La galassia di Madre - 104
Chiudendo per l’ultima volta il suo ufficio, Rafael Thoreau non si sentiva triste. Non ancora. Sapeva che sarebbe successo, più avanti, e forse lo avrebbe colpito duro, ma al momento era ancora altrove, disperso tra la sorpresa e la confusione. Lo avevano cacciato. Dopo metà della vita spesa o sprecata a vivere e lavorare su Madre, lo avevano cacciato. Cacciato a calci.
Non che il governatore Rossi l’avesse descritta così, beninteso. Lei aveva parlato di innovazione e ammodernamento, omaggio più che dovuto a una persona che aveva fatto tanto per la colonia, gesto di stima e comprensione, inevitabile testimonianza del tempo che passa e della necessità per la Terra e tutti di mantenersi sempre avanti, al passo con gli altri mondi coloniali, e questo e quello, e il bene supremo e gli interessi futuri, guardare avanti e calpestare escrementi. Parlato, parlato. Ma alla fine le parole si riducevano a una sola, sempre la stessa: cacciato.
Perché? Thoreau se lo era chiesto più volte dal giorno in cui aveva ricevuto il primo avviso. Ancora se lo chiedeva adesso, che l’ultimo avviso era passato, l’ultima porta chiusa e gli restava soltanto di raccogliere i bagagli e salire l’ascensore, fino alla nave che lo avrebbe riportato sulla Terra. Ma non aveva trovato una risposta definitiva. Oh, certo, ce n’erano molte di probabili, forse anche plausibili e verosimili, e forse si poteva anche sbilanciare a definirle quasi certezze. Ma una spiegazione, una che fosse chiara e indubbia, una che dicesse invece di parlare e alzare nubi di polvere? Ancora non ne aveva ricevute e ormai si era quasi rassegnato a non riceverne proprio. Ma bruciava.
Quanti anni aveva speso per Madre? Difficile dirlo. Non li aveva mai contati, troppo impegnato col suo lavoro per preoccuparsi della cronologia, e poi come li avrebbe dovuti contare? In anni terrestri o in anni madriani? E a qualcuno sarebbe interessato davvero? A lui no. A lui bastava sapere che era rimasto sul pianeta fin dalla seconda spedizione, uno dei primi residenti stabili di quella che sarebbe diventata la nuova colonia. Assieme a Maureen Rossi, oggi governatore, e a Sonja D’Antona, oggi il suo vice, e a diversi militari come Scott Staplewood, il comandante in capo, e Demetrios Petkovic il suo vice. E altri? E altri, forse. Erano passate tante di quelle facce e non le poteva ricordare tutte. Ricordava quelle che erano salite a galla, a occupare i piani alti, e sorrideva pensando ad altre cose che hanno la tendenza a salire a galla. Cose come lui stesso? Sì, forse, anche.
Aveva lavorato alla terraformazione del pianeta. Aveva praticamente guidato il processo, non perché lui fosse un grande esperto, ma perché gli altri presunti pezzi grossi lo erano ancora meno. È vero, il risultato non era un granché e Madre assomigliava ancora a una lettiera per gatti molto usata e poco pulita, ma un paio di decenni non poteva bastare, non con tutto quello che c’era da fare. Ripassate in un paio di secoli e ne riparleremo, rispondeva spesso a chi si lamentava. Madre era un pianeta brullo, abitabile ma brullo, e non trasformi un deserto in una giungla tropicale dall’oggi al domani. Spesso non lo trasformi proprio. Non che fosse un deserto, il pianeta. Non ovunque. Ma qualcosa di brutto gli era capitato in una qualche epoca passata (quando era scomparsa la civiltà che lo abitava? Ipotesi legittima, ma non ancora provata), e adesso avrebbe richiesto molto, molto lavoro se lo si voleva recuperare. La Terra o Leonardi lo voleva recuperare. Ergo...
Thoreau aveva lavorato. Thoreau non avrebbe più lavorato. Lo avevano ringraziato per l’impegno e la dedizione, gli avevano anche dedicato una cerimonia solenne, che puzzava di funerale con tanto di mazzo di fiori per il caro estinto, ma l’aveva accettata lo stesso con un mezzo sorriso e adesso lo rispedivano sulla Terra. A casa. Come se dopo decenni su Madre lui potesse ancora avere una casa sulla Terra, o qualcuno ad aspettarlo. Hah!
«Te ne troveranno una, vedrai,» aveva commentato Ada Bapchuck. «Una bella stanza in un ospizio di lusso. Ricordati di noi quando sarai seduto su una panchina a dare da mangiare ai piccioni.»
Thoreau aveva sorriso ma non riso. Era una immagine troppo verosimile per riderne. Meglio se non ci pensi, si era detto, ma ci aveva pensato ogni giorno e ci pensava ancora adesso, con il suo ufficio chiuso e abbandonato dietro di lui, scendendo i pochi scalini dell’edificio dove aveva lavorato per anni, il nulla avanti e il vuoto su ogni lato. Lo avevano cacciato.
