Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 99

Tibor Turalski non era una persona felice, al momento. Era arrivato su Madre come specializzando e ci era arrivato in un incrocio di avvenimenti così perfetto da sembrare quasi destino. Neanche due giorni da quando era sceso a Oklahoma City e subito gli avevano trovato la pietra. È vero, non è che l’avessero trovata proprio per lui, non per fargli un piacere, ma lui aveva studiato archeologia, si era spostato su Madre per specializzarsi nelle rovine aliene dopo avere passato tutti i test di idoneità e bam! Ecco la pietra, un ritrovamento che prometteva di rivoluzionare tutto il rivoluzionabile. Come non interpretarlo come una sorta di disegno divino, o almeno di bozzetto divino? Specialmente se ti assegnano proprio al gruppo che si occuperà di studiarla.

A Tibor Turalski era accaduto tutto questo e lui l’aveva visto come un segno. All’inizio. Poi la realtà aveva ripreso il proprio posto e sì, forse era ancora un segno, volendo, ma uno di quei segni che non sono accettati quando ci si trova nella buona società, per valori molto ipocriti di “buona”. Perché da un lato lui era parte del gruppo che studiava la pietra, d’accordo, ma la sua parte era più in basso del basso: non uno zerbino, ma lo zerbino di uno zerbino. «Hai molto da imparare e sei qui proprio per farlo,» aveva dichiarato la professoressa Bahgat nei cinque minuti in cui era stata costretta a notare la sua esistenza, prima di poterlo rifilare ad altri. «Partirai dal basso perché è da lì che si parte e poi ti costruirai la tua strada verso l’alto, col lavoro e l’esperienza.»

E i cavoli a merenda, avrebbe voluto aggiungere lui, ma non lo aveva fatto allora e continuava a non farlo adesso. Era una persona paziente, Tibor. Era anche una persona in sovrappeso, ma questo non è rilevante, perché era alto e la statura contribuiva a distribuire meglio il suo quintale e più (quanto più non era argomento di cui parlasse volentieri), e comunque su Madre la gravità era inferiore, per cui d’accordo, la sua massa non cambiava, ma il suo peso e adesso pesava meno rispetto a quando viveva sulla Terra. Ma parliamo di altro, eh? Parliamo dell’incarico che gli avevano affidato e che al momento, come si diceva all’inizio, era per lui causa di infelicità.

Su Madre non esisteva ancora un museo vero e proprio. Esistevano però vari edifici, o locali dentro a vari edifici, in cui erano conservati i reperti che, in un futuro forse non molto lontano (se si aveva una natura ottimistica), sarebbero stati esposti nel museo in più-o-meno costruzione. Ogni facoltà, e ogni sezione in cui era divisa ogni facoltà, possedeva i propri spazi, più o meno curati: occuparsene era considerato un lavoro ingrato, noioso, orrendo e piacevole come una martellata nelle gonadi, per cui era affidato sempre a specializzandi, novellini e altre pedine ad alto tasso di sacrificabilità. Tipo Tibor Turalski, per l’appunto, che da due mesi abbondanti sprecava ormai le proprie giornate chiuso in una specie di cantina megalomane, circondato da modelli tridimensionali, ricostruzioni virtuali e tutti gli altri spettri che possono essere esposti al pubblico ludibrio, perché mai e poi mai avrebbero rischiato di rovinare qualcosa di autentico lasciandolo dove i luridi bulbi oculari di peones incolti lo avrebbero potuto inquinare e avvelenare.

Non che passasse mai qualcuno, beninteso, e quello era uno dei problemi di Tibor. Non il più grande e non il più importante, in origine, ma poteva osservarlo crescere ora dopo ora, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. Rinchiuso in uno spazio seminterrato, in mezzo a tecnospettri, nessuno a cui parlare a parte se stesso e, diciamolo pure, alla lunga non ti rimane più molto da dirti, per quanto tu possa cercare di trascinare e dilatare le conversazioni. Era il genere di vita in cui a un certo punto cominci a scrivere ovunque “Il mattino ha l’oro in bocca”, dopodiché apri le porte a colpi di ascia.

Poi la porta si aprì e per la prima volta entrò un visitatore. Entrarono due visitatori. Il cuore di Tibor si sarebbe potuto fermare per l’emozione, ma decise di non farlo, riservandosi però una opzione per l’immediato futuro. Uno dei due visitatori era di sesso femminile, dopotutto. Non proprio il tipo di esemplare che popolava le sue fantasie solitarie, ma la fantasia è una cosa e la realtà un’altra.

E quei due non erano coloni. La ragazza doveva essere di un qualche mondo coloniale, a giudicare da aspetto e abbigliamento. Il tizio con lei aveva invece una faccia abbastanza miserabile e scialba da poter essere anche un colono, ma anche nel suo caso l’abbigliamento stonava. E il modo in cui si muovevano e si guardavano attorno, stordito e confuso, li etichettava subito come appartenenti alla più rara delle razze, almeno su Madre: turisti. Turisti in cerca di qualunque cosa cerchino i turisti.

