La galassia di Madre - 113
La conferenza di Muzafar Chang non era stata molto interessante, secondo il parere di Matteo Kori. Non era neanche riuscita bene. Vi aveva già assistito mentre si trovava su Rudra assieme a Chakra, in un’epoca che oggi gli sembrava lontana milioni di anni, e invece distava solo qualche decina di anni luce, o giù di lì. Distanze astronomiche e numeri non erano mai stati il suo forte, ammesso che da qualche parte un forte lo avesse. Spesso gli sembrava di avere solo deboli. Ma non era questo il punto. Il punto era la conferenza. Vi aveva assistito come passatempo e un poco anche per curiosità, su Rudra. Non era stata proprio memorabile, ma almeno non si era annoiato troppo.
O non gli sembrava di essersi annoiato troppo, ripensandoci dopo quasi due anni. Forse due anni, se aveva fatto bene i conti: quando ogni pianeta aveva tempi di rotazione e rivoluzione diversi e i vari tentativi di uniformare i calendari continuavano a fallire, perché ogni mondo voleva sempre imporre il proprio e fantomatici “giorni standard” erano vitali come l’esperanto, non c’erano alternative alla confusione cronologica totale e ai sani, vecchi criteri dell’occhio e croce. La conferenza su Madre, però, sarebbe rimasta noiosa anche dopo mille secoli.
Su Rudra c’erano stati tentativi di vivacizzare il piatto monologo di quel professore svarghiano, che già seguire il suo accento era una impresa. Gli effetti visivi erano stati notevoli, le simulazioni quasi comprensibili, i modelli dei nuclei erano stati artistici a modo loro, un poco anche spettacolari. Per non parlare del pubblico, che su Rudra aveva partecipato con domande, commenti, o anche solo con mormorii impressionati al momento giusto. Non una conferenza chiara e divertente, ma viva.
La conferenza su Madre era stata il funerale miserabile di un parente lontano, che conoscevi poco e che ti stava pure sulle palle. Qualcosa da cui allontanarsi al più presto, prima che ti succhiasse ogni residua goccia di voglia di vivere. Il professore svarghiano aveva parlato col tono di chi aspetta solo la fine e ha abbandonato ogni speranza; le simulazioni erano peggiori di video amatoriali realizzati da incompetenti; il pubblico era una fossa comune a cielo aperto. Persino l’aria nel palazzetto aveva la freschezza di un paio di calzini che avevano conosciuto molti piedi ma mai sapone o detersivo. Che poi fossero nel mezzo di una base militare lontana dalla città e inaccessibile con mezzi normali, scortati dentro e fuori da tizi armati, aveva aggiunto giusto quel tocco di paranoia angosciante che fa sempre bene alla salute di chi non vuole più vivere. Tutto sommato, si sarebbe divertito di più restando a letto con la bronchite.
Non aveva potuto. Indira aveva insistito per assistere, Sharma si era accodato, Mei aveva annuito in silenzio e alla fine pure Tunde Bohr e Selina Dialla avevano deciso di assistere. Matteo e Sebastian avevano trascorso la serata seduti un paio di file dietro agli altri, scambiando pensieri inespressi con sguardi rapidi ed espressioni di quieta nausea esistenziale. Il risultato era stata una perdita di tempo, una noia completa ma necessaria in nome del quieto vivere nei giorni futuri. Era stato anche l’atto finale della presenza su Madre del gruppo lakshmita.
Erano ripartiti in un giorno piovoso di quella che, sul pianeta, faceva funzione di primavera. Matteo l’avrebbe descritta semmai come un autunno smorto e svogliato, ma in fondo Madre stessa pareva smorta e svogliata per la maggior parte del tempo, per cui forse tutto si bilanciava. O giù di lì. Se la sarebbero passata meglio su Lakshmi, se non era piena estate. Per certi versi, invidiava i partenti.
«Cerca di non divertirti troppo qui da solo,» lo aveva salutato Indira. «Cerca soprattutto di non dare troppi problemi agli altri e non causare troppi danni.»
Matteo si era astenuto dal commentare. La vita su Madre era stata piuttosto squallida in quel primo periodo e non vedeva proprio come potesse peggiorare nel tempo che gli rimaneva. Nel tanto tempo che gli rimaneva. Se avesse letto bene tutte le clausole, non avrebbe mai accettato di appoggiarsi al Teatro per trovare un lavoro provvisorio. Adesso si ritrovava a dover sprecare tre anni sul pianeta, a svolgere lavori di bassa manovalanza prima di essere libero di andare altrove. O anche di restare, se proprio lo desiderava. Matteo proprio non lo desiderava.
