La galassia di Madre - 109
A Matteo Kori il nuovo colono non era piaciuto fin dall’inizio. Prometteva guai. Peggio, prometteva di mantenere le promesse. Per questo lo avevano rifilato proprio a lui, ovvio. Per questo o perché al responsabile Matteo stava antipatico. Era evidente. Era la sola spiegazione che il diretto interessato fosse disposto ad accettare. E Matteo era antipatico al responsabile del gruppo perché aveva fatto la bella vita su Lakshmi, non era arrivato col Teatro e conosceva pure sostantivi con più di tre sillabe. Quindi gli aveva rifilato quel nuovo colono, appena scaricato dal Teatro. Glielo aveva rifilato come regalo al ritorno dalla vacanza a Bidonia. Gran bel regalo. E gran bella vacanza.
Matteo si era lamentato molto, ma sempre senza parlare. Si era lamentato nel cuore. Nello spirito. In una forma di sciopero psicologico che doveva trasmettere tutta la grande insoddisfazione che aveva dentro di sé, unita alla più intensa affermazione della individualità che il responsabile gli negava. O qualcosa del genere. Agli altri del gruppo sembrava solo che Matteo avesse qualcosa incastrato tra i denti, ma avevano la misericordia di non farglielo notare. Oppure se ne fregavano, come era molto più probabile. Fosse come fosse, non era stato un bel ritorno al lavoro e Matteo non ne era felice. Riteneva di non meritarlo, in aggiunta a tutto ciò che era accaduto a Bidonia.
Ed erano state esperienze brutte, a modo loro. Ancora se lo sognava quel cadavere in spiaggia, così simile ad mir da poterlo essere davvero. Aveva deciso di non pensarci più, di dimenticarsi tutto. Sì, gli era capitato di vedere un cadavere in spiaggia, e magari assomigliava pure a qualcuno che aveva creduto di riconoscere, ma non era davvero quel qualcuno e comunque era meglio non pensarci. Da un certo punto di vista, non era successo niente, no? E adesso era lontano da Bidonia. Era tornato in città, al lavoro. Riteneva di meritarsi una tregua. Per motivi noti solo a lui, sentiva che era giusto.
Ma la vita è così e la vita in quel caso gli aveva servito una mano perdente. Gliela aveva servita con la faccia di Joe Downey. Che era il nome del nuovo colono, o almeno il nome con cui quel tizio si presentava, ma era probabilmente falso. Doveva essere falso. Suonava troppo falso per poter essere vero, proprio come falsa doveva essere la sua età. Si dichiarava maggiorenne, quel fantomatico Joe Downey, ma aveva la faccia di chi era fuggito dal liceo dopo un paio di anni al massimo, e fuggito in lacrime. Anni durante i quali non doveva avere imparato molto, secondo il modesto parere di Matteo. Di certo non aveva imparato l’educazione.
Il nuovo colono era piuttosto basso e mingherlino, con una faccia lunga e stretta, vagamente equina. Aveva occhi da pecora, perennemente sorpresa da ciò che la circonda, oppure occhi da fatto perso, a seconda di quanto ti sentivi generoso al momento. Matteo tendeva a sentirsi poco generoso, così lo aveva archiviato nel proprio cervello come l’uomo-pecora, a volte pecorone, a volte ancora peggio. I suoi capelli avevano quel genere di taglio che di solito ottieni quando ti svegli mentre amici molto simpatici ti stanno rimodellando artisticamente la pettinatura a colpi di forbici e rasoi, magari in una gita scolastica assai noiosa. Aggiungi al tutto l’abitudine di esplorarsi con entusiasmo le narici ogni volta che pensava di non essere guardato e ciò che ne esce è il nuovo colono.
Il cosiddetto Joe Downey. Il tizio di cui Matteo si doveva occupare nel gruppo, incarico che nessuno gli invidiava. C’era da piangere e da rimpiangere il giorno in cui aveva deciso di partire per Madre in cerca di notizie del fratello disperso. Invece lo aveva deciso, era partito, arrivato e adesso doveva vivere con le conseguenze della sua scelta. Come insegnava la morale lakshmita, ahaha. C’era quasi da prendere il muro a testate, magari con la testa di qualcun altro. Un possibile candidato lo aveva.
Ma così era andata e così avrebbe continuato ad andare. Al momento al loro gruppo erano assegnate attività di supporto alla ripresa dei lavori al museo. Perché i lavori erano ripresi, glielo avevano già confermato anche Sebastian e gli altri, ma Matteo non li aveva ancora visti, né si aspettava di poterli vedere a breve. Non erano ancora pronti, loro, e servivano squadre già allenate. O così aveva detto il loro responsabile. Per il momento loro avrebbero collaborato dall’esterno, occupandosi di attività che avrebbero facilitato, sveltito, snellito e semplificato il lavoro di chi, invece, edificava il museo.
