La galassia di Madre - 112
Quando il professor Muzafar Chang scese per la sua prima e unica volta su Madre, decise subito che non ne era valsa la pena. Tante discussioni, tante polemiche, tanti appelli e contrappelli, tanto caos e frattaglie comunicative, e per cosa? Per una colonia primitiva su un pianeta brullo, che gli appariva ospitale come un sarcofago chiodato. Per un’atmosfera che puzzava in modo molto strano e un poco sospetto di cantina maltenuta. Per giorni e giorni sprecati sulla stazione orbitale tra vaccinazioni e sterilizzazioni, non necessariamente piacevoli né indolori. Per militari che li seguivano come sciami di insetti affamati. Nonché un buon numero di reali insetti affamati, in apparenza: neanche il tempo di guardarsi attorno e ammirare il deprimente paesaggio cittadino e già aveva due punture sul collo e una su un braccio. E dire che su Svarga li trovava pure simpatici, gli insetti.
«Il pianeta è un letamaio, ma me lo aspettavo,» commentò il professor Chen al suo fianco. «Non ha importanza. Non siamo qui per turismo. Siamo qui per una prova di forza. È un viaggio simbolico.»
Muzafar Chang non ne discusse. Aveva già imparato durante il viaggio che discuterne serviva solo a sprecare tempo. La conferenza su Madre era stata una idea del professor Chen: lui aveva discusso e litigato con la Terra per ottenere l’accesso, lui ci era riuscito (chissà come) e sempre lui adesso era il capo di fatto della spedizione. Alto alto e secco secco, procedeva alla testa della delegazione con un sorriso che poteva quasi sembrare autentico, se non lo guardavi troppo da vicino. Procedeva verso il gruppetto che li attendeva all’uscita del terminale e che avrebbe preso in custodia gli svarghiani, per agevolarli durante il loro soggiorno su Madre.
Questo secondo le parole del governatore Rossi. Secondo le parole del professor Chen erano invece i cani che li avrebbero morsi alle caviglie se si fossero allontanati dal pascolo, una immagine che Muzafar non aveva capito molto bene ma che aveva accettato senza discussioni. Era sempre meglio accettare senza discussioni quello che diceva il professor Chen: migliorava la qualità della tua vita.
Non che la qualità della vita fosse migliorata molto negli ultimi mesi, per Muzafar Chang. All’inizio era stato bello, sì. Il geniale scopritore delle strutture organiche nei giganti gassosi, l’uomo destinato a rivoluzionare la planetologia, la persona che avrebbe forse riscritto l’intera storia dell’universo e della sua formazione, il questo e quello, il su e giù. Bello, certo, specie per chi fino a quel punto era stato Mister Nessuno. Gli era dispiaciuto un poco per il giovane Stratos, a cui da un certo punto di vista aveva probabilmente rubato la scoperta, ma da un altro punto di vista non era andata proprio in quel modo, perché sì, il terrestre aveva fornito la materia prima, ma gli strumenti ce li aveva messi lui, lui Muzafar Chang, assieme alla fondazione Chen-Cohmibra nel complesso, e poi comunque la materia prima l’aveva Bogdan Stratos perché lui era terrestre e Madre era una colonia terrestre e si sapeva come andavano certe cose, no? L’Ufficio per la Colonizzazione terrestre ostacolava sempre i ricercatori di altri pianeti e soltanto i terrestri avevano accesso ai dati migliori.
A pensarci bene, Stratos era stato sì strumentale nella scoperta, ma i meriti veri andavano tutti a lui, a Muzafar Chang. Era praticamente ovvio. Non valeva la pena di perderci il sonno.
Muzafar non ci aveva perso il sonno. Grossomodo. Poi avevano cominciato a spedirlo da un pianeta all’altro, di conferenza in conferenza, a ripetere sempre le stesse cose, in luoghi che scorrevano via e si perdevano ancora prima che li avesse potuti vedere. Di pianeta in pianeta e di città in città sui vari pianeti. Parla a un gruppo oggi, parla a un altro gruppo domani, ripeti sempre lo stesso discorso cambiando giusto il nome del luogo in cui ti trovi. «Dobbiamo andarci di persona,» ripeteva Chen. «Ti devono vedere. Ti devono sentire. Ti devono tastare, se necessario.»
Muzafar Chang non aveva capito tutta quella fissazione sul contatto diretto, che sembrava primitiva e preistorica, ma aveva accettato a testa bassa. Perché era gratificante a modo suo, all’inizio. Ma poi l’inizio smette di essere così inizio e diventa abitudine, pessima abitudine, e anche la gratificazione non basta più. Socievole e sociale non lo era mai stato davvero, Muzafar, e tutti quei viaggi e quella gente che si vedeva attorno non lo avevano migliorato. Anzi. E quando finalmente si era illuso che il quarto d’ora di celebrità (un quarto d’ora assai lungo, d’accordo, ma pur sempre un quarto d’ora metaforico) e che la sua vita da tranquillo ricercatore sarebbe potuta ricominciare in un ufficio alla fondazione Chen-Cohimbra (magari un ufficio più largo e confortevole, già che c’erano), ecco che il professor Chen se ne era uscito bel bello con la trovata di andare su Madre.
