La galassia di Madre - 103
Il soldato semplice Cédric Petrov camminava adagio nelle strade deserte del settore C di Oklahoma City, capitale della colonia di Madre per mancanza di alternative. Era notte, ma notte seria, di quelle in cui non vedi neppure dove stai andando, né tu né la tua vita. Il cielo sopra di lui era una distesa di nero stinto, senza stelle, solo nuvole che riflettevano il buio di quell’area cittadina, illuminata come il culo di una mosca. O così l’avrebbe descritta il sergente Kamphuis, che in quel momento doveva essere al caldo a dormire nel suo alloggio alla base. Beato lui. Ma in fondo il sergente era sergente, non un soldato semplice, e il lavoro di quella notte era un lavoro per soldati semplici, sia di rango che di fatto. Semplici e sacrificabili, forse.
Cédric Petrov non era al caldo. Era di ronda in un settore della città in cui la gente andava a letto al tramonto e si alzava all’alba. O magari no, magari facevano parecchio altro, vivevano vite ricche e soddisfacenti come solo pochi nella galassia, animate, esuberanti, questo e quello. Forse e magari. A guardarti attorno, però, non lo avresti mai detto, e lui non lo diceva. A guardarsi attorno, c’era tutta la vita che si poteva trovare in un cubetto di ghiaccio. Finestre buie, strade buie, vite buie, tutto buio. L’energia era ancora un bene di lusso e non aveva senso sprecarla per illuminare strade non usate. Il centro città sì, come gli altri settori in cui qualcuno usciva, c’erano locali e insomma non sembrava di essere chiusi nel sarcofago di Tutankhamon o quello che era, quel tizio truccato e con la barba da idiota che avevano seppellito migliaia di anni fa da qualche parte in un deserto.
Il settore C era solo residenziale, e residenziale per lavoratori di basso livello, di quelli che passano le giornate a spaccarsi il culo (metaforicamente, ma Cédric non sarebbe stato sorpreso di scoprire un elemento letterale dietro la metafora) per costruire la nuova colonia: gettare strade, edificare case e tutta quella roba lì. Manovali che più manovali non si può, in una società in cui le macchine devono essere usate ancora col contagocce. Ma solo provvisoriamente, eh: ancora una centrale energetica e poi ci siamo, davvero. Poi cambierà tutto, vedrete. Saremo autosufficienti e ci potremo permettere i lussi che volete e magari anche qualcuno in più. Cédric Petrov aspettava sfiducioso.
Non era proprio nato su Madre, ma ci era arrivato a dieci anni assieme ai genitori, che fuggivano da una vita a vicolo cieco sulla Terra. A casa non sarebbero mai andati da nessuna parte ed era tempo di cambiare, aveva detto suo padre. Ma su Madre sarà tutto diverso, vedrai. È la nuova colonia della Terra, un mondo ancora vuoto, fresco, da costruire. Un mondo pieno di possibilità, in cui tutti si sarebbero potuti fare una nuova vita, migliore, ricca di soddisfazioni, eccetera eccetera. Lo diceva la pubblicità e papà ci aveva creduto, come al solito. C’erano vari motivi perché la loro vita terrestre si era arenata in una cloaca e on erano tutti addebitabili a cause esterne. Ma era andata così.
Oggi, a ventitré anni, Cédric Petrov era soldato semplice nella guarnigione di Madre. Non che fosse davvero una guarnigione, almeno secondo lui e secondo molti colleghi, inclusi quelli con virgolette sulle spalle. Chiamatelo esercito e non ci pensiamo più, diceva spesso il sergente Kamphuis. Anzi, è un esercito di occupazione, aggiungeva a volte, senza specificare cosa occupassero e perché. Ma lo era, in effetti, o almeno lo sembrava, il che in molti casi non fa differenza. Un esercito, enorme per le dimensioni della colonia e per le possibili minacce da cui l’avrebbero dovuta difendere. Minacce pari a zero, almeno finora. Dettagli. Lui ne era parte di quell’esercito.
Una parte molto bassa, in effetti. A Cédric sarebbe piaciuto un posto un poco più in alto, non molto, giusto un segnetto o due da appiccicarsi alla spalla, ma gli spazi erano quelli che erano, i soldi della famiglia pure e così si era dovuto accontentare. Dopotutto, in ogni esercito devono esserci persone a cui si danno gli ordini: non tutti possono ordinare. Lui era uno di quelli a cui davano gli ordini. E di solito erano ordini che nessun altro avrebbe voluto ricevere. Adesso gli toccava pattugliare di notte il settore C della città, a caccia di un fantomatico serial killer di animali randagi. Grandioso. Proprio il genere di impresa eroica che aveva sognato da bambino, ahaha.
