La galassia di Madre - 116
I giorni che seguirono l’inaspettato collasso del professor Chen non furono tranquilli. Una fobia di qualcosa non chiaro, e per questo ancora più preoccupante e spaventoso, attraversò la fondazione e i suoi occupanti vissero indimenticabili ore di sospetto, vago panico e ancora più vaga paranoia. Cosa aveva colpito Chen? Una malattia? La stessa che aveva ucciso Muzafar Chang? Era contagiosa? Ma certo che lo era, se aveva colpito prima uno e poi l’altro! E dire che lo avevano appena dimesso. Ma no, non dimesso, era uscito dalla quarantena, e proprio un bel lavoro che hanno fatto! E adesso? Ce la prenderemo anche noi? E moriremo? E quando?
Voci e domande si rincorrevano in corridoi mai così spettrali e spopolati. Se lavoro c’era, sembrava per il momento dimenticato tra parentesi e nessuno ne parlava. O quasi. Probabilmente erano molti a continuare come se niente fosse e disinteressarsi del resto, ma erano silenziosi, chiusi in stanze e laboratori, davanti a schermi o simulazioni. Non avevano effetto sull’atmosfera del posto, che non era buona e sembrava peggiorare ogni giorno.
Chen lo avevano portato via. Era ricoverato nel reparto speciale di una clinica privata giù in città, o così si diceva, ma lo diceva il professor Gao Zhisheng, primo assistente di Chen, e quindi era vero, o quanto di più vicino alla verità avrebbero mai sentito. Gao si occupava della fondazione, adesso, e cercava di mantenere l’ordine e placare le fantasie più fantasiose, ma era un lavoraccio e non aveva il carisma di Chen, né la sua autorità. Era un capo provvisorio, ma il corpo se n’era andato altrove e non sembrava disposto a ritornare. Non finché mancava Chen, almeno.
Anna Lindtner osservava tutto quanto col vago distacco di chi conosceva il caro estinto, sì, ma non è che avessero poi tutto questo gran rapporto e in fondo lo trovava pure un poco antipatico. Non che Chen fosse morto, non ancora, ma dal clima nelle stanze della fondazione si poteva quasi credere di sì, che fosse non solo morto, ma sepolto, cremato o qualsiasi altra cosa facessero su Svarga ai morti. Anna non lo sapeva, né si era mai interessata, e non riteneva che fosse il momento migliore per fare domande. Potevano sospettarla di essere untrice o di aver causato la malattia del caro leader.
Come se qualcuno non lo sospettasse già. Notava le occhiate che le arrivavano, in mensa e altrove, e non le piacevano. Erano occhiate sospettose. Da caccia alle streghe. Occhiate che ti prendevano non solo le misure, ma parevano valutare anche il legno per la cassa. No, non era un buon momento per essere terrestri su Svarga, o almeno dentro la sede della fondazione. Che fosse questo il vero motivo del famoso anatema di Leonardi? Richiamarli tutti all’ovile, per poi giocare sporco con Svarga?
«È solo il primo momento, poi passerà,» diceva David Loukides, altro bersaglio delle occhiate più inquisitorie. «Aspetta che Chen esca dall’ospedale e alla paranoia non ci penseranno più.»
«Se uscirà dall’ospedale.»
«Ma certo che uscirà. Figurati se muore così, quello. È come Leonardi, lui.»
Ma David sorrideva poco e scherzava anche meno. Sempre più spesso si chiudeva in stanza e non si vedeva per ore, né si faceva sentire. Anna lo poteva capire. Decenni a vivere come una pianta grassa ai margini della galassia, ignorato da tutti e ignorando tutti: la sua sola ambizione era proseguire la sua vita tranquilla fino alla fine dei suoi giorni. Aveva creduto di poterlo fare su Svarga, dove si era trovato una nicchia comoda e confortevole. Adesso sospettava di essersi sbagliato, che obbedire alla chiamata di Leonardi sarebbe forse stata la scelta migliore. Adesso era tardi.
Fazel Chegeni non era più allegro. Il suo progetto di ricerca non solo non riceveva più fondi, ma era stato sospeso e rinviato a data da destinarsi, dopo il collasso di Chen. Non proprio un licenziamento o una cacciata, beninteso, ma qualcosa di simile a sufficienza da poterne fare le veci, almeno ai suoi occhi. Averlo attorno ti trasmetteva tutta la gioia di una latrina dagli scarichi intasati.
«Ma sai cosa significa questo, eh? Lo sai cosa significa? Significa che sono finito, io! Non importa come andrà a finire, io sono già finito. Non sono tornato all’Ufficio perché mi avevano assicurato il posto qui, mi avevano assicurato che le mie ricerche avrebbero avuto la priorità, perché erano molto importanti, ne riconoscevano l’importanza, lo hai sentito anche tu, no? E adesso? Adesso mi buttano via, mi buttano in un angolo, e io non ho fatto niente, non c’entro niente! Ma ti pare?»