«Non accetteranno mai,» aveva detto Muzafar Chang. «Abbiamo anche un processo in corso.»
Chen aveva scrollato le spalle e sorriso. «Accetteranno, vedrai.»
Con una notevole dose di orrore per Muzafar, alla fine avevano accettato davvero. Così adesso era lì a guardare una specie di monumento incomprensibile e irriconoscibile nella piazza di una città che sembrava uscita da un film storico a bassissimo budget, con militari quasi ovunque, un tizio che gli sorrideva e gli tendeva la mano, insetti che ronzavano e l’aria che puzzava di muffa. A volte la vita sapeva essere davvero strana. Sospirò.
Il misterioso porgitore di mano si presentò come il colonnello Farhad Roy. Non particolarmente alto né grosso, baffuto, capelli corti, forse sulla quarantina o nei dintorni, pelle abbastanza scura, era una persona che vedevi per strada e dimenticavi due secondi dopo, tanto ti sembrava comune e normale. A parte gli occhi, che erano quasi dello stesso colore ma non proprio. Il sinistro sembrava più chiaro di qualche frazione di qualunque unità di misura si usasse per i colori. Poteva essere artificiale o una bizzarria della natura. Muzafar lo trovò curioso, ma non poi così interessante: desiderava solo un rapido ritorno a casa, a Guan Yu, e le peculiarità oftalmiche di un colonnello erano assai irrilevanti.
Ma il colonnello Roy continuava spiegando che sarebbe stato lui a occuparsi degli amici svarghiani durante la loro permanenza su Madre. Che erano ospiti di riguardo. Che era un onore averli lì. Che a loro sarebbe stato mostrato tutto ciò che desideravano vedere e che era consentito mostrare, durante la loro permanenza su Madre. Che questo e che quello. Procedeva con un tono piatto, monotono, un poco soporifero, che Muzafar ascoltava con mezzo cervello spento e l’altra metà persa altrove. Fu il professor Chen a rispondere quando una riposta era richiesta, da buon capo della spedizione. Tanto di guadagnato. Muzafar desiderava soltanto un posto dove non ci fossero insetti e niente e nessuno lo potesse pungere. Quel pianeta pareva infestato, davvero.
Lo trovò poco dopo, quando li accompagnarono ai loro alloggi. Un albergo in centro città, o ciò che passava per albergo da quelle parti. Muzafar lo avrebbe definito un carcere vecchio stile, magari con una spruzzata di manicomio criminale giusto per insaporirlo un poco, ma il colonnello assicurò che era il più confortevole che ci fosse a Oklahoma City.
«Siamo una colonia agli inizi e dobbiamo farci bastare quello che abbiamo,» spiegò. «Le comodità sono un lusso per tutti, ma vi assicuro che questo è il meglio che abbiamo da offrire. Se preferite, si può organizzare una sistemazione alla nostra base militare, ma vi assicuro che è molto, molto meno lussuosa di questo albergo. Dopotutto siamo soldati, no?» Sorrise.
Muzafar si augurò di non dovere mai scoprire come fossero gli alloggi meno confortevoli in quella città. La stanza che gli avevano assegnato conteneva un letto a due piazze, il comodino, un armadio, un tavolo con due sedie sul lato che non toccava il muro, un affare che poteva essere una poltrona rachitica, moquette ruvida e carta da parati che offendeva il senso estetico di chiunque fosse nato e cresciuto in civiltà abbastanza evolute da possedere il bidè. C’era una sola finestra ed era piuttosto stretta. E l’aria puzzava di cantina. Anche lì dentro, l’aria continuava a puzzare di cantina.
Scosse la testa, allargò le braccia e le lasciò ricadere sui fianchi. Fantastico. Praticamente il genere di posto di cui sono fatti i sogni. Quelli da cui ti svegli agitato e contento che fosse solo un sogno. Il solo lato positivo che riuscisse a vedere, per il momento, era l’assenza di insetti. All’Interno. Ma sul vetro ce n’era uno, probabilmente in agguato, metti il caso che avesse deciso di aprire la finestra.
«Non ci contare, amico,» mormorò Muzafar. Le punture sul collo cominciavano a prudere e anche il braccio non se la cavava meglio. Fortuna che alla stazione gli avevano assicurato che gli insetti non sarebbero stati un problema: i repellenti li terranno lontano, avevano detto, e comunque non ci sarà problema anche in caso di punture. Ma non vi pungeranno, vedrete. E in effetti lui non li aveva visti pungere: li aveva sentiti. Quanto ai problemi che non ci sarebbero stati...