Aveva mai visto turisti a Oklahoma City? E non normali terrestri di passaggio, ma turisti veri, giunti da altri mondi al solo e unico scopo di visitare il pianeta. Tibor Turalski non lo poteva escludere con certezza, ma lo riteneva molto, molto improbabile. Non ricordava di averne mai visti, almeno. Pure, ne aveva due di fronte proprio in quel momento. E aveva un incarico. Un dovere. E finalmente gli si era presentata l’occasione per dare un senso alla sua presenza in quel luogo. Era il suo momento.

«Posso fare qualcosa per voi?» chiese, alzandosi e procedendo con cautela verso i nuovi arrivati.

Poteva fare qualcosa per loro. Il tizio disse che erano interessati alla pietra: non sapeva se ci fossero informazioni in quel posto, ma nel caso avrebbero gradito esaminarle, non so, guardarle, qualunque cosa fossero, ecco. La ragazza fissava e taceva. Tibor alzò leggermente le spalle e rispose con la sua migliore espressione da commesso, che non aveva mai avuto modo di testare per carenza endemica di visitatori e che dunque era molto meno buona di quanto lui sperasse e pensasse. C’era un modello tridimensionale della pietra, sì: piuttosto piccolo e poco dettagliato, ma al momento era tutto ciò che avevano da offrire. Le cose andranno meglio quando il museo sarà completato, spiegò, ma i lavori sono stati interrotti proprio per il ritrovamento della pietra e beh, sapete anche voi come vanno certe cose, bisogna prima verificare che non ci sia altro materiale e poi, beh, è così. Il discorso si trascinò stanco verso il suicidio per inanizione, mentre la sua riserva di frasi fatte si prosciugava.

La ragazza continuava a fissare e tacere e Tibor cominciava a sentirsi a disagio. Il tizio rispose che sì, andava bene, capivano le difficoltà e i problemi, nuova colonia, tanto da fare, poca gente per fare e così via. Parlava come se stesse recitando un copione, e magari lo stava recitando davvero, ma in quel caso doveva essere scritto soltanto dentro il suo cranio e neppure tanto bene, incerto com’era a parlare. O almeno così sembrò a Tibor, che di gente ne vedeva poca negli ultimi tempi e pure quella poca era gradevole come una scolopendra nelle mutande. Tipo il tizio di Agni che spesso si infilava in un qualche angolo a studiare chissà cosa e quando te lo trovavi davanti quasi ti veniva un colpo, che neanche ti eri accorto che fosse entrato. Silenzioso come le scoregge peggiori, proprio.

Ma i turisti volevano vedere il modello tridimensionale della pietra, o almeno il tizio con la faccia da cosa lasciata dal cane sullo zerbino sosteneva di volerlo vedere e la ragazza non negava (proprio non parlava, in effetti, ma silenzio è assenso, no?), così Tibor Turalski li accompagnò, ripassando a mente il discorsetto di presentazione e tutto il ciarpame da guida turistica che, per la prima volta da quando gli avevano assegnato quel fantastico incarico, avrebbe dovuto usare di fronte ad altri esseri viventi. Avrebbe fatto bella figura, ne era sicuro: dopotutto si era allenato parecchio coi propri amici invisibili, no? Specie durante le prime tre agghiaccianti settimane, quando ancora la sua mente non si era ricoperta del necessario esoscheletro per sopportate i colpi della solitudine più inutile. Adesso c’erano persone che lo avrebbero ascoltato. Persone vere. Era quasi commovente.

Peccato che a parlare e chiedere fosse sempre quel tizio con la faccia da artista stitico. Non poteva stare zitto per due secondi e lasciare intervenire anche la ragazza? Spiegare a un essere vivente di sesso femminile sarebbe stato molto più gratificante! Invece no, sempre il maschio puzzone. Ma era proprio dura la vita per un povero e onesto specializzando.

Ma per quanto dura fosse, non era ancora dura a sufficienza. Mentre Tibor Turalski spiegava come i dati raccolti concordassero sulla origine artificiale della pietra e come fosse stata prodotta senza il minimo dubbio dalla stessa civiltà che aveva prodotto anche la pietra quasi gemella trovata su Agni, e si sentiva fiero e orgoglioso della propria indiscutibile competenza, una voce inaspettata ma anche e soprattutto indesiderata lo colpì alle spalle, dunque a tradimento. Qualunque colpo alle spalle (e in molti casi anche quando rimuovi la lettera esse iniziale) è sempre a tradimento, almeno secondo il codice morale di Tibor. Se ti è inflitto mentre parli (indirettamente) a una ragazza, è anche un reato da pena capitale. Possibilmente molto lenta e dolorosa.

«Non ascoltatelo, sono tutte scemenze,» disse la voce infida e traditrice. «Senza il minimo dubbio è solo la sua incompetenza. Per questo lo hanno messo a spolverare le cantine, mentre altri come noi si occupano di ricerche e lavoro serio.»