Eccetera, eccetera. A Matteo sembravano solo belle parole per giustificare lavori di merda, ma era meglio astenersi dai commenti e spalare. E spostare. E impastare. E applicare mille altri verbi che parevano usciti da romanzi della prima età industriale o giù di lì. Colonizzare un pianeta sembrava davvero un viaggio nel tempo, come aveva commentato Selina. Sembrava anche un viaggio dentro altre sostanze assai meno gradevoli del tempo, come diceva a volte Sebastian, ma era meglio se non ci pensavi troppo. Ti deprimevi, a pensarci troppo, e per deprimersi bastava la realtà.
Matteo si raddrizzò, sospirò, puntò le mani sui fianchi e inarcò la schiena all’indietro in un concerto di vertebre e altre cose schioccanti. Non aveva mai capito cosa fosse di preciso a schioccare o come facesse a schioccare, ma era piacevole, ti trasmetteva davvero la sensazione di avere fatto qualcosa di buono per il tuo corpo e così Matteo schioccava, giusto per. Accanto a lui Joe Downey era perso nel magico mondo del lavoro, ma purtroppo non un lavoro per cui potesse attendersi uno stipendio: il suo indice destro era immerso nelle profondità insondabili di una narice e in volto esprimeva tutta la concentrata serietà che raramente metteva in altre occupazioni. Matteo sospirò.
«Dovremmo cercare di raggiungere la quota entro sera, se possibile,» disse al collega. «Pensi forse di poter ottenere una partecipazione più attiva dalla tua mano destra fino a che non avremo finito?»
Joe Downey si scosse come da un sonno profondo. «Scusa, stavo pensando,» rispose, estraendo il dito dalla narice e spazzandolo distratto sui pantaloni. «È una roba noiosa, sai.»
Matteo annuì. «Lo so io e lo sanno più o meno tutti gli altri. Quindi, se riusciamo a levarcela al più presto dai piedi, tanto meglio per tutti, no? Non diventa più divertente, se perdiamo tempo.»
Joe Downey scosse la testa imbronciato e tornò al lavoro, bofonchiando qualcosa sul tema del “ma non era mica quello che mi aspettavo io”. Matteo sospirò. Ritira il tuo numero e mettiti in coda, gli avrebbe voluto rispondere. Non lo fece. Non ne valeva la pena. La sola cosa che valesse davvero la pena era finire al più presto e non pensarci più. Poi sarebbe arrivato un lavoro peggiore, d’accordo, ma poi era poi e non adesso. Il poi poteva prendersi cura di se stesso, almeno per un po’. Finché non aveva finito con l’adesso, tanto per cominciare. Matteo avrebbe voluto finire per tornarsene a casa, o all’alloggio che faceva funzione di casa. Tornare, staccare la spina, riposare. Fantastico.
Non che avrebbe riposato molto, in realtà. Ci sarebbero state e lamentele di Indira, discussioni sulla imminente conferenza del tizio svarghiano di cui non ricordava il nome, quello dei giganti gassosi, e dopo la conferenza i preparativi per tornare su Lakshmi. Perché loro sarebbero tornati su Lakshmi, Sharma Indira e Mei. Avevano già deciso e prenotato. Lui, invece, sarebbe rimasto su Madre fino al termine del contratto che aveva siglato, perlomeno. Poteva solo sperare che non si sarebbe dovuto sorbire quel nuovo colono per tutto il tempo: sarebbe stata una tortura inumana. Anzi, sarebbe stata una tortura umanissima, perché sembra che solo gli umani sappiano inventarsi certe crudeltà, per lo meno all’interno del mondo animale evoluto sulla Terra. Su altri pianeti magari la storia era diversa, ma non lo avrebbe certo saputo dire lui.
Un lato positivo c’era e Matteo lo aveva saputo individuare abbastanza presto. Per quanto stronzo e carogna il suo responsabile potesse essere, non sarebbe mai riuscito a torturarlo a lungo col nuovo colono. Non sarebbe durato a lungo, il nuovo colono. Perché quel Joe Downey aveva idee strane, in aggiunta alle disgustose abitudini pubbliche. Aveva idee strane e parlava di cose strane e su Madre non costituivano tratti vantaggiosi per la sopravvivenza dell’individuo, anche se forse lo erano sul piano della specie. Anzi, togli il forse: lo erano di sicuro, se permettevano di potare esemplari come il nuovo colono ed estirpare la combinazione di geni che lo aveva prodotto. Combinazione malata.
Le cose che si inventava, per esempio. Appena arrivato, aveva subito cominciato a parlare di pozzi e altra roba assurda. Pozzi giganti, diceva, che erano da qualche parte su Madre. Il resto del gruppo lo aveva deriso, il responsabile gli aveva consigliato di trovarsi passatempi e interessi più salutari, così Joe aveva smesso di parlarne. Con gli altri. Con Matteo, invece, continuava ogni volta che ne aveva l’occasione, ma anche quando il buonsenso gli avrebbe dovuto indicare che no, di occasioni non ce n’erano. Peccato che il buonsenso e il nuovo colono non si conoscessero neppure di vista.
