La galassia di Madre - 117
Fazel Chegeni si svegliò malriposato da una notte di sogni orrendi. Erano sempre sogni orrendi, negli ultimi giorni. O nelle ultime notti, se si voleva essere pignoli. Fazel non lo voleva granché, al momento. Si sarebbe accontentato di dormire bene, a lungo e magari senza sogni. O con sogni in cui la sua testa rimanesse intera e integra dall’inizio alla fine, nessuno gli fracassasse parecchie ossa con strumenti contundenti di ogni tipo, non gli legassero le braccia dietro la schiena per poi spingerlo ridendo dalle scale, o... Beh, ci siamo capiti. Niente di tutto ciò era ancora successo nella realtà, ma nei sogni gli capitava regolarmente, più e più volte.
Era piuttosto difficile mantenere un approccio sano e positivo al mondo e alla realtà. Era ancora più difficile quando il mondo e la realtà tendevano a guardarti come se tu fossi mezzo scarafaggio che è appena emerso dal fondo della minestra. Non che tutto il mondo lo guardasse così: la quasi totalità di Svarga neppure sapeva che esistesse una forma di vita a base carbonio registrata all’anagrafe terrestre sotto il nome di Fazel Chegeni. A guardarlo male era il microcosmo che lo circondava al momento e in cui si trovava rinchiuso. Quel microcosmo chiamato fondazione Chen-Cohimbra, che qualche anno prima lo aveva accolto passabilmente bene, che per il più breve dei periodi recenti lo aveva trattato da eroe e che adesso lo trattava da immondizia che ti si è appiccicata alla suola di una scarpa. Sic transit gloria mundi, dopotutto.
Fazel l’avrebbe anche lasciata transitare. Non cercava fama e gloria, lui. Va bene, un po’ la cercava, o almeno l’apprezzava, ma al momento l’avrebbe venduta al ribasso in cambio di pace e tranquillità e magari anche un biglietto di ritorno per la Terra. Non che desiderasse davvero tornare sulla Terra. Si era bruciato tutti i ponti. Niente e nessuno lo attendeva sul suo pianeta natale. Pure, considerate le alternative, anche un posto da barbone specializzato diventava attraente.
Lo diventava ancora di più ogni volta che pensava a David Loukides. Pensava quasi sempre a David Loukides, specie quando si svegliava dall’ennesima notte di incubi. Era lui la causa principale degli incubi, dopotutto. Causa involontaria, poco ma sicuro, ma causa lo stesso.
Era stato un incidente, ovvio. Doveva essere caduto dalle scale mentre era mezzo addormentato, o si era dimenticato che lì c’era un muro e non una porta, o qualunque altra causa fantastica vi sappiate immaginare o inventare. Il solo fatto certo era che David aveva salutato Fazel e Anna al termine di una giornata in apparenza come tutte le altre, si era ritirato nella sua stanza ancora funzionante e con le ossa intere, e il mattino dopo aveva vinto un soggiorno in ospedale con prognosi riservata e varie articolazioni extra. Secondo la versione ufficiale diffusa dal professor Gao Zhisheng, il numero due della fondazione e assistente personale di Chen stesso, si era trattato di un malaugurato incidente.
Fazel Chegeni aveva parecchi dubbi in merito e Anna Lindtner gliene aveva fornito qualcuno extra a pranzo quel giorno. Non che fosse molto difficile avere dubbi sull’accidentalità dell’incidente. Non dovevi fare altro che guardarti attorno, in mensa e altrove. Non dovevi fare altro che guardare come ti guardavano, se eri terrestre, e di terrestri alla fondazione ne erano rimasti soltanto tre, dopo che la maggior parte era rimpatriata ai tempi dell’anatema di Leonardi. I tre superstiti erano Fazel, David e Anna. David era finito all’ospedale. Chi sarebbe stato il prossimo?
Fazel sognava la risposta ogni notte. Non era una bella risposta. Forse non era neppure una risposta corretta, ma chi lo voleva verificare? Non certo lui, grazie tante. Lui voleva solo andarsene. Anzi, a essere precisi lui voleva non essersi mai lasciato convincere a restare. Fosse tornato assieme a tutti gli altri all’Ufficio, adesso sarebbe un misconosciuto giovane ricercatore rintanato nella pancia del palazzo, come mille altri, e come mille altri senza alcuna speranza di salire a galla. Ma, e questo era il punto più importante, sarebbe anche stato tranquillo. Al sicuro. Cosa che su Svarga non era.