Tibor Turalski non aveva bisogno di girarsi, ma si girò lo stesso. Ed eccolo, il peto umanoide, che se ne stava impalato all’ingresso, braccia incrociate e sogghigno da linciaggio sotto il becco da tucano che gli faceva funzione di naso. Cosa ci faceva lì? E quando era arrivato? Doveva essere strisciato a rintanarsi nella tana in cui amava rintanarsi, senza farsi vedere, senza farsi sentire, senza neppure un avviso al custode, anzi, al responsabile del locale. Perché lui non era un semplice custode, ma era il responsabile. E mai, mai, mai che quello agniano si degnasse di trattarlo con rispetto. Sempre a fare tutto di nascosto, senza avvisare, senza parlare, se non per deridere.

«Signor Asanga, credevo di averle già detto di avvertirmi quando aveva bisogno di utilizzare i locali di questa struttura,» disse Tibor con la voce più fredda che gli riuscisse di produrre. Voce tiepida o poco meno, che il suo faccione arrossato rendeva ancora più calda. «Come lei sembra aver difficoltà a ricordare, io sono il responsabile del posto. Devo sapere chi entra e chi esce.»

«Non entra e non esce mai nessuno a parte me e ogni tanto Bodil, e il mio ruolo di ricercatore ospite mi autorizza a utilizzare questa struttura ogni volta che ne ho bisogno. Ma non è questo il punto e lo sai anche tu. Il punto è che stai raccontando scemenze sulla pietra a questi visitatori e raccontandole offri un pessimo servizio sia a noi che alla ricerca stessa. Chiudi il becco, grazie.»

La faccia di Tibor divenne, se possibile, ancora più rossa. «Io sto facendo il mio lavoro e non offro né offrirò mai alcun pessimo servizio alla ricerca! Io sono parte della ricerca, se lo ha dimenticato.»

Marijn Asanga gli regalò uno sbuffo di derisione, sistemandosi gli occhiali. «Parte della ricerca, sì, e magari a forza di cercare troverai anche il cervello. Non ti sei mai chiesto perché abbiano rifilato a te questo incarico e perché non ti abbiano ancora sostituito? Sono almeno due mesi che sei qui, o mi sbaglio? Ma io non credo di sbagliare, sai.»

«Lo hanno assegnato a me per la mia competenza!»

«Oh sì, per la tua competenza. Su questo ti devo dare ragione. Una persona con la tua competenza è meglio metterla in un posto dove possa fare il minor danno possibile, ossia in un seminterrato dove i visitatori non hanno ancora raggiunto la doppia cifra, neanche dopo mesi.»

Tibor non rispose, ma sembrava pronto a esplodere, oppure a esibirsi in un caso di autocombustione indotta. I due visitatori, al secolo Matteo Kori e Mei Saddhatissa, fissavano increduli la scena e non sapevano bene come reagire. Chi era il nasone occhialuto con le basette? Non un altro colono, poco ma sicuro: parlava con un accento strano ed era un accento parecchio pesante. Qualunque cosa fosse, però, lo spettacolino che stava improvvisando con la loro guida aveva portato una ventata di brio e di interesse in quella che, fino ad allora, era stata una escursione soporifera in uno scantinato in cui la puzza di muffa era ancora più forte che nel resto della città.

«Ah sì, eh?» disse infine Tibor, che aveva pensato a lungo ma non era riuscito a trovare nulla di più originale o potente. «Allora sentiamo un po’ cosa sa fare il nostro sapientone, eh? Uno che viene da un posto così famoso per le sue ricerche saprà fare di sicuro un lavoro fantastico, eh?»

Nuovo sbuffo di derisione. «Vuoi che faccia anche il tuo lavoro, adesso? Ma certo, perché no? Poi mi chiamerai anche per allacciarti le scarpe, la prossima volta.» Scosse le spalle. «Ma sì, sì. Lo farò io. Spiegherò io un po’ di cose sulla pietra, che se lo lascio fare a te chissà cosa impareranno questi due poveracci. Gli riempiresti la testa di scemenze e basta, tu.»

Il siparietto comico sembrava concluso. Tibor Turalski fece due passi indietro e Marijn Asanga fece due passi avanti: al termine della breve danza, i ruoli si erano invertiti e adesso era il diversamente snello Tibor a starsene sulla soglia a braccia incrociate sopra l’addome, mentre il nuovo arrivato dal naso di tucano si aggiustò gli occhiali, si guardò attorno per un attimo con una strana aria smarrita e si schiarì la voce. «Bene, sì, dunque. Continuerò io. Si diceva della pietra.»