La porta si aprì e il professor Chen entrò. Alto e secco, glabro come se nessun pelo gli fosse mai cresciuto, si fermò poco dopo l’ingresso, storse il naso, osservò lentamente la stanza, sbuffò. «Vedo che anche questo è un letamaio, eh? Bene. Temevo che il trattamento di favore lo avessero riservato soltanto a me, ma a quanto pare è lo stesso per tutti. Ospitalità terrestre, davvero.»
«Anche gli altri sono messi così?» chiese Muzafar Chang.
«Devo ancora controllare, ma non mi aspetto nulla di diverso. Se sbattono in una discarica noi due, che siamo i membri più importanti della delegazione svarghiana, non vedo proprio perché il resto di noi dovrebbe essere trattato meglio. Anzi, saranno messi anche peggio. Probabilmente in cantina, se in questa colonia hanno già inventato le cantine.»
Muzafar scrollò le spalle. «Non saprei. Magari ce l’hanno solo con noi proprio perché siamo i più importanti, no? Io sono il ladro infame e...»
«E io sono l’imbroglione, aguzzino o quello che è.» Sbuffò dal naso. «Sì, la conosco la storiella di Leonardi e tutta la sua retorica. Scemenze. Dici che ci ha invitato per trattarci il peggio possibile? È un dispetto da bambini dementi, ma potrebbe anche essere. Quanti anni ha ormai? Centonove? Non una età alla quale si è molto lucidi, secondo me. Farebbe meglio a lasciare.»
«Potevamo anche non venirci, qui su Madre. Non so cosa...»
Il professor Chen agitò una mano. «Potevamo, ma non lo abbiamo fatto. Siamo venuti. E lo sai cosa siamo venuti a fare. Non una conferenza, che tanto ci saranno quattro gatti e se anche solo uno ha la minima idea di cosa sia la planetologia ci sarà da baciarsi i gomiti. Quella è la scusa. Siamo qui per un atto dimostrativo. Un atto simbolico, contro Leonardi e quelli che vogliono chiudere e incatenare il sapere. Siamo qui per sostenere la libera circolazione delle idee e delle informazione. È la libertà della conoscenza che ci sta a cuore! Per questo siamo venuti. È un gesto simbolico.»
Muzafar Chang annuì. Libertà della conoscenza, sì. Certo. Come no. Per distogliere liberamente lo sguardo da un processo che si stava incancrenendo e che, se lo avessero lasciato procedere in modo regolare, non avrebbero mai vinto. Quasi due secoli di precedenti erano contro di loro. Qualunque cosa Chen sperasse di ottenere dalla spedizione su Madre, non era certo quella che dichiarava. Ma in fondo a Muzafar non interessava granché. Era uno strumento, lo era stato fin dall’inizio e sarebbe rimasto strumento fino alla fine. Aveva accettato e ormai era un po’ tardi per ripensarci o pentirsi.
«Come vanno le punture?» chiese il professor Chen, cambiando argomento all’improvviso.
Muzafar scrollò le spalle. «Prudono. Per adesso non fanno altro. Dovremmo chiedere, non so, una qualche pomata, un antibiotico, disinfettante, roba del genere? Perché alla stazione hanno detto che eravamo al sicuro e non ci dovevamo preoccupare, con le vaccinazioni e altro, però...»
«Pensi che ci vogliano avvelenare con gli insetti?»
«No, questo è un po’ troppo, ma...»
«Un po’ troppo. Decisamente troppo. Non ci siamo ancora riusciti davvero noi in più di tre secoli, figuriamoci questi in trent’anni. No, no, ma non sarei sorpreso se ci avessero rifilato qualcosa che li attira, gli insetti, invece di respingerli. Questo sarebbe uno scherzetto degno di Leonardi.»
Muzafar compresse le labbra. Ecco un pensiero di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Ma no, non poteva essere andata così. C’erano limiti anche all’assurdità, o almeno sperava con forza che i limiti ci fossero. Meglio lasciare perdere. Avrebbero speso soltanto sette giorni su Madre e per la maggior parte prevedeva di trascorrerli al chiuso. Non c’era nulla che valesse la pena di essere visitato, nulla almeno che interessasse a lui. Anche perché non erano molte le cose che lo interessavano, a parte le sue ricerche e i suoi studi. E mangiare bene, d’accordo, ma se la stazione orbitale era un esempio da prendere sul serio, allora su Madre non avrebbe mangiato niente di buono, o anche solo passabile.
Oh beh, un poco di dieta gli avrebbe fosse fatto bene. Si passò una mano sulla pancetta, storcendo la bocca. «La conferenza è tra due giorni, vero?»
Il professor Chen annuì. «Due giorni. Impaziente?»
«Di tornare a casa.»