Il gruppetto lakshmita era partito con raccomandazioni varie e promesse di tenersi in contatto. Forse le avrebbero mantenute. Matteo aveva scrollato le spalle e si era lasciato indietro l’ascensore. Aveva davanti i coloni che prima erano stati colleghi e amici di suo fratello Davide, anche se lo avevano conosciuto sotto un altro nome, e adesso erano suoi colleghi (circa) e amici (approssimativamente). Se il cambio fosse stato vantaggioso o meno non lo avrebbe saputo dire, al momento, e sospettava che avrebbe continuato a non saperlo dire ancora per chissà quanto. Oh beh, era andata così.
«Hai già cominciato a sentirti solo?»
Sebastian Hahn lo fissava a braccia incrociate e con un sorrisetto da schiaffi che ricordava un poco quello di Chakra, anche se non ispirava la stessa dose di violenza. Chakra! Matteo pensò di sfuggita all’amico (per valori molto casuali di amico), che era rimasto su Lakshmi a (sostenere di) lavorare alla tesi. Chissà cosa stava combinando in realtà? Quasi di sicuro qualcosa che non aveva niente di accademico ma molto di alcoolico, almeno se su Laksmhi era sera. Se era mattina, probabilmente si doveva ancora alzare. Chissà cosa avrebbe avuto da dire su città come quelle di Madre?
Matteo sospirò. «No, non ne sento la mancanza. Pensavo al lavoro che mi attende.»
Sebastian annuì. «Questo spiega la faccia da funerale. Ma vedrai che non è poi così brutto come può sembrarti adesso. Di solito lo è molto di più.»
«Incoraggiante.»
«No, realistico. Se vuoi un incoraggiamento, chiedi pure a Luis: avrà di certo una parola per te.»
Matteo sorrise. «Una sola.» Ancora non aveva capito se Luis Morago fosse davvero così stupido o lo sembrasse soltanto. Non gli aveva mai sentito pronunciare una frase grammaticalmente corretta o di senso compiuto, o anche solo una frase che contenesse tutte le parole necessarie. Parlava sempre in formato gran risparmio, una parola su cinque o giù di lì. Doveva essere proprio vero che il Teatro di Oklahoma raccattava chiunque e aveva un posto per chiunque. E forse era proprio per questo che lo avevano chiamato così.
Ci aveva pensato più volte, Matteo, specie quando davvero non sapeva cosa fare e la vita era poco più di un moscone che continua a girarti attorno posandosi qui e là. Momenti che si verificavano fin troppo spesso su Madre. Non era un riferimento molto conosciuto e i secoli lo avevano reso ancora più distante. Persino lui non lo aveva colto subito, quando aveva assistito assieme a Davide al loro spettacolino pubblicitario sulla stazione orbitale terrestre, in quella che sembrava adesso la vita di un’altra persona. Teatro di Oklahoma. Il famigerato Ufficio per la Colonizzazione doveva avere tra i propri dipendenti qualche fanatico di letteratura terrestre, in possesso anche di un bizzarro senso dell’umorismo. Seriamente, chissà perché lo avevano chiamato così?
Ma non lo sapeva né lo avrebbe scoperto, quindi abbandonò il pensiero. Anche perché non era una strada molto gradevole. Lo portava a ricordare il momento della partenza dalla Terra, le speranze e le idee strampalate che aveva avuto. Lo portava a ricordare Davide, oggi disperso. Se volevi essere ottimista. Se volevi essere realista, come a Matteo capitava sempre più spesso, le possibilità che lo stato di disperso di Davide cambiasse in meglio erano assai remote, ammesso e non concesso che ce ne fossero ancora. Tanto valeva cominciare a ricordarlo come un caro estinto, qualunque cosa fosse successa in realtà. Tanto valeva cominciare anche a dimenticarlo.
Il giorno della conferenza, mentre soldati li scortavano dentro il palazzetto, Matteo si era chiesto se davvero suo fratello avesse cercato di infilarsi in quel posto. Sembrava assurdo. Peggio, sembrava il più pazzo dei propositi che una mente malata potesse avere. Era grande come una città, quella base. Era più grande del posto in cui era nato e cresciuto. C’erano militari ovunque, probabilmente anche nascosti sotto i sassi, come scarafaggi armati e in divisa. Pensare di infiltrarsi lì era demenziale.
Quindi era qualcosa che Davide avrebbe potuto pensare. Il suo migliore amico sulla Terra era stato un deficiente come Amir, dopotutto, e la deficienza è come la pazzia: sa essere molto contagiosa, in caso di esposizione prolungata. Bastava vedere tutte le assurdità a cui lui stesso aveva partecipato in compagnia di Chakra. Pazzia contagiosa, appunto.
Ma la conferenza e la base militare appartenevano ormai al passato, proprio come vi apparteneva il fratello. Qualunque cosa fosse successa, era successa e sarebbe rimasta successa. La sua ricerca di informazioni era stata inutile fin dall’inizio, come alcuni gli avevano detto. Matteo si era illuso che non fosse così. Adesso la realtà lo aveva indotto a cambiare idea, a ricredersi. Sarebbe stato meglio ascoltarli e restare su Lakshmi, a farsi mantenere dal pianeta mentre pensava svogliato a cosa fare di interessante da grande. Molto meglio di essere arenato su una colonia primitiva a svolgere lavori da mulo per tre anni locali, che duravano di più degli anni terrestri o lakshmiti. Bella roba.