Non era il solo. Altri erano già stati trasferiti, altri ancora lo sarebbero stati a breve. Il reparto di cui si era occupato per anni non esisteva quasi più, non come lo aveva conosciuto lui, come lui lo aveva costruito, un pezzo alla volta, una persona alla volta, scelte per competenze, per potenzialità e anche per simpatia, talvolta. La Bapchuck resisteva ancora, ma per quanto? Thoreau non voleva pensarci. Non per molto, se i suoi sospetti erano fondati, ma nulla è mai per molto: tutto è soltanto per un po’ e a volte per un po’ è sufficiente. Per adesso non l’avevano trasferita, così aveva lasciato alla sua assistente tutto il lavoro rimasto incompiuto. E poi...
Thoreau sospirò. Oklahoma City era il solito alveare triste, gente che si muoveva in ogni direzione, teste basse e pedalare, tra file e file di edifici quasi identici, che componevano scacchiere di nessuna fantasia. Non aveva mai amato quel posto e non avrebbe certo cominciato ad amarlo adesso, quando si preparava ad abbandonarlo per sempre. Ci sono limiti anche alla malinconia e alla falsificazione delle memorie, per quanto strano possa sembrare. Ma ne avrebbe sentito la mancanza, questo sì. La sua architettura no, quella non gli sarebbe mai e poi mai mancata, e neanche i suoi abitanti, a volerla dire tutta, ma gli sarebbe mancata la vita che vi aveva condotto e quindi, per estensione, anche tutto il suo contorno. Forse. A grandi linee.
Scosse la testa. No che non gli sarebbe mancato. Almeno con se stesso doveva cercare di essere un poco onesto, ogni tanto. A mancargli davvero sarebbe stato il pianeta nel suo complesso, il lavoro e il progetto a cui si era dedicato, tutto ciò che sarebbe rimasto incompiuto, le domande che aveva per la prima volta formulato assieme a Kaya Farrell durante la seconda spedizione e a cui non avrebbe mai più potuto rispondere. Il resto era solo un simbolo concreto a cui tenersi aggrappato, correlativo oggettivo che non possedeva valore in sé, ma solo attraverso di sé. O giù di lì. Il punto era che tutto il pianeta gli appariva adesso come un lavoro incompiuto, un discorso interrotto, un puzzle a cui si era dedicato per anni e che non avrebbe mai potuto completare, l’immagine che preferite.
Il lavoro era concluso. Tempo di partire.
Partì il mattino seguente dall’ascensore nuovo, quello per i civili. Non che si sentisse molto civile al momento, perché di inciviltà ne avrebbe dette tante e con entusiasmo, ma non sarebbero servite, per cui non le disse, chinò la testa, entrò nella cabina, voltò la schiena alle paratie trasparenti con tutta la fermezza di volontà e intenti che voleva simulare, pur non avendola mai posseduta, e lasciò che le ore lo sollevassero lente e identiche dal pianeta alla stazione, un passo alla volta, a una velocità che non era mai veloce a sufficienza, come se Madre cercasse di trattenerlo, con la sua gravità e con mani che lui non poteva vedere, ma sentiva.
Ma era soltanto immaginazione e alla fine svanì. Dopo tutti quegli anni sarebbe tornato sulla Terra. Il pensiero lo spaventava. Su Madre aveva avuto un incarico, un lavoro, cose da fare, da cercare, da scoprire. Su Madre aveva avuto una vita. Non entusiasmante, d’accordo, e non memorabile, ma una vita l’aveva avuta. Sulla Terra non c’era niente ad attenderlo. Niente e nessuno. Sì, in effetti aveva ragione a esserne un poco spaventato. O così la pensava lui, nella cabina dell’ascensore spaziale.
Raggiunsero la stazione orbitale e il suo umore non migliorò. Vi era stato altre volte, di solito nelle occasioni in cui gli toccava raggiungere un mondo coloniale per presenziare di persona a un qualche incontro o conferenza a cui non si era saputo inventare in tempo una buona scusa per sottrarsi. Ora la vedeva per l’ultima volta, ma ciò non la rendeva più bella. Niente avrebbe potuto rendere bella la stazione di Madre, se non forse l’asportazione chirurgica di occhi e senso estetico, unita magari a un grave trauma cranico. Ma una nuova infornata di coloni sembrava appena giunta, facce stanche e in parte entusiaste, cariche di aspettative, sogni e tutta l’altra paccottiglia che la retorica di turno suole estrarre dal proprio orifizio anale a ogni occasione.
Vi passerà presto, pensò Thoreau, procedendo verso la nave che lo attendeva. Vi passerà presto e ciò che riceverete al suo posto sarà... Ma non concluse il pensiero. Non ne valeva la pena. Forse non era neppure giusto od onesto. Era amareggiato, adesso, e i testicoli gli vorticavano a forza nove: poteva davvero concedersi il lusso di esprimere pareri oggettivi? No che non poteva, sia perché non era lui oggettivo, sia perché pareri oggettivi è un ossimoro, ma è bello pensare che da qualche parte esista davvero qualcosa del genere. Madre attendeva i suoi nuovi coloni e avrebbe provveduto lei stessa a insegnare loro la realtà della vita sul pianeta. Lui poteva solo insegnare l’arte del perdere.
