La galassia di Madre - 110
La prima tappa del viaggio che avrebbe riportato Inna Rabbani su Madre fu la Terra. Kemala Kexin non approvò, ma Kemala a quel punto era soltanto una personalità inscatolata, il che riduceva molto il campo delle azioni che le erano concesse: poteva lamentarsi o poteva lamentarsi, e se poi proprio lo voleva poteva anche lamentarsi. Cosa che fece, per un poco. Poi Inna disattivò il volume e non si lamentò più. O almeno la sua compagna di viaggio non la sentì più lamentarsi.
Ma dovevano passare per la Terra, spiegò Inna, perché da lì era molto più facile raggiungere Madre, sia come numero di voli, che come scarsità dei controlli, come prezzi, come tutto. E poi in fondo era il suo periodo di licenza, la direttrice Macawili glielo aveva concesso dietro il tacito accordo che lo avrebbe speso a studiare su Madre e lei su Madre ci sarebbe andata, nessun dubbio, ma già che c’era voleva anche passare prima a trovare i parenti, che non vedeva da anni, e comunque aveva voglia di rivedere il pianeta che una volta aveva chiamato casa. Kemala non apprezzava la perdita di tempo, ma si dovette adeguare. Anche perché, se proprio voleva, poteva non esserci alcuna perdita: era solo una personalità virtuale salvata in un dispositivo, dopotutto, ed era consapevole soltanto quando il dispositivo era acceso. E dunque...
«Svegliami quando saremo arrivate su Madre.»
Inna la spense prima che potesse cambiare idea. Va bene che erano amiche e aveva accettato anche di portarla clandestinamente su Madre assieme a lei, ma Kemala sapeva essere una poderosa rottura di scatole, quando lo voleva. O quando non voleva: avevano lavorato assieme su Agni per oltre due anni locali, ma ancora non aveva capito se l’amica fosse consapevole di quanto la sua monomania potesse essere nociva per i nervi e la pazienza di chi le stava attorno. Oh beh, ormai aveva accettato di lanciarsi in quell’avventura e poteva solo tirare avanti, sperando in bene.
La Terra. Non la rivedeva da tanto e un poco le mancava. A volte. Le mancava la parte del pianeta che la memoria aveva conservato e purificato attraverso i mille filtraggi della nostalgia e del tempo, il che era parecchio diverso dal pianeta reale, ma finché eri lontana a sufficienza potevano sembrarti la stessa cosa. Poi la distanza svaniva e il ricordo nostalgico appariva per quello che era in realtà: un ricordo nostalgico e nulla più. Ma era pur sempre la Terra ed era bello rivederla, sopratutto se non ci dovevi restare a lungo. Lei non ci sarebbe rimasta a lungo.
La prima tappa fu ai palazzi dell’Ufficio per la Colonizzazione. Li aveva già contattati prima della partenza, quando erano ancora su Agni, e si erano dichiarati possibilisti: nessuna certezza che per lei ci sarebbe stato un posto su Madre, almeno non tra gli archeologi, ma forse sì, forse c’era qualcosa che si poteva fare. Bisognava sentire il dipartimento su Madre, ma se era disposta ad accettare pure un incarico un poco al di sotto del suo livello di specializzazione, beh, allora magari tutto si sarebbe semplificato. Inna aveva ricevuto il messaggio, sia quello esplicito che quello implicito, e lo aveva accettato, con poco entusiasmo e molto realismo. Le avrebbero trovato un posto da schiava, ai limiti del tirocinante, e le sarebbe toccato pure ringraziarli per averle graziosamente concesso il privilegio di essere sfruttata a bassissimo costo e zero gratificazioni. Era la vita, dopotutto.
Il pellegrinaggio all’Ufficio glielo confermò. Non c’erano posti liberi alla pietra, al momento, ma la potevano sistemare per qualche mese presso una nuova area di scavi fuori città, una aperta da poco e in difficoltà per il numero ridotto di personale qualificato. I dettagli sul tipo di incarico li avrebbe ricevuti sul posto, ma c’era la possibilità che fosse un lavoro un poco pesante, almeno agli inizi.
«Ma è anche molto gratificante, glielo assicuro. La zona è stata scoperta da poco e c’è ancora quasi tutto da scoprire. È una occasione che offre incalcolabili possibilità, lo capirà anche lei.»
Inna capiva, ma capiva anche che c’erano buone possibilità che sarebbe finita a spaccare pietre: non la prospettiva migliore, per chi era partita con l’intenzione di studiare una pietra. Pure, accettò, non avendo molte alternative. Andare su Madre alla cieca, senza uno straccio di aggancio, sarebbe stato peggio. L’offerta dell’Ufficio le consentiva almeno di infilare i piedi sotto al tavolo: al resto avrebbe pensato all’arrivo. Aveva ancora qualche conoscente sul pianeta, salvo imprevisti.
