La galassia di Madre - 100
La stanza in cui avevano ricoverato Sharma non era la stessa in cui si era svegliato Davide dopo un incontro troppo ravvicinato col bruco fosforescente nelle fogne della città, ma si assomigliavano a sufficienza da poter essere intercambiabili. Tutte le stanze di ospedale tendono a essere quasi uguali, specie se sono nello stesso reparto, e il reparto era lo stesso, riservato alle interazioni infelici tra gli umani e le specie native di Madre. Insetti, per la maggior parte, o cose facenti funzione di insetti, anche se in alcune (rare) occasioni si erano verificati incidenti in spiaggia tra i piedi di aspiranti nuotatori e forme di vita che riposavano tranquille nascoste sul fondale sabbioso. Ma erano casi rari, per l’appunto, e ancora più raro un ricovero in ospedale: pochi ci erano arrivati in tempo.
La stanza in cui avevano ricoverato Sharma possedeva tutto lo squallore deprimente dei luoghi dove le persone sono forzate a stare contro la propria volontà, alla ricerca di un qualche bene superiore e impalpabile come salute, educazione, pace, giustizia, cavoli a merenda. Pare che serva a temprare il carattere, a fortificare gli animi, esaltare le virtù morali e risparmiare sulle spese di arredamento. Fosse come fosse, oltre al paziente disteso con faccia scura e stanca tra lenzuola bianche e stanche, la mobilia della stanza comprendeva al momento anche un Matteo annoiato e una Indira a braccia incrociate. Per qualche motivo, ciò non sembrava contribuire ad accrescerne il tasso di ospitalità.
«Almeno non hai compagni di stanza, per adesso,» commentò Matteo, affetto da carenza perniciosa di argomenti migliori di cui discutere. Non amava gli ospedali, non aveva mai amato gli ospedali ed era sicuro che neppure gli ospedali amassero lui. Perché dunque doveva starsene lì a fissare Sharma e girarsi i pollici mentali? Ok, lo avevano ricoverato e lo avrebbero tenuto sotto osservazione ancora per alcuni giorni, poverino che peccato, vedrai che passerà, questo e quello, ma voglio dire, quando vieni al dunque, sotto sotto, lui che c’entrava? Passarlo a trovare una volta ogni tanto ci stava, era la cosa normale, anche se non necessariamente migliore, ma erano lì già da due ore e, francamente, si stava rompendo parecchio le palle, non per essere volgari. Aveva anche altro da fare nella vita, lui.
Matteo ci pensò meglio. Va bene, al momento non è che avesse poi molte cose da fare, anzi non ne aveva proprio, ma non era quello il punto. Il punto era che aveva preso una decisione, una decisione vera e seria, e ancora non gli avevano permesso di esporla con tutta la serietà e la gravitas dovute. E solo perché Sharma era andato a farsi pungere da un qualche insetto a cui era allergico, roba simile. Il mondo era proprio pieno di ingiustizie e le ingiustizie toccavano sempre a lui. Ma Indira gli stava rispondendo e forse era il caso di ascoltarla: c’era il rischio che poi lo interrogasse.
«Non ha compagni di stanza adesso,» diceva, «ma se tu fossi passato di qui anche ieri, avresti visto che un compagno di stanza c’era. Adesso non c’è più. Non c’è più definitivamente.»
«Eh, vabbè, meglio a lui che a Sharma, no?»
Indira non rispose, ma lo guardò molto male. Sharma non lo guardava proprio: che fosse intontito di farmaci, addormentato o semplicemente annoiato dal mondo (o dalla minuscola porzione di mondo che al momento lo circondava), se ne stava immobile a occhi chiusi, inerte, il respiro lento e non un suono a convogliare la propria opinione sulle cose o i commenti di Matteo. Era un poco snervante, e soprattutto molto noioso. Non se ne potevano andare e lasciarlo in pace?
«Aspettiamo che passi il medico a fare il solito giro mattutino delle stanze,» aveva decretato Indira. «Voglio farmi spiegare bene che cos’ha. Poi ce ne potremo andare, anche perché ormai sarà arrivata l’ora di pranzo. Sempre che si sbrighi a passare.»
Matteo si era saggiamente astenuto dal contraddirla. Le sue esperienze dirette di ospedali erano per adesso quasi prossime allo zero, giusto un paio di soste al pronto soccorso quando era bambino. Ciò che sapeva (o pensava di sapere) gli veniva da testimonianze altrui e opere letterarie. Nessuna delle fonti lo aveva preparato però alla noia profonda del visitatore. Ci potevi quasi scrivere una tragedia esistenziale e forse qualcuno l’aveva scritta; Matteo però non l’aveva letta. Per sua fortuna.
Un insetto aveva punto Sharma. Sharma si era sentito male. Il giorno seguente era stato ancora più male e aveva vinto un viaggio con soggiorno in quel fantastico villaggio vacanze che è un ospedale su Madre, con tutto il fascino rustico e primitivo che tanto apprezzava lui. Era stato un qualche tipo di reazione allergica alla puntura, evento non frequente ma neppure troppo raro; sarebbe rimasto per qualche giorno in osservazione, giusto per sicurezza, evitare complicazioni, non è niente di grave, non vi dovete proprio preoccupare, vi do la mia parola. Matteo non si era preoccupato, Indira sì. In parte, almeno. Perché aveva parlato coi coloni e i coloni le avevano detto che...