Il colpevole, chiunque fosse o qualunque cosa fosse (Cédric propendeva per la seconda ipotesi), era stato autore già di cinque delitti riconosciuti. Se di delitti si poteva parlare. Cani e gatti di piccola taglia, sminuzzati come se li avessero infilati in un tritacarne difettoso, o come se qualcuno si fosse divertito a giocare all’allegro patologo con loro. Forse i pezzi c’erano tutti, forse ne mancavano, ma nessuno aveva mai controllato. Erano animali randagi. Solo che due di loro un padrone lo avevano, anche se erano padroni che li seguivano poco. E si erano lamentati. E alla base avevano deciso di spedire una manciata di soldati, pescati a caso dal fondo del barile, per pattugliare di tanto in tanto le vie e poter poi dire che ecco, lo vedete? Noi ci siamo, ci prendiamo a cuore il benessere dei nostri cittadini, proteggiamo i terrestri, credere obbedire e combattere, uno per tutti e tutti per uno. E poi le vittime erano state solo animali, per adesso, ma per dopo? La prossima volta poteva anche toccare a un umano. Così era meglio prendere sul serio il lavoro e controllare bene, aveva detto il sergente.
Quella notte toccava a Cédric Petrov prendere sul serio il lavoro e controllare bene, proprio come era toccato a lui già in molte altre notti e come sarebbe toccato a lui in molte altre notti future. Non era un incarico pericoloso, lo aveva rassicurato il sergente Kamphuis. È una questione di forma, più che altro. Al massimo sarà qualche altro animale randagio, magari un po’ fuori di testa. Niente che tu non sia addestrato per sistemare, no? Poteva essere pericoloso per un civile, magari, ma lui non era un civile. Lui era un soldato. Era armato. Quindi non ci sarebbero stati problemi, giusto? Il che era vero, se la si voleva mettere in quei termini. Pure, a Cédric quell’incarico non piaceva.
Cinque casi di animali smembrati. Questo era solo il conto ufficiale. Quanti altri non erano stati mai denunciati? Perché non tutti si prendono la briga di segnalare che c’è un gatto morto per strada. Non lo facevano sulla Terra e non avevano certo cominciato a farlo su Madre. Il colpevole poteva essere un qualche psicopatico umano, o un umano con strani interessi e strani passatempi, ma Cédric non lo pensava. Un altro animale era più probabile, uno diverso dall’homo sapiens. Solo che su Madre non ci dovevano essere animali pericolosi, almeno secondo le versioni ufficiali. Non importati dalla Terra e neppure nativi, a meno che non si volessero contare gli insetti. Quelli sì che erano fastidiosi, ma ci vorrebbe un insetto molto ma molto grosso e determinato per smembrare un cane, anche uno di piccola taglia. Pure, gli animali erano morti e qualcuno li aveva ammazzati. O qualcosa.
Il settore attorno a lui era vuoto e silenzioso. E buio. Sembrava agire solo di notte, il colpevole, così di notte dovevano pattugliare. A Cédric sarebbe piaciuto molto di più pattugliare di giorno, anzi non pattugliare affatto, lasciare che ci pensasse qualcun altro, ma non ci avrebbe pensato qualcun altro, a lui avevano rifilato l’incarico e lui ci avrebbe dovuto pensare. Camminando per le strade. Di notte. Al buio. Da solo. Scattando a ogni suono, perché ogni suono poteva essere quello giusto. Oppure sbagliato, a seconda dei punti di vista. Secondo il suo punto di vista, non sarebbe dovuto essere lì da solo, neppure se lo avevano spedito a fare l’accalappiacani (o accalappiaqualcosa).
Era vero. Il regolamento prevedeva che tutti gli incarichi esterni alla base fossero sempre svolti da almeno una coppia di soldati. Dovevano guardarsi le spalle a vicenda e tutta quella roba lì, sapete. Ma di recente era successo qualcosa di grosso, dicevano che fosse arrivato Leonardi in persona sul pianeta, anche se nessuno lo aveva visto, e la base presso l’ascensore vecchio era un formicaio che un bambino dispettoso aveva calpestato. Dicevano anche che ci fosse stato un litigio tra i due grandi capi, il generale Staplewood e il generale Petkovic, e che sarebbero cambiate molte cose, magari un repulisti tra gli altri ufficiali, una sorta di epurazione, via tutti quelli che non sono d’accordo con me e bla, e bla, e bla. Dicevano. Cédric Petrov non ne sapeva nulla, ma l’aria alla base era pesante, non un clima che piacesse a lui o a molti altri dei suoi colleghi ai piani bassi. Un serial killer di animali randagi occupava un gradino estremamente infimo sulla scala cosmica degli eventi. Più o meno di fianco allo scopino del gabinetto, insomma.