Ma l’atmosfera era strana, nei palazzi. Intanto, c’erano più insetti di quanti ne ricordasse lei: chiaro segno di trasandatezza e scarsa cura. O forse era una nuova moda terrestre, una di cui lei non capiva il senso, ma in fondo le mode sono sempre senza senso, per cui era meglio non pensarci troppo. Ma il personale era teso, incerto, e questo la colpì molto più di qualche insetto extra. Trascorse un poco di tempo nell’area ricreativa, pranzando e chiacchierando qui e là, e raccolse voci che non parevano molto rassicuranti. Tensioni tra il dottor Leonardi e il consiglio di amministrazione, purghe ai danni del personale madriano, il direttore Gemelos schierato contro il Grande Vecchio, eccetera eccetera. Si spettegolava pure di un recente viaggio su Madre, che Leonardi avrebbe compiuto sotto forma di personalità copiata, per discutere di qualche accordo supersegreto coi militari, ma questa pareva una classica leggenda metropolitana mista a paranoia complottista, così Inna non vi badò.
Ma l’Ufficio sembrava cambiato, e non in meglio. Fortuna che lei non vi avrebbe avuto molto altro a che fare, in futuro. Che Leonardi e il suo carrozzone andassero pure dove volevano: a lei bastava trascorrere un poco di tempo su Madre, dopodiché avrebbe salutato con gioia tutti quanti. Agni non era sempre il pianeta migliore dove vivere e il centro studi di Shtoma sapeva diventare una enorme piaga da decubito, alle volte, ma era sempre meglio di quel manicomio, nel complesso.
Poi venne la seconda tappa del suo viaggio sulla Terra e dell’Ufficio si dimenticò per un poco. Non fu il ritorno a casa che sognava, quasi mai i ritorni a casa lo sono, specialmente se sei solita sognare una casa in rovina e abitata da scarafaggi giganti, che ti inseguono mentre cerchi di prepararti per la scuola e c’è tua madre che vuole farti mangiare un piatto di peperonata alle acciughe per colazione, e il tempo passa e passa, e tu non sei mai pronta, e gente di ogni tipo continua a entrare nella tua stanza, a distrarti, e ti vuole parlare, e qui, e là. Tendevano sempre a essere piuttosto confusi e assai sgradevoli, i suoi sogni della casa sulla Terra. Non aveva mai capito perché. Non era stata un posto così brutto in cui vivere. E neanche così bello, d’accordo. Un posto medio, come molti altri.
Adesso le appariva solo come un posto che le ricordava quanto la Terra fosse ancora arretrata. Non in termini assoluti, ma in termini relativi. Arretrata rispetto ai mondi coloniali. Rispetto ad Agni. Un labirinto di edifici vecchi o decrepiti, strade strette e contorte, rovine, città costiere in parte allagate e in parte circondate da dighe. Non era così ovunque, le metropoli erano state ricostruite seguendo i criteri urbanistici più moderni, gli stessi usati sui mondi coloniali, ma quel senso di vecchiezza, di un pianeta usato e abusato, era sempre presente, anche nelle aree più avanzate.
La sua vecchia casa non si trovava in una delle aree più avanzate. Era una zona colpita durante le vecchie guerre, di quando i primi coloni erano partiti e la fazione perdente aveva cercato di fermarli. E non ci era riuscita, ovvio, ma era riuscita a danneggiare ulteriormente il pianeta, come se davvero ce ne fosse bisogno. La città in cui Inna era cresciuta non ne era stata colpita direttamente, ma aveva ricevuto tutti i danni collaterali della guerra. Dopo quasi tre secoli non si era ancora ripresa. Sempre che volesse riprendersi. A volte sembrava contenta di accontentarsi di un ruolo da periferia, tendente a discarica potenziale. Ma era (stata) la sua città, parte della sua famiglia vi abitava ancora e così la visitò, fingendo entusiasmo e immaginando nostalgia.
Ripartire fu il momento migliore del viaggio.
Partirono su una nave organizzata e gestita direttamente dall’Ufficio, assieme ad altri studiosi veri o presunti, nonché in diversi casi presuntuosi. Come un tizio alto e dai capelli scuri, poco più giovane di Inna. Doveva essere un planetologo o qualcosa del genere: viaggiava assieme a un gruppo di altri planetologi e altra gente dall’aria più tecnica che accademica, e nessuno sembrava sopportarlo. Non i colleghi, non gli altri viaggiatori, neppure il personale di bordo. Era sempre impaziente e trattava la durata di un viaggio interstellare come se fosse una offesa nei suoi confronti. Dopo due giorni e dopo averlo ascoltato per una manciata di minuti, Inna decise che doveva essere gemello spirituale di Marijn Asanga, lo scemo del villaggio agniano di cui nessuno sentiva la mancanza.