Al lavoro, il giorno dopo Joe Downey fu più molesto del solito. Non si lanciava più nelle sue lunghe e ammorbanti tirate su ingiustizie vere o presunte, complotti dei militari o roba simile. La sgridata che si era preso tempo prima sembrava avergli fatto bene, anche se il suo blando cambiamento non gli aveva regalato nuovi amici nel gruppo. Era difficile volere attorno un ragazzino scemo, pettinato da scemo e con la sgradevole abitudine di scaccolarsi di continuo, anche in mensa. Neppure Matteo lo avrebbe voluto attorno, se avesse potuto scegliere. Ma non aveva potuto scegliere, glielo avevano scaricato tra i piedi e adesso era costretto ad ascoltarlo e rispondere alle sue domande. Era il modo più rapido ed efficace per farlo tacere. Glielo aveva insegnato il fallito tentativo di embargo sociale, quando si era illuso di poter usare il silenzio per insegnare a Joe che era un gran rompipalle. Non ci era riuscito, ovviamente, e atesso gli toccava rispondere.
Aveva cercato di assistere alla conferenza, Joe, ma glielo avevano impedito. Ma era ovvio, no? Era ovvio che non lo avrebbero lasciato entrare nella base. Non aggiungeva mai commenti su segreti dei militari e pozzi nascosti, quella lezione l’aveva imparata, ma il suo sguardo suggeriva tutto ciò che la sua bocca non diceva. Più una serie di altre informazioni, come il fatto che era stupido o che tutto il mondo gli appariva ancora come un fenomeno misterioso e sorprendente, ma era il complottismo a contare davvero, perché da lì provenivano tutte le domande.
Aveva saputo che Matteo era entrato nella base e aveva assistito alla conferenza. Adesso passava ogni giorno a bombardarlo di domande, che poi erano sempre le stesse. «E com’era la base? Quanto era grande? E cosa c’era? E quanti militari hai visto? E il palazzetto? E le strade? E i cancelli? E le guardie?» Eccetera, eccetera, eccetera. Di tanto in tanto chiedeva anche qualcosa sulla conferenza e le misteriose strutture organiche nei giganti gassosi, ma capitava di rado. Dovevano essere concetti troppo difficili per lui. Dalla faccia, Joe non doveva sapere neppure cosa fosse un gigante gassoso.
Matteo rispondeva per un poco, poi lo invitava a tacere e pensare al lavoro, con un tono sempre più scortese ogni giorno che passava. Ci volle quasi un mese prima che le domande si esaurissero e per allora il ragazzo si era già infilato in testa altre idee balzane con cui ammorbare l’anima di chiunque non potesse evitare di sentirlo. Matteo pensò che neppure i pomeriggi al centro culturale terrestre gli erano mai sembrati così velenosi per lo spirito.
Due giorni dopo non ne fu più così sicuro, quando Steve Dingledine lo contattò. Non si era più fatto sentire da parecchio tempo e Matteo aveva coltivato una vaga speranza che non si sarebbe fatto più sentire e basta. Era un suo conoscente, d’accordo, e da un certo punto di vista gli faceva anche un poco pena, soprattutto per come i colleghi sembravano evitarlo. Quella sera in cui era stato costretto a uscire a bere assieme a lui, Matteo aveva addirittura avvertito un blando senso di fratellanza per il più breve degli istanti, da ultima ruota del carro a ultima ruota del carro. Poi gli era passata. Steve era un commovente caso umano, sì, ma anche una persona che non riuscivi ad apprezzare, quando ti era attorno. Non mentre eri sobrio e in possesso delle tue facoltà mentali.
Dopo settimane a lavorare con Joe Downey sempre tra i piedi, però, Matteo non era sicuro di essere ancora in possesso delle proprie facoltà mentali. Durante la conferenza del professore svarghiano, a titolo di esempio, aveva addirittura creduto di vedere Bogdan tra il pubblico, ma un Bogdan che, per ragioni misteriose, girava le spalle al conferenziere e al suo palco. Il che non aveva senso, dunque si era sognato tutto. Per quanto ne sapeva Matteo, Bogdan era ancora sulla Terra a lavorare all’Ufficio, e peraltro non si faceva sentire da parecchio. Allucinazione, appunto. Non era allucinazione Steve, purtroppo, né il suo invito a uscire a bere assieme, in memoria dei vecchi tempi e palle varie.
Matteo si passò una mano sulla faccia e contemplò il grigio umido del cielo sopra la città. Insetti di ogni tipo volavano avanti e indietro, come sciami di moscerini terrestri, ma non erano moscerini: la loro forma era allungata, vagamente vermoide, come se ad avvolgerlo fosse una nube di trattini. Un segno, senza dubbio: segno che aveva bisogno di insetticida, e presto.