E continuò lui, parlando con quel suo accento che Matteo non sapeva definire, ma che Mei più tardi gli spiegò essere l’accento tipico di Agni, o almeno di alcune regioni di Agni. «C’era un professore di origine agniana, in facoltà, e comunque sono cose che devi imparare in ogni corso di fonologia.» Matteo, che di corsi di fonologia non ne aveva mai seguiti né aveva in programma di seguirne, se la sua vita universitaria fosse ricominciata, accettò l’informazione con una scrollata di spalle. Ma tutto questo avvenne poi, una volta usciti dall’edificio. Adesso se ne stavano ancora di fronte al modello della pietra e ascoltavano lo straniero nasuto che parlava e parlava, spiegando come gli studi fossero avviati e verso quale direzione, le principali ipotesi e quelle meno accreditate, i contatti possibili e i meno realistici con la pietra quasi gemella di Agni, questo e quello, su e già, e il flusso continuo di nozioni, informazioni, opinioni e altre cose in -ioni entrava da un orecchio e usciva dall’altro, senza che nel cranio di Matteo restassero tracce tangibili del passaggio. Bla, bla, bla e ancora bla.

Mei ascoltava. Annuiva. Fece addirittura un paio di domande, sussurrate come se ci fosse una tassa sul volume dei suoni prodotti. Nel suo angolo, Tibor Turalski bolliva e sbuffava, ma in silenzio e di nascosto. Ma quanto lo avrebbe voluto strozzare quello agniano, che gli aveva rovinato così l’unico momento di gloria che avesse mai avuto da quando era arrivato su Madre. La vita era proprio dura.

«Spero che sarai soddisfatto, adesso,» disse poi, quando i due visitatori se ne furono andati. Non che avesse un qualche motivo per dirgli qualcosa del genere, ma lo disse lo stesso.

«Spero che avrai imparato qualcosa, adesso,» rispose Marijn Asanga. «Per il futuro, ti invito poi ad astenerti dal ripetere a pappagallo le scemenze che hai sentito dalla professoressa Bahgat. Butta via le cose certe, evidenti, che sono proprio così perché si vede, no? Sono immondizia. Se vuoi arrivare a qualcosa che non sia pulire i cessi con la lingua, esamina tutto prima di accettarlo, chiunque sia ad averlo detto e per quanto ti possa sembrare evidente. Chiedi. Cerca. E impara.»

E dopo la predica non richiesta e non accettata Marijn se ne andò, con un ultimo sbuffo di derisione. Rimase però a lungo nella mente di Tibor, che lo maledisse per il resto della giornata e si immaginò ogni tipo di supplizio a cui sottoporre quella scoreggia antropomorfa, tanto piena di gas che faceva fatica a non volarsene va. Pallone gonfiato schifoso! E così sedeva e ruminava bile, nel silenzio del luogo, ora dopo ora. Non era decisamente una persona felice, né al momento né in altri momenti.

Tornavano verso l’alloggio, Mei e Matteo. Anche Indira e Sharma dovevano essere ormai rientrati, a meno che la bevuta in compagnia del gruppetto di coloni non fosse finita davvero fuori controllo (possibile ma non probabile, secondo il loro modesto parere). Dovevano essersi ormai accorti che due di loro erano spariti. Quindi avrebbero avuto qualcosa da ridire, specialmente Indira. Quindi... ma a Matteo non piaceva l’idea di proseguire con la catena di possibili cause ed effetti, così troncò il pensiero e lo lasciò a svolazzare libero ed etereo nel nulla iperuranico delle riflessioni vane. In fondo, si era già annoiato a sufficienza in quella specie di museo-sgabuzzino e non aveva voglia di annoiarsi ulteriormente con ipotesi e previsioni. Che la vita si arrangiasse per conto proprio.

«È stato interessante, tutto sommato,» mentì per fare conversazione, mentre procedevano in silenzio per le vie non silenziose ma alquanto fetide della città. Per ragioni che preferiva non indagare, il suo naso non sembrava volersi assuefare all’olezzo da cantina di quel pianeta. Che allegria.

«È stato molto interessante,» rispose Mei. «Specie quando ha cominciato a parlare il ricercatore di Agni. La guida iniziale, invece, era un poco...»

Era un poco, senza dubbio, ma solo in senso figurato. In senso concreto, invece, Matteo lo avrebbe definito un molto, forse tendente al troppo. Ma capiva perché Mei avesse trovato interessanti tutte le chiacchiere di quel nasone occhialuto: il tizio che aveva fatto da guida all’inizio, e che doveva più o meno ricoprire lo stesso incarico che Steve aveva avuto nel museo provvisorio di scienze naturali, si era comportato da tipico intrattenitore di turisti. O imbonitore, a seconda dei punti di vista. La solita pappardella precotta, cambia nome e aggettivi a seconda del contesto, ritmo piatto e monotono, con un paio di battute pianificate per non fare ridere neppure le persone che soffrono del peggiore senso dell’umorismo nella galassia abitata, eccetera eccetera. Mancava giusto la bandierina o l’ombrello da sollevare e agitare di tanto in tanto. Una depressione da lutto in famiglia.

Il nasone non era stato deprimente. Noioso e in gran parte incomprensibile, almeno per lui, ma non lo potevi descrivere come deprimente. Pedante, ora, era un aggettivo più appropriato a lui, ma anche logorroico, presuntuoso, con una spruzzata di arroganza da signor So-tutto-io. Il genere di persona che Matteo non poteva non odiare a pelle, soprattutto perché lui stesso tendeva a diventarla quando e se una discussione si spostava in uno dei pochi campi di sua competenza. Letteratura e le frattaglie a essa collegate, per esempio, oppure... oppure basta, ok, ma qualcosa c’era.