Che le avevano detto? Matteo non lo sapeva: notizia non pervenuta, non a lui. Ma dovevano essere state storie di insetti che avevano causato chissà che effetti collaterali, esperienze da vita di frontiera e palle varie, storie dure per veri duri, panzane da Oscar per pallisti di professione eccetera eccetera. Il punto era che avevano avuto effetto e adesso Indira sospettava che la puntura non fosse solo una puntura, che l’allergia non fosse solo allergia e che, udite udite, ci fosse sotto qualcosa.
Qualcosa oltre al suolo e al pavimento, beninteso. Matteo manteneva un sano agnosticismo, misto a un ancora più sano menefreghismo. Sharma era in ospedale. Lo avrebbero curato. Punto. Il resto lo interessava tanto quanto il prezzo delle pere terrestri su Shakti. E se davvero c’era sotto qualcosa, se ne poteva anche restare sotto dov’era, che almeno non dava fastidio a nessuno. Proprio adesso che aveva finalmente preso una decisione, e una decisione vera, mica le solite storie, non avvertiva il bisogno di complottismi vari ad appestargli il sapore di adulta soddisfazione che veniva dal fermo e saldo proposito di prendere in mano la propria vita. Ah, che bella frase!
Ma era bloccato in quella stanza di ospedale, a fissare un tizio che dormiva (probabilmente), perché una paranoica dilettante voleva parlare col medico e saperne di più. Anzi, sapere la verità. Come se fosse per finta che un insetto aveva punto Sharma e lui ci era stato male, dove quel “lui” va riferito a Sharma e non all’insetto. Avrebbe fatto davvero meglio a seguire Mei, o almeno il suo esempio.
Aveva da fare, voleva tornare a visitare quel locale con paccottiglia archeologica esposta al pubblico (ludibrio) ed era una cosa urgente. Indira non aveva neppure insistito tanto con storie sul fatto che la visita a Sharma era suo dovere e così via. Forse era sempre per quella storia della responsabilità: un lakshmita autentico sembrava sempre cavarsela meglio di un immigrati con balia al seguito. Matteo non era particolarmente interessato a rivedere quel mortorio fatto di modelli e riproduzioni varie, né gli fregava qualcosa della pietra, ma piuttosto che sprecare ore in una stanza a fissare un dormiente e aspettare che un medico attraversasse il deserto dei Tartari, beh...
Ma non era riuscito a strisciare via, così adesso aspettava. E aspettava. Aspettava. Alla fine arrivò il medico, che era un ometto dalla faccia di limone strizzato e buttato via. Non portava gli occhiali né una barbetta malcresciuta, ma tutto il suo aspetto fisico sembrava suggerire che li avesse, eccoli qui, non li vedi proprio? Aspetta che pulisco una lente. Parlava nervoso e parlava a tratti, come se non lo avesse mai sfiorato l’idea che le frasi possono avere un ritmo, magari diverso da un canto funebre per balbuzienti allo stadio terminale. Ma parlava. E rispose alle domande di Indira.
Sì, è stata una reazione allergica. Qualcosa che l’insetto gli ha iniettato, sa. No, non un veleno, per carità, no! È più come, non so, le sostanze anticoagulanti delle zanzare. No, non è proprio uguale. È un esempio, sa? Per spiegarle. Di solito non succede nulla, ma di tanto in tanto ci capita una persona con qualche forma di intolleranza che. No, no, niente di grave, glielo ripeto. Reazione allergica, non avvelenamento. È raro, sì, e il vostro amico è stato indubbiamente sfortunato, ma non è un evento senza precedenti, no! È già successo e sappiamo come trattarli, mi creda. Non è una terapia veloce, mi spiace, e lo dovremo trattenere per un poco, in via cautelare, ma ve lo restituiremo come nuovo. Sì, lo potrete venire a visitare quando volete, ma vi sarei grato se vi atteneste agli orari di... Sì, sì, la capisco, ma è per il bene del vostro amico. Ha bisogno di riposare.
E lo lasciarono riposare, alla fine. Indira non era né convinta né soddisfatta, ma in fondo non pareva quasi mai convinta o soddisfatta quando qualcuno le diceva qualcosa che lei non gradiva, per cui Matteo la ignorò e basta, annuendo dove era necessario annuire, mugugnando dove un mugugno era la risposta migliore, facendosi i fatti propri per il resto del viaggio di ritorno all’alloggio. Era ora di pranzo e le loro finanze attuali imponevano un pranzo casalingo. Altra tortura, insomma.
«Comunque quel medico non mi convince. Ci sta nascondendo qualcosa, te lo dico io.»