Dagli insetti nocivi a Steve il passo mentale fu breve. Non aveva niente di meglio da fare, il gruppo di Sebastian e gli altri era stato spedito fuori città per lavoro, davanti a sé si stendevano le praterie di solitudini senza nome, in cui ogni residua voglia di vivere poteva annegare e diventare banchetto per pesci metaforici e insomma si stava davvero annoiando, giusto per essere fini. Steve Dingledine non avrebbe migliorato la situazione, ma non la poteva neppure peggiorare troppo, giusto?
Il locale in cui si trovarono era lo stesso della volta precedente. Un covo di exologi, nelle parole di Steve; una cantina maltenuta, nei pensieri di Matteo. Proprio come la volta precedente, tutti gli altri sembravano impegnarsi a fondo per ignorare il loro presunto collega: poteva essere uno spettro, che passava tra i tavoli assieme a un altro spettro. Matteo pensò di commentare, ma non lo fece: non ne aveva il cuore. Steve lo guidò tutto contento verso un tavolino in un angolo, comportandosi come se il padrone del locale lo avesse riservato per lui.
«È il mio posto preferito, sai,» spiegò sorridendo. «Mi siedo sempre qui, quando mi viene voglia di uscire a bere qualcosa. È tranquillo, nessuno mi disturba.»
Vero. C’era quasi una linea morta che lo separava dagli altri. L’immagine di un ghetto per lebbrosi o etnie non gradite al governo locale di turno si affacciò alla mente di Matteo, ma lui la scacciò. «Bel posto,» mentì. «Adatto a rilassarsi. Capisco perché ti piaccia tanto.»
Steve agitò una mano con nonchalanse quasi credibile. «Niente di che, davvero. Beviamo!»
Bevvero. Parlottarono per un poco del più e del meno aggiornandosi su cosa fosse successo in quel periodo. I lakshmiti che erano tornati a casa, la conferenza del planetologo svarghiano, Matteo che si era appoggiato al Teatro per trovare un lavoro temporaneo e adesso sarebbe rimasto bloccato per tre anni sul pianeta. Steve rise.
«Avresti dovuto leggere tutte le clausole, dai! È ovvio che non ti vogliono lasciar ripartire subito. La Terra vuole che più coloni possibili si stabiliscano qui: quando arriva qualcuno, è già tanto se non lo incatenano al muro per non lasciarlo scappare. Beh, così ci vedremo più spesso, no?»
Matteo avrebbe voluto gridare un bel “no!” a pieni polmoni, ma di nuovo lo fregò la compassione e accennò con una scrollata di spalle che sì, probabilmente avrebbero avuto più occasioni per andare a bere qualcosa assieme, rilassarsi a fine lavoro, due chiacchiere, ripensare ai tempi della scuola. Cose così. Come al solito si sentì crescere il muschio sulla pelle.
«Oh, a proposito della scuola, indovina un po’ cosa è successo, eh?»
Matteo fissò la faccia entusiasta e sorridente di Steve, incoronata dalla sua solita chioma rossiccia e luccicante in modo sospetto. Il taglio non era migliorato: sembrava sempre eseguito da uno strabico al buio. «Non ne ho idea. Buone notizie?»
«Non necessariamente buone notizie, cioè sì, in linea di massima sono buone, ma... notizie! Giusto quattro giorni fa, un messaggio dal centro culturale. Da Roger, te lo ricordi?» Sorrise a pieni denti.
Matteo sospirò spiritualmente. «Sì, certo che me lo ricordo. Cosa ha detto?» fingendo un interesse che non provava neppure per sbaglio. Pure Roger Snyder, adesso. Mancava giusto Maelle Prsic...
Steve sprizzava entusiasmo come una tubatura rotta. «Ah, non te lo immagini nemmeno! Ascolta!»
Matteo ascoltò rassegnato. Al centro culturale terrestre tutto procedeva bene e il nuovo anno aveva portato nuovi arrivi, giovani di belle speranze che senza dubbio avrebbero seguito la tradizione del centro, qualunque essa fosse. La presidente Ana Jarkovska aveva ottenuto l’indicibile onore di poter ospitare nei prossimi mesi una esposizione delle migliori opere di May Hem, acclamatissima prima discepola dell’ancora più grande maestro Uris: secondo la testimonianza di Roger, Maelle aveva già cominciato a sbavare al solo pensiero. Matteo si augurò di passaggio che May Hem fosse soltanto il demenziale nome d’arte di una presunta artista che non sapeva come farsi notare: se davvero i suoi genitori l’avevano chiamata così, allora meritavano il carcere a vita e umilianti torture quotidiane.