La soluzione era semplice: abbandonare il pianeta. Su questo concordava anche Anna Lindtner. Ciò che non era semplice, purtroppo, era la strada da percorrere per arrivare a quella soluzione. Ormai ne discutevano ogni giorno, dopo l’incidente di David. Ne discutevano in mensa, ma anche durante il tempo libero. E di tempo libero ne avevano parecchio, ora. Da quando Muzafar Chang era morto dopo la sua conferenza su Madre, e tutto il resto del gruppo era finito in quarantena chissà dove, era quasi solo tempo libero per i terrestri, tutti i loro progetti sospesi, tutte le loro attività bloccate, tutti i fondi bloccati. Perché bisognava riconsiderare le priorità dell’istituto, dicevano. Perché ad alcuni si era concesso più di quanto fosse necessario. Perché era doveroso implementare una nuova politica di merito e valore. Perché, perché, perché.
Fosse come fosse, la loro vita alla fondazione era diventata una vera merda. Per usare un termine tecnico. Tempo di sostituirla con una vita non alla fondazione.
Quel mattino Fazel trovò Anna che lo aspettava in una della aree ricreative dell’edificio. Attorno a loro altra gente seguiva i notiziari, faceva colazione, chiacchierava, pensava ai fatti propri, prima di lanciarsi in una nuova giornata di lavoro. Perché avevano qualcosa da fare, loro. Fazel li invidiava, ma li trovava anche parecchio fastidiosi quando si giravano a fissarlo, per poi distogliere subito lo sguardo. Come se fosse infetto. Hah! Li consideravano untori, dopotutto.
Anna Lindtner era ancora meno entusiasta del solito, se possibile. Dopo l’incidente di David si era alternata tra due espressioni facciali: rabbia e depressione. Potevano essere declinate in vari moti, e spesso lo erano, ma le emozioni base restavano quelle due. Oggi sembrava prevalere la depressione. Fazel non lo considerò un buon segno. Quasi nulla gli sembrava un buon segno, negli ultimi tempi.
«Niente neanche oggi,» disse Anna, mentre lui sedeva. «Niente permesso per andare in città.»
Fazel sospirò. «E un messaggio a...»
«Comunicazioni fuori servizio, al momento. Qualcosa che non va alla linea, al satellite, all’anima di mio nonno.» Anna sbuffò. «Come se ci servissero. Voglio dire, la città è qui. È a due passi. Se hai da spedire qualcosa, ce lo puoi anche portare a piedi! Due o tre ore al massimo e sei lì!»
«Ma non ci lasciano uscire.»
«Ma non ci lasciano uscire, già. E qui dentro...» Allargò le braccia.
Poco da aggiungere. Lì dentro era lì dentro e non era un bel posto. Non per loro due, almeno, e non lo era stato per David. Brutto dopo la morte di Muzafar Chang, era peggiorato dopo la morte di uno dei misteriosi quarantenati, i compagni di viaggio di Chang che nessuno aveva più visto dopo che la spedizione era rientrata. Neppure il professor Chen ne parlava mai, eppure per un certo periodo era stato assieme a loro in quarantena. Si diceva. Questi dettagli ad Anna non interessavano, se non sul più accademico e distante dei piani. Ciò che le interessava era che David aveva avuto un incidente, per modo di dire, che lo avevano portato via (ufficialmente ricoverato), che loro due non lo avevano mai potuto visitare e che da allora ogni loro contatto con l’esterno era cessato.
Non che prima ce ne fossero molto. Se volevi uscire e scendere in città, dovevi passare per una serie di esami e operazioni sanitarie che magari avresti raccomandato al tuo peggior nemico, ma non a te stesso. Anna vi si era sottoposta una volta, per raggiungere l’ambasciata, e raccontava che erano fin peggio di quanto sembrassero. Fazel non ne era convinto, lui era capace di immaginarsi cose molto ma molto brutte, ma non voleva verificare. Non che avrebbe potuto, anche volendo. Non più.
Dopo la seconda morte e l’incidente di David era tornato il blocco totale attorno agli edifici della fondazione. Per i terrestri, quantomeno. Per gli altri... Ma gli altri erano altri e non contavano, non al momento e non per Fazel. Per Fazel contava prima di tutto Fazel stesso e lui era bloccato dentro a quell’edificio, non poteva comunicare con nessuno all’esterno e pure all’interno non erano molti a voler comunicare con lui. A volte sospettava che neppure Anna lo avrebbe fatto, avendo alternative. Non che ne avesse. Aveva avuto un amico o compagno svarghiano, prima, o qualcosa del genere, e pure quello pareva essersi volatilizzato.