Chen rise con poca allegria. «Non sei l’unico. Ma è la prima e unica volta che ci permetteranno di scendere sul pianeta, per cui è meglio che ne ricaviamo il più possibile. Il che significa girare e farci accompagnare dovunque vogliano accompagnarci, ma anche cercare di mettere il naso dove non ci vogliono far andare. Più scopriamo e meglio è, giusto?»
Non proprio, secondo il suo modesto parere, ma non lo disse. «Non mi sembra molto sicuro.»
«Non lo è, ma non ci penseremo noi. C’è un motivo per cui ho portato più gente del necessario. Non abbiamo avuto una delegazione così ampia sui mondi coloniali, lo sai. O non ci hai fatto caso?»
«Effettivamente non ci ho fatto molto caso. Ma avevo altro per la testa e...» Muzafar alzò le spalle.
«Naturalmente, naturalmente. E anche qui avrai altro per la testa. Soprattutto qui. Noi due saremo a fare i bravi bambini assieme al colonnello e la scorta. Gli altri, di tanto in tanto...» Sorrise.
Muzafar annuì. Non voleva sapere altro e sperava che Chen avrebbe cambiato argomento. Lui era per la vita tranquilla. Non che ne avesse avuta molta, nel corso dell’ultimo anno e mezzo almeno, e non si aspettava di averne ancora per chissà quanto, fino alla fine del processo e magari oltre. Non per questo desiderava peggiorarla e aggravarla giocando a fare la spia. No, decisamente non era il suo mondo. Non era neppure ciò che si era aspettato, accettando di presentare la scoperta a proprio nome. A saperlo, forse sarebbe andata in un altro modo. Forse.
O forse no, perché il professor Chen la voleva pubblicare e se lui non avesse accettato, sarebbe stato un altro a farlo al suo posto, e la vita tranquilla era una buona cosa, sì, d’accordo, ma la fama era la fama e a quella era molto più difficile rinunciare. Dubitava di poterci riuscire. Avrebbe comunque ridotto al minimo ogni partecipazione ai piani di Chen, attenendosi al proprio ruolo e lasciando che al resto pensassero altri. Molto più sicuro. Ma maledizione quanto prudevano le punture sul collo!
Insetti a parte, Muzafar Chang non ebbe problemi nel tempo che lo separava dalla conferenza. Uscì assieme al professor Chen e la loro scorta a visitare luoghi di indicibile interesse turistico, quali una specie di scantinato brulicante di orrori che una guida turistica dai capelli rossi e alquanto maltenuti aveva presentato come un museo provvisorio di scienze naturali, oppure un altro scantinato pieno di sassi e cianfrusaglie minerali, che una guida turistica obesa aveva presentato come un altro museo provvisorio, questa volta archeologico. Sulla colonia non si era ancora evoluto il concetto di museo stabile, in apparenza. Muzafar osservò ogni cosa con sguardo debitamente annoiato, mentre Chen e il colonnello che li guidava discutevano con entusiasmo di prospettive per il futuro, sviluppi ormai dietro l’angolo e chissà cos’altro ancora. Furono ore di svago così intenso e completo che neppure il più agghiacciante caso di colite avrebbe mai potuto eguagliare.
Gli scavi archeologici veri non li videro. Muzafar Chang non ne fu sorpreso, ma un poco deluso sì. Per quanto ne sapeva lui, erano la sola cosa che valesse la pena visitare su Madre, la più importante in quello schifo di colonia primitiva. C’era da sorprendersi se Leonardi ne restringeva l’accesso il più possibile? Certo che no! Per come si era comportato con la storia dei giganti gassosi...
«Ma non importa,» spiegò il professor Chen di ritorno dal primo giorno di turismo. «Come ti ho già detto, noi siamo qui per fare i bravi ragazzi e tenere i militari contenti. Altri intanto provvederanno a guardarsi un poco in giro e scoprire quello che si può scoprire. Pensa alla conferenza, tu.»
Muzafar Chang ci pensò, fino a che la conferenza smise di essere un pensiero astratto e divenne un fatto reale. Il luogo era una specie di palazzetto dello sport nella base militare, non proprio grande o imponente, ma con ogni probabilità il meglio che la colonia avesse a disposizione. Molto, molto più interessante era la base stessa, una distesa di strade, edifici e parchi che pareva grande quanto una città di medie dimensioni su Svarga. A cosa servivano tutti quei soldati? Muzafar non ne aveva idea, ma preferiva restare nell’ignoranza. Come tutti gli svarghiani, anche lui conosceva le storie su come era stata fondata la loro colonia, agli albori dei viaggi interstellari, e come molti sospettava che per la maggior parte fossero leggende senza senso, e comunque erano cose del passato. Poteva accadere qualcosa di simile anche su Madre? Coloni come cavie e militari come carcerieri?