Sosteneva che i pozzi esistevano davvero, perché gliene aveva parlato un vecchio sulla Terra. E non un vecchio qualunque, eh! Uno che aveva girato la galassia, da giovane. Uno che ne sapeva. Uno di quelli pieni di esperienza, che hanno visto un sacco di cose. Uno che Matteo avrebbe strozzato con gioia, perché aveva creato quel mostro che adesso si trovava tra i piedi tutto il giorno.
«Ma sei sicuro che esistano davvero e siano proprio così grandi?» si era azzardato a chiedere una volta. «Perché, sai, a certa gente piace esagerare un poco, quando racconta storie. Per impressionare gli ascoltatori, sai. Specie se chi racconta è un anziano e chi ascolta è un ragazzino che non è mai uscito dal proprio quartiere. Sai. Sono cose che capitano. Cose naturali.»
Ma no, era impossibile. Perché nonno Ajibade era una persona seria, uno che aveva girato davvero e parecchio, uno che di cose ne aveva viste tantissime, eccetera eccetera. Uno che sparava missili dal naso e raggi laser dalle orecchie, con ogni probabilità, ma Matteo non se l’era sentita di ribattere o di discuterne. Tempo sprecato. I matti era meglio lasciarli rosolare per contro proprio, annuendo con cervello spento o lampeggiante. Alla fine si stancavano di parlare, di solito.
Sfortunatamente per lui, Joe Downey non se n’era ancora stancato, anche se il flusso di scemenze si era ridotto di parecchio nell’ultima settimana. Con pazienza e fortuna, forse si sarebbe esaurito nel giro di un mese al massimo. Con ancora più fortuna, forse avrebbero rifilato quella piaga a un altro, oppure avrebbe trovato un modo molto originale e demenziale per ammazzarsi sul lavoro. Attento e concentrato come non era, praticamente li invocava gli incidenti. Sì, a breve quel Joe sarebbe stato rimosso, o si sarebbe rimosso da solo. Matteo non ci credeva davvero, ma in fondo le speranze sono qualcosa in cui non credi davvero, ma ti auguri che accadano. Lui si augurava che il nuovo colono sparisse, non necessariamente in modo violento, anche se nel caso non avrebbe pianto.
Le probabilità che tutto si sarebbe concluso in modo violento aumentarono un paio di giorni dopo, durante la pausa pranzo, quando Joe Downey gli confessò di voler studiare la base militare. «Ma di nascosto, eh, cosa credi! Mica mi voglio far scoprire, io. E mica mi scopriranno, stai sicuro. Io non sono così fesso. Ma i pozzi sono nascosti là, e se non ci sono almeno avranno informazioni, capisci? E io le troverò. Non mi fregano mica, loro.»
Matteo sorrise e annuì, cominciando a mangiare più in fretta e guardandosi attorno. Di gente non ne mancava, ma nessuno sembrava interessato a quello che dicevano. Anzi, rifacciamo: a quello che il pazzo seduto di fronte a lui stava delirando. Lui Matteo non diceva niente e avrebbe continuato a non dire niente. Anzi, lo avrebbe detto a voce ancora più alta, perché tutti sentissero che non diceva nulla, a parlare era solo l’altro, non lui. Lui ascoltava e non prendeva posizione. Per adesso. Dopo le avrebbe prese, altroché se le avrebbe prese. Le posizioni più lontane che riuscisse a trovare. Magari in un’altra galassia. Doveva esserci ancora spazio nella Nebulosa di Andromeda, giusto?
Andare a cercare in una base militare. Ma si poteva essere più pazzi di così? Certo che si poteva e di esempi ne avrebbe saputi fornire parecchi, ma in quel particolare momento non avvertiva il bisogno di ulteriore pazzia: ne aveva già in abbondanza ed era seduta proprio lì davanti. Sì, meglio parlarne col responsabile. Il tizio che gli aveva affidato era matto, tendente al pericoloso, e doveva pensarci qualcun altro. Anche per il bene di quel tizio, beninteso.
Intanto Joe Downey agitava un cucchiaio e spiegava come intendeva procedere con l’infiltrazione nella base militare, che detta così sembrava un guasto idraulico, ma in realtà era un guasto assai più grave agli ingranaggi del cervello di quel ragazzino. Spiegava che si sarebbe travestito da soldato e nessuno lo avrebbe scoperto, perché lui era bravo a travestirsi, sapeva come fare, e poi una volta che era arrivato dentro alla base, beh, allora non lo avrebbero fermato più, no? Voglio dire, è fatta. E te lo dico io, guarda, che i pozzi ci sono davvero. Ma nascosti! E io li troverò.