Ad Anna pareva che sarebbe stato bello essere da qualche altra parte, qualunque altra parte, meglio se lontana qualche anno luce. Di nuovo su Rudra, per esempio, dove aveva studiato all’università. Il posto in cui aveva vissuto non era proprio il massimo, parecchio noioso e quadrato, predominio di colori grigi e clima fin troppo umido in estate, ma a confronto di come era diventata la fondazione, le appariva un paradiso perduto, un riflesso nostalgico e fiabesco di mondi migliori, smarriti nel tempo e nella crescita. Fantasticheria da digestione in corso, si potrebbe dire, ma ogni fantasticheria pareva più affascinante del presente.
Il secondo giorno dopo il collasso di Chen aveva pensato di recarsi all’ambasciata terrestre a Guan Yu, non perché avesse davvero qualcosa da dire o da chiedere, ma solo così, per informarsi e sapere come regolarsi, nel caso che. Non l’avevano lasciata uscire. Era sotto stretta sorveglianza, il palazzo della fondazione, e lo sarebbe rimasto fino a data da destinarsi. Per sicurezza, naturalmente, anche se nessuno aveva specificato la sicurezza di chi. Sicurezza generica e generale, probabilmente. Una squadra del ministero della sanità era arrivata dopo qualche ora e aveva esaminato a uno a uno tutti gli occupanti della struttura, fossero ricercatori, professori o semplice personale di appoggio. C’era la possibilità di contagi, avevano spiegato. La possibilità di epidemie, anche.
Ma la possibilità sembrava rimasta possibilità, senza trasformarsi in realtà. Tutti negativi, nessuno che mostrasse problemi di salute o altro. Se epidemia c’era, non ne erano stati colpiti. Non ancora e non in modo osservabile, quantomeno. I tizi del ministero della sanità erano sembrati delusi, ma non si erano arresi: sarebbero tornati tra qualche giorno, per una nuova serie di esami, e nel frattempo la struttura sarebbe rimasta isolata, giusto per precauzione. Ci scusiamo per il disagio.
Non potendo andare di persona, Anna aveva contattato l’ambasciata, ma Einarsson non aveva detto molto. Anzi, non aveva detto proprio niente. Dai suoi modi e dalle sue parole sembrava pensare che le comunicazioni fossero sorvegliate (che scoperta! Erano sempre e comunque sorvegliate, di questi tempi) e non voleva sbilanciarsi troppo. Ammesso che ci fosse qualcosa da sbilanciarsi. Anna aveva il sospetto che ci fosse, ma la conversazione non le aveva chiarito le idee.
Ancora non si vedevano gli altri membri della spedizione su Madre. Erano stati messi in quarantena assieme a Chen, dopo il ritorno, e in teoria sarebbero dovuti già essere stati rilasciati, ma nessuno li aveva visti, né se ne sapeva qualcosa. Probabilmente li avevano trattenuti sotto osservazione, dopo il collasso di Chen. Era sensato, comprensibile. Era la spiegazione ufficiale (ufficiosa?) fornita da Gao, quando qualcuno chiedeva notizie. Accadeva sempre più spesso. Persone preoccupate, persone che volevano sapere che fine avessero fatto colleghi, amici, conoscenti. Gao spiegava che sì, forse il rilascio del professor Chen era stato prematuro, per cui con gli altri interessati sarebbero state prese maggiori precauzioni (rigoroso passivo deresponsabilizzante). Ma stavano bene, senza dubbio. Era questione di tempo. E, per inciso, anche il professor Chen stava bene, adesso, ma era meglio che per un poco di tempo rimanesse a riposare in una clinica. Cominciava ad avere una certa età, dopotutto, e gli strapazzi, le responsabilità, le fatiche, questo e quello. Era solo naturale.
«Speriamo solo che non schiatti, o noi dovremo cambiare aria in fretta,» commentò David. «Se ce ne lasceranno il tempo, beninteso. Non ne sarei così sicuro.»
La gioviale placidità dei primi tempi era svaporata del tutto. Sembrava anche più vecchio dei suoi settanta e qualcosa anni. L’atmosfera alla fondazione cominciava a rodere anche lui, come già stava accadendo agli altri due terrestri. Ormai si faceva vedere solo per i pasti e anche in quelle occasioni non è che mangiasse poi molto. Da un certo punto di vista, ad Anna non dispiaceva, perché non era poi così simpatico, specie se lo dovevi sopportare a lungo. Le dispiacevano molto i motivi, gli stessi che consumavano anche la sua permanenza alla fondazione. E che le facevano pensare che forse, in fondo in fondo, il suggerimento di cambiare aria non era poi così sbagliato.