Non erano affari suoi. C’erano tanti militari e a qualcosa dovevano servire. Punto. Una manciata di giorni e se ne sarebbe tornato a casa, lontano da quel luogo desolante. Perché preoccuparsi di altro? Quindi non se ne preoccupava. Meglio pensare alla gente che aveva davanti e aspettava di sentire e vedere la sua conferenza. Quello era il suo campo, non i problemi sociali delle nuove colonie.
Muzafar Chang osservò il suo pubblico, mentre preparava il tavolo e un gruppetto di tecnici girava intorno a eseguire controlli dell’ultimo momento o qualunque altra cosa facessero i tecnici prima di segnalargli che poteva partire. Le attrezzature non sembravano un granché, per cui era probabile che un qualche tipo di manodopera servisse, test conclusivi, palle varie. Scrollò le spalle.
Il pubblico, si diceva. Militari, tanti e ovunque, ma qui e là comparivano anche tracce di civili, o di persone vestite da civili. Se poi lo fossero davvero era un discorso diverso, che non lo riguardava. Si concentravano soprattutto verso il fondo e nelle zone d’angolo, i posti peggiori, mentre le prime fila erano per alti graduati e gente che poteva essere parte dell’amministrazione locale, a giudicare dalle facce e da come si vestivano. Muzafar non ne riconobbe neppure uno, ma la cosa non lo sorprese.
Il suo sguardo si fermò su un particolare curioso e un poco assurdo. Un uomo era girato di schiena. Tutti gli altri fronteggiavano il palco da cui avrebbe parlato, ma quell’uomo no, quell’uomo voltava le spalle all’oratore. Un uomo alto, dai capelli scuri. Le persone attorno a lui sembravano un poco a disagio, una donna di mezza età era palesemente imbarazzata e parlava con una vicina, gesticolando e forse lamentandosi. La vicina scuoteva la testa tutta seria.
Scena curiosa, sì. Chissà che significava? Ma anche in questo caso non erano fatti suoi e Muzafar Chang passò oltre con lo sguardo, concludendo poco dopo il giro visuale del pubblico. Non molto, non di grande qualità, ma si poteva accontentare. Lui non ci voleva neppure venire su Madre, a dire il vero. Lui voleva riposarsi a casa, riprendere gli studi regolari, smetterla con quella ridicola giostra da zingaro dello spettacolo, da imbonitore da mercato. Ma il professor Chen non era d’accordo e il professor Chen comandava. Muzafar sospirò, poi un tecnico gli segnalò che tutto era pronto e la sua conferenza ebbe inizio. La sua ultima conferenza.
Non fu un successo come altre, ma neppure ci furono problemi o incidenti. Il pubblico ascoltava e guardava, in silenzio, forse un poco passivo, forse anche un poco annoiato. Muzafar Chang parlava dei due giganti gassosi nel sistema solare di Madre, parlava delle strutture organiche localizzate nei loro nuclei, parlava delle sue ipotesi sulla loro possibile origine, il loro significato e la rivoluzione che avrebbero portato nel campo della planetologia una volta attestata la loro esistenza. Stesse cose che aveva ripetuto decine di volte in decine di conferenze sui vari mondi coloniali e ripetute quella sera in un palazzetto dello sport di una base militare su Madre, di fronte a un pubblico in gran parte in divisa, in gran parte serio, in gran parte immobile, del tutto silenzioso.
Per la prima volta Muzafar si domandò quanto già sapessero i militari di ciò che lui stava dicendo. I militari di più alto grado, soprattutto. Li poteva distinguere a occhio dalla qualità delle loro divise, anche se non sapeva riconoscere il rango. Quasi tutti nelle prime file, a fissare lui, le immagini che mostrava, i modelli che rappresentavano le sue ipotesi. Forse per loro non era una grande scoperta. Forse per loro erano cose di tutti i giorni. Forse sapevano già tutto molto prima che lui sospettasse ci fosse anche solo qualcosa da sapere. Forse. Ma erano domande a cui non avrebbe mai saputo dare risposta, quindi era meglio non pensarci proprio e tirare diritto. Muzafar lo fece.
Non ci furono domande a fine conferenza. Muzafar Chang ebbe giusto il tempo di notare che il tizio di spalle gli stava voltando ancora le spalle, poi vennero i saluti, l’uscita dal palazzetto e dalla base, il viaggio di ritorno all’alloggio. Il professor Chen si complimentò, chiacchierò per un poco del più e del meno, nonché di altre funzioni matematiche, infine arrivarono al fantastico albergo (per valori molto bassi di fantastico) e la serata si concluse nella quiete di una stanza non troppo confortevole e dal vago odore di muffa. E anche quella era andata.
Muzafar Chang si grattava distratto le punture sul collo e sulle braccia, seduto al tavolino contro il muro. Si sentiva a disagio. Non tanto perché la sedia era scomoda (lo era), o perché l’aria puzzava di muffa: erano fastidi a cui si stava ormai abituando, suo malgrado. Neppure i due insetti posati sul vetro esterno della finestra erano un problema reale, anche se li trovava piuttosto inquietanti. Era la conferenza nel complesso che lo metteva a disagio. L’atmosfera che aveva percepito nel palazzetto in cui lo avevano sistemato, nel mezzo di una base militare.