Così avevano spedito una persona sola e quella persona era Cédric Petrov. Fortunello! Ma ormai era andata così e lamentarsi sarebbe stato inutile. Doveva pensare semmai a fare un buon lavoro: non ne avrebbe ricavato alcun vantaggio personale o professionale, ma se avesse trovato il colpevole, e se lo avesse preso o comunque sistemato, almeno sarebbero finiti i turni di notte in città. Non molto in un ipotetico grande schema, ma abbastanza nel suo piccolo schema privato. Così procedeva, solo in quella vuota notte cittadina, e scattava a ogni più piccolo rumore.
Quasi le due e ancora nulla. Cédric controllò di nuovo l’orario, nel casi si fosse sbagliato, magari la fretta, la voglia di far passare il tempo, spingerlo con la forza del pensiero, affrettare la rotazione del pianeta, accelerare l’alba, ma niente, niente e ancora niente. Solo le due. E su Madre la rotazione era di trenta ore circa, invece delle ventiquattro terrestri. Notti più lunghe, dunque. Attese più lunghe. O così gli sembrava, nelle guardie interminabili spese e sprecate a camminare avanti e indietro lungo strade addormentate, fra edifici addormentati, persone addormentate. E silenzio. Silenzio ovunque.
A Cédric Petrov piaceva anche il silenzio, se assunto in piccole dosi. Quando te lo scaricavano sulla testa con tutta la violenza di una cascata, però, diventava molto meno gradevole, se mai gradevole era stato davvero. Nelle ore interminabili prima dell’alba era una sostanza molliccia, gelatinosa e un poco appiccicosa, attraverso cui poteva immaginare di sentire la propria vita consumarsi sulla nuova e usata colonia della Terra, inutile e nell’inutilità. Poteva sentirsi fuggito da un vicolo cieco sulla Terra per cadere in un vicolo cieco su Madre, un cambiamento che non cambiava nulla, a parte lo sfondo della commedia triste che viveva. Poi un qualche piccolo rumore lo distraeva e tutto tornava a posto, i pensieri più imaginifici se ne andavano e la realtà consueta riprendeva il posto che l’uomo le aveva assegnato, che la realtà lo volesse o meno.
Un gatto.
Sporgeva la testa dall’angolo di una strada, il resto del corpo nascosto da un edificio uguale a mille altri edifici. Gli occhi rifletterono giallastri la luce che Cédric gli puntò in faccia, più per abitudine che per reale convinzione di trovare qualcosa da illuminare. Ma quella volta qualcosa c’era. Ed era un gatto, probabilmente randagio, ancora più probabilmente in giro a farsi i propri affari felini come in chissà quante altre notti prima di allora. Un gatto.
«Tornatene a casa. Non sai che c’è il coprifuoco per quelli come te?» gli disse Cédric.
Il gatto lo guardò e basta. Cédric Petrov scrollò le spalle. Non c’era un coprifuoco, né per i gatti né per altri animali a due o quattro zampe. Poteva anche essercene uno, in quella zona, con tutta la vita che trovavi per strada, ma era solo stanchezza, sveglie all’alba, lunghe ore di lavoro manuale, varie ed eventuali. E poi non è che ci fosse molto da divertirsi, a Oklahoma City. Alcuni si divertivano lo stesso, ma per chi magari aveva già una famiglia, lavorava duro, si era stabilito e stabilizzato ormai da anni, eccetera eccetera, i divertimenti che la capitale di Madre poteva offrire non erano proprio il meglio, anche se erano il solo. A volte ti divertivi di più a scaccolarti in solitudine.
Il gatto continuava a sporgere la testa dall’angolo dell’edificio e guardare. Cédric rimase immobile, a vedere cosa si sarebbe inventato il felino. In apparenza nulla, così fu l’animale bipede che pensò di inventarsi qualcosa. Poteva catturare il gatto e usarlo come esca? In fondo le vittime del presunto serial killer erano tutte animali randagi e proprio davanti a lui c’era un gatto randagio, al momento. Invece di continuare a girare a vuoto per la città, forse sarebbe stato più utile fermarsi in un punto, magari in una di quelle zone in cui il colpevole aveva già colpito, e offrirgli un gatto con cui potersi divertire. Avrebbe risparmiato tempo. Avrebbe soprattutto risparmiato fatica. Infine, aveva maggiori probabilità di funzionare rispetto alla ronda con cui si annoiava ormai da giorni.
Il gatto sparì. Cédric Petrov valutò se inseguirlo o meno, ma rinunciò quasi subito. Era stata in ogni caso una idea stupida, un gatto randagio non si sarebbe mai lasciato toccare da uno sconosciuto, non senza graffiare e soffiare. E chi aveva voglia di farsi graffiare da un gatto? Non lui. Così riprese con la sua ronda, un passo dopo l’altro, nelle strade vuote, nel silenzio, nella notte. Poi ci fu un miagolio da battaglia, o uno che lui decise di interpretare come miagolio da battaglia. Tagliò la quiete come il gesso che un bambino stronzo fa cigolare il più possibile sulla lavagna. Veniva da sinistra.