Ma chi fosse assieme a loro sulla nave era indifferente, proprio come non erano rilevanti le ragioni per cui gli altri viaggiavano. Non c’erano archeologi, nessuno che paresse anche solo lontanamente interessante, nessuno che avesse notizie su Madre (erano tutti al loro primo incarico sul pianeta), e così non valeva la pena di perderci troppo tempo. Inna trascorse così il resto del viaggio in cabina, a volte a discutere con Kemala, che aveva riattivato dopo la partenza, altre volte a lasciar passare via i giorni virtuali, la successione di luce e buio che sulla nave simulava i normali cicli di un pianeta. Fu un periodo noioso, ma non durò troppo, se valutato in termini oggettivi e misurabili.
«Almeno stavolta non mi arresteranno,» commentò Kemala, quando furono arrivati alla stazione. Il loro volo era stato tranquillo e l’arrivo rapido. Restava solo la discesa in ascensore, poi l’avventura su Madre sarebbe cominciata. Salvo imprevisti. Ed era proprio agli imprevisti che pensava Inna: il commento di Kemala sembrava una sfida al fato e non era molto rassicurante.
«Ti ricordo che anche stavolta tu sei ospite illegale,» disse al dispositivo portatile in cui era copiata la personalità dell’amica. «L’unica differenza è che stavolta non ti sei portata il corpo.»
«Che è poi la differenza fondamentale, no? Stavolta non avranno nulla da arrestare.»
«A parte me,» rispose Inna. «Ma adesso taci, che tra poco tocca a noi scendere. Anzi, ti disattivo e non ci pensiamo più. Ne riparleremo all’arrivo, se non ci saranno problemi.»
La disattivò, troncando ogni possibile replica. Poco dopo entrò nell’ascensore assieme ai compagni di viaggio, non senza un sospiro pensando a quanto fosse grezza e scomoda rispetto a quella di Agni e degli altri mondi coloniali in generale. Ma era un pianeta fresco, ancora rustico e primitivo sotto molto aspetti, e le comodità dovevano attendere. Secondo il modesto parere di Inna, ormai stavano attendendo anche troppo. Non sembrava cambiato nulla rispetto al periodo in cui vi aveva vissuto e lavorato. L’Ufficio procedeva davvero con molta calma.
Poi la discesa si concluse, le pratiche di accesso liquidate senza problemi, neppure un controllo di sfuggita al suo bagaglio a mano, il dispositivo che conteneva la Kemala digitale liquidato come un qualsiasi aggeggio elettronico e le porte del pianeta si schiusero di fronte a Inna, irrorandola col più sano e profondo olezzo di cantina ammuffita che mente umana sapesse immaginare.
«Questo posto puzza di muffa,» commentò il planetologo presuntuoso da qualche parte dietro di lei. «Perché fa così schifo? Che razza di vegetazione hanno da queste parti?»
Se lo domandava pure Inna. Ricordava lo strano odore di Madre, ma non ricordava che fosse tanto intenso e tanto disgustoso. Forse perché dopo un poco ti abitui e ti sembra solo cattivo, ma la prima impressione possedeva tutta la gradevolezza di un calcio nello stomaco subito dopo pranzo. Oh beh, si era assuefatta ai fetori di Shtoma quando il vento soffiava dalla parte sbagliata, e si sarebbe prima o poi assuefatta anche a quello di Madre. Augurandosi che sarebbe stato più prima che poi.
Uscirono, e il gruppo si disperse quasi subito. La comitiva di planetologi raggiunse un veicolo che doveva essere stato mandato per loro, il grosso dei bagagli già caricato e il rappresentante di questo, o forse l’impiegato di quello, che li accoglieva umile e festoso. Inna scrollò le spalle e li ignorò. Per lei non ci sarebbero stati grandi onori, ma solo una sistemazione alla meno peggio concordata con i responsabili degli scavi e l’Ufficio. Sistemazione fuori città, in quello che prometteva di essere una versione supremamente scomoda di dormitorio rustico da pionieri selvaggi. Kemala non ne sarebbe stata contenta, lei voleva qualcosa in città, e non ne era contenta neppure lei stessa, ma quello aveva ricevuto e quello avrebbe dovuto accettare. La pietra locale non l’avrebbe vista mai, non almeno per vie rette e legali. Per vie traverse, forse...
«Siamo arrivati,» disse, riattivando il dispositivo. «Vedi di non fare troppo rumore, mi raccomando. Ti ho messo il volume al minimo, ma se taci mentre siamo in pubblico è anche meglio.»
«Non c’era bisogno di abbassarmi il volume, lo so anch’io che dobbiamo essere prudenti. Per chi mi hai presa, scusa?»
«Per una che si è già fatta arrestare una volta.»
A questo Kemala ebbe il buonsenso di non replicare. Aveva altro per la testa, anche se al momento non aveva una testa. Stavano attraversando la piazza esagonale che si apriva nei pressi dell’edificio in cui si era conclusa la discesa. Al centro vedeva quella che forse poteva essere una statua, ma non poteva escludere che fossero i resti ancora da rimuovere di un qualche cantiere. Era la prima volta che poteva guardare cosa ci fosse usciti dall’ascensore e cercava di vederne il più possibile. Peccato che facesse così schifo. Il pianeta sembrava un vero letamaio.