Matteo annuì e bofonchiò qualcosa di incomprensibile, che poteva essere tanto un sì, quanto un non me ne frega niente. In effetti era il secondo, ma non lo avrebbe ripetuto a voce alta: Indira era pronta a mordere, se possibile alla gola. Aspettiamo che torni Mei, così ci sarà un secondo bersaglio.
Ma Mei era ancora alla esposizione provvisoria di reperti madriani, dove il custode e guida a tempo perso la fissava con fastidio e sospetto. Cosa ci faceva di nuovo lì? Era già passata una volta, aveva visto tutto quello che si poteva vedere, gli aveva anche causato una umiliazione con quel cretino dal naso di tucano, e adesso si presentava di nuovo a guastargli la sua solitudine? Voleva fargli qualche altra domanda, per poterlo umiliare ancora? E mica aveva qualcosa in più da raccontare, lui! Fare la guida non rientrava tra le sue competenze e quel lavoro era soltanto una piaga in culo, rifilata a lui in quanto novellino. Se poi spuntava di nuovo quello Asanga...
Ma Marijn Asanga non spuntò, Mei sembrava accontentarsi di camminare avanti e indietro a fissare la roba esposta, come se fosse chissà che, e Tibor Turalski poté tornare al suo sonno virtuale, fatto di sogni ancora più virtuali in cui non solo gli lasciavano studiare la pietra per tutto il tempo che lui voleva, ma finiva anche per svelare il mistero della sua origine e il mistero ancora più grande della sua funzione. E tutto senza neppure bisogno di chiudere gli occhi.
Per distrarsi ascoltò un poco il notiziario locale, ma era una distrazione piacevole come un ragno nel piatto. La notizia più emozionante pareva essere quella di un maniaco che aveva smembrato un po’ di animali randagi e roba simile, che secondo il modesto parere di Tibor si meritava una medaglia: i cani e gatti importati su Madre e poi abbandonati in giro stavano diventando una piaga, almeno per lui, e se qualcuno ne accoppava un po’... chi ci perdeva? Poi erano arrivate le solite notizie: proteste del reparto X che voleva più soldi, proteste del reparto Y che voleva più soldi, proteste del reparto Z che voleva più soldi, trovata una nuova specie animale al largo delle coste settentrionali, proposte di una riforma dei rapporti tra militari e civili («Colonia demilitarizzata!» gridavano i manifestanti, un paio di dozzine al massimo dietro l’inviato di turno), eccetera eccetera. Noia mortale.
Poi Mei se ne andò, rientrò all’alloggio moderatamente soddisfatta e vi trovò Matteo e Indira seduti a tavola, di fronte a piatti in cui, in apparenza, un ubriaco aveva appena espresso tutto il proprio male di vivere, nonché il molto più concreto problema di stomaco che spesso segue le libagioni più abbondanti. L’aria nella stanza, già malinconica di suo, tendeva adesso alla gioia di chi si trova a terra con entrambe le gambe rotte e un ilare piccione di passaggio gli decora la fronte. «È successo qualcosa?» chiese, sapendo che la domanda era quantomai retorica, ma chiedendo lo stesso, perché anche la vita deve rispettare le convenzioni, almeno di tanto in tanto e quando non si ha di meglio da fare. Al momento non lo aveva.
Rispose Indira, entusiasta di poter sfinire la nuova arrivata con tutte le notizie sullo stato di salute di Sharma, il responso del medico e il suo parere assai personale su come stessero in realtà le cose. «E ti lasciò immaginare il resto,» concluse. «C’è qualcosa che non ci dicono, proprio come la storia di tre anni fa, la quarantena e il resto. Sempre tra Madre e Lakshmi, guarda caso.»
Secondo Matteo era proprio un caso e guardarlo avrebbe fatto bene alla salute mentale di tutti, ma la sua salute fisica non avrebbe ricevuto alcun giovamento dall’esporre quel parere, così lo tenne per sé e continuò a mangiare la roba nel piatto. Che faceva schifo alla lingua tanto quanto ne faceva agli occhi, e forse un poco di più. Ecco, il cibo era decisamente un punto debole della sua decisione, non l’unico ma il più pressante, almeno al momento, e di questo avrebbe dovuto parlare coi coloni, ma dopo. Dopo. Prima doveva radunare tutti quanti i lakshmiti ed esporre in pubblico (o almeno a una ristretta porzione di pubblico) la decisione che aveva preso. Una volta esposta, non avrebbe avuto il coraggio di tornare indietro. Lo sapeva. Lo sentiva. Per questo doveva affrettarsi.
Peccato solo che Sharma avesse scelto proprio quel momento per farsi ricoverare. Così gli rovinava tutto. Si era già preparato il discorso, lo recitava di continuo nel silenzio della propria testa e non lo poteva sprecare con un numero ridotto di persone. O tutti, o niente. Ma niente era anche quello che si poteva fare, al momento, e così niente faceva. Masticava, deglutiva, forse digeriva. Intanto Mei e Indira parlavano di Sharma, o meglio Indira parlava e Mei ascoltava, e il mondo non era il migliore dei mondi possibili, ma era l’unico e i suoi occupanti se lo dovevano far andare bene.