Seguiva poi un elenco di altre scemenze che ti entravano da un orecchio e uscivano dall’altro senza lasciare traccia del proprio passaggio. Gente che faceva cose, cose che succedevano ad altra gente, e nomi e luoghi, date e orari. A Matteo non poteva fregare di meno, ma mantenne per tutto il tempo il sorriso glassato e agonizzante di chi ha guardato in faccia l’abisso e ha scoperto che potevano essere cugini di secondo grado. Sì, sì, certo, molto interessante, ahaha che ridere, ma pensa te, ma davvero, chi se lo aspettava, ma proprio. Finì dopo il terzo bicchiere di una sostanza che era quasi del tutto diversa dal whisky ma lo ricordava alla lontana, se ti avevano rimosso le papille gustative.
«Beh, sì, interessante, già, era da tanto che non lo sentivo.» Matteo si strofinò adagio la fronte. «E la tua attività, invece? Come procede? Qualcosa di nuovo?» Anche una mezz’ora ad ascoltare storie di scarafaggi sembrava affascinante, dopo il clistere di ricordi stitici a cui si era dovuto sottoporre non consenziente e non sotto anestesia totale.
Steve esplose in un sorriso da teschi. «Ah, novità davvero, guarda! Ho finito coi turni al museo, non ne potevo proprio più e poi, diciamolo, non avevano niente a che fare con la specializzazione, no? Il mio campo non è fare la guida in un museo! Il mio campo è lavorare sul... campo, sì, ahaha, battuta, ma ci siamo capiti, no? A contatto con le nuove forme di vita, da analizzare e comprendere.»
«E quali sarebbero queste nuove forme di vita?»
«I bruchi luminosi di cui ti avevo già parlato. Te ne avevo già parlato, vero? Mi sembra di sì. Lo so, lo so,» si affrettò ad aggiungere, alzando la mano a bloccare obiezioni inesistenti di Matteo, «non è che siano proprio forme di vita nuove, le conoscevamo già da qualche tempo, ero stato proprio io il primo a studiarle, possiamo dire il pioniere, no? Ed è proprio per questo, capisci? Pare che chi se ne stava occupando abbia avuto un piccolo imprevisto, o forse un incidente, non lo so di preciso, ma si è liberato un posto e quel posto lo hanno assegnato proprio a me. In riconoscimento del mio lavoro introduttivo, ovvio. Che ne pensi, eh?» Il sorriso di Steve era abbagliante, o almeno feriva gli occhi.
«Ottimo,» rispose Matteo, ma chiaramente non poteva bastare. Steve lo fissava scodinzolante.
«Un lavoro di grande responsabilità, senza dubbio,» aggiunse. «Un lavoro che premia la tua grande e nobile dedizione alla causa, il tuo spirito di sacrificio, la tua volontà di accettare anche i lavori più umili per imparare dai maestri, in attesa che arrivi il tuo turno di splendere. E il tuo turno è arrivato, eh? Sono sicuro che farai un ottimo lavoro,» concluse Matteo, sentendosi più falso di un politico in piena campagna elettorale. Sorrise convinto.
Se la natura lo avesse dotato di piume, probabilmente Steve avrebbe fatto la ruota. «Eh, beh, dai, lo so che è una occasione importante, ma non esageriamo, dai. Sono ancora uno studente, in fondo, un apprendista, uno specializzando. Mi hanno affidato un incarico di enorme responsabilità, sai, e devo ammettere che c’è anche una possibilità, ma piccola, bada bene, che il mio nome possa essere usato non dico proprio per la specie, ma magari per qualche sua caratteristica, o per una sottospecie, se ne esistono. È anche una occasione per trascorrere più tempo all’aperto, studiando le loro abitudini nei luoghi in cui vivono, invece di chiudermi in un laboratorio o in un museo.»
«I bruchi fosforescenti sono quelli che avevi trovato nelle fogne, no?»
Un’ombra attraversò il sorriso di Steve. «Sì, beh, non proprio fogne, ecco. Sotterranei. I canali che attraversano la città, sai. Una parte, è vero, è stata riciclata per l’impianto fognario, o come cavolo si chiama, ma solo una parte, eh? Sono molto, molto più ampi. E antichi. Alcuni, vedi, alcuni pensano che siano opera della civiltà aliena, ehehe. Secondo me sono di origine naturale, ma chi lo sa. No, è un lavoro difficile ma gratificante, davvero. Grande responsabilità, sai. Un dovere. Già.» Annuì con se stesso e svuotò il bicchiere, la testa che oscillava un poco. «Grande responsabilità.»
Matteo si sentiva soffocare. Gli altri clienti nel locale parlavano tra loro, molti a voce bassa, altri a un volume normale. Posto tranquillo, posto pacifico. Posto da studiosi così assuefatti alla piatta noia della colonia da averla ormai a scorrere nelle vene, assieme al sangue. E poi loro due, isolati, niente e nessuno che badasse a quello che facevano, non un cenno, non un saluto. Quasi rimpiangeva quei giorni al lavoro in cui Joe gli riempiva la testa di scemenze e non capiva nulla delle sue spiegazioni. Quasi, beninteso. Perché c’era un limite a tutto e la serata con Steve non lo aveva ancora raggiunto, anche se vi era molto, molto vicina. Giusto un passo o due.