Cédric si fermò. Lo stesso gatto, magari impegnato in uno scontro territoriale con un altro felino? O un gatto diverso? Dettaglio irrilevante. Con una mano posata sul calcio dell’arma (non perché lui si aspettasse davvero di doverla usare, ma solo perché così aveva imparato e poi gli piaceva sentire la forma rassicurante di un’arma contro la mano), si avviò a passo rapido ma il più possibile silenzioso verso l’origine del suono. Che doveva essere una strada poco distante, se aveva sentito bene.
Il suono si ripeté, ma stavolta non c’era nulla di bellicoso. Solo dolore. O sembrava solo dolore. La mente di Cédric lo archiviò come gemito di agonia, perché gli piaceva molto l’espressione e ancora non aveva avuto una opportunità di usarla nella vita reale. Forse era la notte giusta. Forse stavolta lo aveva trovato, il colpevole. Sorrise.
Allungò un poco il passo, girò un angolo, vide o credette di vedere movimento in mezzo alla strada, alzò la torcia, la puntò verso la chiazza più scura di movimento, che però adesso aveva smesso di muoversi e quindi era chiazza più scura di immobilità, se mai si era mossa davvero, cosa di cui lui aveva cominciato a dubitare, ma non dubitare, non pensare, agisci! Accese. E luce fu.
C’era il gatto, su un lato della strada. Lo stesso? Un altro? Difficile dirlo, sia perché Cédric non era un esperto osservatore di gatti, sia perché chiunque lo avesse ucciso aveva già cominciato a lavorare e il risultato non era ancora ributtante come in altri casi, d’accordo, ma lo si poteva ugualmente sconsigliare a chiunque avesse lo stomaco pieno e fosse intenzionato a mantenerlo pieno. Poi il suo sguardo si alzò un poco e alla vittima (ma chiamalo gatto randagio, no?) non pensò più. Almeno per adesso, anche se ci avrebbe ripensato in seguito, se mai qualcuno gli avesse servito uno spezzatino ancora caldo e fumante, magari con un sugo a base di pomodoro naturale o sintetico. Cédric Petrov si augurava di non doverne più mangiare, per un poco.
Non lo vide davvero. Non allora e non in dettaglio. Quando alzò lo sguardo verso la cosa che stava smembrando il gatto, la sagoma fuggì quasi subito, forse spaventata dalla luce improvvisa, l’intruso o chissà cosa. C’erano due occhi luminosi, ma non particolarmente grandi; un corpo peloso e anche scaglioso, non più alto di un cane di media taglia, ma decisamente più largo; c’erano zampe, più di quante se ne sarebbe aspettato. Poi ci fu un raspare di artigli sul manto stradale e la sagoma sparì.
Cédric rimase per un poco a bocca aperta, poi la chiuse. Che cosa era quell’affare? Nessun animale a lui noto, poco ma sicuro. Ma era un animale, su questo ci avrebbe scommesso la paga. E non era un animale terrestre: su questo non ci avrebbe scommesso la paga, perché con gli esperimenti che si facevano per adattarli ad altri mondi non si poteva mai dire, ma un giro al bar sì, se lo sarebbe anche potuto giocare. Se non era un animale terrestre o un qualche strano esperimento fallito, allora era un animale del posto, madriano. Ma ne esistevano di così grossi? Non che lui sapesse. Ma...
Non era tempo per la zoologia, exologia o quello che era. Aveva trovato il colpevole, lo aveva colto in flagrante, o in smembrante, e adesso finalmente poteva liberarsi di quell’orrendo turno di notte. I ricercatori o gli scienziati avrebbero pensato al resto, in fondo era il loro lavoro. Lui lo doveva solo prendere, vivo o morto. Lui lo avrebbe preso. Morto, se possibile. Non aveva visto bene cosa fosse, ma aveva visto abbastanza per non fidarsi ad andargli vicino prima di essersi assicurato oltre ogni legittimo dubbio che quell’affare non si sarebbe mai più mosso.
All’inizio fu facile inseguirlo. I suoi artigli avevano lasciato tracce di sangue molto nette alla luce della torcia. Ne avevano lasciate un po’ troppe per i gusti di Cédric, quasi a confermare la sua prima impressione che quel coso avesse più di quattro zampe, ma l’importante era che la traccia ci fosse: il resto avrebbe aspettato. Ma era veloce e le tracce diminuivano, si facevano più incerte, confuse, e il sangue che fungeva da inchiostro calava, si esauriva. Presto sarebbero scomparse. Cédric accelerò. Correva ormai, proprio come doveva correre la sua preda.