L’occasione di tenere il proprio discorso Matteo la ebbe quattro giorni dopo, quando tutti andarono a visitare Sharma, ancora ricoverato e ancora con la faccia di qualcuno a cui sono successe cose ben più brutte di una semplice puntura di insetto. Stavolta il paziente era sveglio e parlava. «Dovrebbero dimettermi dopodomani,» disse. «Dovrò rimanere nei paraggi ancora per un certo periodo, perché si vogliono assicurare che non ci siano effetti collaterali con la terapia a cui mi hanno sottoposto: ciò significa che avrò alcuni esami post-ricovero, ma nulla di preoccupante o inconsueto.»
«A me sembra preoccupante e inconsueto,» disse Indira. «Per una puntura di insetto?»
«Una puntura di un insetto alieno appartenente a una specie che ancora non hanno studiato a fondo. Pare che i casi di allergia, come è capitato a me, siano piuttosto rari, anche se non impossibili, per cui immagino che vogliano approfittarne per studiarmi un poco di più. Comprensibile.»
«Comprensibile usarti come cavia?»
«Non come cavia, ma come soggetto di studio. Se potrà aiutare altre persone e permetterci anche di espandere le nostre conoscenze di specie aliene e di come possano interagire con noi, allora lo trovo un nobile proposito, che approvo in pieno. Non vedo dove sia il problema.»
«Lo vedo io dov’è il problema! Per quanto tempo ancora dovremo restare qui su Madre? Come se il terrestre indeciso non bastasse, adesso ci sei pure tu con le tue allergie. Se poi lo sono davvero.»
«Perché se lo sono davvero? Cosa altro dovrebbero essere, se non allergie?»
Ma Indira non rispose alla domanda di Sharma, non allora, perché qualcun altro aveva cominciato a schiarirsi la gola in quel modo volutamente rumoroso e talvolta fastidioso che si usa soltanto quanto si vuole interrompere, ma non a parole. Quando si vuole suggerire ai presenti di chiudere il becco e ascoltare, grazie. Vorrei dire qualcosa anche io, se la cosa non vi è di troppo disturbo. Il misterioso schiaritore di gola era Matteo, più arrossito e imbarazzato che mai.
«Che hai? Devi andare in bagno? Se è così non ti tratteniamo, anzi. Vai pure,» disse Indira.
«No, non devo andare in bagno,» rispose Matteo. Il discorso che si era preparato stava già partendo male e poteva vedere all’orizzonte gli scogli contro cui si sarebbe frantumato. Ma continuò. A testa alta, continuò verso il disastro. O qualcosa del genere. «Non devo andare in bagno,» ripeté con più convinzione. «Anzi, non devo andare da nessuna parte. Perché... ho deciso!»
La sua enfasi cadde nella totale indifferenza di tre paia di occhi che lo fissavano come se dalla sua fronte si preparasse a spuntare un cucù. E non era da escludere che sarebbe successo davvero. Ma il dado era tratto e con esso tutto il resto della retorica di aria fritta e luoghi comuni che accompagna sempre queste espressioni. Quindi, avanzare, avanzare, avanzare e in frigo tutto il resto!
«Non sarà soltanto Sharma,» continuò il nostro eroe. «Anzi, Sharma non c’entra proprio, perché lo avevo già deciso da prima. Da prima, sì. Prima anche del suo ricovero. Per cui, non è che lo dico in questo momento per stargli a ruota, sia chiaro. Lo dico perché lo avevo già deciso. Prima.»
Indira sospirò. «Se fra le altre tue grandi decisioni ti decidessi anche a dirci che cosa avresti deciso, magari ci toglieremo il pensiero e staremo meglio tutti quanti.»
«Sì. È proprio quello che stavo per dire. Lo stavo per dire io, perché l’ho deciso io. E stavo per dire che ho deciso di restare qui su Madre. Non chiedetemi per quanto, perché non lo so,» aggiunse, con tutto il gesticolare che l’afflato oratorio gli suggeriva. «So solo che resterò qui. Non tornerò con voi su Lakshmi. Non ci tornerò ora e forse, forse,» pausa a effetto, «non ci tornerò mai.»
Gli altri tre continuavano a guardarlo come se dalla sua fronte si preparasse a spuntare il solito cucù, o magari un amico. Matteo ne sostenne lo sguardo per qualche secondo, con tutta la fierezza che si immaginava di dover provare in quelle circostanze, poi la realtà riprese il proprio posto e l’oratore si sgonfiò. «Sono serio. Ho deciso di restare qui. Davvero.»
«Qui in ospedale?» gli chiese Indira, sorridendo con mezza bocca.
«Qui su Madre. Voglio restare qui a vivere da colono. Per un poco. Anzi, non voglio restare qui: ho deciso di restare qui. Capito? È diverso, è tutta un’altra cosa. Davvero. Non è uno scherzo. Perché mi fissate così? Potete anche dire qualcosa. Cioè.»