La nave era passabile, non proprio lussuosa ma decorosa. Sarebbe tornato sulla Terra con tanti onori e poche vesciche sotto i glutei. Leonardi sapeva proprio essere generoso, quando voleva liberarsi di te. Sorrise. Era stato il Grande Vecchio a cacciarlo, anche se Thoreau non aveva idea del perché. Se lo aveva deciso Maureen Rossi, il governatore, allora lo aveva deciso per procura. Decideva sempre per procura, quando si trattava del bene di Madre, o di ciò che Leonardi concepiva come il bene di Madre. Restava solo da capire il perché, anche se un sospetto Thoreau lo aveva.
Il messaggio. Il messaggio spedito a Kaya Farrell.
Poteva davvero essere stato quello?
Thoreau sospirò di nuovo, mentre un giovane con un perfetto sorriso da cameriere lo accompagnava all’alloggio sulla nave, una cabina stretta ma non troppo, in cui potevi anche allargare le braccia e le tue dita non avrebbero sbattuto contro una parete, se ti mantenevi al suo centro. Aveva saputo che spedire un messaggio di quel genere era rischioso, eppure lo aveva spedito lo stesso. Non che fosse stato così esplicito e diretto nello schierarsi contro Leonardi, ma il contenuto lo potevi interpretare in quel modo, se entravi nel corretto stato mentale. Leonardi era sempre nel corretto stato mentale, se lo stato mentale in questione era la paranoia spinta. Ma come aveva ottenuto il messaggio?
Kaya non poteva avere fatto la spia. Non lei. Non una che aveva quasi letteralmente abbandonato il posto all’Ufficio per la Colonizzazione sbattendo la porta in faccia a Leonardi, dopo uno scambio di vedute parecchio acceso su cosa fosse scientifico e cosa no, nonché sulle ragioni per cui Leonardi era un gran sacco di letame mummificato. Eppure...
Ma abbandonò il pensiero. Non lo avrebbe condotto a nulla, o almeno a nulla che volesse davvero raggiungere. E mentre la nave lo portava verso un altro luogo che non voleva davvero raggiungere, ossia la Terra, Thoreau cercò piuttosto di elaborare un piano di azione. Che era una espressione ben grossa per descrivere una realtà assai modesta: cosa fare una volta arrivato?
Alla fine decise che c’era una sola cosa che volesse fare davvero, una volta arrivato sulla Terra, e la cosa era ripartire per Madre. Non era giusto che lo avessero cacciato così. Non dopo tutto quel che aveva fatto, non dopo tutti gli escrementi che si era dovuto inghiottire (in senso metaforico, ovvio, ma con la qualità delle mense locali non poteva escludere a priori che fosse accaduto anche in senso letterale, almeno una volta o mille). Non era giusto. Era sbagliato. E lui avrebbe corretto l’errore.
Dopo avere preso una decisione così solenne, gli restava solo da stabilire un piccolo e insignificante dettaglio: come avrebbe fatto? Il viaggio lo aiutò, garantendogli quasi tre settimane di nulla, in cui Thoreau frequentò le compagnie peggiori che si potessero trovare su una nave passeggeri che univa Madre e la Terra: i pensieri che gli affollavano il cranio. Da solo in cabina, pensò e meditò, un poco fantasticò, ma sempre si mantenne a distanza di sicurezza dalla realtà fenomenica. Il risultato fu che non concluse alcunché di positivo. Ma lo fece con grande convinzione.
Vennero poi la stazione orbitale terrestre, la discesa in ascensore, il viaggio verso la sede principale dell’Ufficio. Il clima era mite, i paesaggi una botta di vita dopo il mortorio madriano, il mare forse era avanzato un poco rispetto alle linee costiere che ricordava lui, o forse era solo la memoria che lo ingannava. L’aria puzzava come al solito, non di cantina ammuffita come su Madre ma di usato e di bruciato. Vecchi pneumatici bruciati, ecco come lo avresti potuto descrivere, ma lo sentivi soltanto all’inizio, appena sceso e per un paio di ore al massimo. Poi ti abituavi, il tuo naso smetteva di farlo notare al cervello e il cervello era fin troppo contento di non doverci più pensare. L’aria ti sembrava neutra, riempita del solito miscuglio di odori diversi, gradevoli o meno.
Thoreau non pensava all’aria. Pensava a Leonardi. Forse lo avrebbe incontrato subito all’Ufficio, o forse no. Dettagli secondari. Il punto era che prima o poi lo avrebbe dovuto incontrare. Anzi, prima o lo avrebbe dovuto affrontare. Sul risultato potevano esserci pochi dubbi, ma un confronto doveva avvenire. Non si poteva arrendere così. Non si voleva arrendere così. Thoreau avrebbe fronteggiato il vecchiaccio malefico, gli avrebbe fatto presenti le proprie rimostranze, avrebbe protestato contro la decisione ingiusta, avrebbe lottato per riavere il proprio incarico e... Avrebbe perso, d’accordo, lo poteva anche accettare, ma avrebbe perso lottando. O qualcosa del genere.
Ne aveva tutte le ragioni, o così pensava durante il viaggio verso l’Ufficio. Quando lui era arrivato su Madre, assieme al resto della seconda spedizione, avevano trovato un pianeta brullo e inospitale, in teoria vivibile ma in pratica soltanto un masochista allo stadio finale lo avrebbe scelto per viverci a lungo. Non che avrebbe vissuto a lungo, non sul pianeta che avevano trovato loro: se non per una qualche malattia, il nostro ipotetico masochista sarebbe morto di inedia. E magari avrebbe gradito, è vero, ma il punto era un altro. Il punto era che non lo potevi colonizzare. Non per molto.