Finì. Di ritorno all’alloggio, Matteo si sentiva sopravvissuto per caso a una catastrofe, una di quelle che spazzano via ogni altra cosa attorno a te, lasciandoti in un deserto di macerie. Ma era stata solo una serata a bere assieme a un conoscente, ed era finita. Due o tre secoli gli caddero dalle spalle.
In camera trovò due cosi simili a tafani posati sul vetro interno della finestrella. Li spiaccicò con la ciabatta. C’erano sempre insetti, ovunque. Matteo aveva sentito che Svarga era il mondo famoso per i suoi insetti, che apparentemente erano civilizzati o qualcosa del genere. Poteva anche crederci, più o meno come credeva ai fantomatici calamari giganti abissali di Varuna. Erano cose lontane che non lo riguardavano, né lo avrebbero mai riguardato. Degli insetti di Madre non parlava mai nessuno, a parte residenti o tizi strani come Steve, eppure erano la cosa peggiore del pianeta. Su Svarga magari potevano anche avere formato civiltà o roba simile; su Madre ti pungevano e basta, ma pungevano a ogni occasione, pungevano duro ed era un fastidio che neppure ti immaginavi. Chiedere a Sharma.
Si spogliò, si sciacquò, si afflosciò sul letto. Un altro giorno era andato e ancora non aveva saputo combinare niente. Tanto per cambiare. Si era ripromesso di essere più attivo su Madre, di prendere in mano la propria vita, decidere, fare, agire. E in effetti aveva deciso di fermarsi ancora sul pianeta, invece di tornare su Lakshmi assieme agli altri. Peccato solo che il risultato fosse un bidone, preso e portato a casa. Tre anni inchiodato lì, a lavorare di giorno con idioti come Joe e uscire ogni tanto di sera assieme a piaghe eterne come Steve. Proprio un grande successo. Proprio un grande futuro.
Che il futuro non promettesse alcunché di buono lo pensava in quel periodo anche Erika Freire, con un occhio ancora bendato e l’ultima sorpresa che le avevano riservato gli pseudotafani a cui pareva condannata a dover dedicare chissà quanto altro tempo. Dopo quel simpaticissimo esemplare che le aveva punto un occhio, aveva identificato una terza specie, che almeno in apparenza faceva parte sempre della stessa famiglia: una specie che in un periodo assai breve sembrava avviata a diventare molto comune nell’area della base militare. E lei non ne capiva il motivo.
Esistevano gli pseudotafani di base, a cui lavorava ormai da più mesi di quanti ne volesse ricordare. Esisteva una seconda specie, con una sola proboscide sulla testa ma un simpaticissimo pungiglione sull’addome: specie molto aggressiva, come aveva dimostrato l’esemplare che le era volato dritto in un occhio mentre lei cercava di osservarlo meglio e l’aveva punta. Colpa sua, d’accordo: non aveva rispettato le norme di sicurezza e adesso avrebbe potuto recitare da pirata. Ciò non era servito però a migliorare il suo umore, né il suo amore per quel particolare tipo di insetti. Infine, ecco una terza specie, che era più piccola dello pseudotafano di base, aveva una sola proboscide e sembrava ancora essere piuttosto rara. Peccato che sembrasse anche possedere un qualche tipo di veleno che, sebbene non letale o apparentemente dannoso, rendeva le sue punture molto dolorose.
Erika si massaggiò una lieve protuberanza sull’avambraccio sinistro. Decisamente molto dolorose, sì. Aveva scoperto il primo esemplare proprio perché se l’era ritrovato sul braccio mentre usciva dal suo ufficio assieme a Carla, o il sergente Hedges che dire si voglia, e lo aveva catturato senza danni. All’insetto, almeno. I danni li aveva avuti lei, sotto forma di allegra puntura. Dolorosa puntura. Una visita all’ospedale aveva determinato che non era nulla di grave, ma durante la notte trascorsa sotto osservazione la puntura le aveva fatto un male cane e anche adesso continuava a prudere e pulsare, di tanto in tanto. Ma non era nulla di grave o pericoloso, dicevano. Erika sperava che quell’insetto (o anche un parente) pungesse il medico che l’aveva visitata, così il tizio avrebbe potuto verificare in prima persona se fosse davvero innocuo. Che lo pungesse mentre era in bagno, magari.
Adesso l’esemplare ronzava tranquillo in una teca e sembrava perso in conversazione coi vicini, che erano pseudotafani di base. Quanto lo avrebbe voluto scaricare a qualcun altro! Ma in apparenza e soprattutto contro la propria volontà era stata nominata esperta ufficiale di quella famiglia di insetti, così toccava a lei tutta quella immondizia. Il fatto che quella immondizia manifestasse uno spiccato amore per pungere tutto ciò che passava a tiro non serviva a migliorarle l’umore. Che cosa avrebbe dato per essere di nuovo in città, a lavorare con gli scarafaggi anfibi! Senza lo specializzando che si era trovata tra i piedi durante l’ultimo periodo, beninteso. Di quel tizio sentiva la mancanza quanto di un grosso calcolo renale subito dopo l’espulsione.