«Come facciamo con l’ambasciata?» chiese Fazel.
«Non lo so.»
«E David come sta?»
«Non lo so.»
«Che fine faremo noi?»
«Non lo so.»
Fazel allargò le braccia. «Non sai proprio niente, tu!»
Anna lo guardò. «Non mi pare che tu splenda di conoscenza. Comunque il punto è che al momento non abbiamo mezzi per contattare l’ambasciata. Gao, qui, ci dice che l’ospedale li tiene aggiornati sulle condizioni di David, e magari potrebbe anche essere vero, per quanto ne sappiamo, ma questo non cambia la nostra situazione, no? Qualunque cosa avviene, avviene ad altri da altre parti. Noi ce ne stiamo qui a girare i pollici, aspettando che prima o poi ci capiti qualcosa. Un qualche nuovo tipo di incidente, per esempio.»
«Ma se raggiungessimo l’ambasciata...»
Scrollata di spalle. «Se raggiungessimo l’ambasciata, saremmo al sicuro. Almeno secondo quanto ci ha detto Einarsson, che è poi tutto da verificare, ma mettiamo pure che sia vero. Il problema resta lo stesso, ossia: come cavolo ci arriviamo in ambasciata? Perché per arrivarci dovremmo uscire da qui, prima di tutto, e io non so proprio come farlo. Non so te, ma non sono una esperta di evasioni, fughe e roba simile. Non ho mai neppure pensato di doverlo essere. Non sono mai neppure stata costretta a fuggire dalla mia camera da bambina, dopo che mi ci avevano chiuso in castigo, perché non mi ci hanno mai chiusa in castigo. Che ne so di come si fugge dalla sede di un istituto scientifico che si trova su una collina in un altro sistema solare? Dimmelo tu.»
Fazel si morse le labbra. Ci aveva pensato anche lui a come fare, di tanto in tanto. Non sembrava in teoria una cosa tanto difficile. Non era un carcere, un bunker o roba del genere. Era la sede di una fondazione scientifica, specializzata in planetologia. Studiava pianeti. Sviluppava filtri speciali per le osservazioni astronomiche. Trafficava in generale. A vederla da fuori, era persino piacevole, una struttura fatta di vetri e metalli, luminosa, accogliente, circondata da giardini. Non c’erano neanche mura vere e proprie a delimitare la proprietà. Fuggire sarebbe dovuta essere la cosa più facile della galassia: aprivi una porta, attraversavi il giardino, infilavi la strada e giù lungo la collina.
In teoria. In pratica, era stato così fino a qualche mese prima. Non che qualcuno avesse mai deciso di fuggire di nascosto, per quanto ne sapeva Fazel, ma potevi uscire e scendere in città come volevi e quando volevi. Poi c’era stata la conferenza su Madre, la malattia e morte di Muzafar Chang e più o meno ogni cosa era andata allo sfascio. Adesso la fondazione non era formalmente in quarantena e non era isolata dal resto del pianeta. Il picchetto di militari era lì per ragioni di sicurezza. Gli esami per chi voleva uscire erano giusto una formalità. Il controllo delle comunicazioni era una misura per mantenere la pace pubblica. Eccetera eccetera. Quante cose diventavano magicamente nobili, buone e sante, se le presentavi con parole diverse!
«Pensi che, non so, se cerchiamo di fuggire e ci scoprono, ci succederà... qualcosa di male?»
Anna Lindtner lo fissò per un poco in silenzio, prima di rispondere. «Mah, non so, potrebbero anche darci una medaglia, che ne dici?» Sospirò. «Non ne ho idea di cosa ci farebbero, ma non lo voglio scoprire, se per te è lo stesso. Per quanto ne so, l’ambasciata potrebbe avere già cominciato qualche azione per farci uscire, o almeno per contattarci. Non so quanto sia legale il loro blocco, ma siamo a casa loro, quindi le leggi diventano... elastiche, per così dire. Possono inventarsi qualunque scusa ed è automaticamente la verità. Ecco, adesso sto diventando pure paranoica.»
«Non sei l’unica: questo posto tira scemi. Con quello che è già successo, poi...»