Sharma disse qualcosa. «Non dubitiamo della genuinità della tua convinzione, penso di poterlo dire a nome di tutti, ma, vedi, a questo punto era inevitabile che ci saremmo dovuti fermare tutti per più di quanto avessimo previsto. Io per problemi di salute, tu perché ancora non ha risolto nulla con tuo fratello, Mei perché vuole approfondire un argomento che le interessa e Indira perché lei si diverte a tenerci sotto controllo e giocare al grande capo, lo sappiamo come è fatta.»
«Non mi diverto a tenervi sotto controllo,» lo interruppe Indira. «Devo tenervi sotto controllo. È la mia responsabilità. Con quello che sapete combinare da soli, non ne tornerebbe uno su Lakshmi. Da vivo, almeno. Cederei volentieri il lavoro a un altro, però, se ci fosse qualcun altro con mezzo senso e mezza testa sul collo. Ma non ne vedo molti.»
Sharma sorrise. «Comunque, il punto è che, al momento, abbiamo tutti una qualche ragione per non ripartire, in alcuni casi volontaria, in altri forzata. Che tu abbia deciso di fermarti è una notizia che ci colpisce, certo, un segno che hai deciso di prendere sul serio i tuoi doveri nei confronti di Davide, tuo fratello, e non vuoi lasciare prima di avere saputo tutto ciò che puoi sapere, ma, vedi, in questo momento è una notizia che perde parecchia della forza che avrebbe posseduto in altre circostanze.»
L’intera postura di Matteo si fece canotto perforato a ripetizione. Il suo presunto attacco a sorpresa era stato respinto con una pernacchia. Virtuale, beninteso, perché nessuno aveva avuto la spietatezza infinita di estrarre la lingua in una stanza di ospedale e puntarla contro di lui, accompagnando quel gesto con una emissione di aria a effetto scoreggia strozzata. Pure, il colpo virtuale restava e Matteo lo aveva preso in pieno, dritto sugli incisivi superiori della mente. Un colpo da knock-out.
«Ah, sì, capisco,» borbottò. «Beh, ecco, in effetti. Già. È che. Insomma. Cioè. Non so fino a quando resterò. Ecco. È una cosa. In bianco, no? Cominci, continui. Cose così. Sì.»
«Questa volta sembra che gli sia proprio esploso il cervello,» disse Indira. «Almeno non farà altri danni, forse. Stasera parleremo di come guadagnarci da vivere mentre resteremo qui, quindi vedi di non andare in crash completo. Ho una lista di possibilità, studieremo quelle che si adattano meglio a noi, o almeno che ci si adattano meno peggio. Non sarà facile, te lo assicuro. I lavori disponibili in una nuova colonia possono anche essere rustici, tradizionali, romantici e così via, ma non sono quel genere di lavori di cui ti potresti vantare un giorno con gli amici.»
«Posso immaginare,» disse Mei. «Però secondo me ne sarà valsa la pena, alla fine.»
Indira la fissò con tutta la compassione che si riserva per chi proprio non ci arriva, ma non è colpa sua e poi in fondo è una brava persona. «Ne discuteremo poi,» disse. «Ci faremo aiutare dagli amici del fratello scemo, che sono qui da più tempo e probabilmente sapranno consigliarci quali lavori sia bene evitare a ogni costo e quali siano invece accettabili. A me pare che siano tutti da evitare, ma si sa, è anche possibile che io mi sbagli.» La sua faccia suggeriva che la possibilità non esisteva, ma il resto del gruppo si astenne da ogni commento in proposito. Saggia decisione.
Parlarono ancora, soprattutto della salute di Sharma, come è inevitabile che succeda in qualsiasi tipo di visita a un malato, a maggior ragione se ricoverato. Non ne uscì alcunché. Il discorso paranoico non fu recuperato, la discussione scivolò indolore verso la vita in ospedale in generale, come sia il posto (fantastico, davvero: ti consiglio di venirci anche tu), la preparazione del personale medico e paramedico, qualità dei cibi, orari, quello che capita. Fu un periodo piacevole a modo suo, specie se paragonato a quello che seguì, ossia la ricerca di lavoro da parte di persone che, nella quasi totalità dei casi, non avevano mai neppure esaminato la necessità di lavorare per sopravvivere. Non ci fu un vero rimpianto di Lakshmi, seguito da elegie del paradiso perduto, ma ci andarono vicino.
In ospedale, Sharma non ebbe tanto tempo per le malinconie e neppure per le melanconie. Fino alla fine del suo ricovero furono esami, test, prelievi e somministrazioni di cose che «questo ti farà stare meglio, vedrai». Il diretto interessato non aveva visto molto, ma in effetti si era sentito meglio, dopo un po’, e il resto non contava, o almeno non troppo e non subito. Erano passati altri due compagni di stanza, ma entrambi erano durati poco: il primo aveva avuto solo bisogno di qualche ora di riposo dopo un esame, il secondo era stato dimesso dopo due giorni, se non guarito del tutto almeno in una posizione verticale. Neppure ne aveva imparato i nomi. Oh beh, la vita è fatta di gente che va e che viene, una fiumana senza interruzione, ma con una sorgente e una foce. Fintanto che ci poteva stare a distanza di sicurezza dalla foce, il resto contava poco. O non molto, quantomeno.