Non che avrebbero potuto cambiare aria, anche volendo. La fondazione non era sotto sorveglianza militare, per carità! Niente del genere. Non era neppure in quarantena, che sciocchezze! Solo, non ti lasciavano uscire, gli ingressi erano controllati, tizi del ministero tornavano regolarmente per nuovi e sempre inutili esami e insomma mancava giusto il filo spinato, ma l’idea era quella. In fondo, te lo avevano già messo nella testa, il filo spinato; circondare anche il tuo corpo era superfluo.
E Anna se lo sentiva nella testa, a chiudere e stringere. Un filo spinato di sospetti, di sfiducia e voci, di controlli reciproci, io sorveglio te e tu sorvegli me, ma facciamo finta di niente, facciamo finta di essere amici, facciamo finta che io non stia pensato che tu sia un maledetto untore schifoso, uno che è venuto qui a infettarci e distruggerci. E, fra parentesi, tutto bene a casa? Novità dalla Terra? Ma è proprio un bel pianeta, davvero! Ci andrei volentieri. Per farlo esplodere. Magari assieme a Madre, la sua cara colonia, il covo di pestilenze e chissà quali altre armi illegali.
In giardino si stava un poco meglio, ma neppure lì trovavi pace. Gli insetti erano agitati, aveva detto Einarsson, e gli insetti erano agitati davvero. O lo sembravano agli occhi di un umano. Nessuno dei loro gesti rientrava in uno degli schemi comportamentali che gli exologi specialisti di entomologia avevano messo a punto nel corso di decenni. Servivano nuovi schemi, oppure bisognava gettare via tutto e ricominciare da capo, perché erano sbagliate le premesse su cui avevano lavorato fino a quel momento. Siccome la seconda opzione richiedeva troppo lavoro e un profondo ripensamento di quel campo di studi, quasi tutti preferirono adottare la prima.
Un pomeriggio Anna osservava uno sciame di libellule, o cose simili a libellule, la stessa specie che aveva aggredito Bogdan in quella che sembrava un’epoca lontana mille rinascite. Prima volavano raggruppate come moscerini, poi si disperdevano, sembravano formare curiose figure geometriche in aria, quindi si raggruppavano di nuovo, ma un poco più in là. Lo facevano spesso. Nei sempre più numerosi tempi morti aveva svolto qualche ricerca per scoprire cosa potesse significare: autorevoli fonti, con citazioni abbondanti, sostenevano che quel comportamento indicava una minaccia al nido se le figure geometriche avevano un numero pari di angoli, mentre era una richiesta di cibo in caso di figure con angoli dispari. Interessante.
Le libellule che vedeva quel pomeriggio tendevano a formare sfere, geoidi e roba simile. Non per la prima volta, Anna pensò che i tentativi di capire cosa avesse in testa una specie del tutto diversa non erano altro che una forma moderna e seriosa di divinazione tramite tarocchi e sfere di cristallo. Una posizione forse ingiusta e parziale, ma una che in quel preciso momento si sentiva di abbracciare e difendere. Tutte scemenze, ma almeno potevi rilassare gli occhi guardando quelle acrobazie. Erano riposanti, anche un poco artistiche. Le inducevano anche una strana voglia di gelato al limone, ma questo era quasi sicuramente una sorta di peto mentale.
Tutto si fece molto più serio una volta rientrata. Edizioni speciali dei notiziari latravano più o meno da ogni angolo e da molti spigoli, gruppetti di persone a seguirli a bocca aperta, altri a commentare alla maniera di clienti di un barbiere. Era successo qualcosa a Yi-Wu, dicevano. Anna ci mise un po’ a capire, soprattutto perché non ricordava cosa fosse Yi-Wu, poi dedusse dal notiziario che era una città ai piedi dell’ascensore spaziale, la stessa in cui era scesa tanto tempo prima assieme a Bogdan ed Einarsson. Che poi non era stato davvero così tanto tempo prima, forse un paio di anni a seconda di che unità di misura usavi per calcolarli, ma sembrava di più, sembrava una eternità adesso che le cose avevano cominciato ad andare male, ma male davvero.
Insetti. Due diverse specie di insetti si erano in apparenza alleate per aggredire un gruppo di umani. Li avevano uccisi. Quanti? Un notiziario sosteneva che i morti fossero dieci, un altro parlava invece di venti, più altri cinque feriti gravi, un altro ancora optava per una aurea mediocritas e raccontava di quindici morti e due feriti gravi, forse moribondi. Fosse come fosse, era un evento. Non positivo, ma evento lo stesso. Si spulciavano precedenti, si analizzavano le cause e le circostanze, le possibili antipatie di quegli umani nei confronti delle due specie di insetti, motivi e pretesti, su e giù. Nessun fatto, nessuna certezza, ma mille e ancora mille ipotesi e illazioni.