Il professor Chen aveva apprezzato la scelta. «È raro che facciano entrare stranieri nelle loro basi su Madre,» aveva detto. «È una occasione unica. Dobbiamo approfittarne.» E forse lui ne aveva anche approfittato, a modo suo. Forse aveva cercato di curiosare in giro con qualche membro del gruppo. A Muzafar non interessava. Ma la base era grande e sembrava davvero una città e a questo dettaglio la sua mente continuava a tornare, ancora e ancora. Erano tutte così le basi, anche su altri mondi? In vita sua non ne aveva mai viste da vicino, se non in qualche storia visiva che le usava come sfondo o ambientazione. Potevano anche essere tutte fatte come città, per quanto ne sapeva lui.
Sospirò. Inutile pensarci troppo. Era il professor Chen quello fissato col funzionamento di Madre e la necessità di scoprire tutto ciò che si poteva. Muzafar voleva solo tornare a casa. Tornare e restare a casa, se possibile. Il giro in giostra era anche stato bello, all’inizio, ma diventava vecchio in fretta e adesso era stantio, quasi in via di mummificazione. Adesso i suoi alloggi alla fondazione, appena dietro la città di Guan Yu, gli apparivano come una specie di paradiso terrestre. Non lo erano, ovvio, ma la nostalgia li colorava di tutte quelle tinte che nella realtà non avrebbero mai posseduto. Voleva tornare e restare, sì. E che la fama se la godesse qualcun altro, almeno per un poco.
Gli insetti sulla finestra si muovevano pigri. Uno volò via, altri due arrivarono. «Faranno il cambio della guardia,» mormorò Muzafar con un sorriso stanco. Sembrava un assedio, più che una guardia. Nel poco tempo passato su Madre aveva ricevuto più punture che in oltre quarant’anni su Svarga. Il che non era poi così strano, da un certo punto di vista, perché gli insetti svarghiani pungevano solo se li disturbavi, anche se non era sempre facile capire cosa li disturbasse e cosa no, ma nel corso dei tre secoli di convivenza si era giunti a una certa forma di comprensione, o almeno non ostilità. Ci si sopportava, come estranei forzati a viaggiare assieme in un compartimento molto stretto.
Su Madre no. Su Madre sembrava che gli insetti ce l’avessero proprio con te. Ti venivano a cercare, ti pungevano, poi ti pungevano ancora e già che c’erano ti pungevano un’altra volta. E nessun tipo di repellente sembrava funzionare. Pianeta barbaro e selvaggio. Sarebbe ripartito quella sera stessa, se lo avesse potuto fare, e partito senza un solo rimpianto. Ma non poteva. Avevano ancora qualche giorno da spendere o sprecare su Madre prima che la nave li riportasse a casa. Se il professor Chen glielo consentiva, Muzafar li avrebbe trascorsi chiuso in camera.
Glielo consentì. Adesso che la conferenza era alle spalle e il ritorno a casa vicino, si potevano anche permettere qualche scortesia, sosteneva. Tanto non li avrebbero più fatti tornare in ogni caso, quindi non c’era bisogno di leccare e scodinzolare. «Racconteremo che non ti senti molto bene e stop,» fu il suo commento. «Se lo accettano, bene; se non lo accettano, affari loro. Stattene pure a letto tutto il giorno, se è quello che hai voglia di fare. Noi ficcheremo ancora un poco il naso qui e là.»
Muzafar Chang non aveva proprio voglia di stare a letto tutto il giorno, ma le alternative erano pure peggio, le punture gli prudevano e sì, un poco si sentiva stanco. Colpa della robaccia che mangiava, quasi di sicuro, per non parlare della scomodità dell’alloggio. La vita rustica da pioniere spaziale si adattava ben poco alla sua costituzione: era uomo da mondo civilizzato, lui, uomo da climatizzatore e poltrona imbottita, pantofole e luci artificiali. Il resto se lo godessero pure i veri scimpanzé a pelo corto, se davvero lo volevano. Lui non lo voleva.
Nei quattro giorni che restavano da trascorrere su Madre, Muzafar Chang uscì una volta sola, per un breve viaggio a una località balneare che il professor Chen gli aveva assicurato essere orrenda oltre ogni dire, ma dove avrebbero potuto osservare da vicino alcune cose che un suo conoscente presso il ministero della Difesa gli aveva raccomandato di guardare, se mai una opportunità gli si fosse presentata. «E l’opportunità si è presentata, quindi stavolta vieni anche tu e aiutami a distrarre quel colonnello e i suoi tirapiedi, mentre i nostri colleghi studiano i dintorni.» Muzafar aveva raccolto il suo entusiasmo che gli era scivolato in un calzino ed era uscito dall’alloggio col miglior sorriso che la sua faccia riuscisse a simulare. Il colonnello Farhad Roy lo fissò per un attimo preoccupato, gli chiese se si sentisse meglio, poi lo lasciò in pace per il resto della giornata. Non doveva essere stato un sorriso molto rassicurante. Oh beh, pazienza.