È un vero peccato che Indira non potesse essere presente agli esami, ma è ancora più un peccato che non potesse seguire poi i medici, pedinarli e spiarli mentre studiavano i risultati di quegli esami, e si confrontavano, discutevano delle proprie opinioni, valutavano ipotesi, pro e contro, e quello che ne sarebbe potuto uscire, alla lunga. È un peccato, perché avrebbe confermato la sua fissa paranoica di “ci sono cose che non sappiamo”. Ed era vero, c’erano molte cose che non sapevano, ma in fondo ci sono sempre cose che non si sanno, perché la mole di conoscenza è troppa e nessun essere umano la può accogliere per intero nel proprio cranio. Nel caso specifico, la cosa che era stata tenuta nascosta era che l’allergia di Sharma non era proprio un’allergia. Ci assomigliava ma... non lo era.
Due ufficiali avevano raggiunto l’ospedale il giorno dopo il ricovero di Sharma, accompagnati (o in qualità di scorta, a seconda delle prospettive) da un medico di stanza alla base militare. Ad attirarli erano stati i risultati dei primi test, che suggerivano una ipotesi molto interessante: Sharma poteva essere il numero dieci. Su quanti? Parecchi. Il decimo su milioni di soggetti. Ma era doverono che il confronto dei dati e gli studi procedessero con calma e cautela prima di potersi pronunciare. Già in precedenza, in oltre venticinque anni dal primo insediamento su Madre, c’erano stati falsi allarmi e nessuno ne voleva altri, anche se di tanto in tanto ti capitavano tra i piedi. Di falsi allarmi, ovvio. I casi autentici li avrebbero invece voluti tutti, ma pochi se li potevano permettere.
Sharma risultò un caso autentico. Il decimo dalla nascita della colonia, come si diceva. Un insetto lo aveva punto, aveva prelevato, ma aveva anche iniettato, e il corpo di Sharma aveva respinto quello che gli era stato iniettato. Non allergia, ma crisi di rigetto. La decima crisi di rigetto documentata e attestata, nonché la prima in un soggetto proveniente da un mondo coloniale, ma questo era molto meno rilevante: erano pochi gli ospiti ammessi su Madre, dopotutto, e ancora non si poteva dire, ma neppure negare, che l’essere nati e cresciuti lontano dalla Terra facesse una qualche differenza.
«Anche per questo dobbiamo aprire le porte a tutti,» sosteneva il ministro Hass. «Degli altri mondi non ci può fregare di meno. Che si facciano la loro vita e noi ci faremo la nostra,» gli rispondeva il dottor Leonardi. Solo uno dei tanti campi in cui, da una decina di anni circa, i due litigavano sulla gestione del pianeta: non il più importante, non il minore. Perché la crisi di rigetto significava molto per Madre, nonché per le politiche di Leonardi. Sul progetto che Leonardi aveva per Madre e per la Terra, tanto per cominciare. Se fossero diventate più frequenti...
Ma non lo stavano diventando, e questo era bene. D’altra parte, non se ne sapeva abbastanza, il che era male. Se ne sapeva un po’ e a volte saperne solo un po’ è peggio che non saperne nulla. O così la pensavano molti di quelli che se ne occupavano, sia nella base militare presso il vecchio ascensore, sia presso l’Ufficio per la Colonizzazione sulla Terra. Alcuni lo consideravano un male, mentre altri invece... beh, diciamo che non erano proprio d’accordo con Leonardi. Ma in privato, beninteso, solo in privato. Dargli torto in pubblico era molto, moto insalubre. Per adesso. Per dopo, magari...
Ma a tutto questo non pensava Sharma, tranquillo nella sua stanza spartana. Non vi pensava perché non lo sapeva e non lo sapeva perché, nella natura della galassia, certe informazioni sono riservate a poche persone soltanto, quasi mai collocate in un letto di ospedale, specialmente se a collocarle nel suddetto letto di ospedale è stata proprio l’informazione che non hanno diritto a conoscere. In fondo è complicato ricevere una informazione, quando sei tu quella informazione.
Lo dimisero, raccomandandogli di mantenersi sempre nelle vicinanze, dove fosse facile da reperire, e gli lasciarono un consistente malloppo di esami post-ricovero, a cui si sarebbe dovuto sottoporre a intervalli quasi regolari. A Indira non piacquero, ma Sharma era l’unico responsabile di se stesso e a Sharma andava bene, benissimo. Lo facevano per curarlo, no? Perché si sarebbe dovuto opporre? È da stupidi opporsi a controlli che vogliono solo assicurarsi che tu stia bene. Indira roteò gli occhi, si coprì la faccia con una mano e non disse altro, specialmente perché l’altro in questione rischiava di risultare alquanto volgare, se mai lo avesse detto a voce alta.