«Ma è davvero così grave?» chiese a una vicina, una donna dai capelli lunghi e neri e una faccia da furetto. La donna la guardò male e non rispose, allontanandosi un poco. Poi la guardò peggio e da una distanza maggiore. Anna scosse la testa e sospirò.
«Fanno così tutti e non ci capisco niente,» disse Fazel a cena, quando lei gli raccontò l’episodio. «È come se fossimo appestati. Che d’accordo, sì, capisco, è quello che alcuni pensano, ma...» Strinse le spalle e mescolò un poco il cibo nel piatto, senza entusiasmo.
«E questa storia degli insetti che aggrediscono la gente? Sempre colpa nostra?»
«Potrebbe anche essere,» borbottò David. «Se pensi a dove è successo...»
«Che sarebbe ai piedi dell’ascensore, no?»
David la fissò per un momento, poi tornò a fissare il piatto. «Che sarebbe ai piedi dell’ascensore, sì. L’ascensore, sai. Dove c’è la stazione. Dove è morto Chang.»
Anna sbuffò. «Mica l’abbiamo ucciso noi!»
«No, non noi. Una malattia che ha contratto su Madre. Sulla colonia della Terra. Con cui ha in corso una causa. La colonia che ha accettato di farlo entrare dopo averglielo negato all’inizio. Che cosa ti suggerisce, se entri nel corretto stato mentale di paranoia?»
«Che l’hanno fatto entrare per contagiarlo e infettare tutto Svarga, d’accordo, ma non capisco...»
«Gli insetti?» David scrollò le spalle. «Diranno che gli umani erano stati infettati e gli insetti hanno agito per autodifesa, per arginare l’epidemia, qualcosa del genere. Non ha senso ed è una storia che ha più buchi di un colapasta, ma suona convincente, se non ci pensi troppo, ed è perfetta per il clima di paranoia che va tanto di moda oggi. Spiega tutto senza spiegare un tubo.»
Anna esitò. «Pensi davvero che c’entri qualcosa la malattia? Perché anche qui gli insetti sembrano strani e, beh, Chen è stato male non molti giorni fa, per cui...»
«Secondo me non c’entra niente, ma chi lo sa. Nessuno sa davvero come funzionino gli insetti del posto, anche se molti sono convinti di sì. Si sa che comunicano, ma non si sa come comunichino. Si sospetta che abbiano una qualche forma di società e magari anche un abbozzo di civiltà, ma nessuno sa come dovrebbero funzionare, se esistono davvero. Tira dentro gli insetti e ti puoi inventare più o meno di tutto e suonare scientifico. È così che funziona, qui.»
«Non sono gli insetti il problema,» intervenne Fazel. «Sono gli abitanti, che trattano noi da insetti. E lo vedete come ci guardano anche qui dentro, in mensa? Neanche ce ne andassimo in giro col sacco dei germi in spalla! Non so voi, ma quel tizio all’ambasciata aveva detto che l’ambasciata avrebbe sempre appoggiato e difeso i terrestri, qualunque scelta avessero fatto. Beh, io non lo vedo mica. Ci siamo fermati, la fondazione ci ha promesso di tutto e adesso ci trattano da appestati. Non è così che eravamo d’accordo. Perché l’ambasciata non fa niente?»
David lo guardò. «E cosa dovrebbe fare? Siamo bloccati qui, adesso. È tutto chiuso, per questioni di salute pubblica o quello che si sono inventati per giustificarlo. E ha senso. È una scusa valida. Se le cose non cambiano, chi è fuori non può fare niente. Protestare, certo, appellarsi qui e là, e chiedere questo e quello, e magari lo stanno anche facendo, per quel che ne sappiamo...»
Anna scosse la testa. «Non mi pare lo stiano facendo.»
«Uguale. Il punto è che di fatto, in concreto non faranno nulla, perché non possono farci nulla, fino a che resta il blocco e il pericolo di contaminazione. Sono rigide quelle regole, lo sapete anche voi. Devono essere rigidi, gli accordi per la tutela degli ecosistemi. Guardate anche solo le storie che ci siamo inventati noi qualche anno fa: qualche mosca morta su Madre e giù con un blocco totale degli accessi da Lakshmi. Coi problemi che il nostro governo ha con Svarga, immaginatevi pure cosa si inventeranno. Noi ci siamo finiti in mezzo ed è peggio per noi, punto.»
Fazel Chegeni si esibì in un perfetto muso lungo da bambino offeso. «Facevi molto più lo spiritoso qualche giorno fa, a ridere e divertirti con le battutine.»