Matteo stava ancora pensando a cosa dire per fargli chiudere la bocca, ammesso che fosse possibile, quando una mano gli si posò sulla spalla destra. Avrebbe probabilmente rischiato l’infarto se quella mano si fosse stretta, come a volerlo trattenere e inchiodare; siccome fu solo un contatto leggero, il cuore perse soltanto un battito, che recuperò per strada nello spazio di due o tre respiri. Non voleva davvero girarsi a vedere chi ci fosse dietro di lui, ma le sue scelte erano limitate, così si girò e sperò in bene. Il risultato fu abbastanza positivo.
La proprietaria della mano era Mary Demarest, altro membro del suo gruppo di lavoro, una tizia che a occhio doveva essere dalle parti della trentina, non molto alta, paffuta ma non grassa, coi capelli scuri e corti. Simpatica a modo suo, quando ne aveva voglia. Soprattutto, una delle poche che non si lamentava del pianeta su cui aveva deciso di emigrare: questo da solo le valeva una medaglia. Che a conferirla virtualmente fosse un lamentatore professionista come Matteo era un discorso diverso ma aggiungeva alla situazione la giusta dose di ipocrisia, quel collante universale della società umana.
«Potresti seguirmi un attimo? Abbiamo un paio di cose da discutere col boss,» gli disse lei. Matteo guadagnò di colpo almeno venti pulsazioni al minuto, ma annuì e si alzò, scusandosi col compagno di tavolo, che per un qualche miracolo aveva smesso coi suoi deliri di spedizioni tra i militari.
Uscirono dalla mensa e camminarono per un poco verso l’edificio dove erano sistemati capisquadra e responsabili vari. Matteo avrebbe voluto chiedere qualcosa, ma non voleva sentire le risposte, così rimase zitto e seguì a testa bassa, con l’entusiasmo di un vitello accodato a una capra nei corridoi di un mattatoio. Ma Mary Demarest non lo condusse nell’edifizio. Quando erano ormai di fronte alle porte, cambiò direzione e infilò un vicolo laterale, deserto e un poco maleodorante. Procedette per un poco, girò un altro paio di angoli, infine si fermò in una strada senza uscita che si chiudeva nello stretto spazio tra file di magazzini. «Qui andrà bene,» disse.
Poteva essere un luogo adatto a una esecuzione, il che non contribuì a tranquillizzare Matteo. «Bene per cosa?» chiese, sperando che la risposta non sarebbe stata troppo orrenda. Ma Mary sorrideva, o almeno la sua bocca era incurvata con un angolo che non sembrava minaccioso. Forse non era nulla di così brutto come stava immaginando lui. Forse. O forse era peggio.
«Bene per parlare del novellino,» rispose lei. «È un idiota.»
Matteo espirò fin quasi a sgonfiarsi. Idiota? Alla faccia dell’eufemismo. «Beh, io non lo definirei proprio idiota, ecco. Non rende l’idea. Troppo poco. È completamente fuori di testa, quel demente.»
Mary Demarest scrollò le spalle. «È un ragazzino con la testa piena di scemenze. E fin qui nulla di male, non è il primo e non sarà neppure l’ultimo a finire su Madre. Il problema è che le scemenze le lascia uscire dalla bocca in continuazione. Al lavoro parla sempre come poco fa in mensa?»
Matteo annuì stanco. «Anche peggio. Ti assicuro che è una tortura stargli intorno.»
«Posso immaginare. Tu gli dici di tacere, vero?»
«Qualche volta, ma tanto non tace. Neppure mi ascolta.»
Mary Demarest sospirò. «A questo punto è meglio parlarne col boss. Che lo metta in riga lui. È un pericolo per sé, e questo pazienza, sono affari suoi, ma è anche un pericolo per noi.»
«Perché anche per noi? Voglio dire, sì, se continua così gli succederà qualcosa di male, ovvio, non ne discuto, ma noi cosa c’entriamo? Quello che dice è colpa sua, non nostra.»
«In teoria sì, in pratica no. Si sono già verificato problemi simili, in passato, e nella maggior parte dei casi hanno punito anche il resto della squadra, per non averlo fatto tacere in tempo. È una specie di responsabilità collettiva o qualcosa del genere, non so bene quale sia la giustificazione legale o se ce ne sia una. Chiedilo al boss, se ti interessa e se lui lo sa. Non è detto. Comunque funziona così.»
Una bella notizia, tanto per cambiare. «Senti, allora è meglio se ci andiamo subito dal boss. Tanto lo fai tacere solo tagliandogli la lingua, quello lì. Diciamolo subito al responsabile e al resto ci penserà lui. È il responsabile, dopotutto.»
«Come preferisci. Ho voluto avvisarti perché sei tu che ti occupi del ragazzino, è stato assegnato a te, e se non lo sai gestire tu allora ci saranno brutte conseguenze anche per te.»