Fosse come fosse, il nasone aveva spiegato varie cose, che si potevano riassumere così: la pietra di Madre è simile alla pietra di Agni. La sua origine artificiale è probabile ed è l’ipotesi più accreditata al momento, ma ancora non è stata dimostrata. Non sappiamo a cosa servisse. Non sappiamo perché ce ne sia una su Madre e una su Agni. Non sappiamo se ce ne siano altre. Sono rocce inerti. Hanno una forma insolita, ma non sappiamo cosa significhi, ammesso che una qualche intelligenza le abbia modellate. Il materiale di cui sono composte è una strana mescolanza di vari tipi di rocce differenti e appare identico al materiale con cui sono state edificate le rovine aliene di Madre. E così via.

Riassumendo ancora di più, Matteo avrebbe detto che la pietra è un coso strano di cui ancora non si sa nulla, ma su cui è bello fantasticare. Oh beh, ognuno aveva diritto ai propri interessi e spendere il proprio tempo come preferiva. Lui non lo avrebbe voluto spendere ascoltando le storie di un sasso, ma per una volta aveva deciso di comportarsi da altruista e fare contenta Mei, che invece sembrava parecchio presa da tutta quella roba. Ciò lo aiutava a sentirsi una persona migliore.

Continuava a sentirsi una persona migliore mentre ascoltava Mei, che con un filo di voce ancora si ostinava a parlare della pietra, come se al suo vicino importasse qualcosa. Non gliene importava e si sa, ma siccome ciò lo faceva sentire una brava persona e ognuno ha diritto di tanto in tanto a rifare il look alla immagine che ha di sé, Matteo annuiva e aggiungeva le funzioni fatiche del discorso più appropriate ai vari passaggi narrativi, alla maniera di un dialogante con Socrate. Non si ricordava di averla mai vista o sentita così loquace ed entusiasta. Non che Mei apparisse molto entusiasta, ma la sua voce suggeriva che forse lo fosse e poi parlava davvero tanto e, beh, quando uno parla tanto di una cosa, allora significa che ne è entusiasta, giusto? Che si sfogasse pure, dunque.

Mei si sfogò, se così la si vuole mettere, e fu un bene per lei, perché al rientro in alloggio trovarono uno stato di cose che non prometteva molta allegria, né occasioni per sfogarsi, fossero per lei o per altri. Cominciò con Indira e la faccia con cui li accolse.

«Toh, i latitanti sono rientrati, finalmente. Divertiti in giro per il mondo?»

Matteo cominciò a spiegare che no, non si erano divertiti, o meglio non erano andati a divertisti, ma a documentarsi, anzi istruirsi, perché volevano cercare notizie sulla pietra, sai, e allora così Mei mi ha detto che conosceva un posto, o almeno sapeva che c’era un posto e... Indira non ebbe neppure bisogno di muoversi o parlare: lo interruppe con la sola forza del suo sguardo e del suo silenzio. «È successo qualcosa?» borbottò alla fine Matteo. «Cioè...»

«Sharma sta male,» rispose Indira.

«Non sto proprio male,» la contraddisse una voce dall’averno, che nel caso specifico doveva essere la stanza accanto, perché era da lì che proveniva, sebbene il timbro suggerisse che l’aldilà fosse una ipotesi migliore. «Mi sento solo un poco stanco, non è il caso di farne un dramma.»

Matteo scambiò con Mei uno sguardo da colpevole condannato a morte per lapidazione, poi tornò a fissare Indira. «Che cosa gli è successo? Ha mangiato qualcosa che...»

«Certo che ha mangiato qualcosa. Non ci hai visti mentre pranzavamo? Ma non sta male per quello. O almeno non credo,» si corresse, con una punta di dubbio. «Saremmo stati male anche noi se fosse colpa del cibo, no? Faceva schifo, d’accordo, ma... No, non è quello.»

Matteo scrollò le spalle. «E cosa sarebbe allora?»

«Lui sostiene che sia stato un insetto. Lo avrebbe punto su un lato del collo, mentre eravamo ancora a tavola in quel locale. Subito gli prudeva un poco e basta, non vi aveva badato molto, poi quando stavamo rientrando ha cominciato a girargli la testa, ci siamo dovuti fermare un paio di volte su una panchina, e non so cosa ci fanno alle panchine qui, ma dubito che riuscirò a pulire i pantaloni, uno schifo guarda che... Comunque, da quando siamo arrivati è a letto e non sembra avere intenzione di alzarsi a breve. Ecco come sta. Sta coricato.»