Tempo di pensare al lavoro, dunque, e a come mantenersi in quella tappa su Madre che rischiava e minacciava di diventare molto, molto più lunga di quanto alcuni di loro avessero preventivato prima della partenza. Sebastian, Tunde e Selina, i tre coloni del gruppo che fu di Davide, si aggregarono ai dibattiti e alle ricerche, portando tutta la loro esperienza di factotum al servizio del Teatro, grazie a cui avevano accumulato un bel curriculum di lavori orrendi e talvolta umilianti.
«Qualunque cosa vi dicano, non accettate mai lavori di manutenzione stradale urbana,» li consigliò Sebastian da dietro l’orlo di un bicchiere mezzo vuoto. «Mai. Sono una fregatura. Quando li rifilano a noi, c’è sempre di mezzo una fogna da ampliare, riparare, sgorgare e altri verbi che vi costringono a giornate immersi nella puzza. Se siete fortunati. Se non lo siete, l’immersione sarà molto, molto e ancora molto più concreta e fisica. Potete discuterne con Luis, se volete: lui era nelle fogne con tuo fratello, quando ha avuto il suo incidente col bruco,» aggiunse, accennando a Matteo col bicchiere.
«Luis sarebbe quello che sembra che abbia imparato a parlare per corrispondenza, perdendo qualche lezione per strada, giusto?» chiese Matteo, che con una parte del cervello si stava già rassegnando a un qualche lavoro di manutenzione stradale urbana. Era ovvio che sarebbe andata così.
«Sì, quello che risparmia sulle parole. Ma se impari cosa aggiungere alle frasi e dove aggiungerlo, è anche un compagno di lavoro passabile. Di poche parole. Alla lettera.»
«Come turisti, o almeno come persone non arrivate col Teatro di Oklahoma, immagino che non ci potremo appoggiare alle sue strutture, per farci assegnare lavori,» disse Sharma, il cui colore stava a poco a poco tornando normale. Sembrava ancora masticato e rigurgitato, ma non con violenza.
«Eh già, niente da fare,» confermò Selina. «Il Teatro è per i coloni e voi non siete coloni. O almeno non coloni terrestri. Lui,» e indicò Matteo, «potrebbe anche agganciarsi a qualcosa e farsi tirare a bordo, se mai decidesse di fermarsi sul pianeta per almeno qualche anno. È terrestre. Voi no.»
«Io però non è che voglia proprio diventare un colono di Madre, sia chiaro,» disse Matteo. «Cioè, è vero, ho deciso di fermarmi qui per un poco, non so per quanto, ma vivere così per il resto della mia via, beh, insomma, ci dovrei pensare su bene. Ma bene bene. Senza offesa, eh.»
Selina sorrise. «Nessuna offesa. Dopo aver fatto la bella vita su Lakshmi, dove tutto è gratis, posso capire che tu non abbia molta voglia di spalare immondizia su Madre per campare molto peggio. È il genere di lavoro che accetta soltanto chi non ha alternative migliori, e tu le avresti.»
«Beh, sì, potrei sempre tornare su Lakshmi e proseguire gli studi, però...» Giocherellò col bicchiere, senza guardare in faccia nessuno. Si sentiva un idiota, e si sentiva ancora più idiota di fronte a chi faceva discorsi sensati, realistici, pragmatici. Il tipo di discorsi che lui sembrava costituzionalmente incapace di fare. Per esempio, perché aveva deciso di fermarsi su Madre? Cercare notizie su Davide e vedere i luoghi in cui aveva vissuto, ok, d’accordo, ma poi? Scendendo al dunque, o venendo al dunque, o muovendosi in qualsiasi altro modo si voglia per raggiungere questo cavolo di dunque, supponendo che da qualche parte un dunque dovesse esistere, perché lo aveva deciso? Che cosa lo aveva spinto? Quali erano le sue motivazioni?
Matteo aveva molta paura di dovere ammettere che non ce n’erano. Non consce, almeno. Madre era un pianeta che faceva piuttosto schifo, a essere onesti: non solo come società, che era solo agli inizi e aveva tutto il tempo per cambiare e migliorare, ma anche come posto. Era un pianeta brullo, ma le due elle potevano anche diventare due ti e il giudizio sarebbe rimasto valido. Aveva tutta l’aria di un pianeta usato, consumato, abbandonato. Esaurito? Forse. Riciclabile? Uhm... Aveva parecchi dubbi, ma lui non era né planetologo né altro, e siccome chi invece lo era aveva deciso che quel mondo era da colonizzare, beh, allora forse lo si poteva migliorare. A poco a poco. Prima o poi. Col tempo.
Il punto però non era questo e non serviva cercare di razionalizzarlo, perché di razionale non aveva nulla. Il punto era che la decisione di fermarsi gli era venuto di impulso, forse di istinto, se qualcosa come l’istinto esiste davvero, oltre a essere un comodo cestino in cui gettare tutto quello che non si sa dove e come sistemare, o un ombrello per giustificare capricci e ghiribizzi. Il punto, per ribadire, era che le decisioni di impulso per lui erano rare, ma rare davvero, e non voleva sprecare quella che gli era venuta. Aveva sentito di doversi fermare, quindi si sarebbe fermato.