Adesso Madre faceva ancora schifo, ma era vivibile. In parte. Se restavi vicino alle città o agli altri piccoli insediamenti, potevi sopravvivere senza gravi problemi. Se eri così pazzo da avventurarti nei territori più selvaggi e ancora da terraformare, che erano poi la maggior parte della superficie, le tue aspettative di vita sarebbero state molto, molto basse, ma era vivibile. Milioni di persone erano già andate a vivere su Madre e milioni ancora ne sarebbero arrivate. Ed era stato merito suo, era merito di Thoreau. Lui ne aveva gestito la terraformazione, lui aveva deciso le specie vegetali e animali da introdurre, lui aveva guidato la lenta e non sempre felice selezione di cosa fosse commestibile tra le specie autoctone. C’erano stati errori e decessi imprevisti, d’accordo, ma c’erano sempre decessi ed errori: nessun mondo coloniale era ancora riuscito a evitarlo, per quanto attenti fossero. E vogliamo parlare dell’ecatombe di Svarga, eh? Vogliamo parlare di quante cifre ha il numero di morti durante la colonizzazione del primo mondo extraterrestre?
Thoreau non ne voleva parlare, anche perché nessuno conosceva il numero preciso. Tutti sapevano che era grosso, ma nessuno poteva dire quanto lo fosse. Milioni, in ogni caso. Il punto era che non lo potevano incolpare di niente. Lui aveva fatto un buon lavoro, forse non ottimo ma quasi di sicuro il meglio che si potesse fare. Potevano togliergli l’incarico per l’età, è vero, ma era forse Leonardi la persona giusta per parlarne? Proprio lui, che a centodieci anni circa non mollava ancora la poltrona?
No, né limiti di età né limiti di competenza. Lo avevano cacciato per le sue idee, per avere espresso le sue idee. E lo aveva fatto soltanto in una comunicazione privata, personale. Mai in pubblico, mai dove avrebbe effettivamente potuto dare una ragione accettabile a chi lo voleva cacciare. Dunque lo avevano cacciato ingiustamente. Dunque si doveva ribellare. Dunque doveva combattere per riavere ciò che gli spettava. Dunque il viaggio era finito e il palazzo dell’Ufficio era davanti a lui.
Thoreau si sentì un poco vacillante sulle gambe. E adesso? Respirò a fondo. Adesso basta lagnarsi e guardare per aria. Adesso sarebbe entrato, si sarebbe recato dal direttore Gemelos come era previsto che facesse una volta tornato sulla Terra, infine avrebbe cercato di incontrare Leonardi. Al resto vi avrebbe pensato poi, se un poi ci fosse stato. Non ne era sicuro. Entrò.
Tutto procedette bene fino all’ufficio del direttore Gemelos, poi Thoreau aprì la porta e tutto smise di andare bene. Era la faccia del direttore. Gemelos non era mai stata una persona di bell’aspetto, o anche solo di aspetto passabile, almeno per quanto ne sapesse lui, ma aveva a modo proprio cercato di apparire presentabile, con alterne fortune. O, a voler essere meno gentili e più onesti, fallendo su tutta la linea. Thoreau ricordava un ometto magro, tendente allo stecchino, che si muoveva con tutta la calma e la rilassatezza di un moscone; ricordava la peluria strana che aveva sul labbro inferiore e che con molta buona volontà poteva essere definita un esperimento commovente di barba, anche se forse esisteva un termine ufficiale per quell’obbrobrio facciale; ricordava una testa ricoperta solo in parte da capelli grigiastri e mossi; ricordava soprattutto il modo assurdo in cui camminava, con tutta l’eleganza di un pinguino che ha di recente avuto problemi imbarazzanti col segmento terminale del proprio apparato digerente. L’uomo che adesso gli veniva incontro, invece...
La camminata era la stessa, questo sì. Ma la barbetta infelice era sparita, caduta forse sotto i colpi di un rasoio misericordioso, e al suo posto la bocca di Gemelos era decorata da un folto paio di baffoni neri e lucidi, come se una qualche piccola creatura molto pelosa gli fosse morta sotto il naso. Quelli che una volta erano stati capelli radi, che si aggrappavano piangenti a un cuoio capelluto sempre più spazioso e vuoto, erano diventati una criniera scura, ornata di boccoli e ricci, dove intere civiltà di pidocchi di pessimo gusto avrebbero trovato terreno fertile per evolversi fino a inventare prodigi di cultura come il pane preaffettato e la pubblicità degli spazzolini da denti per cani. E gli occhi... Gli occhi di Gemelos adesso fissavano i tuoi, anzi li cercavano, li inseguivano, li tormentavano, stalker implacabili capaci di scrutarti e analizzarti anche mentre eri in bagno con la diarrea più violenta.