«Possiamo vederlo?» chiese Mei. Potevano e lo videro. Parzialmente. Era a letto, con le coperte che gli arrivavano fino al naso. La sua faccia era pallida, per quanto lo possa essere con la carnagione scura che si ritrovava, e possedeva più o meno tutta la vitalità di una fetta di limone spremuta e poi gettata via. La finestra era chiusa e l’aria nella stanza era pesante, nonché aromatizzata alla essenza di calze sporche: con un senso di colpa non vago, Matteo pensò a ciò che aveva gettato sotto al letto e a quante volte si fosse ripromesso di lavare il tutto, senza però farlo davvero. Forse il momento era arrivato, o forse era già passato da qualche giorno. Probabilmente la seconda.

«Ma sto bene, non vi preoccupate,» disse Sharma. «Deve essere solo una piccola reazione allergica, o qualcosa di simile. Anche gli altri hanno detto che può capitare, di tanto in tanto, quando sei punto da un insetto. È successo anche a diversi di loro. Probabilmente per domani mi sarà passata.»

Silenzio, poi rotto da Matteo. «Beh, se lui sostiene che non ci dobbiamo preoccupare e che gli sarà passato tutto per domani, allora...»

Indira gli somministrò un robusto ceffone educativo sulla nuca. «E secondo te ti pare che stia bene? No, dico, guardalo. Ha la faccia di uno che sta bene? Nel tuo cervello malato questo corrisponde a un qualche tipo di “stare bene”? Sentiamo la tua saggia opinione, dai!»

«Beh, ecco, magari non proprio bene bene, d’accordo, ma non troppo male, no? Voglio dire, non da farsi prendere dal panico, no? Preoccupati ok, va bene, ma... sì, ecco.»

Indira sospirò. «Lasciamo perdere. Aspettiamo pure fino a domani, se è così che vuoi, Sharma, ma se domani sarai ancora a letto a tremare e dire che va tutto bene, all’ospedale ti ci porto io a costo di doverti trascinare per la barba o per le orecchie. Capito? E solo perché gli altri hanno detto che non è mai morto nessuno per una puntura di insetto. Finora. Cerca di non essere il primo.»

Sharma annuì senza rispondere. Matteo rimase un poco in silenzio a fissare la scena, poi azzardò la domanda su cui stava meditando da qualche tempo. «Ma il principio di responsabilità vale anche se non siete su Lakshmi? Oppure una volta fuori ognuno fa quello che vuole e tanti saluti a tutti?»

«Il principio di responsabilità è qualcosa che è parte di noi, qualcosa che non ci possiamo togliere. È un’abitudine, se così lo capisci meglio. Lo seguiamo dappertutto senza farci caso. Non ci pensi e non lo fai, ma lo pratichi e basta. Pensalo pure come una seconda natura, se ti fa comodo.»

Matteo confrontò le parole di Indira col comportamento di Chakra durante il loro anno sabbatico. A quanto pareva, alcuni lakshmiti ne erano immuni, ma in fondo non erano affari suoi. Se il principio di responsabilità prescriveva che, una volta informato a dovere, Sharma fosse libero di fare quel che gli pareva a patto che se ne assumesse tutte le conseguenze, allora non era un problema suo, giusto? Se Sharma non voleva andare all’ospedale, il problema era di Sharma. Lui Matteo poteva fregarsene e vivere in pace, qualunque cosa accadesse. Il pensiero lo rassicurò, anche se apriva contraddizioni.

«Ma se lui è responsabile di se stesso, perché lo vorresti trascinare in ospedale, scusa? Se lui non ci vuole andare, la responsabilità è sua, giusto? O sbagliato?» chiese.

Fu Sharma stesso a rispondere. «Immagino che lei si riferisca al caso in cui io sia inconscio, oppure la febbre mi abbia reso incapace di intendere e volere. In quel particolare caso, è ovvio che non mi si potrebbe più considerare capace di decidere responsabilmente per me stesso, essendo lo stato del mio cervello alterato: le persone che mi stanno vicino, dunque, avrebbero il diritto di decidere per me, ma sempre assumendosi la piena responsabilità di qualsiasi decisione.»

Matteo guardò il poco di lui che spuntava da sotto le coperte. Poteva anche stare male, ma di certo il suo spirito pignolo non era cambiato, né il suo modo di parlare. Dunque forse non stava poi davvero così male. Altro problema che non lo avrebbe riguardato: ottimo. Poteva essere il momento migliore per vendicarsi e fare a Sharma qualcosa per il suo bene, ahaha, ma sarebbe stato troppo faticoso e in fondo, ma anche a metà e all’inizio, lui non ne aveva proprio voglia.

«Beh, allora direi che qui è tutto risolto, per adesso. Che si fa, dunque?»

Si fece che Indira lo guardò parecchio male, ma per una volta si astenne dal rispondere. Tornarono in quello che, per mancanza di alternative, poteva essere definito salotto, nonché cucina, nonché un certo numero di altre stanze, pur essendo un locale solo e pure piuttosto stretto. Che Sharma restasse a riposare in pace, preferibilmente non in forma definitiva, se così aveva scelto: gli altri si sarebbero tenuti fuori dalle scatole. Per quanto fosse possibile in un alloggio angusto come il loro, dove solo una parete molto sottile separava la stanza comune polivalente dalla camera in cui Sharma e Matteo dormivano, ma l’architettura si sarebbe presa cura di se stessa e comunque non potevano farci nulla.