La località balneare era orrenda più di quanto Muzafar avesse immaginato e su Svarga non l’avresti potuta usare neppure per i cani randagi (non che ce ne fossero molti, in realtà: certe specie di insetti sapevano ripulire le strade in modo molto efficiente, anche se a volte rumoroso), né gli era chiaro a prima vista cosa potesse esserci di interessante nei paraggi. A seconda vista continuò a non essergli chiaro, ma a quel punto aveva anche smesso di preoccuparsene, perché una nube di insetti lo aveva avvolto, pungendolo ripetutamente alla faccia di tutti i repellenti che aveva usato. Il professor Chen ne rise, il colonnello alzò le spalle e si scusò, spiegando che era un fastidio per tutti, davvero, e non avevano ancora trovato un modo sicuro per liberarsene, anche se ci stavano lavorando da anni. La vita continuò, specie quando la nube si fu dispersa.
Il colonnello li guidò a una specie di catapecchia vicino al mare, che in teoria doveva essere un altro museo provvisorio. «Qui è anche il luogo dove i membri della seconda spedizione hanno trovato le prime forme di vita vertebrata sul pianeta,» spiegava. «È un luogo che ha anche oggi un suo valore come simbolo, anche se adesso le ricerche si sono trasferite altrove e, come potete vedere, il tratto di mare è oggi utilizzato da chi vuole farsi una vacanza in spiaggia.» Scrollò le spalle. «Non mi pare un granché di posto per le vacanze, a dire il vero, ma a ognuno il suo.»
Il professor Chen sorrise. «La colonia è ancora agli inizi, è normale che sia così. Ci si deve sapere adattare, giusto? E poi, a quanto vedo, è un pianeta non facile da terraformare. Un poco brullo, sa.»
«Un poco molto brullo. Mi piacerebbe potervi dire che è solo questo tratto, ma...» Il colonnello alzò le spalle. «Diciamo che noi terrestri amiamo le sfide. E poi è un pianeta con una storia.»
La manciata di stanze che spacciavano per museo conteneva obbrobri ancora più obbrobriosi degli obbrobri a cui Muzafar era abituato. C’erano sgorbi che sembravano lumaconi, altri aspirapolvere pinnati, altri ancora cose che di solito svaniscono alla vista quando tiri l’acqua. Si chiese di sfuggita se qualcuno avesse mai provato a mangiarli, poi decise che preferiva non conoscere la risposta. Con la roba che si era trovato nel piatto a ogni pasto, l’ignoranza era una benedizione.
Camminarono un poco per le strade principali della cittadina, che di fatto erano il lungomare e una serie di traverse labirintiche dove il consueto odore di cantina si mischiava a una nuova fragranza di pesce decomposto. C’era gente che passava tranquilla, anche ridendo, come se davvero fossero nel più bel villaggio vacanze della galassia. La capacità di adattamento degli umani era impressionante e Muzafar Chang ne fu impressionato. Chissà come doveva essere la vita in quella colonia, se anche un posto del genere poteva risultare divertente e piacevole ai suoi abitanti. No, no, meglio tornare a casa al più presto. A casa, nella civilizzata Guan Yu, dove gli insetti sono almeno educati.
Alla sera si ritrovò con una collezione quasi completa di punture, assieme a una discreta dose di mal di testa. Si sentiva fiacco, come se si stesse per ammalare, ma decise di non dire nulla al professore o agli altri membri del gruppo svarghiano. Non voleva che qualcosa li trattenesse ulteriormente sul pianeta: se davvero si stava ammalando, cosa non improbabile con tutta la porcheria che Madre gli aveva tirato addosso, allora sarebbe rimasto zitto fino alla partenza, sopportando. Una volta lontani e in viaggio, avrebbe anche potuto parlare della propria salute, se mai fosse stato necessario. Non lo sarebbe stato: si rimetteva sempre presto da ogni malanno, lui. Sarebbe successo anche stavolta.
Il professor Chen lo avrebbe probabilmente afferrato per un orecchio e trascinato da un medico, se lo avesse saputo. Esistevano regole molto precise su come gestire eventuali malattie contratte su un altro pianeta e il silenzio di Muzafar le avrebbe infrante più o meno tutte, ma il professor Chen non lo avrebbe mai saputo, dunque non c’erano problemi. Pensava ai suoi conoscenti presso il ministero della Difesa e a ciò che gli avevano raccomandato di fare durante la permanenza su Madre: il resto era secondario, inclusa la salute della gallina dalle uova d’oro. Dopotutto, le uova più importanti le aveva già deposte e comunque stava chiuso in camera tutto il giorno. Cosa gli poteva succedere?