Ne discussero ancora, ma non procedettero oltre il solito punto: tempo di andare, di cambiare aria e fare quello che Einarsson aveva consigliato in precedenza. Ma come? Idee zero. O, per essere più precisi, idee realistiche zero. Erano topi da laboratorio, ognuno a modo proprio, e nessuno sapeva in che modo agire quando si doveva uscire dalla gabbia. E adesso dovevano uscirci, se davvero erano decisi ad abbandonare la fondazione.
Fazel Chegeni uscì in giardino, da solo. Era primo pomeriggio ed era una giornata di sole, tiepido e con una leggera brezza che odorava di campagna. Che non è necessariamente profumo, a seconda di quale sia la stagione e quali fertilizzanti abbiano usato, ma in quel preciso momento era piacevole e suggeriva idee di libertà, spazi aperti, vita semplice, varie ed eventuali. O almeno la mente di Fazel reagiva in questo modo ai messaggi sensoriali ricevuti dal naso. C’erano anche insetti, insetti che ronzavano e volavano, veleggiavano come mongolfiere o sgusciavano qui e là nell’erba. Niente che fosse insolito: c’erano sempre insetti, su Svarga, e spesso facevano e pensavano più degli umani che li osservavano. O così sostenevano molti exologi. Fazel manteneva una sana posizione neutrale in proposito, soprattutto perché non gliene poteva fregare di meno. C’erano insetti e facevano cose da insetti. Ma erano gradevoli da guardare. Rilassanti. Potevi spegnere il cervello e fingerti altrove.
Peccato che non potesse davvero essere altrove.
Camminò lungo il sentiero ghiaioso che conduceva ai margini del giardino. L’area della fondazione terminava poco oltre, superata una bassa siepe ornamentale. Potevi fermarti lì e guardare la strada, che scendeva verso la città, e che spesso era vuota o quasi. Poco traffico da quelle parti. Pochi anche i veicoli terrestri sul pianeta, per quanto ne sapesse lui. Aveva chiacchierato spesso con ricercatori svarghiani, prima che cominciassero i problemi con la Terra, e tutti concordavano che spostarsi per vie terrestri fosse vecchia maniera, arretrato, così scomodo. Meglio il cielo, sostenevano, oppure il sottosuolo. Temperature costanti, niente problemi meteo, non disturbi gli insetti. Anche su questo lui preferiva mantenersi neutrale e indifferente. Facessero come preferivano.
Ma la strada non era vuota, quel pomeriggio. C’era un gruppetto di militari poco più avanti, e droni si muovevano lungo il perimetro della fondazione. Sembravano tranquilli, quasi annoiati, ma Fazel era sicuro che li avrebbe avuti addosso in un attimo, se solo si fosse azzardato a scavalcare la siepe o abbandonare il giardino in qualsiasi modo. Non che desiderasse verificare. Non sapeva neppure lui di preciso cosa desiderasse al momento. Trovare un posto in cui stare in pace, forse. Se poi gli si offriva anche una possibilità di proseguire le proprie ricerche, tanto di guadagnato, ma veniva dopo, a una certa distanza. Al primo posto c’era lo stare in pace.
Tre insetti simili a libellule si libravano accanto a un drone. Il drone era immobile in aria, appena al di là della siepe ornamentale. Le tre libellule adesso gli giravano attorno. Il drone continuava a non muoversi. Una libellula vi si posò sopra. Il drone sembrò spegnersi, pur restando in aria. Quindi non era davvero spento, dedusse Fazel, ma in una qualche forma di sospensione o roba del genere. Poi la libellula si staccò e tutte e tre volarono via. Il drone riprese a muoversi normalmente, pattugliando il perimetro della fondazione. Sparì poco dopo dietro a un angolo. Un altro arrivava adagio dalla parte opposta, a ritmo di novantenne emorroidato.
Fazel osservava la scena, mani in tasca e vento a spingergli a destra la pettinatura da pennello. Forse c’era qualcosa di interessante nella scena a cui aveva appena assistito. Gli insetti si avvicinano a un drone; il drone si ferma. Gli insetti si posano sul drone; il drone si disattiva parzialmente. Ne poteva ricavare qualcosa? Forse, magari, può darsi. A prima vista era la solita, morbosa fissazione che tutti gli svarghiani sembravano provare verso i loro amatissimi e stimatissimi insetti. Mai danneggiarli o disturbarli: se si avvicinano incautamente a un manufatto umano, il manufatto umano deve sempre e comunque rispettarli e tutelarli. O roba simile.