«Dunque, cosa avete combinato oggi, voi due?» chiese Indira, quando furono seduti in salotto (non accomodati, perché azioni quali accomodarsi richiedevano la presenza di qualcosa di comodo su cui sedersi e quel qualcosa latitava). «Spero nessun danno.»

Danni non ne avevano commessi, o almeno niente che loro avessero saputo riconoscere come danni, così Matteo e Mei si alternarono nello spiegare il loro pomeriggio. Indira non ne sembrò colpita né interessata. Fu poi lei a raccontare come si fosse concluso il pranzo protratto coi coloni, gli scambi di informazioni che erano avvenuti, qualche vago suggerimento per il futuro e in generale una lunga lista di chiacchiere usa e getta. «Dicono che se proprio tu vuoi vedere questa Bidonia non c’è alcun problema, ma è uno schifo di posto e non ne vale la pena, secondo loro,» concluse. «Ma non valeva neppure la pena di venire fin su Madre e tu ci sei voluto venire lo stesso, per cui immagino che non cambierai idea. Ti piace fare cose inutili.»

Matteo non sapeva di avere avuto una qualche idea, ma a quanto pare doveva essere così, o almeno Indira aveva deciso che era così. Niente di insolito. «Io comunque non è che abbia proprio deciso di voler andare a visitare questo posto, eh,» tentò di obiettare.

«Quindi significa che non ci vuoi andare e possiamo tornarcene a casa?»

«Beh, non ho detto questo. Potrei volerlo visitare, ma non ho già deciso di farlo. In fondo è l’unico riferimento che ho, l’ultimo posto in cui è stato mio fratello. Potrebbe suggerirmi qualcosa, non so, o almeno sarebbe un po’ come, dico, un ricordo, no?»

«Ci penseremo poi,» tagliò corto Indira. «Comunque a me sembra che questo viaggio su Madre sia un giro a vuoto, non so voi. Voglio dire, cosa abbiamo ottenuto in concreto? Niente.»

«Beh, non proprio niente. Abbiamo incontrato il gruppo che era con mio fratello e abbiamo saputo un po’ di più su di lui, e visitato un posto nuovo, e...» La voce di Matteo si spense per compassione verso il cervello. «Non è stato proprio inutile, ecco,» concluse.

Indira sbuffò. «Un viaggio fondamentale, certo. Adesso sai tutto su questo tuo fratello e hai risolto i problemi della galassia, giusto? Te lo avevo detto io e te lo aveva detto pure Chakra che non sarebbe servito a niente, no? Tu non ci hai ascoltati, siamo venuti qui e non ti è servito a niente. E allora?»

«Er...»

«A qualcosa è servito. È un posto molto interessante, questo pianeta.»

Indira e Matteo si girarono verso l’origine di quelle parole e furono sorpresi nello scoprire che era la bocca di Mei. Si erano dimenticati della sua esistenza, ove per sua si intenda la persona intera e non solo la bocca. Ma era facile dimenticarsi che Mei esisteva: si impegnava sempre a fondo per aiutarti e aveva doti mimetiche da fare invidia a un camaleonte o agli insetti più specializzati. Era come una specie di ricamo umanoide sulla tappezzeria, anche quando non c’era una tappezzeria, come in quel misero alloggio madriano. Eppure stavolta aveva parlato. Aveva espresso una opinione.

«Pensi davvero che sia interessante?» le chiese Indira, incredula più ancora che sorpresa.

«Sì. È un poco primitivo, ma ci sono molte cose interessanti qui. La pietra è interessante, e anche le strutture organiche nei giganti gassosi. Lo pensi anche tu, giusto? Volevi assistere alla conferenza di quel professore di Svarga quando era in programma la sua sosta a Varshi.»

«Sì, lo volevo,» ammise Indira, «ma non l’ho potuta seguire perché siamo dovuti venire qui, quindi non so se fosse poi davvero così interessante. Lo sembrava. Le registrazioni delle altre conferenze lo sembravano. Ma anche se dovessimo ripartire domani stesso, non arriveremmo in tempo a casa e quindi non saprò mai se fosse interessante anche di persona. Ma questo cosa c’entra, scusa?»

«C’entra che ci sono cose molto interessanti su questo pianeta e nel suo sistema solare.»

«Ci sono cose molto interessanti su tutti i pianeti in tutti i sistemi solari.»

«Ma qui sono più strane.»

E all’ultima obiezione di Mei Indira non sapeva come rispondere. Così non rispose, ripiegando sulla sempre valida strategia di aggirare la domanda e cambiare in parte l’argomento. «Quindi tu vorresti restare qui, se capisco bene.»

Mei alzò lievemente le spalle. «Per un poco. Per cercare di saperne ancora qualcosa in più. Davvero tu non sei curiosa? Mi sembra strano, sai.»