David Loukides sospirò. «Qualche giorno fa, già. Prima che Chen collassasse. Era molto meno serio allora, anche se un morto c’era scappato. Adesso... Adesso c’è poco da ridere. Sono troppo vecchio per queste storie. Credevo di aver trovato il mio angolino tranquillo per farmi dimenticare da tutto e tutti e pensare solo ai fatti miei per il tempo che mi resta. E guarda come è andata a finire.» Allargò le braccia. «Guarda! A saperlo prima, me ne tornavo all’Ufficio e tanti saluti.»
«A saperlo prima, penso che tutti ce ne saremmo tornati all’Ufficio,» disse Anna.
Fazel storse la bocca. «Pure tu col tuo amico svarghiano?»
«Pure io senza il mio amico svarghiano, che adesso non è più così amico, ma in cambio è diventato molto, molto più svarghiano. E io sono diventata molto più terrestre ed essere terrestri non è così di moda in questo posto e in questo periodo. I casi della vita, eh? Comunque sì, a saperlo me ne sarei tornata indietro. Me ne tornerei indietro, potendolo fare.»
David la guardò. «Come avevano suggerito in ambasciata qualche tempo fa, eh?»
«Come avevano suggerito in ambasciata poco tempo fa, già. Non un brutto suggerimento, col senno di poi. Il famoso senno di poi, utile come una sega di burro.»
In mensa l’atmosfera era pesante. Molti continuavano a parlare dell’incidente a Yi-Wu, altri di come ancora non ci fossero notizie certe e ufficiali sulla salute del professor Chen, altri ancora pensavano ai colleghi trattenuti e mai tornati, in quarantena chissà dove. E tutto a causa di quella conferenza su Madre. Quella stupida, stupidissima conferenza su Madre. La fissa di Chen, che la voleva come una prova di forza nei confronti di Leonardi e il suo Ufficio per la Colonizzazione. «Andiamocene a dar lezioni in casa loro,» diceva. «Andiamo a dimostrare chi siamo e cosa sappiamo fare. Vedremo poi quanto durerà la loro causa. Nessuno li ascolta, ormai. Attaccati alla loro difesa dei confini, come se ci fossero e contassero davvero qualcosa, al giorno d’oggi. Ma siamo noi il nuovo!» E così via, più e più lontano dalla questione iniziale, che era una conferenza accademica (e spettacolarizzata, vero, ma alla base sempre accademica) da svolgersi su Madre.
«Che poi, diciamolo pure, non è stato neanche un granché di conferenza,» commentava un tizio con la barba e un cespuglio di capelli crespi. «Scarso l’equipaggiamento, scarsa la spiegazione di Chang e scarso il posto, davvero. Un palazzetto dello sport pieno di militari e operai da cantiere, dai là! Ma ti pare una bella roba per l’ultima conferenza di Chang? Con quello che valeva lui, poi...»
Ai suoi compagni di tavolo forse pareva o forse no, ma si espressero solo con cenni del capo e altri gesti poco impegnativi, che suggerivano un vago consenso, almeno in via del tutto provvisoria. A un tavolo non lontano, una donna ben vestita e mal pettinata pontificava sulle minacce di epidemie e di contaminazioni irreversibili in epoca di viaggi interstellari e di come i governi non si impegnassero abbastanza per prevenirli. «Perché non vogliono perdere i soldi dei commerci liberi,» spiegava. «E i nuovi trattati pensano solo a questo. Potere alle grandi imprese e che ne facciano quel che vogliono, alla faccia delle leggi dei pianeti e di chi ci abita. E poi guardate come va a finire, eh? Guardate!»
A un tavolo di angolo non si guardava molto, ma si discuteva degli insetti e del loro tentativo di dire qualcosa. «Non è un’aggressione vera e propria, vedete,» spiegava un uomo di mezza età, baffuto e senza capelli. «Lo sembra, ma non lo è. Vogliono avvertirci, capite? Hanno fiutato che qualcosa non va sul pianeta e adesso cercano di dircelo. Hanno scelto un modo poco chiaro, d’accordo, ma come possiamo noi sapere come funzioni la loro mente? Magari per loro è normale. Per quanto sappiamo, aggredirsi potrebbe essere il solo mezzo di comunicazione che quelle specie conoscono. E poi, che lo si dica una volta per tutte: meglio qualche morto oggi che un massacro domani. Che è quello che capiterà, se non agiamo subito. E lo sapete anche voi come bisogna agire, no?»
Anna Lindtner non lo sapeva, ma si stava facendo una idea abbastanza precisa e spiacevole. Non era la sola. Anche David e Fazel si guardavano attorno nervosi, seguendo frammenti di conversazioni e macinando il tutto in un polpettone di disagio. Brutti tempi, davvero. E minacciavano di peggiorare.