Quando fu tempo di ripartire, Muzafar Chang era febbricitante. Nella cabina dell’ascensore sedette in un angolo, rannicchiato su se stesso come lenzuola in un cesto dei panni sporchi. Dormicchiò per un poco, saltellando dentro e fuori da un vago stato di coscienza. Il professor Chen si avvicinò una volta sola a chiedergli come stava. «Meglio quando saremo a casa,» fu la risposta. Chen sorrise.
Madre si allontanava sotto di loro, una palla marrone e azzurrognola avvolta da strati bianchicci di nuvole, come un cioccolatino scartato alla peggio. Gli altri svarghiani del gruppo parlavano tra loro, scherzando, ridendo. C’era un clima da ultimo giorno di scuola, che da un certo punto di vista era strano: non partivano per una vacanza, ma tornavano al lavoro. Non era strano da un altro punto di vista, se si considerava il posto da cui si allontanavano: tornare alla ricca Svarga, dopo i giorni su Madre, era davvero come rinascere. O così commentavano tra loro, guardando il paesaggio che non si sarebbe mai allontanato troppo in fretta.
Muzafar Chang sarebbe stato d’accordo, ma al momento era troppo cotto per poter esprimere una qualunque opinione. Sognò immagini ancora più confuse del solito, sciami di insetti giganti che lo inseguivano attraverso le aule della scuola elementare, facce giganti che ridevano dalle pareti e che assomigliavano tutte a sua madre, un cane che non lo lasciava rientrare in casa, il volo che ritardava ancora, e ancora, e ancora, e poi era deviato e doveva fermarsi su Varuna, ma Chen non voleva e si metteva a piangere perché aveva finito il gelato al pistacchio e nessuno gli allacciava la scarpa.
Si svegliò quando la stazione orbitale distava una manciata di minuti. Non si sentiva bene, ma aveva la sensazione di essere un poco più lucido, forse anche capace di intendere e volere. Un compagno di viaggio gli chiese se ci fossero problemi, Muzafar sorrise e rispose di no, è tutto a posto, ho solo voglia di tornare a casa al più presto, non ne posso più. «E chi non ne ha voglia?» gli sorrise l’altro in risposta. Giusto: chi non ne aveva voglia? A guardarli, e Muzafar adesso li stava guardando, tutti condividevano il suo stesso desiderio: andare, tornare, Svarga aspettami che sto correndo da te.
Il passaggio per la stazione fu rapido. Muzafar si sentiva meglio, camminava, parlava. Solo il rosso delle guance suggeriva che no, dopotutto non stava così bene, e anche gli occhi non parevano molto lucidi, ma in fondo i suoi occhi sembravano sempre offuscati, per cui non c’era niente di strano. Era voglia di partire, no? La stessa che provavano tutti. E poi lo avevano punto tante di quelle volte, un poco di arrossamento era normale. Poveraccio.
Nessuno lo fermò, nessuno fece domande, nessuno lo visitò. Partì.
Le punture prudevano molto e sembravano anche pulsare un poco, ma doveva essere solo una buffa impressione. Non stava bene, aveva la febbre, vedeva cose. Dormì ancora per alcune ore in cabina, si informò su quanto fosse lontana Madre, aspettò ancora un poco, si informò di nuovo. Solo dopo il quinto ciclo di dormita, domanda e attesa Muzafar Chang si decise a vuotare il sacco. Stava male.
Il professor Chen gli rivolse uno sguardo da madre che si prepara a sculacciarti. «E non ce lo potevi dire prima? Lo sai anche tu come funzionano i regolamenti per le malattie infettive.»
«Ma non so se sia infettiva.»
«Motivo in più per avvisarci!»
«Non volevo restare ancora su Madre.»
Chen allargò le braccia e sospirò. «Ormai è andata così. Questo significa che all’arrivo metteranno tutti in quarantena. E chissà per quanto. Sai come saranno felici gli altri, quando lo sapranno. Grazie per la fantastica sorpresa, davvero! Ti daranno una medaglia.»
A Muzafar non interessava. Lo mettessero pure in quarantena, se volevano. L’importante era che lo facessero su Svarga. A casa. Il resto non contava, il resto si poteva sopportare. Anche gli insulti dei compagni di viaggio, il loro odio, quello che volevano. Purché si tornasse a casa. Su Svarga.
Forse non l’avrebbe pensata così, se avesse saputo del regalo che stava portando al suo pianeta. Ma Muzafar Chang non lo sapeva né lo avrebbe mai scoperto, cosa che rese molto più piacevoli i suoi pochi ultimi giorni di vita, che avrebbe trascorso sospeso in vista della sua terra natale.