitiva, oppure si sarebbero accontentati di farli sparire uno dopo l’altro, con calma?

Tarca sospirò. In ogni caso, non lo avrebbe saputo nessuno. Nessuno in città conosceva la Rinascita e nessuno avrebbe saputo nulla di una eventuale azione delle squadre di sicurezza. Sarebbe stata una nuova operazione contro i clandestini, oppure contro qualche gruppo criminale, terroristi, gay o ciò che si adattava meglio al panico sociale del momento. Intanto, appena oltre il confine di quella che una volta era l’Italia, succedeva di tutto. Dentro, nessuno lo sapeva e tutti erano contenti.

Il braccio di ferro tra Russia e Cina stava degenerando. L’esercito russo aveva raggiunto la zona che i cinesi avevano occupato e adesso era schierato proprio di fronte all’esercito occupante. Aspettava ognuno la prima mossa dell’altro, mentre i diplomatici si scannavano e l’Unione Europea faceva di tutto per fingersi pompiere e spegnere i bollori. Negli Stati Uniti, ambasciatori e consoli di India e Cina erano stato richiamati in patria, assieme a tutti quelli dei paesi loro alleati. Anche il Brasile li aveva richiamati e a Washington non era piaciuto. Per niente. La rete Chind era più sigillata che mai, non filtrava nessuna notizia da quelle zone e in occidente si fantasticava di tutto, immaginando ogni possibile scenario tragico. Qualcuno era ottimista, ma erano panda nel caos di voci virtuali.

Eva era morta.

Là fuori succedeva di tutto, eppure lui non sapeva pensare che a un incidente di auto. Non era certo migliore degli altri, interessati ai fatti propri più che al destino del mondo. Luca Tarca sospirò, con un vago senso di colpa mischiato all’eroica nobiltà dello sconfitto. Cercò di tornare allo schermo e a ciò che succedeva altrove, ma la mente continuava a sgusciare via. Alla fine, si arrese.

Non avrebbe combinato nulla, non quella sera. Tanto valeva fare altro, staccare un po’, e magari la concentrazione sarebbe tornata. O forse non sarebbe tornata lo stesso e in quel caso, più tardi, si sarebbe anestetizzato il cervello con un rilassante campo minato, oppure un altro vecchio gioco, pescato a caso dalla sua collezione. Di solito funzionava, quando era stressato, stanco o depresso. Ci aveva scritto una tesi, anni fa, tra un campo minato e un free cell.

Come non accadeva quasi mai, Tarca si preparò così a uscire, per fare una passeggiata nei tunnel pedonali là sotto e prendere una boccata d’aria condizionata. Era meglio che restarsene tappato in una stanza calda, davanti a un computer ancora più caldo. Spense e uscì, mentre i genitori fissavano lo schermo della tv con tutta la presenza di manichini in vetrina. Provò una vaga compassione per loro, prima di chiudersi la porta dietro le spalle, senza salutare.

Lungo le scale, incrociò la guardia del piano di sotto, Sovrani. Usciva anche lui. Tarca rallentò per non dover fare la strada insieme: non gli era mai piaciuto quel tizio e, dopo l’incidente di tre giorni prima, se possibile gli piaceva ancora meno. D’accordo che era il suo lavoro, ma il modo in cui si era comportato con la bambina non era stato molto bello, da vedere. E probabilmente anche Sovrani condivideva la scarsa stima per il vicino: nello scambio rituale di «Buonasera», fissò Tarca con una faccia che Tarca trovò poco rassicurante. Sospettava di lui? Non aveva creduto alla storia che aveva raccontato, mercoledì scorso? Possibile. Coi tizi come Sovrani, tutto era possibile. Fu un sollievo veder sparire la sua camicia verde dietro una rampa di scale e perdersi più in là.

Mentre Tarca scendeva per la sua insolita passeggiata, Fedele Innocenti rispondeva al telefono. Non si era mosso dalla poltrona, non aveva neppure accennato a prepararsi la cena: la fame apparteneva ad altre persone, non a lui. Per lui c’era il divano vuoto, c’era la stanza silenziosa e c’era una moglie che non sarebbe tornata. Da qualche parte, il ronzio sottile del climatizzatore lo cullava, in una bolla di freddo che era piacevole, rispetto al freddo che avrebbe provato quella notte, da solo.

La sua mente si era lanciata in un piacevole flashback di momenti remoti, scene prese dai primi anni della loro conoscenza, quando tutto andava bene anche se lui era solo un fallito. Doveva risparmiare anche sui pasti, a volte, ma era sempre bello andare da qualche parte assieme a Eva, parlare con lei o restare semplicemente seduto ad ascoltarla parlare. Tutte cose che avevano smesso di fare, dopo il matrimonio. Ogni pensiero era un chiodo in più che Fedele si conficcava allegramente in corpo, in un impeto di sano, assurdo masochismo. Anche il dolore era meglio del vuoto che provava.

Il telefono lo strappò al limbo di autoflagellazione, per ricondurlo a una realtà molto più spiacevole. Con mani di novocaina, prese il cellulare, che non ricordava di avere ancora in tasca, e rispose. Una parola bastò a cancellare i resti di sogno che gli volteggiavano attorno. Era successo, era reale, era solo. E dall’altra parte del telefono c’era l’avvocato Giulio Bianchi, il padre di Eva.

«Lo sapevo che sarebbe andata a finire così, con un fallito come te.»

Il resto della telefonata lo seguì qualcun altro al suo posto, rispondendo meccanicamente con la sua voce e le sue corde vocali. Lui, Fedele Innocenti, era tornato al viaggio di dodici anni prima, al suo ingresso in azienda e tutto ciò che ne era seguito. Dodici anni cancellati da un’auto.

Fallito.

A fine chiamata, spense il cellulare, lo fissò, fisso la stanza che aveva attorno. Anche la bocca era insensibile, adesso, come dopo un pomeriggio dal dentista. Fallito. Abbozzò un sorriso, che nessuno avrebbe potuto interpretare come segno di gioia. No, il caro suocero non avrebbe organizzato per lui una festa con le cariatidi sue amiche, per mostrare a tutti ciò che lui, avvocato Giulio Bianchi, era riuscito a cavare da una rapa di genero. Niente feste, stavolta, niente banchetto da avvoltoio, niente facce plastificate, che lo fissavano come un escremento sotto vuoto. Con un sospiro che divenne presto un gemito, Fedele scagliò il telefono contro il divano. Fallito.

Quella notte pianse, in un letto troppo grande per lui.