Ma l’architettura contemporanea non aveva importanza e non era certo per turismo che era venuta sul pianeta. Così poteva sopportare le fila e fila di casermoni in stile cemento vomitato, strade dritte e uguali, edifici dritti e uguali, gente dalla faccia dritta e uguale. Poteva sopportare la strana idea di arte che i locali sembravano possedere. Poteva sopportare i rumori. Poteva sopportare più o meno di tutti, in particolare i fastidi che non la toccavano in quanto sprovvista di corpo. Se sarebbe servito a farla arrivare finalmente alle rovine, poteva sopportare qualsiasi cosa. O così pensava al momento.
«Ci sono molti soldati in giro,» sussurrò. «È successo qualcosa?»
«Ci sono sempre molti militari in giro, su Madre,» rispose Inna. «Anche se in effetti mi pare che ce ne siano più di quanti ne ricordavo io. Ma in fondo sono aumentati anche gli abitanti, per cui ci sarà bisogno di più controllo, o quello che è. Meglio comunque non farci caso.»
«Se non sono qui per noi, non ci faccio caso di sicuro.»
Non sembravano essere lì per loro, ma di pattuglia o per qualche altro incarico che poteva essere ignorato. Tanto meglio. Poco dopo raggiunsero la sede cittadina del dipartimento di archeologia, un edificio che forse poteva anche essere diverso dagli altri, ma solo a un esame al microscopio. Inna si presentò, mostrò le credenziali dell’Ufficio e tutta la macchina burocratica si attivò per loro, con la sua consueta velocità plumbea. Ci volle quasi mezza giornata, sprecata a fissare pareti vuote senza vederle, sedendo in stanze vuote o quasi. Alla fine l’annuncio che era pronto il trasferimento verso l’alloggio presso i nuovi scavi, ringraziamenti, saluti e la partenza.
Viaggiarono su una strada che pareva nuova, attraverso terreni disabitati. I campi erano ricoperti da un qualche tipo di vegetale, verdastro e simile a cespugli: una qualche coltura locale, a giudicare dal curato ordine con cui erano disposti e dagli impianti di irrigazione, ma né Inna né Kemala potevano immaginare cosa stessero coltivando di preciso. Inna sospettava però che lo avrebbe scoperto presto ma non necessariamente volentieri, come ospite a sorpresa del prossimo pasto. Un pasto che ormai non doveva distare molto: era tardo pomeriggio e il suo stomaco le ricordava che il giorno madriano era di quasi trenta ore. Sembrava passata una vita dall’ultima volta che aveva mangiato. Ma anche a questo si sarebbe dovuta riabituare ed era meglio farlo subito.
Arrivarono e il posto era ancora più deprimente di quanto si fosse aspettata. Le recinzioni di guardia erano l’inizio, ma la fine era molto più in là: in mezzo trovavi tre edifici bassi e tozzi, che parevano dormitori incrociati coi manicomi dei film d’epoca, e altre recinzioni, e altri edifici bassi e tozzi che formavano una specie di arco sulla destra, e terra brulla alternata allo strano asfalto usato sul pianeta e una spruzzata di alberelli rachitici, giusto per accrescere il tasso di depressione. Sulla sinistra c’era una piccola caserma, o quella che sembrava una piccola caserma, protetta a propria volta da un’altra recinzione. Ancora più avanti, e tanto per essere originali, nuove recinzioni bloccavano la vista. Che cosa ci fosse oltre era piuttosto semplice da ipotizzare: gli scavi, ovvio. I nuovi scavi.
Quello era il posto in cui avrebbe dovuto spendere i prossimi mesi. Una specie di carcere in mezzo al nulla, affascinante come mezzo scarafaggio nel panino che stai mangiando. Bella roba. E lei che aveva creduto di poterne approfittare per studiare la pietra...
Un soldato la guidò in silenzio verso quello che sarebbe stato il suo alloggio. Quando vide la stanza, Inna fu ancora più depressa di prima, se possibile. Spartana non cominciava neppure a descriverla, e la sola traccia di vita era un insetto che si muoveva pigro sul vetro esterno della stretta finestra. Una mosca o qualcosa del genere. Grandioso. L’odore di cantina ammuffita si sentiva anche lì dentro, un poco più debole ma sempre presente. Il letto sembrava progettato da qualcuno che credeva davvero alla mortificazione della carne come mezzo per innalzare lo spirito. Procuste lo avrebbe apprezzato.
«Questa è una delle stanze più brutte che io abbia mai visto,» commentò Kemala. «Fortuna che non ci dovrò dormire. Mi ricorda un poco la cella in cui mi avevano infilata.»
«Tu non ci dovrai dormire, ma io sì.»
«Vantaggi e svantaggi dell’essere presente in forma fisica su un pianeta.»