Edifici identici gli scivolavano attorno, nel silenzio rotto solo dai suoi passi sul pavimento un poco gommoso delle strade. La torcia che teneva puntata davanti a sé era la sola luce nella zona, forse la sola in tutto l’universo, almeno in quel preciso momento e nella coscienza del cacciatore. Non si era mai sentito cacciatore, Cédric; non si era mai neppure immaginato cacciatore, ma adesso sì, adesso lo era, adesso sentiva il richiamo della foresta o qualunque altra cosa fosse, proprio come dovevano averlo sentito i suoi antenati di chissà quante generazioni prima, forse in epoche in cui il ceppo del futuro homo sapiens non si era ancora separato da quello del futuro scimpanzé.
O così una porzione della sua mente si dilettava a pensare, mentre il grosso del suo corpo correva e inseguiva, non ancora ansimando ma nelle vicinanze. Dove era finito quel maledetto? Non lo aveva visto bene, d’accordo, ma non gli era sembrato che avesse una struttura molto dinamica, adatta alle lunghe corse. Gli era sembrato un ciccione, non un fondista! Se almeno avesse avuto la decenza di aspettare un momento e farsi sparare, prima di fuggire... Poi lo sentì.
Qualunque cosa fosse, stava ansimando, un suono raspante da vecchio asmatico. Proveniva da poco più avanti di lui. Forse dietro a quella curva, forse dietro alla prossima. Cédric Petrov accelerò, con la mano più vicina che mai all’arma. Se lo aveva quasi raggiunto, non poteva lasciarsi fregare, non adesso. Lo vedi e spari, punto. Di tutto il resto si sarebbe preoccupato poi, e solo nel caso in cui il suo futuro contenesse un poi in cui doversi preoccupare di qualcosa. Ne dubitava. Dell’esistenza di un poi di cui doversi preoccupare, beninteso: dell’esistenza del proprio futuro non dubitò mai.
Fu solo dopo qualche altro paragrafo di inseguimento che Cédric finalmente lo vide. Aveva svoltato l’ennesimo angolo per entrare nell’ennesima strada identica o quasi a troppe altre, ma quella nuova strada non era uguale alle altre. Glielo diceva la torcia. Glielo diceva il raggio di luce, che illuminò in parte una figura immobile su un lato, accucciata, ferma, attenta. Ansimava, i suoi fianchi che si alzavano e si abbassavano a un ritmo rapido, tachicardico. Un animale, senza dubbio, e l’animale si girò verso di lui, lo fissò, aprì la bocca in una smorfia che mostrò una notevole collezione di denti, o zanne se si preferiva il termine, sembrò caricarsi per un balzo, magari un ultimo disperato gesto di difesa, o di offesa... ma non lo fece. Non balzò, non tentò l’attacco, non reagì. Fu come se dentro di lui un interruttore fosse scattato, spegnendolo, disattivandolo. O almeno così sembrò a Cédric nei pochi attimi che gli servirono per puntare e sparare, ma gli sembrò solo in retrospettiva: al momento non vi badò proprio. Aveva altro per la testa.
Così sparò fino a che l’animale non smise di muoversi e poi sparò ancora un poco, tanto per essere sicuro. Forse non era necessario ucciderlo, forse sarebbe bastato friggergli qualche centro nervoso e lasciarlo stordito e agonizzante a terra, per catturarlo vivo (e non proprio in buona saluta, d’accordo, ma erano dettagli) come probabilmente sarebbe piaciuto agli studiosi di fauna locale. Forse. Ma non amava molto i forse, Cédric Petrov, preferendo invece la certezza immobile di un cadavere. E poi si era concentrato, aveva mirato al corpo, non alla testa. Era ancora abbastanza intero e riconoscibile, a parte qualche presa d’aria extra. Se poi i professoroni non erano contenti, che la prossima volta ci venissero loro a cacciarlo. Cédric respirò a fondo e risistemò l’arma. Fatto.
Contattò la base e trasmise i dati sulla propria posizione, perché venissero a ripulire i resti di quello che aveva preso. Volevano sempre ripulire i resti e portarseli a casa, quando si trattava di bestie del posto: chissà perché. Lo facevano anche con gli insetti, a dire il vero. Erano capaci di raschiarteli da una parete o dalla suola delle scarpe, se gliene davi l’occasione. Strana gente, ma erano fatti loro. Il lavoro era completato, adesso doveva solo aspettare che arrivassero dalla base a recuperarlo e poi la notte sarebbe tornato a passarla a letto, con un poco di fortuna. Sempre che non si fossero inventati altri incarichi schifosi da rifilargli, ovvio. Cédric Petrov sperava di no, ma temeva di sì.