Doveva essere un lavoraccio per i droni, in quei giorni. Sciami di insetti scorrazzavano ovunque, si raggruppavano qui, si disperdevano là, un moto continuo senza apparente spiegazione o causa. Una qualche causa ci doveva essere, ovviamente, ma altrettanto ovviamente lui non la conosceva, quindi gli sembrava un gran agitarsi senza senso. E i droni lo dovevano rispettare. Erano stati programmati per farlo, con tutta probabilità. Percepisci un insetto? Fermati! L’insetto si allontana? Riparti!
Chissà come erano programmati per reagire agli occupanti della fondazione che cercavano di uscire senza permesso? Fazel era curioso di saperlo, ma non di sperimentarlo. E se ad avvicinarsi erano un insetto e un fuggitivo, magari più o meno allo stesso tempo? Come avrebbero reagito? A quale delle due reazioni avrebbero dato la priorità? Questo appariva molto più interessante. Fazel non si era mai sentito avventuroso, neppure da bambino, e di certo non sentiva di esserlo in quel preciso momento, o anche solo in un momento nelle vicinanze, eppure si sorprese a chiedersi se, magari, chissà, in un qualche modo, c’era forse una possibilità di utilizzare quel dato a loro vantaggio.
I droni sembravano programmati per rispettare gli insetti. Esisteva un modo per girare il programma contro di loro, magari il tempo necessario perché due umani fuggissero dalla fondazione? O un solo umano, nel peggiore dei casi, posto che quell’unico umano fosse Fazel Chegeni. Perdere per strada Anna gli sarebbe dispiaciuto, a un certo livello, ma a un livello ben superiore sarebbe stato contento di liberarsi lui, per cui era sicuro di poter raggiungere un equilibrio che lo mettesse in pace con sé e la propria presunta coscienza, se mai fosse dovuto arrivare al punto di sacrificare la collega. Ma non ci sarebbe arrivato. Probabilmente. Se non era necessario, quantomeno.
Rimase a lungo a fissare la sfilata dei droni, il loro monotono ruotare attorno ai confini del giardino. E sì, sembravano proprio fermarsi ogni volta che un insetto si avvicinava a loro. Se poi l’insetto li toccava, o era vicino a sufficienza da poterli toccare, sembravano disattivarsi del tutto. Ma la chiave era proprio il verbo ausiliare. Sembravano. Cosa facessero in realtà era un altro discorso, uno che le sue misere competenze in materia non sapevano affrontare. Pure, era un indizio interessante.
Condusse altri piccoli esperimenti. Sporse un braccio oltre la siepe, con molta cautela, e subito un drone puntò verso di lui, accelerando. Fazel ritrasse il braccio. Il drone rimase fermo in aria per una manciata di secondi, poi riprese la ronda. Fazel attese per una decina di minuti, ma nessuno venne o reagì in un qualche modo visibile. Forse non c’erano allarmi automatici. Forse. O forse il segnale di allarme era stato annullato dopo che lui aveva ritratto il braccio e il drone aveva potuto verificare la situazione tranquilla. Fazel riprovò altre due volte ed entrambe le volte ottenne lo stesso risultato. Cominciava ad assumere una parvenza di scientificità moderata.
Provò poi a sporgere un braccio oltre la siepe mentre il drone più vicino era immobile con un insetto che gli girava attorno. Il drone non reagì, ma un qualche tipo di segnale doveva averlo inviato: in un minuto al massimo arrivò un altro drone, che puntò subito verso Fazel. Una volta ritratto il braccio, il nuovo drone si allontanò. Di nuovo, nessun umano si fece vedere.
Interessante. Fazel non aveva ancora deciso come utilizzare quella informazione, che poi magari era nota a tutti e lui era il solo fesso ad averla appena scoperta, ma una parte di lui gli suggeriva che se ne potevano servire per fuggire. Non gli suggeriva però il come, e questo la rendeva una parte molto inutile, ma era anche una parte che non voleva tacere e alla fine forse sarebbe stato costretto almeno ad ascoltarla, se non addirittura a seguirla. Ne avrebbe fatto volentieri a meno. Ora, se solo Anna si fosse dimostrata utile, inventandosi un modo sicuro per raggiungere l’ambasciata terrestre, allora lui si sarebbe potuto dimenticare di insetti, droni e scemenze avventurose. Ma non accadeva.