Era davvero Gemelos? Era davvero il direttore che ricordava lui, burattino di Leonardi, un semplice segnaposto a scaldare la poltrona, oracolo che parlava per conto dell’invincibile vecchione? Se non lo avesse visto, Thoreau non vi avrebbe mai creduto. Ma lo vedeva, quindi doveva essere vero. Era successo qualcosa. Qualcosa di molto, molto strano. Qualcosa che poteva costarti anni in una stanza dalle pareti imbottite, indossando una camicia dalle maniche molto lunghe.
«Mio caro Thoreau, è un piacere rivederla!» lo salutò il presunto Gemelos. «Da quanto tempo non ci faceva visita qui sulla Terra! Davvero, dovrebbe passare da noi più spesso.»
Thoreau non trovava risposte, mentre l’altro gli afferrava la mano destra e la scuoteva con vigore, in quello che probabilmente doveva essere il nuovo saluto elaborato dall’altrettanto nuovo direttore. O il vecchio direttore, ma così cambiato da sembrare un’altra persona. A meno che non lo fosse.
«Direttore Gemelos?» chiese. La voce di Thoreau conteneva dosi di dubbio grandi a sufficienza da bastare per cinque manuali di filosofia.
«Ma certo che sono io! Perché, non mi riconosce più? È passato davvero così tanto tempo?»
Non era proprio il tempo a essere un problema, tanto o poco che fosse. Thoreau scosse la testa, nel tentativo di stimolare il cervello a trovare la risposta più diplomatica possibile. «È che oggi la vedo molto in forma, sa, ma forse è solo perché, sì, è tanto che non tornavo sulla Terra. Sembra anche più giovane, direi.» E sorrise, o almeno contrasse la bocca in uno spasmo improvviso.
Il presunto direttore Gemelos scoprì le zanne in risposta. «Oh, più giovane, più giovane, suvvia, non esageriamo. Devo ammettere che, sì, gli ultimi tempi sono stati abbastanza positivi per me, già, più che positivi. È come se mi fossi tolto un peso dalle spalle, capisce? La vita ha tutto un altro gusto.» E agitò una mano in aria, a casaccio. «Tutta un’altra vita, sa.»
Thoreau annuì in silenzio. Non si sentiva pronto a rispondere. Non si sentiva pronto per il pensiero razionale, a volerla dire tutta. Ma non servivano risposte, non per il nuovo Gemelos.
«Ah, sono successe tante cose qui, negli ultimi tempi,» ricominciò un attimo dopo. «Mi creda, non se lo immagina neppure. Non so come fosse su Madre, non lo so di preciso, ma le assicuro che qui è stata una cosa...» Abbassò la voce, avvicinandosi a Thoreau con fare cospiratorio. «Vuole sapere?»
Thoreau annuì, non tanto perché davvero lo volesse, ma perché aveva bisogno di tempo. Di tempo e di una robusta dose di digestivo, se voleva sperare di assimilare il nuovo aspetto del direttore. Dalla capigliatura che gli ricopriva il cranio poteva liberarsi un volo di fagiani in qualsiasi momento.
E Gemelos raccontò. Di quante cose fossero cambiate all’Ufficio negli ultimi tempi, e come fossero cambiate, la direzione che stavano prendendo, novità, sommovimenti, un rinascimento per così tanti e in posizioni così strane. E il consiglio di amministrazione, dico! Ma si ricorda com’era, prima? Se lo ricorda? Adesso, invece... E sorrideva tutto saputello, agitando una mano in aria. Per un attimo il più impensabile dei pensieri sfiorò Thoreau. Impossibile! Eppure... Lo chiese.
«Ma no, no, si figuri,» rispose Gemelos, quasi ridendo. «Lo avreste saputo subito voi su Madre, o in viaggio, ovunque! No, Leonardi non è morto, ci mancherebbe. È ancora sano come un pesce, lui. O, beh, magari non proprio come un pesce, ecco. Ha la sua età. Ha i suoi problemi di salute. Ma è vivo, glielo garantisco. È vivo. No, non è questo. È che la sua epoca è al tramonto, ormai.»
Thoreau alzò lo sguardo. Nessun fulmine si abbatté a incenerire il direttore. Il che non serviva certo a provare che ci fosse del vero nelle affermazioni di Gemelos, ma induceva almeno qualche vago dubbio. Di breve durata. Gli eventi su Madre gli dimostravano che Leonardi era ancora il capo, che la sua parola rimaneva legge almeno su Madre, ma non poteva escludere che lì, proprio nel palazzo dell’Ufficio, proprio nella sua antica roccaforte, qualche cambiamento ci fosse stato, o almeno fosse in corso di svolgimento. Pure, crederci era dura. Molto dura. Quasi impossibile.
Gemelos continuava. Raccontava adesso di come tutto fosse cominciato proprio col gesto che lui, in quella che adesso gli appariva come l’inesperienza della gioventù, aveva considerato il gesto che gli sarebbe costato per sempre il posto all’Ufficio. La ribellione alla parola di Leonardi, la decisione di invitare su Madre il gruppo di ricercatori agniani. Thoreau sapeva di loro. Che la richiesta di Agni fosse stata accettata lo aveva sorpreso, ai tempi. Che Leonardi non avesse rimosso il direttore, anche a costo di eliminarlo fisicamente, lo aveva sorpreso ancora di più. Che quella fosse la causa prima della terribile metamorfosi di Gemelos era la mazzata finale a ciò che restava della sua razionalità.