Ma era una bestia strana, adesso che la poteva guardare bene. Distesa su un fianco ai margini della strada, nella luce artificiale della torcia, poteva ricordare vagamente un armadillo, almeno per la sua forma generale. Era in gran parte peloso, anche se qui e là si vedevano diverse chiazze in cui scaglie sostituivano i peli, specie sulle zampe. Che erano sei, non quattro, e avevano artigli notevoli, simili ad ami, molto spessi dove spuntavano dalla carne (dalle dita? Forse, può darsi, ma Cédric non aveva intenzione di andare a controllare), per poi restringersi sempre di più. Era quasi sicuro che esistesse un aggettivo per descrivere una cosa che si restringe a poco a poco, ma lui non lo conosceva.
Poi c’erano gli occhi. Erano due e grossomodo tondeggianti, il che gli sembrava normale, ma c’era qualcosa di strano, che invece non gli sembrava normale per niente. Cédric Petrov li osservò per un bel pezzo prima di capire cosa fosse. Una terza palpebra, che probabilmente si muoveva dall’interno verso l’esterno. Era immobile a mezz’asta e copriva parte di un occhio, adesso, come il più bizzarro occhiolino che gli fosse mai capitato di avere la sfortuna di dover vedere. Cédric arricciò il naso e si affrettò a puntare altrove il raggio della torcia.
Un animale, dunque. Un animale sconosciuto. Gli scienziati si sarebbero divertiti. Lui decisamente non si era divertito a cercarlo e inseguirlo (ad ammazzarlo un poco sì, doveva ammetterlo), ma non era importante, adesso. L’importante era avere concluso il lavoro. E lo aveva concluso, oh sì. Aveva ripulito la città dal pericoloso predatore di animali randagi. Proprio una impresa eroica. Si passò una mano sui capelli biondi e corti e sospirò. Non era stato un lavoro da soldato. Non gli era sembrato un lavoro da soldato. Non che si fosse arruolato sperando in chissà quale impresa eroica, d’accordo: lo aveva fatto per la paga e per uscire di casa, eppure... Eppure gli sarebbe piaciuto qualcosa di più.
Oh beh, pazienza. Poteva andare peggio. Poteva anche andare molto meglio, è vero, magari con una promozione o altro, ma a questo avrebbe pensato poi. Per adesso si accontentava di rientrare presto alla base, farsi una bella doccia (aveva sudato parecchio a inseguire quel coso) e poi dormire. E dal giorno dopo tutto sarebbe tornato normale, basta con le notti sprecate a girare per la città. Giusto?
Arrivarono dopo quasi mezz’ora. Un sergente e un tizio in camice bianco si avvicinarono al corpo e lo fissarono per un poco, in silenzio, col tizio in camice bianco che scuoteva la testa e faceva strane smorfie. Doveva essere un ricercatore o un qualche scienziato. Cédric Petrov lo disprezzò per un poco, poi lo ignorò. Facesse pure tutte le facce che voleva, Omino Bianco, purché si sbrigasse, che c’era gente che voleva tornare a casa.
Si sbrigarono. Il cadavere fu impacchettato e caricato da un inserviente con guanti e mascherina, un altro ripulì la strada, infine il sergente fece cenno a tutti di salire e finalmente partirono per la base. Ci fu l’inevitabile interrogatorio, con un sottotenente che ascoltò la storia di Cédric Petrov, rivolse varie domande, registrò, commentò, domandò ancora un poco, registrò qualcos’altro, quindi chiuse tutto e lo congedò. Più rapido di quanto Cédric avesse temuto. Il sergente Kamphuis gli aveva detto come andavano quelle storie, aggiungendo che i signori ufficialotti la tiravano sempre in lungo, per farti sentire inferiore e divertirsi a spese tue, ma forse lo facevano di giorno. Il sottotenente aveva la faccia di chi avrebbe preferito essere a letto e Cédric lo capiva bene. Anche lui avrebbe preferito un letto. Se proprio avevano tanta voglia di interrogarlo, che ci pensassero la mattina seguente.
Ma non ci pensarono. Per Cédric Petrov si risolse tutto col sottotenente, qualche chiacchierata coi colleghi in mensa e durante le lunghe ore di turno, vaghi ricordi della bestia che aveva seccato e che a poco a poco si affievolivano nella memoria, come molte delle cose che avvengono di notte, specie se avevi sonno ed eri stanco. Cominciano a diventare sogni, con tutta la loro consistenza nebbiosa di ragnatela, e i contorni si confondono, sfumano, sbiadiscono. Dopo un poco non sei più certo di dove finisca la realtà e dove cominci la fantasia. E dopo un altro po’ non ha più neppure importanza.