Erika guardò con un vago disprezzo i riconoscimenti che le avevano rifilato di recente. Premi per il lavoro che stava conducendo, meritata ricompensa per la dedizione alla causa, incentivi a procedere lungo la strada della conoscenza: così li avevano descritti e presentati. Cianfrusaglie da appiccicare prima o dopo il nome sarebbe stata una definizione più accurata. Avrebbero fatto meglio a fornirle una tuta protettiva, invece di titolini e titoletti: sarebbe stata molto più utile.
Ma la tuta non l’aveva ricevuta e gli insetti erano sempre lì, a fissare e pungere. Ancora non aveva potuto esaminare a fondo la nuova varietà, ma una prima differenza non era difficile da riconoscere, soprattutto perché era nel comportamento ed era parecchio chiara: la terza variante di pseudotafani era schifosamente aggressiva. Come se fosse fatta apposta per attaccare. Non che lo fosse davvero, ovvio, perché nessuna forma di vita è fatta “per qualcosa”, a parte sopravvivere e moltiplicarsi, ma quei maledetti sgorbi riuscivano benissimo a darti l’impressione che fossero solo piccole macchine da guerra. Era snervante averli attorno, ancora più dei loro “cugini” che ti fissavano sempre.
Ma un insetto molesto lo si poteva anche sopportare, specie finché restava chiuso sotto una teca. Era il capitano Nash a essere molto, molto meno sopportabile di recente. Aveva cominciato pochi giorni prima che la conferenza di quel planetologo svarghiano fosse trasferita nel palazzetto della base. Era la data in cui Erika Freire doveva presentare il rapporto periodico sull’andamento dei suoi studi e lo aveva presentato, tutto tranquillo, tutto bene. Era anche stato un rapporto più interessante del solito, perché conteneva anche le note sulla terza variante di pseudotafani che aveva identificato da poco.
Al capitano Nash quei nuovi pseudotafani erano piaciuti molto. Gli erano piaciuti anche troppo, per dire la verità. Aveva fatto domande, tante domande, su come fossero fatti, come funzionassero, cosa facessero, dove fossero maggiormente concentrati, e questo e quello, eccetera eccetera. Aveva anche ordinato aggiornamenti costanti e regolari sull’andamento del loro studio, come fossero chissà cosa. Ma erano mosconi dal pessimo carattere, nulla di più. O così aveva pensato Erika a quel tempo. Un ordine era un ordine, in ogni caso, e all’ordine aveva obbedito, inviando quasi ogni giorno tutto ciò che scopriva, o credeva di scoprire, sul conto di quegli insetti. Anche Carla trovato un poco strana la nuova ossessione per gli pseudotafani, ma l’aveva liquidata con una scrollata di spalle.
«Più segni hanno sulle spalle e più cose strane fanno,» aveva commentato. «Non badarci troppo, è il modo in cui funziona da queste parti. Obbedisci agli ordini e tanti saluti: se qualcosa andrà male, la colpa sarà sempre di quelli ai piani di sopra, che gli ordini li hanno dati.»
Consiglio accettabile, in linea di massima, ma tutto si era fatto strano e un poco sospetto dopo avere inoltrato al capitano Nash la zona della base in cui la nuova variante di insetti sembrava concentrata al momento. Era la zona attorno al palazzetto dello sport, che era moderatamente verde ma meno di quanto lo fossero le aree preferite dalle altre varietà. Poteva significare un cambiamento in corso nel modo in cui si rapportavano al pianeta quegli insetti, cambiamento forse indotto dalla presenza più e più intensa dell’uomo in quella regione, unita alle modifiche ambientali che comportava. Nash non era sembrato molto interessato alle considerazioni socioentomologiche, ma aveva apprezzato molto il dettaglio sulle aree preferite dagli insetti. «Ci tornerà utile,» aveva risposto.
Non aveva aggiunto altro, al momento, ma la notizia del trasferimento della conferenza era parsa a Erika Freire tutta la risposta che serviva, e magari anche un poco di più. C’era una nuova specie di insetti molto aggressiva, che sembrava preferire la zona attorno al palazzetto. Subito dopo averlo saputo, qualcuno aveva deciso di spostare nel palazzetto la conferenza del planetologo svarghiano. Erika non sapeva ancora se considerarlo un dispetto, oppure un attentato.
«Sarà il solito dispetto di Leonardi,» aveva detto Carla, mentre bevevano assieme in un locale della base. «Ha accettato gli svarghiani, ma li rispedirà a casa coperti di punture, o qualcosa del genere. È una cosa un poco stupida, quasi da bambini, ma non sorprende nessuno da queste parti. Immagino anzi che il comando della base si sarà fatto una risata.»