«Ma vede, vede, a nessuno piaceva davvero Leonardi,» spiegava il direttore. «Anzi, a nessuno è mai piaciuto, secondo me. Quello che mancava era un esempio, sa. Qualcuno che si alzasse, che parlasse contro il tiranno, che si opponesse. Attendevano tutti una guida, capisce? E quella guida, con molta sorpresa, sono stato proprio io. Non ci avrei mai creduto, sa?»
Thoreau sapeva. Neppure lui ci credeva. Ma Gemelos raccontava di avere trovato un alleato nuovo, un sostegno proprio dove non pensava di poterlo trovare. Il consiglio di amministrazione. Avevano tutti appoggiato la sua causa, perché anche loro volevano solo liberarsi di Leonardi. Aspettavano il momento giusto, l’occasione giusta. E adesso era arrivata. «All’inizio ho pensato che mi volessero solo sfruttare, sa, proprio come ha sempre fatto Leonardi. Ma non è così. Mi sbagliavo. A loro sta a cuore il mio benessere, davvero. Lo hanno dimostrato in così tante occasioni, da allora... così tante che alla fine anch’io ho cominciato a credere di più in me stesso. In fondo glielo doveva, capisce.»
Thoreau non era certo di capire, anzi era certo di non capire, ma era anche senza parole. Pareva che il mondo si fosse ribaltato attorno a lui. Doveva esserci un senso, da qualche parte. Un senso ci deve sempre essere in tutto ciò che è umano: quando un senso non c’è, sono gli uomini stessi a inventarlo e appiccicarlo su fatti insensati. Il problema era che, adesso, il suo cervello si rifiutata di funzionare. Doveva essere l’effetto del viaggio. Sì, ecco. Aveva bisogno di riposare, riadattarsi alla gravità della Terra, al suo clima, alla durata delle sue giornate. Era disorientato, tutto qui.
«Quindi adesso Leonardi...» cominciò, non sapendo bene dove portare la frase.
Non servì portarla da qualche parte: Gemelos la concluse per lui. «Leonardi è messo in minoranza e ormai non conta più molto. È il consiglio di amministrazione che ha preso di fatto il suo posto. E io, è ovvio. Io sono il direttore, dopotutto. Non l’ha presa molto bene, il vecchietto, ma è andata così. Il suo tempo è ormai quasi finito, è soltanto un fossile di altre epoche, capisce.»
Un fossile che comandava ancora su Madre e aveva appena usato il governatore Rossi per epurare il suo intero reparto, trasferendo e sparando altrove tutti quelli che si dichiaravano contrari a lui. No e ancora no. Qualcosa non andava. C’era un errore, forse un tassello del puzzle che mancava a tutti. A Leonardi no, a lui non mancava di sicuro, e presto o tardi l’avrebbe usato. Thoreau provò il bisogno quasi fisico di essere altrove, in un qualunque altro posto, purché distasse almeno venti anni luce da Leonardi e il palazzo dell’Ufficio. Ma forse venti anni luce non sarebbero ancora bastati.
Intanto Gemelos parlava e parlava. Gli aggiornamenti sullo stato dell’Ufficio erano diventati prima chiacchiere di corridoio, poi si erano presi una pausa; il direttore spiegò in breve quale sarebbe stato il ruolo di Thoreau nei prossimi tempi, adesso che era stato richiamato sulla Terra, e il ruolo poteva essere riassunto in pochissime parole, anche una sola: nessuno. Per il momento l’Ufficio gli avrebbe riconosciuto una pensione più che sufficiente per le sue necessità, come si conveniva al dipendente che, per tanti anni, si era distinto nel suo ruolo di grande rilievo su Madre. Avrebbe anche usufruito di un alloggio fuori città, non proprio in campagna ma in una tranquilla zona residenziale. «Piccolo ma servizievole, eh?» sorrise Gemelos con una strizzata d’occhio che Thoreau trovò agghiacciante.
E poi? Che cosa avrebbe fatto poi? Ancora non era stato deciso (passivo dell’impersonalità), ma una occupazione gliel’avrebbero trovata, non si poteva certo sprecare così tutto il suo talento. Un ruolo più formale che altro, incarichi di facciata con poche responsabilità al seguito, perché alla sua età in fondo era giusto che si riposasse, invece di pensare al lavoro. Alla sua età, ormai, doveva rilassarsi e dedicarsi ai propri interessi, per carità! Thoreau sorrise e non rispose. Come se Gemelos fosse poi il ragazzo di belle vedute appena uscito dall’università. C’erano solo pochi anni di differenza tra loro.
Ma non protestò. Non sarebbe servito. Era chiaro che l’Ufficio voleva sistemarlo ad ammuffire nel più lontano angolo e dimenticarsi di lui. Era chiaro soprattutto che Leonardi voleva questo. Perché dunque discuterne con Gemelos, che sapeva solo farsi guidare da chi spingeva la mano più in alto? Avrebbe risparmiato le forze per altri bersagli. Ma l’Ufficio era cambiato, e cambiato parecchio. Lo riconosceva a fatica, ormai, e per quanto prima non gli fosse mai piaciuto davvero, adesso sembrava anche peggiorato. Il clima, la gente. Si stava molto meglio su Madre, sì. Molto, molto meglio.