Passarono altri due giorni, sempre senza notizie, sempre senza contatti col mondo esterno. Dentro la fondazione continuavano gli sguardi poco amichevoli verso i due terrestri, e si vociferava che presto il professor Chen avrebbe fatto qualcosa per liberarsi degli ospiti non desiderati, che davvero, giunti a quel punto era troppo pericoloso tenerseli in casa, dico, ma lo avete visto cosa hanno fatto ai nostri su Madre? Dobbiamo aspettare che lo facciano anche a noi qui, sul nostro pianeta? Chissà che razza di nuovi virus hanno coltivato su quella loro maledetta colonia...
A Fazel tutto ciò non piaceva. Ma proprio per niente. Nel pomeriggio il tempo si manteneva sereno, o almeno passabilmente sereno, e lui continuò a visitare il giardino e studiare il comportamento dei droni. Seguivano sempre lo schema che lui si era disegnato in testa dopo il primo giorno. Si sentiva ormai abbastanza sicuro che sì, funzionavano davvero a quel modo e che, tra insetti e fuggiaschi, un drone avrebbe scelto di preservare l’incolumità degli insetti. Probabilmente.
La distanza tra probabilmente e sicuramente, però, non lo rassicurava affatto. Così continuò a non agire, osservando e basta, e avrebbe continuato per chissà quanto tempo ancora se non ci fosse stato il messaggio dall’ambasciata e la successiva discussione con Anna Lindtner, durante una cena in cui la mensa sembrava popolata soltanto da occhi che li fissavano e bocche che parlavano o sparlavano dei terrestri, di Madre e di cosa bisognerebbe fare per mettere tutto a posto secondo me, che guarda è una roba vergognosa e proprio non se ne può più. Ma il messaggio ci fu, la discussione anche e il resto venne da sé, che Fazel Chegeni lo volesse o meno.
In apparenza, le comunicazioni erano state ristabilite, se mai un problema c’era stato davvero. Non in uscita, perché ancora i due terrestri (e forse anche gli altri, o forse no) non potevano contattare un eventuale amico in città (ammesso che ne avessero), ma potevano ricevere e questo era un passo in avanti, anche se era incerto verso dove. Il messaggio che ricevettero proveniva da Einarsson, ed era protetto. Era anche noioso e fondamentalmente inutile, agli occhi e alle orecchie di Fazel, ma Anna gli spiegò che era un codice che avevano concordato, perché ufficialmente le comunicazioni erano pulite e nessuno svarghiano le avrebbe mai spiate, ma ufficialmente puoi trovare stormi di asini che attraversano il cielo al tramonto, per cui fidarsi sì, d’accordo, ma magari la prossima volta, eh?
«Comunque, il punto è che devono sembrare messaggi banali e noiosi, del tutto inutili, così da non attirare l’attenzione e arrivare senza che qualcuno li “perda” per strada,» spiegò Anna, davanti a un piatto di qualcosa che poteva avere vissuto sul fondo di un oceano, ma adesso non si muoveva più.
Fazel non sembrava molto convinto. «Ma non è ancora più sospetto se spedisci messaggi che non significano nulla? Voglio dire, è ovvio che saranno un qualche tipo di codice, no?»
«Un qualche tipo, sì, ma loro non sapranno quale tipo, e comunque non sono proprio inutili, semmai normali. Comunicazioni di servizio, le potremmo definire. Così chiunque controlla i messaggi non li bloccherà e noi potremo ricevere le informazioni che ci servono. Capisci?»
Scrollata di spalle. «Come vuoi. Se lo dici tu. Allora quali sono le informazioni?»
Anna lo spiegò. Einarsson sosteneva di essere finalmente riuscito a visitare David Loukides, che era davvero ricoverato in ospedale come affermavano i comunicati ufficiali, ma si trovava in un reparto ad accesso limitato, come non affermavano i comunicati ufficiali. Perché? Mistero. A ogni modo, le sue condizioni non erano gravi, anche se era conciato piuttosto male e con diverse fratture. Dettagli su cosa si fosse rotto nello specifico non erano presenti, ma Fazel integrò con la propria fantasia e le immagini che i sogni gli continuavano a suggerire quasi ogni notte. Il risultato fu un David simile a una mummia, con tubi che spuntavano da varie parti della sua anatomia, quasi di sicuro senza che il diretto interessato avesse dato il proprio consenso. Lo sforzo immaginativo gli tolse l’appetito.