«Io vedo solo svantaggi. D’accordo che mi aspettavo una qualche fregatura dall’Ufficio, ma questo va ben oltre le mie peggiori previsioni.»
«Oh beh, siamo su Madre e lavoreremo agli scavi delle rovine aliene. Allora, quando le andiamo a vedere? Tanto qui non c’è molto da fare, no?»
Inna fissò il dispositivo, si maledisse per avere accettato la proposta di Kemala, poi sospirò. Inutile pensarci ancora. Era andata così e punto. Almeno non l’avevano arrestata, anche se forse la cella di un carcere sarebbe stata più accogliente di quel buco di stanza. O forse no, si corresse. Se quella era l’idea che avevano di una sistemazione per ricercatori su Madre, allora era possibile che i criminali li chiudessero in una scatola da scarpe. I criminali erano peggiori dei ricercatori, almeno in media.
«Comunque è chiaro che questo è un posto provvisorio, tirato su in fretta quando hanno trovato una nuova area di scavi e serviva spazio in cui infilare chi vi avrebbe lavorato,» disse Kemala. «Vedrai che in futuro miglioreranno gli alloggi e tutto il resto.»
In futuro. Come se loro si sarebbero fermate a lungo. Appena arrivate e già Inna non vedeva l’ora di ripartire. Meglio non pensarci. Mentre Kemala continuava di tanto in tanto ad arricchire la giornata con le sue preziose perle filosofiche e ancora più preziose considerazioni sul tema di come la vita in fondo non fosse poi così male e poteva sempre andare peggio, Inna disfece i bagagli, sistemò tutto ciò che si era portata e cercò nei limiti del possibile di rendere il posto un poco meno inabitabile. Il risultato finale non si poteva proprio definire un successo, ma pazienza.
Fu poi il momento di presentarsi a rapporto dal responsabile degli scavi e ricevere gli incarichi per il futuro, oltre a indicazioni generali su come funzionasse quel posto maledetto da chiunque avesse mai avuto la sfortuna di vederlo. Pochi, molto probabilmente, nessuno dei quali vi sarebbe tornato, se possedeva una quantità minima di materia grigia all’interno del cranio.
Risultò che il responsabile era una responsabile, una donna sulla quarantina, pelle scura, capelli neri lunghi fino alle spalle, che erano piuttosto larghe in un corpo che invece tendeva al magro, anche se non allo scheletrico. Si presentò come Stephanie Sitaram e sembrò a Inna la prima cosa amichevole che avesse trovato su quel pianeta. Poteva solo sperare che lo sarebbe rimasta anche in seguito e che non avesse una personalità segreta e spietata, da utilizzare soltanto sul lavoro e coi suoi sottoposti.
Stephanie Sitaram spiegò che per il primo giorno non le sarebbe stato chiesto nulla e poteva usarlo per abituarsi al nuovo posto. Per il momento non c’era molto, è vero, e gli svaghi avrebbero dovuto aspettare tempi migliori, ma in fondo era un luogo di lavoro e il lavoro non sarebbe mancato. C’era parecchio da disseppellire, secondo il satellite, e quello che avevano trovato era soltanto la punta di un grosso iceberg. Prometteva di superare gli scavi principali, quelli presso il vecchio ascensore.
«Ma ci vorranno anni e per adesso non abbiamo gente a sufficienza per pensarci,» disse, scuotendo la testa. «Siamo scavi di serie B, dopotutto. Anche la pietra è più importante di noi.»
«Ma la pietra è importante,» disse Inna Rabbani.
L’altra sorrise. «Sì, ho visto il tuo curriculum e immagino che tu la pensi così. Su Agni la troverete più interessante, perché è quasi uguale alla vostra. Questione di punti di vista. Per me non è che sia un granché, solo un sasso dalla forma curiosa. Quello che abbiamo laggiù, invece,» e indicò la zona recintata e protetta alle sue spalle, «ti assicuro che è molto più importante. Ma non avrai bisogno di credermi sulla fiducia: lo verificherai tu stessa nei prossimi tempi. Vedremo chi avrà ragione.»
Inna non si sbilanciò. Lo avrebbe scoperto a cominciare dal giorno dopo, quando Stephanie Sitaram l’avrebbe guidata in una visita generale dell’area di scavo. Che per il momento aveva molto poco da mostrare, spiegò la responsabile, ma non sarebbe rimasta così a lungo. Dopo la visita, sarebbe stato più facile indicarle il lavoro che avrebbe dovuto svolgere: spiegarlo in astratto non sarebbe servito, bisognava prima vedere. Inna annuì. Ogni quindici giorni avrebbero anche avuto diritto a un giorno di riposo, da trascorrere in città, per vedere un poco di gente e ricordarsi che da qualche parte esiste una forma di civiltà, posti abitati da esseri viventi.