La temperatura corporea di Matteo scese di parecchi gradi. «Che tipo di brutte conseguenze?»
Mary alzò le spalle. «Una nota di demerito, una valutazione negativa, cose così, sai. Suppongo che il boss lo abbia affidato a te per testare le tue capacità o quello che è, metterti alla prova e misurare il tuo valore, non so come si chiami in termini tecnici, ma è qualcosa che i responsabili del gruppo devono fare spesso, per conoscere le doti di ogni membro. O così dicono. Comunque, se gli chiedi aiuto, significa che non sei capace di gestirlo da solo e non ti puoi aspettare un buon voto.»
«E un cattivo voto è un problema?»
«Significa che non avrai un aumento e che continueranno ad assegnarti lavori di basso livello. E poi ci sarà altro, suppongo, ma in linea di massima si tratta di questo: ti servono valutazioni positive, se vuoi salire di livello tra i coloni. Con valutazioni negative resterai sempre in basso.»
Matteo ne avrebbe riso, ma non lo fece perché l’altra aveva una espressione molto seria. Per lei era una cosa importante, in apparenza. Per lui no. Non si era preoccupato dei brutti voti a scuola (non ne aveva mai presi), figurarsi se se ne sarebbe preoccupato da colono su un pianeta arretrato. Con tutte le punizioni che si era immaginato, poi... «Non c’è problema, mi rifarò in futuro. Adesso basta non avere più tra i piedi quel deficiente. Mi va bene anche fare un passo indietro. Te ne faccio anche dieci di passi indietro, e camminando sulle mani. Anche venti, se me lo tolgono.»
Mary Demarest lo guardò incerta. «Beh, se va bene a te...»
«Mi va benissimo. Anzi, andiamoci subito dal responsabile, così ci togliamo il pensiero.»
Ci andarono. In mensa, Joe Downey li attese ancora per un poco, ma nessuno tornava, così si alzò e uscì a propria volta. Restava ancora tempo prima del prossimo turno di lavoro, almeno mezz’ora e forse qualcosa di più. Non lo avrebbe sprecato seduto là dentro a mangiare cibo schifoso, non dopo tutti gli anni che aveva già dovuto sprecare sedendo da qualche parte a mangiare immondizia. Che non erano poi così tanti, se misurati in tempo dell’orologio, ma lo sembravano nel tempo soggettivo della mente, o quello che era. Anni in periferia, anni a sopravvivere sui margini e forse un poco più in là. Anni che non voleva rivedere, né rivivere. Adesso era su Madre, si era imbarcato col Teatro e aveva un mondo nuovo di fronte, uno in cui costruire una vita nuova. Proprio come gli aveva detto Ajibade. Un altro mondo, proprio come nelle storie del vecchio.
Non un bel mondo, d’accordo. Potendo scegliere, Joe avrebbe preferito qualcosa che non fosse un cantiere lasciato a metà e che non puzzasse di cantina umida. I mondi migliori, però, erano mondi che costavano e su cui non si sarebbe mai potuto permettere di andare. Madre era gratis, era libero e ti pagavano addirittura per viverci. Doveva lavorare e il lavoro era uno schifo, d’accordo, i colleghi pure, ma poteva andare peggio. Il problema vero era che nessuno lo prendeva sul serio.
Parlava dei pozzi e tutti lo ignoravano. Parlava dei pozzi e nessuno gli credeva. Perché? Perché gli altri erano vecchi e non molto svegli, d’accordo, a cominciare dal tizio con la faccia da scemo che in teoria gli doveva insegnare il lavoro, ma in pratica era già tanto se sapeva da che parte era girato. Joe Downey scosse la testa. Era proprio vero che su Madre prendevano tutti, anche gli stupidi. Anzi, forse prendevano soprattutto gli stupidi, che erano più facili da controllare.
Ma lui non lo controllavano mica. Lui non ascoltava nessuno, faceva tutto di testa sua, sceglieva di testa sua e agiva di testa sua, proprio come gli aveva detto Ajibade. Gli aveva anche parlato molto dei pozzi, il vecchietto, e adesso che era su Madre li voleva trovare. Sentiva che erano importanti, la chiave per capire tutto il resto. Cosa fosse di preciso tutto il resto non gli era molto chiaro, ma non aveva importanza: lo avrebbe capito dopo avere trovato i pozzi. Se lo sentiva nelle ossa e a volte nel cuore. Il tizio con la faccia da idiota che lavorava con lo gli aveva spiegato che era l’effetto sul suo organismo della gravità più bassa e le palpitazioni improvvise erano dovute a quello. Idiota!