E poi faceva molto opera letteraria e a Matteo piaceva immaginare che di tanto in tanto, in qualcuno dei suoi più remoti frammenti, la sua vita contenesse sprazzi e barlumi di letterarietà. Rendeva tutto più semplice da capire, perché nelle opere letterarie c’è sempre un senso e prima o poi a qualcosa si arriva, prima o poi un finale raccoglie tutti gli eventi in una forma più o meno decente (a seconda di casi e gusti personali) e tu puoi fare un passo indietro, lasciare scorrere l’occhio sulla intera trama e dire «Sì, adesso ho capito». Esistevano anche opere in cui tutto ciò non accadeva, ma Matteo non le voleva considerare, almeno al momento. La sua opera avrebbe avuto un senso, alla fine.
Quale era dunque il senso del capitolo (o dei capitoli) con la sua permanenza su Madre? Una ottima domanda, a cui prima o poi avrebbe anche dovuto trovare una risposta, se non ottima almeno buona.
«Ti si è spento di nuovo il cervello?»
La voce di Indira lo riportò al presente, dove si accorse di avere abbandonato una frase a metà, per spendere chissà quanti secondi a fissare il vuoto, ruotare un bicchiere e magari svolgere altre attività da perfetto idiota lobotomizzato. Al tavolo lo guardavano tutti, chi con divertimento e chi con una certa preoccupazione. «No, è che... stavo pensando,» rispose.
«E adesso vuoi esporci il contenuto delle tue meditazioni?» gli chiese di nuovo Indira.
«Ehm... devo pensarci.»
La successiva fase di imbarazzo fu così intensa che neppure Indira se la sentì di inserire una qualche battuta o derisione, giusto per ravvivare l’ambiente. Ci pensò Sebastian, ricorrendo alla migliore risorsa dialettica del cambiare argomento. «Dunque, si parlava dei lavori che potreste fare durante la vostra permanenza sul nostro fantastico pianeta, brulicante di vita come un cadavere sotto il sole di metà agosto, e si parlava di lavori possibilmente non troppo schifosi, giusto?»
«Hai sempre immagini così poetiche, tu...» disse Tunde.
«Poetico è il mio secondo nome, dopotutto. Mi chiamo Sebastian Poetico Hahn. No, va bene, non è vero: se mi avessero dato un nome del genere, non mi sarei ucciso, perché sarebbe stupido, ma avrei ucciso i miei genitori, perché gente che abusa di un bambino rifilandogli nomi così stupidi merita la morte peggiore che si possa immaginare e niente altro. Comunque, si parlava dei lavori.»
Parlarono dei lavori. Sharma era il caso che doveva essere maneggiato con maggior cura, per la sua necessità di essere spesso reperibile dall’ospedale, almeno nell’immediato. Secondo Tunde, però, il problema poteva non essere un problema, ma una risorsa. Si poteva consultare l’ospedale e magari trovare una sistemazione che andasse bene a tutti: un qualche impiego temporaneo nella struttura o roba simile, per esempio, così avrebbero potuto proseguire tutti i loro test ed esami senza bisogno di inseguirlo ovunque e incastrare impegni e orari. A Sharma l’idea piaceva, Indira non ne era proprio entusiasta, ma alla fine si dichiarò possibilista.
Per le ragazze sarebbe stato un poco più difficile, perché non avevano competenze pratiche e il loro campo di studi, linguistico-letterario, possedeva tutta l’utilità di un calcio in un rene, almeno su un pianeta nella fase iniziale della sua colonizzazione. «Ma se non siete troppo schizzinose, qualcosa lo si trova sempre, alla fine,» disse Selina. «Quasi di sicuro lavori manuali.»
«Fantastico, lo sognavo sempre da bambina. E poi mi svegliavo urlando.» Indira sospirò. «Oh beh, immagino che non ci siano alternative. Basta che siano attività lecite e non lavori di un certo tipo.»
«No, non quel genere di lavori,» disse Tunde. «Cioè, volendo esiste anche quella possibilità, ma noi stavamo pensando a lavori lavori, tipo quelli che facciamo noi. Se accettate spostamenti fuori città, l’agricoltura è un settore in cui potreste trovare impiego senza grandi difficoltà.»
Il volto di Indira espresse una gioia troppo grande per poter essere racchiusa in semplici parole che possano superare le dighe della censura. Mei scosse appena le spalle, con un «Beh, potrebbe essere interessante» sussurrato a mezza voce, che fu il suo maggiore contributo alla conversazione.
«E tu, ti vuoi appoggiare al Teatro, allora?» chiese Tunde, guardando Matteo. «Magari potresti pure finire a lavorare col nostro gruppo, chi lo sa. Ci hanno già spostato tante di quelle volte...»
E lui, voleva appoggiarsi al Teatro? Da quanto aveva capito, significava doversi fermare su Madre, o almeno restare reperibile in un qualche modo, per un certo periodo di tempo. O qualcosa di simile, non era certo dei dettagli, ma si sarebbe potuto documentare poi. Il punto era: era quello che voleva davvero? Voleva restare su Madre per un periodo di tempo indefinito? Matteo ci pensò. E rispose.