«Perché è facile dimenticarselo, quando sei tutto il giorno in mezzo al nulla e ai resti di una civiltà scomparsa da almeno tre milioni di anni,» aggiunse la responsabile. «Così abbiamo diviso i nostri lavoratori in gruppetti e a ogni gruppetto concediamo un giorno in città. È un sistema a rotazione, sai, così non siamo mai scoperti e possiamo continuare i lavori in ogni momento. E nessuno va più fuori di testa. È una precauzione utile a tutti.»
Inna avrebbe voluto chiedere cosa significasse di preciso che “nessuno andava più fuori di testa”, e se qualcuno lo fosse andato in precedenza, ma poi decise che era meglio non sapere: che in un posto del genere qualcuno potesse dare di matto le sembrava tutto fuorché improbabile. Parlarono ancora per un poco e ci furono altre informazioni su come funzionasse l’insediamento, ma alla fine fu quasi tutto rinviato al giorno seguente. Perché avrebbe capito meglio dopo una visita alle rovine, diceva.
«Secondo me è tutta scena per farti credere che il posto sia interessante,» commentò Kemala quella sera, tornate in stanza. «Crea aspettative, lasciandoti immaginare chissà cosa, e intanto ti distrae dal luogo deludente in cui dovrai vivere. O qualcosa del genere.»
«Non ti facevo così cinica. Pensavo che fossi più entusiasta.»
«Ma lo sono. Sono anni che sogno di vedere di persona le rovine aliene e domani finalmente lo farò. Non proprio di persona persona, è vero, ma ci andrò vicino a sufficienza da potermi accontentare, almeno per il momento. Sei tu quella col muso lungo. Io volevo solo darti ragione, per migliorare il tuo umore. Non ti senti meglio, adesso?»
«No.»
«Sei proprio un caso disperato.»
Inna si avvalse della facoltà di non rispondere. Quella prima notte nel nuovo alloggio dormì come un sasso, ossia come qualcosa che è costituzionalmente impossibilitato a dormire. Il letto sembrava essere stato progettato per un’anatomia non umana ed era scomodo in qualunque posizione tentasse di sistemarsi. Il silenzio della notte era rotto soltanto dai passi di qualche sentinella, che camminava dal nulla verso il nulla, proteggendo le misteriose nuove rovine da chissà quale nemico. Forse dalla noia selvaggia e dal delirium tremens, che parevano gli unici pericoli nei paraggi. Il resto del mondo poteva anche non esistere, tanto grande era la solitudine dell’insediamento.
Quanti erano gli occupanti? Inna non lo aveva chiesto, ma a occhio non potevano essere più di una ventina, militari esclusi. Se tutte le stanze erano come la sua, non c’era spazio per più persone, ma il silenzio quasi totale poteva benissimo suggerire che di abitanti non ce ne fossero proprio. Soltanto i soldati di guardia, e lei, e probabilmente Stephanie Sitaram, se non era stata un’allucinazione. Cosa di cui potevi anche dubitare, nella notte scomoda e quasi insonne. Dopotutto, aveva cenato male in una mensa deserta, forse perché davvero era arrivata a un orario sbagliato, come aveva spiegato la responsabile, o forse perché proprio non c’era nessuno, come sussurrava la paranoia notturna. Ma le avrebbe viste l’indomani, le altre persone. Le avrebbe viste, perché c’erano altre persone. Giusto?
C’erano e le vide. L’alba portò un nuovo giorno che, anche se non proprio del tutto, era quasi uguale al precedente: cielo grigiastro, aria tiepida ma non davvero calda, giusto una lieve alitata di vento, e il solito odore di cantina ad arricchire il paesaggio e infestare le narici. Ma in mensa a colazione non era da sola e fu un sollievo, perché stava cominciando a preoccuparsi davvero.
Arrivavano alla spicciolata e alla spicciolata ripartivano dopo aver mangiato. Uomini e donne, quasi tutti giovani o giovanili, quasi tutti con l’aria di chi vorrebbe essere altrove. In due la salutarono con un cenno, gli altri la ignorarono. Inna ne contò sei, non proprio un gran numero, ma in linea con ciò che le aveva detto la responsabile: poca gente, un’area di scavi di seconda o terza classe. Non aiutò a migliorare il suo umore. Potevano essercene altri, sicuramente ce n’erano altri, ma l’ambiente era quanto di più diverso riuscisse a immaginare dal centro studi di Shtoma, caotico e a volte anche un poco claustrofobico, ma animato e vivace. Nel bene e nel male, beninteso.
A colazione conclusa, passò in stanza a recuperare la Kemala in scatola e si preparò all’incontro con Stephanie Sitaram. Era in programma la visita guidata degli scavi e Inna si aggrappò a quell’evento e alle aspettative che vi stava costruendo attorno, scialuppa di salvataggio in un oceano di depressa malinconia. Doveva esserci qualcosa di buono in quel luogo, qualcosa per cui valesse la pena vivere e lavorare in una specie di blando lager in mezzo al nulla. Le rovine dovevano essere il qualcosa. Lo pensava Kemala e lo voleva pensare anche lei. A cos’altro avrebbe dovuto pensare? A mesi e mesi di pessime notti che avrebbero costituito il futuro prossimo? No grazie. Meglio pensare a qualcosa che ne valesse la pena. O giù di lì.