Ma il punto non era quello che diceva uno scemo di lavoratore. Il punto erano i pozzi. Ajibate aveva raccontato che c’erano, quindi dovevano esserci. Peccato che nessuno ne sapesse qualcosa; tutti lo guardavano male, quando ne parlava. Lo guardavano come se fosse solo un bambinetto che credeva ancora a Babbo Natale. Ma non lo era. E lo avrebbe dimostrato. Girò per un poco a testa bassa e mani in tasca, scalciando quello che trovava da scalciare. Ogni tanto non gli restava appiccicato alla punta degli scarponi da lavoro. Schifo di posto!
Come lo avrebbe dimostrato? A Joe Downey non piaceva, ma era costretto ad ammettere che non ne aveva idea. Non sapeva proprio da dove partire. È vero, in teoria lo sapeva, in teoria sarebbe bastato arrivare a una base militare, infiltrarsi e cercare quello che nascondevano. In teoria. Passare però da teoria a pratica era un altro discorso, uno che Joe non aveva mai sentito. E dunque?
E dunque forse era meglio andarci piano. Intanto era su Madre e si poteva guardare attorno, giusto? Gli sarebbe anche piaciuto poter risolvere tutto in fretta, ma probabilmente non ci sarebbe riuscito. Studiando a poco a poco la zona, preparando un vero piano di azione, le cose sarebbero cambiate. Per forza. Dovevano cambiare. Magari non in fretta, ma alla fine. Che era comunque meglio di mai, giusto? E comunque se n’era andato dalla Terra, che era già un buon inizio.
Seguendo la sua idea che i pozzi si trovavano sotto, Joe aveva investigato le aree più basse in zona. Aveva anche sentito una storia molto interessante, o almeno un poco interessante, raccontata da un tizio con la cresta verde. L’aveva raccontata una sera in mensa, circondato da un gruppo di novellini ma soprattutto un paio di novelline, che di certo voleva impressionare. Joe aveva ascoltato seduto in un angolo, senza farsi notare, per cui tutti si erano accorti di lui, ma lo avevano ignorato perché era mezzo matto e lo sapevano tutti. Dettagli irrilevanti. Aveva ascoltato e memorizzato.
Il tizio con la cresta verde parlava di un ex collega, che era stato mandato nelle fogne a sistemare qualcosa. «Uno di quei lavori schifosi che ci avevano rifilato per punizione, no? Per quella volta che Klaus ci aveva lasciato una mano per una scommessa. Ve l’ho già raccontato, no?» Tutti ad annuire.
«Beh, lo avevano mandato nelle fogne, no?, insieme a un altro, Luis, non so se ce lo avete presente, quello che parla...» Tutti a scuotere la testa. «Beh, lo avevano mandato nelle fogne, no?, e lo sapete cosa gli è successo, eh?» E nessuno lo sapeva, ovvio, perché glielo stava raccontando lui e mica lo potevano sapere prima, no? Joe aveva avvertito l’impulso di strozzarlo, per come perdeva tempo.
Alla fine aveva raccontato che quel collega, sceso nelle fogne per blablabla, aveva trovato un sacco di insetti. Wow, che storia avvincente! Solo che non erano insetti normali, ma insetti sconosciuti, un nuovo tipo, no?, che poi hanno anche mandato degli scienziati a studiarli. Tipo millepiedi, ma grossi e fosforescenti, presente? Erano seguiti rapidi gesti di disgusto dalle ragazze che stava cercando di impressionare, segno che probabilmente le aveva impressionate, anche se forse non nel modo che si sarebbe augurato. Cazzi suoi, per usare un termine tecnico.
Se il racconto si fosse concluso lì, Joe se ne sarebbe dimenticato. Ma Cresta Verde aveva continuato la storia e dalla cronaca era passato alle voci di corridoio, forse leggende metropolitane, forse solo leggende. Dopo l’incontro, dopo che il tizio era finito in ospedale perché il bruco gli aveva sputato in faccia una qualche sostanza («Ma non è morto, eh? Si è solo fatto qualche giorno in ospedale»), i coloni in città ne avevano parlato per un po’, sapete, era una notizia a modo suo, no?, interessante a modo suo. Cresta Verde lavorava in un magazzino ai margini, in quel periodo, lì appena fuori, dove comincia la strada che poi finisce alla base militare, presente? C’erano veterani, lì. Gente che era su Madre anche da quindici, venti anni. Gente un po’ ammaccata, anche, che certi lavori non li poteva più fare. Una specie di discarica umana, presente? Era un lavoro di punizione per me, dopotutto.
Uno dei veterani aveva lavorato alla base militare, un tempo. Prima a costruire gli scarichi fognari e poi a occuparsi della loro manutenzione. Erano in un gruppo di una ventina, alcuni sono ancora là, altri chissà dove sono finiti. E un paio di volte li avevano visti, quei bruchi, ma nessuno aveva detto nulla. Chi stava alla base militare imparava subito a tenere la bocca chiusa. Joe si era domandato se lo dimenticava subito dopo aver lasciato la base, visto che aveva raccontato tutto a Cresta Verde, ma in fondo chissenefrega, affari suoi. Il punto era che li avevano trovati anche nelle fogne della base, e magari c’erano ancora, ma avevano messo tutto a tacere. E quel veterano aveva aggiunto un gesto da cospiratore, che Cresta Verde aveva imitato a uso e consumo del suo pubblico.