Ma non avvenne, non subito. Ci fu anzi una breve pausa, in cui il clima migliorò e i nuvoloni che si erano mantenuti sospesi sopra la fondazione si allontanarono un poco, ma mantenendosi a portata di orecchio. Fu quando il professor Chen rientrò, non proprio in forma ma dichiarato sano dal primario o chiunque altro se ne occupasse alla clinica. Il ricovero rimase molto vago e nessuno si sentì di fare troppe domande. C’era il rischio (basso, ma non nullo) di ricevere risposte. Potevano rovinare tutto il tuo divertimento, le risposte, se erano del tipo sbagliato.
Ricordava vagamente un blocco di formaggio masticato e rigurgitato, Chen. Pallido e in apparenza non molto saldo sulle gambe, lo accompagnarono due infermieri fino all’ingresso della fondazione, dove lo consegnarono a Gao, il suo primo assistente. Non che ci fosse solo lui ad accoglierlo. Tutto il personale più anziano della fondazione era lì, serio serio e un poco costipato; tutti a benedire tra i sorrisi e i complimenti il ritorno del grande capo, fondatore e cuore della struttura. Chen li salutò e li benedisse con una gestualità pontificia, poi chiese di essere accompagnato nel suo studio. Non ne uscì fino all’ora di cena, per un poco in compagnia di Gao, ma più che altro da solo.
Poteva essere un lieto fine, ma non lo fu. La sorveglianza attorno alla fondazione era sì allentata, ma non dispersa. Il ministero della salute non era più una presenza fissa e costante, ma ancora lo sentivi sul collo. La vaga antipatia verso gli ultimi tre terrestri si ridusse un poco, ma non svanì. Serviva un annuncio del professor Chen, secondo alcuni, ma secondo altri sarebbe stata una pessima idea. Non ricordavano come fosse andata a finire l’ultima volta? Volevano fare il bis? No, grazie.
Ma la sensazione generale era che non ci fossero più rischi di contagio, e forse era davvero così. La causa del malessere di Chen non era stata spiegata, ma alcuni ipotizzavano che non avesse niente a che fare con la malattia che aveva ucciso Muzafar Chang. Il ministero della salute non confermò né smentì, ma autorizzò caute escursioni a Guan Yu da parte del personale della fondazione, dopo una considerevole dose di test e sterilizzazioni. Alcuni accettarono, anche se poi dichiararono che non lo avrebbero rifatto. Erano molto, molto sgradevoli quelle sterilizzazioni.
Fra chi le accettò e scese in città per qualche ora ci fu Anna Lindtner. Non aveva voglia di visitare il posto, vedere gente o altro. Non aveva neppure voglia di fare acquisti o rilassarsi in qualche modo. Ciò che voleva era un incontro di persona con Einarsson e lo avrebbe avuto, a ogni costo. O quasi a ogni costo: c’erano prezzi che non era disposta a pagare, in nessun caso, ma l’idea era quella: visita all’ambasciata, colloquio personale col referente che conosceva, scambio di opinioni e magari pure un suggerimento su come filarsela da Svarga, prima che la situazione precipitasse. Perché di questo si sentiva sicura: la situazione sarebbe precipitata, prima o poi.
Non ci furono prezzi da pagare, se non un’ora circa di attesa in una saletta comoda come un letto di ghiaia, e la sterilizzazione fu effettivamente sgradevole come dicevano e forse anche un poco di più. Doveva solo augurarsi che ne fosse valsa la pena.
Hideki Einarsson la accolse nel suo ufficio con espressione seria, tendente al grave. Non proprio da lutto in famiglia, ma nelle vicinanze. Anna Lindtner non ne fu impressionata in positivo, ma non era una impressione che l’avrebbe fermata, né una espressione, anche se si dedicò a un giro preliminare di chiacchiere inutili e convenevoli assortiti, giusto per tastare il terreno e farsi una idea dello stato di cose all’esterno della fondazione. Non aveva avuto molte possibilità di verificarlo di persona, non negli ultimi tempi, e i notiziari contavano relativamente. Erano notiziari. Ma non era scesa in città a fare conversazione e non era il caso di tirarla troppo in lungo.
«Vogliamo andarcene da qui, se possibile. Io, Loukides e Chegeni. I tre rimasti, insomma.»
Einarsson congiunse le mani sopra la scrivania. «Cambiare aria. Come vi avevo suggerito io e come voi non avevate voluto fare. Cambiato idea, adesso?» Sorrise a mezza bocca.
«Cambiato idea, sì. Il clima non sembra più così salutare, da queste parti.»
«Non lo era neppure prima ma voi volevate rimanere. Oh beh, solo i morti non cambiano più idea. E dove vorreste andare, allora? Sapete che all’Ufficio non sareste proprio i benvenuti, dopo che vi siete rifiutati di obbedire al famoso anatema di Leonardi.»
«Penso che un posto qualunque andrebbe bene, ora come ora. A parte Varuna, forse. Potrebbe essere anche peggio di qui, quello.»