Stava ancora cercando quel qualcosa, quando la responsabile arrivò, in abiti da lavoro. «Dormito bene?» le chiese. Inna mentì, rispondendo che sì, aveva dormito bene, era proprio un posto pacifico.
«Chiamalo pure mortorio, se preferisci,» rise Stephanie Sitaram. «Dillo pure se non ti è piaciuto. La prima impressione non è mai positiva per i nuovi arrivati, e spesso neppure la seconda o la decima, ma alla fine ci si abitua. Non dico che ti piacerà, a meno che tu non abbia gusti un poco insoliti, ma abituarti sì, questo succederà. E poi il lavoro aiuta.»
E al lavoro passarono. Inna Rabbani seguì la responsabile verso la zona recintata che aveva visto al suo arrivo, l’area all’estremità del campo, la più protetta. In tasca teneva il dispositivo con Kemala, lasciandolo sporgere il minimo indispensabile perché l’amica in scatola potesse vedere dove fossero e cosa stessero facendo. Niente di interessante, per adesso. Poi raggiunsero i cancelli, i due militari di guardia le lasciarono passare e tutto cambiò.
Qualcuno era già al lavoro, ma Inna quasi non se ne accorse. Guardava alla profonda depressione al centro dell’area, che in effetti era una buca molto curata e ben pettinata, lo scavo a cui si dedicavano al momento, ma pensarla come una depressione sembrava migliore, più adatto. Perché lo sembrava, almeno un poco. Un profondo avvallamento, terra bruna e smossa, al cui centro sorgeva... no, al cui centro si acquattava un piccolo cumulo di sassi. Spuntava appena dal terreno, una piramide di pietra o materiali analoghi, alta meno di un metro. Pareva un periscopio, una marmotta che si sporge dalla tana, un maniaco guardone col suo fedele binocolo. Qualunque similitudine poteva funzionare, se il risultato era raggiunto, e il risultato da raggiungere era uno solo: qualcosa che ti spia, sporgendosi il minimo indispensabile dal suo nascondiglio. Era l’immagine che lo scavo le suggeriva: qualcosa si nascondeva lì sotto e li stava spiando.
«Fa pensare a un sommergibile, vero? O una testa che si sporge per spiare.»
La voce di Stephanie Sitaram la strappò alle sue riflessioni, sorprendendola un poco. «È più o meno quello che stavo pensando anch’io,» rispose Inna. «Ma non è...»
La responsabile scrollò le spalle. «Cosa sia non lo sappiamo. Il satellite ci dice che questa è soltanto la punta, magari la cima di un edificio o qualcosa del genere, e qui sotto c’è ancora una struttura ben più grande da disseppellire, ma non sappiamo che tipo di struttura sia. Lo scopriremo col tempo, se avremo qualche risorsa in più. Questo è quanto abbiamo scavato finora e di questo passi ci vorranno anni prima di finire. Se concedessero anche a noi i mezzi degli scavi principali, invece...»
«Ma non li concedono, giusto?»
«Non ancora. Non siamo abbastanza interessanti, secondo loro.»
Inna preferì non chiedere chi fossero i loro in questione. Non essendo un discorso paranoico, erano di sicuro le persone che si occupavano di gestire le risorse, magari il dipartimento di archeologia o un qualche ramo del governo locale. Aveva già vissuto, studiato e lavorato su Madre anni prima, ma non si era mai interessata al lato amministrativo. Non avrebbe certo cominciato adesso. Per quanto la riguardava, ognuno aveva le proprie competenze e un lavoro da svolgere ed era meglio pensare a quello e basta, invece di perdere tempo altrove: forse non la migliore opinione della galassia, ma era la sua opinione e Inna vi era affezionata.
Ma guardava le rovine, adesso, ed era certa che anche Kemala le stesse guardando dalla tasca. Non un granché di rovine, lo doveva ammettere. Paragonata agli scavi principali, dove era stata alcune volte durante la sua specializzazione, quella specie di piramide masticata era parecchio miserabile. Alta un metro al massimo, composta da piccoli blocchi di pietra, non più grandi di vecchi mattoni, e di un curioso colore verdastro, era un solido a base ettagonale. O almeno lo sembrava. Se fosse stata una rovina terrestre, Inna avrebbe pensato alla punta di un campanile, o di una torre simile. Ma non era una rovina terrestre, era il prodotto di una civiltà aliena di cui non sapevano nulla, per cui poteva essere più o meno qualsiasi cosa. Lo avrebbero capito solo proseguendo gli scavi e anche quello era un forse piuttosto grosso. Per quanto ne sapeva lei, le rovine agli scavi principali erano ancora un mistero, proprio come lo era la pietra, sia quella locale sia quella su Agni.