Einarsson proseguiva dicendo di avere avviato tutte le procedure per il rimpatrio del ferito, anche se le autorità svarghiane trascinavano i piedi, brontolavano e insomma facevano tutto il possibile e un poco di più per ostacolare e rallentare. Grossomodo come succedeva nel processo ancora in corso tra l’Ufficio e la fondazione. Anna commentò che doveva essere un fatto culturale. Einarsson pareva comunque ottimista di poter rispedire a casa David, ma non si sbilanciava su cosa gli sarebbe poi successo una volta a casa. Probabilmente una vita da pensionato, vista l’età.
«Sì, d’accordo, ma noi?» chiese Fazel.
Anna alzò una mano. «Ci sto arrivando. Noi fondamentalmente ci dobbiamo arrangiare. Avremo il pieno appoggio dell’ambasciata se la riusciremo a raggiungere, ma riuscirla a raggiungere sarà affar nostro. Se siamo intenzionati a lasciare il pianeta, beninteso. Se invece vogliamo restare, allora non si pone il problema, perché siamo a posto qui dove siamo. Giusto?»
Fazel guardò il resto della sala. C’era un clima in cui potevi affettare l’azoto. Non ostilità esplicita e diretta, per carità, non dopo il cosiddetto “incidente”, ma un invito silenzioso e costante ad andare al più presto da qualche altra parte. Non è che ce l’abbiamo con voi, per carità, siete ottime persone, ma se andate a essere ottime persone in un altro sistema solare noi saremo molto più contenti.
«Io non direi che siamo proprio a posto qui dove siamo.»
Anna annuì. «Appunto. Quindi dobbiamo arrangiarci da soli, se vogliamo raggiungere l’ambasciata. E noi vogliamo raggiungere l’ambasciata, vero? O hai ancora voglia di stare qui?»
«Non è che io abbia mai avuto così tanta voglia di restare qui, a dire il vero. Siete voi che mi avete convinto a restare. Io sulla Terra ci sarei anche tornato, quando Leonardi lo ha chiesto.»
«E perdere tutti i privilegi che avevi qui? Ripartire dal basso e chissà quando ti ricapitava una nuova occasione per combinare qualcosa di buono?»
«Non è che qui io abbia combinato molto di buono. Mi hanno fregato e basta. Ma va bene, lasciamo perdere. Andiamo in ambasciata e torniamo. O qualunque altra cosa ci succederà là.»
«Cosa ci succederà non è specificato. Einarsson dice che ci terranno in ambasciata fino a che non si presenterà una occasione per spedirci verso la Terra o verso qualunque altro posto vogliamo, se non è un posto troppo lontano o irraggiungibile per altre ragioni. Quando si presenterà l’occasione non è specificato, come non è specificato se si presenterà mai. Potremmo restare in ambasciata per mesi.»
«Dubito che sarà molto peggio di qui.»
«Io non ne sarei così sicura, ma staremo a vedere. Penso che le sistemazioni saranno più scomode, per cominciare: non mi è sembrato un edificio molto spazioso, l’ambasciata. A ogni modo abbiamo altri problemi, prima di pensare a quanto grandi saranno le nostre stanze. Come ci arriviamo?»
Il silenzio li avvolse come una nube di zanzare, mentre i loro neuroni si dedicavano a basse attività di sottofondo. Alla fine Fazel raccontò dei suoi ultimi pomeriggi spesi in giardino (quando il meteo lo consentiva) a studiare le attività dei droni e sperimentare sporgendo un braccio oltre le siepi. Non un racconto che impressionò molto Anna, a giudicare dalla sua espressione.
«Potevi almeno provare a scavalcare la siepe, invece di sporgere un braccio e basta. Sei pigro.»
«Scavalcatela tu la siepe! E se poi mi succedeva qualcosa? Un braccio lo potevo spiegare, ma vallo a spiegare a un gruppo di militari perché sei passato per intero oltre un limite che ti hanno messo!»
Anna scosse la testa. «Va bene, lasciamo perdere. Comunque, questo cosa significa? Che se usiamo gli insetti per distrarre i droni possiamo scappare dall’edificio?»
«Er, beh, no, non la metterei proprio così. È che ai droni sembrano interessare di più gli insetti, ma non vedo come potremmo usarli. Cioè, mica ci obbediscono, no?»