L’incontro con Gemelos si trascinò ancora per un poco, poi Thoreau riuscì a inventare una scusa per troncarlo. Uscì dall’ufficio del direttore col cervello in frantumi, pezzi spigolosi che rimbalzavano da un lato all’altro del cranio, con un rumore di ciottoli. Cosa era accaduto? Cosa sarebbe accaduto a breve? Qualcosa di brutto, quasi di sicuro. Brutto per Gemelos e il consiglio di amministrazione, almeno. Per Leonardi... Beh, era ovvio. Qualunque cosa accadesse, quel vecchiaccio ne guadagnava sempre qualcosa. L’Ufficio per la Colonizzazione stava per ricevere una scossa che non si sarebbe dimenticato in fretta. E lui cosa avrebbe dovuto fare?
Ecco la domanda. Lui cosa avrebbe fatto? Thoreau non lo sapeva più. Voleva ancora incontrare quel caro vecchiaccio, ma adesso aveva paura di cosa sarebbe potuto accadere. A lui, ovvio, ma non solo a lui. Leonardi aveva inviato una copia della propria personalità su Madre qualche tempo prima, e le voci provenienti dal versante di Staplewood dell’esercito dicevano che c’era stato un incontro tra il generale Petkovic e il vecchio. Il che non era strano. Ma Staplewood aveva accennato soltanto a una parte di ciò che era accaduto. Il resto era segreto militare, ai più alti livelli. E cosa poteva essere?
No, non lo voleva sapere. Non voleva incontrare quell’uomo. Ma lo avrebbe incontrato lo stesso, o almeno ci avrebbe provato. Aveva qualcosa di cui discutere con lui e ne avrebbero discusso, presto o tardi. Perché Leonardi era il capo reale e lo sarebbe rimasto, qualunque cosa dicesse Gemelos, per quanto cercasse di ringiovanirsi (orrore!) e apparire una persona nuova. Il direttore era un burattino di costituzione: poteva credere di aver cambiato burattinaio, ma il risultato sarebbe rimasto identico. A chi appartenesse la mano era un dettaglio; il punto era che la mano c’era e la mano decideva le azioni del burattino. Ciò che adesso lui doveva fare, dunque, era...
Qualcosa lo distrasse. Si trovava nell’atrio del palazzo, ormai, e l’uscita (o entrata, a seconda della direzione in cui la percorrevi) era davanti a lui, ma Thoreau non aveva occhi o altri organi di senso per quel dettaglio. Aveva intravisto una piccola sagoma muoversi. Un insetto, forse, e insetto era di sicuro, ma altrettanto di sicuro non uno di quelli che si sarebbe aspettato di vedere sulla Terra. Sulla spaziosa vetrata dell’ingresso, oltre la quale (e oltre una fila di cancelli e guardie) si apriva la piazza di cui al momento Thoreau non ricordava il nome, si era posato un tafano.
Un quasi-tafano. Uno pseudotafano, lo avrebbero definito alcuni dei suoi ex dipendenti. Tranquillo come se fosse a casa sua, e per quanto ne sapeva Thoreau poteva esserlo davvero, l’insetto lisciava o accarezzava una delle sue ali con una zampa posteriore. Guardava verso di lui? Forse, possibile, ma con due paia di occhi sfaccettati era difficile capirlo. Pure, Thoreau si sentiva osservato e non lo stava certo osservando uno degli addetti all’ingresso, qualunque fosse il loro nome. Portinai? Forse portieri? O un generico impiegati? Ma non erano importanti, non adesso.
Adesso importava l’insetto, che era proprio uno degli pseudotafani di Madre. O no, forse non uno di loro. Thoreau lo osservò meglio avvicinandosi adagio, con cautela. Era quasi identico agli esemplari che Ada Bapchuck gli aveva mostrato, dopo che i militari avevano requisito la tizia che li studiava. Quasi. Ma era più piccolo e aveva una sola proboscide, ammesso che fosse una proboscide e non un pungiglione. Ammesso che ci fosse differenza tra pungiglioni e proboscidi in quegli esemplari. Altri dettagli potevano essere diversi, Thoreau non ricordava di preciso come fossero fatti, ma l’insieme si, l’insieme ricordava uno pseudotafano, lo suggeriva, lo insinuava.
Ma cosa ci faceva sulla Terra? E all’interno dell’Ufficio, poi. Poteva esserci arrivato in molti modi: i controlli erano accurati alle stazioni orbitali, come accurate erano le disinfestazioni, proprio perché si voleva evitare che specie aliene potessero introdursi su altri pianeti e devastarne l’ecosistema. Era improbabile che tante specie sarebbero riuscite a sopravvivere e prosperare altrove senza modifiche, ma improbabile è diverso da impossibile, per questo i controlli erano scrupolosi e le sterilizzazioni drastiche. Per evitare problemi. Dopo i fatti di Indra, circa un secolo e mezzo prima, tutti volevano evitare problemi. Non servivano altre epidemie di funghi infestanti.