La parte interessante della storia era finita lì. Cresta Verde aveva continuato ancora per un po’, ma i suoi ascoltatori dovevano esseri annoiati, magari non l’avevano trovata poi una storia così speciale o emozionante. Erano passati ad altro e ad altro era passato anche Joe. Con un dito che frugava nelle narici, quasi col pilota automatico, aveva riflettuto sulla storia e quello che poteva significare.
Alla fine aveva deciso di agire e andare a vedere di persona. Non nella base militare, ma in città, nel tombino che Cresta Verde aveva indicato. Joe era moderatamente sicuro di poterlo trovare, girando un poco. E trovato lo aveva, o almeno credeva. Nel suo ultimo giorno di riposo si era infilato stivali e tuta da lavoro, ma quella già rotta, che teneva di riserva. Era uscito all’alba, quando per strada non c’era un cane, se non che sì, d’accordo, qualche cane c’era, ma umani no ed erano gli umani che lui voleva evitare, perché i cani non parlavano. Non che sapesse lui. Non quelli veri. Il vicolo era buio e il tombino pareva uno scrigno colmo di tesori, promesse e probabilmente merda. Non i pozzi che cercava lui, ma forse un indizio. Se le fogne erano tutte collegate, magari poteva usarle come strada segreta per raggiungere la base militare. E le fogne dovevano essere collegate, giusto? In fondo quei bruchi li avevano trovati sia in città che nella base, quindi era chiaro che si muovevano da qui a là.
Il suo ragionamento conteneva parecchi salti logici, nonché una discreta dose di salti illogici, salti mortali e piroette, ma a Joe Downey non interessava. Era logico per lui, e questo bastava. Così nella penombra dell’alba e nella presunta solitudine del vicolo aveva aperto il tombino (aperto! E lui che si era aspettato di doverlo scassinare o altro, bah), si era guardato attorno, aveva storto la faccia per la zaffata di fetore che lo aveva colpito, si era legato un fazzoletto davanti a naso e bocca, fingendo che bloccasse davvero l’odore (non lo bloccava), aveva respirato a fondo, si era accorto troppo tardi che respirare a fondo era una pessima idea sul piano olfattivo, infine era sceso.
Aveva vagato a lungo nelle fogne, che erano larghe in modo innaturale. O in modo che a lui sembrò del tutto naturale, perché anni di videogiochi e altro gli avevano insegnato che le fogne sono sempre larghe a sufficienza da permettere agli eroi di camminare a testa alta e magari anche fermarsi in un angolo per un picnic. Le fogne immaginarie che conosceva lui, però, spesso erano anche illuminate in un qualche modo, sempre per facilitare la visione di spettatori e visitatori. Le fogne in si trovava al momento, invece, erano buie. Ma buie buie, eh! Roba che non vedevi neanche le tue mani, se per una qualche ragione ti veniva voglia di prenderti a schiaffi. A lui era venuta voglia dopo un paio di minuti, quando si era accorto che non solo non sapeva dove stesse andando, ma neppure come fare a tornare indietro. All’inizio era dritto, ma poi c’erano state due deviazioni, forse tre, e c’era buio e tutto puzzava, e neanche un bruco luminoso, maledizione, e...
Il panico lo aveva colto più o meno a quel punto. Joe Downey era convinto di averlo saputo gestire sorprendentemente bene, o così amava ripetersi quando ripensava a quell’avventura. In realtà, non aveva idea neppure lui di cosa avesse combinato là sotto, non in dettaglio. Aveva vagato, questo era ovvio, e alla fine in un qualche modo doveva avere trovato una via di uscita, perché il primo ricordo netto e nitido che aveva era di essere aggrappato a pioli lisci e metallici, con le gambe libere da quel mare di melma (o altra sostanza che differisce solo per due lettere). Potevano essere passati minuti, potevano essere passate ore. Joe non lo aveva saputo allora e continuava a non saperlo adesso.
Ma si era calmato. Una volta trovata la scaletta, si era calmato. Aveva respirato a fondo, ripensato al tentativo di esplorare le fogne, verificato che no, non sembrava essere andato molto bene e di bruchi non ne aveva visto neppure mezzo, e se un giorno avesse deciso di ritentare, beh...