Ma l’animale ne aveva, almeno secondo gli exologi che lo presero in custodia alla base militare e lo studiarono nei giorni seguenti. Non solo un esemplare ignoto, ma un esemplare sbagliato. Sbagliato in cosa? Difficile da definire, anche se alcuni lo fecero, nel privato delle proprie teste. Intanto era un grande vertebrato terrestre e di grandi vertebrati terrestri se ne vedevano pochi su Madre, almeno se ci si limitava ai nativi. Il fossile trovato un paio di anni prima lo era, d’accordo, ma quello era anche un fossile, non un essere vivente attuale. Il misterioso sventratore di randagi, invece, esisteva adesso ed era attivo adesso. Tutta un’altra storia, capite? Alcuni non capivano e insistevano che era uguale, il tempo era una variabile irrilevante e comunque era ovvio che il pianeta non li aveva solo prodotti in passato, ma li ospitava tuttora. La stagione dei grandi vertebrati terrestri non si era conclusa. Ne avevano un esemplare sotto gli occhi proprio al momento, no? Peccato che fosse morto.
Peccato che fosse morto, già, ma peccato soprattutto per i problemi che il loro settore stava vivendo in quel periodo. Al professor Thoreau sarebbe piaciuto esaminarlo, ma il professor Thoreau era per il momento sospeso da ogni attività, in vista del ritorno sulla Terra. Lo aveva deciso il governatore Rossi e non era una punizione, non proprio: era una forma di premio, un prepensionamento per uno straordinario ricercatore che aveva dedicato la propria vita allo studio di Madre e adesso meritava di poter trascorrere la vecchiaia (ma non si dice vecchiaia, per carità: si dice maturità personale, che è ancora un ragazzo, non è neanche arrivato agli ottanta, giovane come l’acqua, tutta la vita davanti, nel fiore degli anni) in tranquillità, lontano dagli affanni e dalle preoccupazioni della rude e rustica colonia. Per lui l’epoca della frontiera si era conclusa.
Che Thoreau non fosse d’accordo era dettaglio secondario e del tutto irrilevante. Il futuro della ben più giovane Ada Bapchuck era ancora incerto, sospeso in una terra di nessuno amministrativa che si sarebbe risolta chissà quando e chissà come. Per il momento manteneva il proprio ruolo, ma sapeva che non sarebbe durato a lungo. Non ci voleva un genio a capire il perché della cacciata di Thoreau. Lei non si faceva illusioni, ma continuava a lavorare quanto poteva e più che poteva. E quel nuovo animale rientrava nel suo lavoro, anche se i militari se lo erano preso subito.
Adesso esaminava per la terza volta la relazione che le aveva inoltrato Hossam Abidar dalla base in cui il cadavere era conservato e studiato. Bravo ragazzo. Nonostante se lo fossero preso i militari, si era mantenuto fedele ai suoi primi insegnanti e ancora continuava a passare tutte le informazioni e i pettegolezzi che poteva. Ad Ada Bapchuck i pettegolezzi non erano mai interessati, ma apprezzava le informazioni. Si domandò per un momento quanto avrebbero potuto continuare ancora, prima che i militari chiudessero la porta, ma come al solito scacciò la domanda. Inutile pensarci. Sarebbe finita quando sarebbe finita, e punto. Meglio arraffare quello che poteva, finché poteva.
Ma l’importante era l’animale nuovo, adesso, non il contorno di animali vecchi e bipedi. E il nuovo animale era stato provvisoriamente schedato come armadillo, ma pensa un po’ che fantasia. Non che assomigliasse davvero a un armadillo terrestre, ma se lo guardavi dalla giusta angolazione e mettevi un poco di fantasia davanti agli occhi, allora forse in una luce incerta potevi apprezzare la struttura che, a grandi linee, faceva un poco pensare a un armadillo terrestre. Secondo Ada Bapchuck erano tutte scemenze, ma in fondo un nome glielo dovevi pure dare e un nome valeva l’altro.
Le sue caratteristiche esteriori erano senza dubbio curiose, ma non così rilevanti, a suo parere. Sei zampe, tre palpebre strutturate grossomodo come quelle di molte specie di uccelli terrestri, corpo su cui pelo e squame si alternavano seguendo uno schema che non erano ancora riusciti a identificare, ma che di sicuro doveva esistere. O almeno così la pensava il tizio di cui Hossam era assistente alla base militare e Hossam ne aveva riportato le parole astenendosi dal commentarle. Bravo ragazzo, di nuovo. Le avrebbe commentate poi Ada Bapchuck in separata sede, a modo suo.
Sembrava un mammifero, anche se il suo apparato riproduttivo appariva stranamente atrofizzato. E qui cominciava la parte davvero interessante: non come era fatto, ma come funzionava. O come non funzionava. Scorrendo avanti e indietro le tabelle e le note, tutto ciò a cui Ada riusciva a pensare era la stessa parola, ripetuta ancora, e ancora, e ancora. Difettoso. Il nuovo animale si presentava come un esemplare difettoso. Il che non sarebbe stato così strano, di per sé. Ne avevano trovato soltanto uno e quell’uno poteva essere davvero un esemplare difettoso. Succedeva. Individui con handicap o deformazioni più o meno gravi nascevano di continuo in natura, e molti potevano sembrare davvero esemplari difettosi, perlomeno su un piano strettamente clinico e biologico. Poi osservavi il sistema nervoso di quel presunto armadillo e tutto cambiava.