Cosa ci faceva dunque quello pseudotafano? Forse non proveniva da Madre, forse era soltanto una nuova specie di ditteri che si era sviluppata sulla Terra e che, casualmente, assomigliava parecchio a un’altra specie sviluppata sulla sua ultima colonia. Forse. Somiglianze casuali non erano rare anche su pianeti molto distanti. In apparenza esisteva un numero limitato di combinazioni diverse in cui la vita poteva evolversi e sopravvivere con successo: prima o poi finivano per ripetersi, perché uguali erano le caratteristiche dei mondi su cui si evolvevano. Alcune specie imparavano a volare e non è che ci fossero poi molte forme possibili per organi di volo. Altre specie si adattavano alla vita negli oceani, e di nuovo le soluzioni per risolvere il problema di spostarsi rapidamente nei liquidi erano in numero limitato. Ergo, lo pseudotafano poteva essere terrestre e non madriano.
Thoreau non ci credeva, ma le riflessioni metafisiche potevano attendere. Prima agire, poi pensare, o l’insetto scapperà da sotto il naso. Gli occhi sempre fissi sul bersaglio, cercò a tastoni nelle tasche, sperando di trovare qualcosa con cui catturare lo pseudotafano. Una scatoletta sarebbe stata l’ideale, in mancanza di meglio, ma se necessario pensava di potersi arrangiare con altro. Ma non trovavano nulla, le sue mani. Nulla di utile, nulla di usabile. Che razza di persona non tiene sempre in tasca, in ogni momento della propria esistenza, oggetti che possano servire in situazioni di emergenza? Più o meno tutti gli esseri umani, d’accordo, ma non era una valida ragione per non avere un contenitore in tasca in quel preciso momento. Poi l’insetto volò via e il preciso momento svanì.
Thoreau sospirò. Forse non era poi così importante studiarlo, ma adesso non lo avrebbe mai saputo e la cosa lo infastidiva parecchio. Cercò un poco nei dintorni, ma dell’insetto non vide più tracce. In compenso vide tracce di curiosità miste a perplessità nelle facce dietro il bancone all’ingresso, così Thoreau decise che, dopo avere dato un discreto spettacolo di sé, forse sarebbe stato meglio uscire e ripassare semmai un’altra volta, magari quando altri impiegati erano di turno all’ingresso. Con un vago cenno di saluto e un sorriso incerto, uscì.
La piazza era luminosa e blandamente affollata. Gente che la attraversava, gente ferma ai bordi, nel centro, dove capitava. Il genere di scena che era difficile vedere su Madre, dove i passanti avevano la tendenza a passare, per l’appunto, e di rado si fermavano in luoghi aperti. Anche perché non è che ci fossero poi molto luoghi aperti in cui valesse la pena di fermarsi. Architettura e urbanistica erano aspetti di Madre che non gli sarebbero mai mancati, lo doveva ammettere. Ma era una colonia molto giovane, aveva tutto il tempo per migliorare e imparare che le città potevano anche essere vivibili e non solo abitabili. Sospirò. Da qualche parte nelle vicinanze c’era l’accesso ai trasporti sotterranei, lo sapeva. Bastava solo trovarlo e quel primo ritorno all’Ufficio si sarebbe concluso.
Vagò per un poco disorientato, maledicendosi per la sua incapacità cronica di ricordare luoghi e vie, unita adesso al vago senso di confusione che gli veniva dal ritorno su un pianeta così diverso dalla colonia a cui si era abituato nel corso degli ultimi decenni. C’era troppa roba sulla Terra e sistemata nei posti più assurdi! Forse gli sarebbe toccato chiedere informazioni, come un turista qualsiasi.
«Posso aiutarla? La vedo un poco sperduto.»
La voce colse Thoreau di sorpresa. Apparteneva a un anziano, o almeno a qualcuno che poteva pure essere un suo coetaneo: pelle scura, segnata dagli anni, un volto che vedi e dimentichi, quasi perso sotto a una matassa di capelli grigi, striati di bianco. Un tizio quasi uguale a mille e mille altri che incroci per strada, il vecchio del posto che vuole essere gentile col povero turista disperso. Thoreau sospirò, il morale rimboccato nei calzini.
«Non è che sono proprio sperduto,» rispose. «Era da un po’ di tempo che non tornavo qui e adesso non sono ben sicuro di dove sia l’entrata ai trasporti, sa. Ma davvero, non c’è bisogno...»
«Oh, si figuri, l’aiuto volentieri. Ho viaggiato molto anch’io, da giovane, e so cosa succede. Parti, resti lontano per quello che sembra poco tempo, magari un anno o due, poi quando torni scopri che di anni ne sono passati più di venti e tutto è cambiato. Ah, succede a tutti, davvero. Succede a tutti.»
Thoreau non era proprio convinto che succedesse a tutti, ma lasciò perdere. Forse un aiuto avrebbe fatto comodo, almeno per andarsene da quel posto. Per adesso. Ci sarebbe tornato poi, per discutere con Leonardi, ma adesso voleva solo lasciarsi tutto alle spalle, riposarsi e non pensarci più. Sospirò.
«Beh, penso che un aiuto lo accetterei volentieri, al momento.»
Matthew Ajibade sorrise. «Ci penso io, non si preoccupi. Dove deve andare? Mi dica tutto.»
Thoreau gli rispose.