Un giorno non avrebbe deciso di ritentare. Non a breve. Non per qualche altro secolo. Aveva salito la scala, aperto un tombino con una difficoltà assurda, dopo averlo localizzato con una craniata che gli aveva fatto tremare i denti, infine era uscito a rivedere le stelle. Metaforicamente parlando: non le stelle ma il cielo incerto di Madre lo aveva accolto, e se non c’era un granché di sole, era bastato ad accecarlo, dopo tutto il tempo passato sottoterra. Quanto tempo, di preciso? Tanto, e di più non si voleva sbilanciare, anche se “troppo” sarebbe stato un avverbio migliore.
Dopo quell’orribile fallimento, la sua smania esploratrice si era placata parecchio. Parlava e parlava, giorno dopo giorno, e parlato aveva parlato anche a pranzo, in mensa, ma agire aveva agito solo nel segreto della propria testa. Sembrava davvero un posto pericoloso, quel pianeta. Meglio andarci più cauti. E dire che Ajibade lo aveva pure avvertito, da un certo punto di vista. Gli aveva detto che non ci si poteva fidare degli altri mondi, che c’erano sempre brutte sorprese a ogni angolo. O qualcosa del genere. Non ricordava i dettagli, Joe, ma ricordava che avvisi c’erano stati.
A testa bassa e brontolando tra sé, si incamminò verso quella specie di cantiere dove era costretto a lavorare, o a sprecare tempo come la pensava lui. Lo raggiunse per primo e sedette ad aspettare gli altri, che arrivarono uno alla volta, pian piano, e senza salutarlo. Neppure lo guardavano, in effetti. A Joe non dispiaceva troppo, perché tanto erano solo stupidi caproni che sapevano solo obbedire e non pensavano mai, ma un poco lo infastidiva lo stesso, perché almeno salutare, che diamine! Ma la vita era dura, dura per tutti, ed era anche ingiusta.
Arrivò anche il tizio che lavorava con lui, quello con la faccia da idiota. Lo seguiva un’altra tizia, una grassoccia, che Joe ricordava di vista. Probabilmente era anche lei nel cantiere, ma in fondo non aveva importanza. Era gente inutile. Ma il tizio con la faccia da idiota si chinò verso di lui, sorrise e indicò genericamente indietro col pollice. «Il boss ti vuole parlare,» disse.
Joe sospirò e storse la faccia. «Cosa vuole?»
«Non lo so. Parlare. Con te.» E un altro sorriso, che Joe avrebbe preso volentieri a pugni assieme al resto della faccia. «Meglio se vai a sentire cosa vuole, eh?»
Con l’entusiasmo di un moribondo, andò. Matteo lo seguì con o sguardo fino all’uscita del cantiere, poi si girò verso Mary Demarest. «Come pensi che andrà a finire?»
Lei scrollò le spalle. «Predica, sgridata, solita roba. Magari anche un ultimatum. Dipende.»
«Pensi che lo abbiamo spaventato abbastanza o dici che avremmo dovuto sottolineare ancora un po’ le possibili minacce alla pace e le responsabilità che sarebbero ricadute sul, ehm, responsabile?»
«A sottolinearlo ancora, avremmo bucato il foglio. No, va bene così. Tu avrai una nota di biasimo, e dalla faccia del boss direi che non sarà bella, sembrava parecchio... alterato, per così dire. Ma andrà molto peggio a quel Joe. Secondo me gli farà abbassare la cresta, almeno per un poco.»
«E se non l’abbasserà?»
Mary scrollò le spalle. «Allora immagino che scopriremo se sono vere le voci sulla gente che è fatta sparire per essere stata troppo curiosa, fastidiosa o altro. Sarà istruttivo.»
«Se faranno sparire solo lui.»
Tacquero. La spia l’avevano fatta, il responsabile era stato avvisato e aveva convocato Joe Downey per un “confronto aperto e costruttivo”, come si diceva. Matteo si sentiva soddisfatto. Aveva avuto un problema, lo aveva affrontato e adesso il problema sarebbe stato risolto da un altro. Si sentiva di avere dato un contributo significativo al benessere della comunità. Sì, stava migliorando, maturando e progredendo. Poteva proprio essere soddisfatto di sé.
Fra una soddisfazione e l’altra cominciò il turno pomeridiano al cantiere. Joe non c’era, sil silenzio era una benedizione rotta solo dal frastuono snervante di strumenti che scavavano e spaccavano, dai grugniti gutturali con cui insulti e avvertimenti volavano qui e là, dal ronzio improvviso che sentivi dietro a un orecchio, quando un insetto volava via dopo aver completato la propria missione, se una puntura irritante poteva essere definita missione. Da altri insetti forse sì.
Ma era una bella giornata, nel complesso. Joe arrivò verso metà pomeriggio, ed era mogio mogio, la faccia così lunga che quasi inciampava nel proprio mento. Strigliato a dovere, sì. Magari sculacciato e messo in castigo. Matteo non si poteva lamentare, anche se più tardi lo avrebbe fatto, per tenere la media. Canticchiando a bocca chiusa, continuò a lavorare.