Einarsson sospirò. «Potrebbe, ma non lo è. Avete aspettato un po’ troppo, sapete? Sarà difficile che vi lascino uscire, adesso. Questioni di pubblica sicurezza, sanità, eccetera eccetera, non ultima una buona dose di dispetti interplanetari. Quelli ci sono sempre.»
«Sempre per la storia di Chang.»
«Chang e altro. Il governo di Svarga sospetta che la missione su Madre abbia portato una epidemia come ospite inatteso. Il focolaio sarebbe concentrato attorno all’area della fondazione, pare, e tutti i suoi occupanti sono da considerarsi persone sotto sorveglianza. Anche per il loro bene.»
«Perché Chang è stato ucciso mentre era su Madre.»
«Non è stato ucciso su Madre. Ha contratto una malattia mentre si trovava in visita sul pianeta ed è poi morto al ritorno su Svarga. Tutta un’altra cosa, non capisci?»
Anna annuì. «Perché ha portato la malattia qui su Svarga.»
Einarsson scosse leggermente le spalle. «Ammesso che ci sia una malattia.»
Anna lo fissò. «Già, potrebbe essere stata intossicazione alimentare.»
«Potrebbe anche. Nessun medico terrestre ha avuto occasione di esaminare né il malato, né i resti.»
«Questo è stupido. E Chen, allora? Intossicato pure lui?»
«Si è sentito male, è stato ricoverato da qualche parte, poi è stato dimesso. Mi risulta che sia ancora vivo, giusto? Lo ritengo un caso piuttosto diverso da quello del collega. Il fu collega.»
Anna chiuse gli occhi a raccogliere le idee e ripulirle dall’immondizia che le si stava accumulando a poco a poco dentro il cranio. «Che cosa avete combinato su Madre?»
«Non ne ho idea. Io non ci sono mai neppure stato, su Madre. Ma se vuoi una risposta, scegli quella che preferisci: la risposta diplomatica o la risposta personale.»
«Andiamo pure con la seconda, tanto...»
Einarsson accennò un sorriso. «Penso che abbiano trafficato con qualcosa che, troppo tardi, si sono accorti di non saper controllare completamente. Secondo la migliore tradizione umana, insomma. Il nostro ministero della Difesa ha suggerito di bloccare la nave di ritorno da Madre, ma il governo di Svarga non sembra averci ascoltato. Quello che è successo poi...» Scosse le spalle.
Anna lo guardò molto male. «Che cosa sarebbe, il test di qualche nuova arma?»
«Non credo. Dietro qualsiasi cosa sia successa, non c’è il ministero della Difesa. C’è l’Ufficio.»
«Non è molto rassicurante.»
«Non intendeva esserlo.»
Anna trattenne diverse frasi ed espressioni assortite che una parte del cervello le suggeriva. Non era il momento giusto e non sarebbe stato molto costruttivo, anche se forse poi si sarebbe sentita meglio e più rilassata. O forse no. Ma c’erano cose più importanti, prima. «Quindi cosa dovremmo fare noi adesso? Restarcene alla fondazione ad aspettare che i governi la smettano di fare a gara di sputi? Ti avverto che ci guardano e ci trattano tutti da untori, nel caso il problema ti fosse sfuggito. Non era il dovere dell’ambasciata tutelare e proteggere i cittadini terrestri? Avevi detto qualcosa del genere.»
«Lo avevo detto e lo posso ripetere, se necessario. Al momento, però, non abbiamo strumenti legali per farvi uscire dalla fondazione e trasferirvi su un altro pianeta.»
«E strumenti illegali?»
«Mettiamola così: se raggiungete l’ambasciata, il problema è risolto. È territorio terrestre e da qui non vi potranno prelevare, non senza dichiarare guerra alla Terra. E vi garantisco che nessuno di voi vale abbastanza da spingerli a prendere una decisione di questo tipo. Farvi abbandonare il pianeta, è vero, sarà tutto un altro discorso e dubito che ne avremo la possibilità, almeno a breve, ma intanto vi sarete liberati di un ambiente in cui non vi trovate più a vostro agio.»
«E all’ambasciata cosa faremo?»
Einarsson scrollò le spalle. «Potrete restare qui fino a che non si presenterà una occasione adatta per spedirvi via. Non il massimo della vita, lo riconosco, ma non sarebbe poi una sistemazione peggiore di quella che avete adesso. Comunque, la decisione è vostra.»
«E poi ci spedirete da qualche altra parte a spargere epidemie?»
Einarsson la fissò. «Non siete infetti e lo sapete bene. Non vi avrebbero mai lasciato entrare in città, se ci fossero rischi di infezioni. Non credo neppure che esista una malattia vera e propria o contagio in corso. Su Madre è probabilmente successo qualcosa di strano, ma spargere armi batteriologiche in giro per la galassia sarebbe stupido anche per il Signorsì medio dell’Ufficio.»