«Non mi sembra uno scherzo molto intelligente,» aveva risposto Erika. «Quelle punture sono molto fastidiose, te lo assicuro, e ancora non sembra sia chiaro cosa ti iniettino di preciso.» E la mano era corsa a sfiorare la benda che portava ancora sull’occhio, regalo della seconda variante di insetti, per pi scendere al bitorzolo che aveva sull’avambraccio, regalo della terza variante. Insetti amabili.
«Nessuno ha parlato di scherzo intelligente. Sono alti ufficiali, loro. L’intelligenza non è proprio un requisito necessario per arrivare a quelle posizioni, per quanto ho potuto vedere io.»
Erika aveva lasciato cadere il discorso. Alla conferenza non c’erano stati incidenti, per quanto aveva sentito lei, e forse si era davvero trattato solo di una specie di scherzo, per quanto stupido e malsano potesse apparire. Non erano affari suoi, dopotutto, e non valeva la pena di pensarci. Non ci pensò e continuò a non pensarci fino alla sera in cui l’avambraccio le esplose.
Non letteralmente, beninteso, anche se il dolore suggeriva che glielo avessero strappato e adesso lo stessero usando per prenderla a pugni. Accadde mentre si trovava nel suo alloggio alla base, finito il solito giorno noioso di lavoro in mezzo agli insetti e una mezza idea di uscire a bere qualcosa. Una distrazione le serviva, dopo ore circondata da incubi ronzanti e nessuna voce umana a parlarle. Era un genere di vita che tirava scemi, alla lunga, ed Erika preferiva evitare. Tese il braccio a contattare Carla, che certo non avrebbe avuto nulla in contrario, ma non la contattò. Non pensò neanche più a insetti, assenza di umani e lavori che ti tirano scema.
Il dolore esplose nell’avambraccio e le cancellò ogni traccia di pensiero con una marea bianca, che pareva fuoco. Era accasciata a terra ancora prima di avere coscienza di essere, e rimase accasciata a terra per un tempo soggettivamente infinito, in cui due o tre universi potevano essere nati e cresciuti per poi spegnersi nel trionfo dell’entropia. Oggettivamente, trascorsero forse alcuni minuti, prima che la marea di dolore si ritirasse a sufficienza da restituirle una parvenza di consapevolezza di sé e del mondo che la circondava. Non fu una bella consapevolezza. C’era qualcosa che non andava nel suo braccio, qualcosa di estremamente doloroso. Cosa?
Aprire gli occhi e guardare le richiese più coraggio di quanto si sarebbe aspettata. Abbassare poi lo sguardo verso l’avambraccio dolorante la costrinsero ad accendere un mutuo molto, molto oneroso alla locale banca del coraggio. Lo fece, ma non ne fu premiata. Il bitorzolo lasciato dalla puntura di quel maledetto pseudotafano si era gonfiato e arrossato, ancora più di prima. Anzi, non arrossato: il suo colorito era violaceo e non prometteva niente di buono. Non che quello fosse il vero problema. Il vero problema era che qualcosa si muoveva, come se le avessero impiantato un curioso formicaio sottocutaneo. Fu anche l’ultima cosa che notò, prima di perdere conoscenza.
Si risvegliò in quello che le sembrava un letto di ospedale, senza idea di come ci fosse arrivata o di quanto tempo fosse trascorso. Aveva anche solo una vaga idea della propria identità, in effetti, ma al momento non le appariva un grande problema. Aveva la testa leggera, come se l’avessero riempita di elio. Non era una brutta sensazione, paragonata a molte altre. Era... curioso, sì. Curioso. Ma forse era anche meglio dormirci sopra. Chiuse gli occhi e si addormentò quasi subito.
In un’altra stanza dello stesso edificio il capitano Nash la osservava su uno schermo. Accanto a lui si trovava il generale Petkovic, faccia tirata e stanca, tracce di insonnia attorno agli occhi. Aveva già contattato Leonardi e prima o poi gli sarebbe arrivata una risposta. Non l’attendeva impaziente. Era possibile che gli sarebbe toccato un altro viaggio là sotto e quello lo voleva proprio evitare, se solo gli era possibile. Ma non era previsto che attaccassero anche loro, almeno secondo quanto gli aveva detto Leonardi, eppure avevano attaccato. E dunque? Poteva essere un errore, un piccolo incidente trascurabile. Petkovic lo sperò con forza.
Il capitano Reginald Nash continuava a fissare lo schermo, come incantato. E pensava. Pensava alla sua famiglia, nell’abitazione che occupava nella base. Pensava che, forse, era arrivato il momento giusto per chiedere un trasferimento altrove. Ovunque, purché fosse via, lontano da Madre.
Un trasferimento per motivi di salute. Futura.