Bisognava attendere ulteriori esami prima di poterne essere sicuri, e comunque sarebbe servito un esemplare vivo per esserne davvero sicuri, ma la prima impressione era che quell’animale non fosse capace di decisioni autonome. Non del tutto. Non sempre. Alcune parti del suo cervello suggerivano che si potessero attivare soltanto con uno stimolo esterno, come fossero antenne in attesa di ricevere il segnale. Altre parti suggerivano invece che fosse un esemplare incompleto. Gli mancava qualcosa per poter funzionare normalmente, almeno secondo il concetto di normalità che fino ad allora erano riusciti a costruire a poco a poco, pescando dalle forme di vita trovate e studiate nei pianeti abitati e abitabili. Forse adesso le avrebbero dovute correggere.
O forse no. Ada Bapchuck cercò per un poco tra i documenti salvati, fino a ripescare quello che le interessava, altro materiale che aveva recuperato per vie “indirette” dalla base militare. Avevano già requisito fin troppi ricercatori per i suoi gusti e ancora ne continuavano a requisire. E ormai poteva solo peggiorare, adesso che Rafael era stato rimosso dall’incarico. Sospirò. Meglio non pensarci. Si doveva concentrare su ciò che aveva davanti e poteva controllare, invece di preoccuparsi del resto.
Ciò che aveva davanti era un suggerimento, ma un suggerimento forte. E strano. Sembrava esserci una certa somiglianza tra il sistema nervoso del cosiddetto armadillo e quello degli pseudotafani. La somiglianza si trovava nel cervello, anche se quegli insetti non possedevano davvero un cervello, se lo si paragonava a quello di un mammifero. Ma la struttura facente funzione di cervello somigliava in parte a quella del nuovo animale. Ad assomigliarsi era l’area che pareva progettava per ricevere un impulso esterno. Il ricevitore, per così dire.
Quella stessa area che, se osservata da una prospettiva differente, sembrava possedere un controllo privilegiato sul resto del sistema nervoso. Il rapporto del soldato che aveva neutralizzato l’animale parlava anche ti un tentativo di aggressione da parte del suddetto animale: una volta raggiunto, non più capace di fuggire, avrebbe accennato ad attaccare il soldato. Per poi bloccarlo. Di colpo.
Qualcuno o qualcosa aveva inviato un segnale di arresto? Ada Bapchuck ruminò per un poco quella ipotesi, poi la dovette accantonare. Suggestiva, interessante, forse da seguire. In futuro, magari dopo avere raccolto ulteriori dati. Al momento non se lo poteva permettere. Al momento erano ben poche le cose che si poteva permettere, con la riorganizzazione massiccia che era in corso nel dipartimento e che si sarebbe conclusa chissà quando, chissà come. Riorganizzazione o purga, a seconda di come la volevi descrivere. Lei la descriveva nel secondo modo, aggiungendo una discreta quantità di altri aggettivi che sono raramente accetti nella buona società. Per un dato valore di buona.
Sparito il suo capo, spariti altri colleghi di buon livello. A sostituirli stavano emergendo pian piano le cose che tendono a emergere, quando agiti troppo il fondale di una palude. E anche persone brave e competenti, d’accordo: doveva ammettere che non tutti i sostituti erano così scarsi. C’erano anche ricercatori che sarebbero comunque stati promossi, prima o poi, anche senza bisogno di epurare tutti i non graditi da Leonardi. Ma era il modo che contava, per lei. Si sarebbero guadagnati il posto sulla testa dei loro predecessori e questo non le piaceva. Li rendeva usurpatori. Intrusi.
Li rendeva anche colleghi con cui sarebbe dovuta scendere a patti, se mai fosse rimasta al proprio posto. Cosa di cui dubitava. Ada Bapchuck si aspettava di essere una delle prima a saltare, ma non era ancora successo, per ragioni a lei ignote e non proprio gradite. Apparteneva alla cricca di Rafael Thoreau, da molti era vista come il suo fedele braccio destro. Eppure non l’avevano rimossa.
Sospirò. Questione di tempo, o forse era uno strano modo per metterla alla prova. Modo insensato, a suo parere, ma da gente come il governatore Maureen Rossi aveva imparato ormai ad aspettarsi più o meno di tutto, specie se non sembrava avere senso. Meglio smettere di pensarci e tornare al lavoro che aveva sottomano, finché c’era ancora un lavoro. Lo doveva anche a chi era stato cacciato, a suo parere. E chissà, magari un giorno sarebbe riuscita a capire davvero qualcosa di come funzionasse il pianeta su cui abitava e la sua strana, assurda fauna.
Magari prima della prossima purga.