«Ci sono alcune ipotesi su cosa potrebbe esserci lì sotto,» spiegò Stephanie Sitaram, «ma non hanno molto senso, per adesso. Non le definirei neppure ipotesi, in effetti: sono più un tirare alla cieca, un gioco a chi la spara più grossa, se preferisci. La struttura prosegue per parecchi metri sottoterra, per quanto abbiamo potuto determinare, e prosegue in varie direzioni qui attorno. Non è una torre, ma un edificio più complesso, anche se non possiamo escludere che sia anche composto da torri.»
«Tipo un castello?» chiese Inna.
La responsabile scrollò le spalle. «Tipo un castello, anche, ma dubito che sarà un castello. Non uno di quelli che immaginiamo noi, perlomeno, ma non possiamo escludere che per i suoi costruttori e la civiltà a cui appartenevano potesse avere la stessa funzione di un nostro castello. Non sappiamo nulla, davvero. Possiamo solo sperare di inciampare prima o poi in qualche indizio.»
Comprensibile: difficile capire qualcosa da un mucchietto di sassi che spunta dal terreno, specie se a costruire quel mucchietto di sassi è stata una civiltà di cui non si sa nulla, neppure la forma. Inna si guardò attorno, per abbracciare il più possibile della zona di scavi. Che non era molto e non offriva molto da vedere. A parte la depressione da cui spuntava la minuscola piramide, il resto era soltanto terra smossa, terra appiattiva, terra calpestata e terra su cui riposavano sagome coperte da teloni. Un qualche tipo di macchinario, a giudicare dalla forma. Gli unici scavi erano attorno alla piramide.
«Sì, posso capire che ci sia molto lavoro da fare,» disse poi, giusto per rompere il silenzio.
«E troppa poca gente per lavorare,» aggiunse la responsabile. «Ci mandano rinforzi col contagocce e solo quando non trovano posti migliori in cui occuparli. O così sembra.»
«Avranno i loro motivi,» la liquidò Inna. La Sitaram era una persona simpatica, nel complesso, ma sapeva diventare discretamente noiosa quando si lamentava di fondi, risorse e affini. Molto meglio pensare ad altro e parlare di altro. Tipo il lavoro che lei avrebbe dovuto svolgere.
La responsabile glielo spiegò. Trascorsero ancora un po’ di tempo a girare gli scavi, con la Sitaram che le presentava i nuovi colleghi, le raccontava aneddoti, le mostrava posti dove andare, cose che era bene fare o evitare, eccetera eccetera. Non molto diverso da come era stato il suo primo giorno a Shtoma, nello spirito, ma molto diverso nei mezzi e nell’ambiente.
«Beh, mi pare un buon posto nel complesso,» commentò Kemala quando furono da sole. Inna aveva riattivato temporaneamente il volume, ma a breve lo avrebbe tolto di nuovo. Per sicurezza. Troppo rischioso tenersi in tasca una possibile fonte di chiacchiere improvvise. «Peccato che non ci sia poi molto da vedere, per adesso, ma c’è molto da lavorare. È quello che avrei voluto fare io.»
«Ma non quello che avrei voluto fare io.» Inna sospirò. «Ero venuta qui per la pietra e ovviamente mi tocca un lavoro che con la pietra non c’entra niente. Tipico.»
«È qualcosa come quello che facevi prima di venire su Agni, giusto?»
«Qualcosa come, sì. Avevo lasciato Madre proprio perché ero interessata ad altro, ma adesso che ci sono tornata mi tocca anche tornare indietro nel tempo. La direttrice Macawili non sarà contenta.»
«Affari suoi. Sono contenta io.»
Il che, da un certo punto di vista, riassumeva la filosofia più inconfessata di Kemala, almeno sulla base delle osservazioni compiute da Inna. Oh beh, ormai era lì e ci sarebbe rimasta per qualche altro mese, che le piacesse o meno. Tanto valeva farselo piacere. Era interessante, dopotutto. Non lo era nel campo che interessava a lei, ma questi erano dettagli, grossomodo. E poi chissà, magari alla fine avrebbe scoperto un qualche collegamento con la pietra. E magari uno stormo di mucche volanti si sarebbe messo ad abbaiare al tramonto. Sì, certo. L’importante era crederci. Hah!
Ascoltò ancora per un poco le chiacchiere entusiastiche di Kemala, poi la silenziò. Avrebbero avuto tempo e modo per discutere di sera, se proprio lo volevano. Meglio abituarsi fin da subito a tacere di giorno, quando c’era altro da fare. Il lavoro, per esempio. Il lavoro che sarebbe cominciato il giorno seguente e proseguito per mesi. Prometteva di essere duro.
Inna Rabbani scoprì di non averne proprio voglia, ma ormai era troppo tardi per pensarci e così non ci pensò più. Pensò ad altro. Agli scavi che l’attendevano, e a ciò che vi avrebbe trovato.