Erano molte le cose che a Indira sembravano strane, al momento, ma la spiccata non curiosità che provava per Madre e i suoi presunti misteri non rientrava proprio tra queste. «Se davvero ti interessa tanto, restiamo pure per un poco. Tanto è ovvio che questo anno di università lo dovremo rifare, con tutte le lezioni che abbiamo già perso, per cui puoi anche toglierti qualche capriccio. Ricordati però che qui servono i soldi e per i soldi dobbiamo lavorare. Se ti va davvero bene...»

A Mei andava davvero bene, in apparenza, o almeno le alternative le andavano peggio. Matteo non si espresse, ancora troppo sorpreso dalla scena per sapere cosa dire, e siccome ciò che diceva aveva il pessimo vizio di tornargli nei denti nelle occasioni meno opportune, decise che il silenzio poteva davvero essere d’oro, almeno in quel caso. E doveva digerire l’evento inaspettato. Mei che prende la parola in una discussione, senza che qualcuno le abbia posto una domanda. Mei che si oppone a Indira. E vince, come se non bastasse! Era come vedere un monumento che si stacca dal piedistallo e defeca in testa a un piccione. Incredibile. Ma lo aveva visto, quindi era vero.

Gli lasciava però un retrogusto amaro in bocca, molto amaro. E abituale, d’accordo, ma questo non lo rendeva migliore. Lo peggiorava, semmai. Perché sarebbe dovuto essere lui a parlare a favore del viaggio che li aveva portati su Madre, non Mei. Sarebbe dovuto essere lui a schierarsi a favore della permanenza, non Mei. Era poi lui che, proprio quel giorno, aveva deciso di ribellarsi e affermare la propria individualità, rinascere e ricostruirsi come persona, eccetera eccetera. Giusto? Eppure tutto ciò che aveva fatto era starsene seduto a borbottare incerto. Fantastico.

Ma era andata così e accettò il risultato senza proteste. In fondo gli faceva comodo. Quella notte ci dormì sopra senza rigirarsi nel sonno e senza incubi, anche se nel letto accanto ogni tanto Sharma lo disturbava con rumori strani, borbottii e mugugni. Che cosa avesse da fare quei versi, Matteo non lo sapeva, ma avrebbe gradito molto se ci avesse dato un taglio. Poi fu mattina, si ricordò che Sharma si era sentito male dopo la puntura di un insetto e rifletté che forse non lo avrebbe dovuto maledire tanto col pensiero, perché era comprensibile che il compagno avesse trascorso una notte agitata, se stava davvero male. Oh beh, mica si poteva ricordare tutto, anche lui.

Se lo ricordava adesso, così controllò come stesse Sharma, ma solo dopo una tappa in bagno. C’era un ordine da rispettare e le priorità di Matteo erano chiare. Lo divennero meno quando verificò che il compagno non sembrava migliorato, anzi. O chissà, magari era migliorato, ma si divertiva molto a simulare il malato terminale mentre dormiva, con tanto di faccia impallidita, sudata ed espressione di chi sta cercando di espellere un calcolo renale più largo del condotto da cui dovrebbe passare.

Una volta svegliata, il responso di Indira fu chiaro: stava ancora male. Di conseguenza, un viaggio in ospedale li attendeva, per ammirare le imaginifiche risorse mediche di quella colonia dimenticata da dio e maledetta dagli uomini. Oppure di quel posto molto rustico e tradizionale, a seconda di chi lo descriveva. Indira si schierava nella prima fazione.

«Contento? Potrai visitare un altro posto in cui è stato anche tuo fratello,» disse a Matteo, mentre si preparavano ad accompagnare Sharma. Il veicolo che lo avrebbe trasportato era in arrivo, o almeno così aveva annunciato la voce del pronto soccorso. Chissà che veicolo...

«In realtà ne avrei fatto volentieri a meno, in questo caso,» rispose Matteo. «Non è proprio un posto che mi piaccia molto, a dire il vero.»

«Dubito che ci siano esseri viventi dotati di una qualche forma di intelligenza a cui piaccia andare in un ospedale, a parte forse chi ci deve lavorare. E probabilmente neppure a loro piace molto stare tutto il giorno in mezzo ai malati.»

Sharma non reagiva, ancora inconscio. Proprio una fantastica esperienza, pensò Matteo. Almeno si poteva augurare che non fosse una cosa grave. Una qualche reazione allergica, se possibile, che una iniezione e un giorno di riposo possono sistemare. Shock anafilattico ritardato, chessò, o altra roba dal nome strano. Perché una mezza idea deforme si stava forse sviluppando nel retro della sua testa e non avrebbe voluto perdere tempo. L’idea poteva morire e lui avrebbe preferito evitarlo, perché gli sembrava una idea interessante. Promettente, anche.

Come gli aveva chiesto più volte Chakra, forse aveva deciso cosa fare della propria vita. Adesso gli restava solo da verificare che anche la sua vita fosse d’accordo.