«E allora cosa sarebbe?»
«Non ne ho la più pallida idea, ma sospetto che i nostri insetti ne sappiano qualcosa. Non hai notato il loro comportamento, negli ultimi tempi? Anche gli attacchi agli umani nella città di Yi-Wu sono un avvenimento molto, molto anomalo, che suggerisce un malessere di entità maggiore.»
A quel punto Anna capì che la conversazione vera e propria era finita. Quando partiva con insetti e derivati, la mania che aveva scoperto su Svarga, ogni dialogo utile con Einarsson era morto. Ciò che dovevi fare a quel punto era salutare e fuggire alla massima velocità, se non volevi finire risucchiata in un gorgo di noia senza ritorno. Anna salutò e fuggì.
Il cielo era nuvoloso e la città relativamente tranquilla, almeno per quanto può esserlo la capitale amministrativa di un pianeta, ma lei neppure lo notò. Pensava all’incontro con Einarsson, a ciò che le aveva detto e ciò che non le aveva detto. L’ultima categoria era probabilmente la più ampia. Ma il punto era un altro. Il punto era che aveva suggerito a lei e agli altri di fuggire con una qualche scusa dalla fondazione e rifugiarsi in ambasciata, “da dove prima o poi sarebbero stati spediti altrove”. Un prima o poi non molto rassicurante, ma in effetti avrebbe risolto una piccola parte dei loro problemi. Creandone nel frattempo molti altri, ma succedeva sempre così ed era in pratica il modus operandi della vita stessa. Cosa ne avrebbero pensato gli altri due?
Ne pensarono che David Loukides era blandamente interessato, anche se sosteneva che alla sua età i tempi delle fughe di nascosto fossero ormai passati e trapassati. Fazel sarebbe anche stato disposto a procedere con la fuga, ma chiedeva certezze sul dopo e di certezze Einarsson non ne aveva date. Un periodo di lunghezza indefinita da trascorrere in ambasciata e poi... qualcosa. Non sembrava proprio un piano ben pensato, e in effetti non lo era, soprattutto perché non era un piano. Un suggerimento di massima, una indicazione generale: così l’avrebbe descritto Anna. Che non era del tutto a favore, ma neanche del tutto contraria. Era... possibilista, sì.
«Perché il problema qui potrebbe risolversi tutto in un breve periodo, e allora potremmo continuare la nostra vita alla fondazione, anche se magari sarà un po’ meno piacevole di prima, ma è possibile che non si risolva a breve, o che non risolva affatto, e allora che faremo? Vi immaginate un po’ che ambientino che diventerebbe per noi, se la prossima volta dovesse morire, chessò, il professor Chen in persona? C’è andato già vicino, secondo voi, e come ci hanno trattati qui?»
Fazel aggrottò la fronte. «E va bene, ma fuggire in ambasciata? E poi cosa facciamo?»
David annuì. «Sì, non mi sembra una grande soluzione. Fuggire peggiora sempre le cose.»
Anna lo fissò. «Ma se hai passato la vita a fuggire da impegni e responsabilità!»
«E infatti non mi pare di essere in una bella situazione, adesso. Anche se, devo riconoscere, le cose sono peggiorate quando ho deciso di restare invece di fuggire. Sì, forse dopotutto fuggire non è così male. Il problema però è che ci vuole una direzione in cui fuggire e bisogna essere certi che nessuno ti catturerà mentre fuggi. E noi non lo siamo certi. Come lasciamo il pianeta?»
Era una domanda senza risposta. Anche Einarsson l’aveva liquidata con un “prima o poi troveremo il modo”, che non rispondeva a un bel niente, ma dilatava il problema verso le praterie selvagge del futuro, ossia verso il nulla. Lasciare la fondazione, raggiungere l’ambasciata. E poi? Si vedrà.
Ne discussero nei giorni seguenti, soprattutto durante i pasti, ma non raggiunsero né accordi né una qualche risposta. Nel mentre, la vita continuava attorno a loro, sospetti e occhiate storte erano calati un poco, ma i tre terrestri restavano corpi estranei, presenze non molto gradite. Il professor Chen si fece vedere poco: molti attendevano sue dichiarazioni, magari un discorso, non necessariamente di persona, visto come era andata a finire la volta precedente, ma una qualche parola dal grande capo li avrebbe rassicurati, anche se fossero state parole di apocalisse. Ma non vennero. Ciò che venne fu la notizia della morte di un altro membro della spedizione su Madre, uno di quelli che erano rimasti in quarantena e nessuno aveva più visto. Il secondo morto, dopo Muzafar Chang.
Forse come curioso festeggiamento, la notte seguente David Loukides fu aggredito.