«Non lo vedo neppure io, per cui sì, informazione interessante, magari anche utile a modo suo, ma su un piano molto astratto, e fondamentalmente non ce ne facciamo nulla perché non disponiamo di mezzi per controllare gli insetti. Ora, se gli insetti dovessero decidere per conto loro di attaccare in massa i droni, allora d’accordo, potremmo approfittarne per fuggire, ma perché dovrebbero farlo? A me pare molto, ma molto improbabile.»
«E va bene, lo so anch’io, ma questo è quello che ho visto. Cosa ne so di come si scappa da qui? Ti sembro uno specialista di fughe? Non so neanche da dove cominciare!»
«Abbassa la voce, grazie. Non mi pare il caso di annunciarlo in pubblico.»
Fazel abbassò la voce, ma il tema non cambiò. Era evidente che nessuno dei due aveva idea di come dovesse funzionare una fuga e che solo un miracolo positivo li avrebbe portati ad abbandonare quel posto e raggiungere l’ambasciata a Guan Yu, che distava solo una decina di chilometri circa, ma che poteva essere su un altro pianeta, per quanto li riguardava. Fu una vera fortuna che quel problema, insolubile per due umani di alta educazione, lo risolsero gli invertebrati di Svarga, che non avevano educazione formale o riconosciuta da alcun organismo interplanetario, ma in apparenza erano dotati di strumenti più utili in alcune circostanze.
Cominciò con l’insetto nello studio del professor Chen. Era una specie di acaro, grande poco più di una punta di matita, e camminava sul lato interno del vetro di una finestra. Poteva averci camminato per chissà quanto, e magari era nello studio già da giorni a fare chissà cosa. Chen lo notò soltanto il giorno in cui era sulla finestra e soltanto perché, sull’altro lato del vetro, si erano accumulati molti altri insetti, di varie specie, che fissavano l’acaro e battevano di tanto in tanto contro il vetro.
Chen lo trovò molto strano. Gao Zhisheng lo trovò ancora più strano, quando Chen lo chiamò per osservare il fenomeno. «Hai mai visto una cosa del genere?» gli chiese.
Gao scosse la testa e indicò l’acaro. «Non ho mai visto neanche quell’insetto. Da dove viene? Non è uno dei nostri. Non una specie conosciuta, quantomeno.»
Non solo non era conosciuta, ma non era neppure una specie autoctona, come confermò l’exologo a cui inviarono l’esemplare. «Non so come sia arrivato qui, ma sono assolutamente sicuro che sia un insetto alieno,» spiegò. «Avrò bisogno di chiedere informazioni ai miei colleghi su altri pianeti, per capire da dove provenga. Io non lo riconosco, ma in fondo non posso certo pretendere di conoscere tutte le forme di vita scoperte su ogni mondo. Ne spuntano di nuove in continuazione e anche solo tenere aggiornati gli archivi è davvero un lavoraccio, credetemi. Coi tempi lunghi richiesti poi dalle comunicazioni interplanetarie, guardate, è una cosa che...» Chen ringrazio e salutò.
Gli insetti attorno agli edifici della fondazione erano agitati. Li vedevi ronzare ovunque attorno alle finestre e il giardino era ormai diventato quasi inabitabile per gli umani, infestato com’era da varie specie invertebrate. Anche all’interno il clima stava cambiando. Chiacchiere e discussioni si stavano spostando da Chang e la malattia importata da Madre (che non aveva più causato problemi e stava a poco a poco scivolando verso il basso nella memoria collettiva), per concentrarsi sui comportamenti degli insetti e le possibili cause. Che erano un enigma, almeno per loro.
La tendenza generale era a collegare il fenomeno coi recenti casi di aggressione da parte di insetti in altre zone del pianeta. Non che qualcuno fosse stato aggredito, non ancora, ma i decenni di pacifica convivenza tra specie sembravano avviarsi alla fine, per motivi che nessuno sapeva immaginare ma che tutti ipotizzavano senza scrupoli, specialmente chi meno si intendeva della materia. Alla fine, il discorso tendeva spesso per collegare il problema degli insetti a quello della malattia proveniente da Madre. Era tutta colpa della Terra, insomma.
Il professor Chen convocò un’assemblea aperta a tutti i membri della fondazione Chen-Cohimbra, questa volta senza vomitare e collassare, e invitò i pregiati colleghi a mantenere la calma, perché la situazione era sotto controllo e non c’erano motivi per allarmarsi. Era evidente che le relazioni tra le specie, gli umani e i vari insetti svarghiani, si preparavano ad attraversare una nuova fase e molto si sarebbe dovuto studiare, per trovare un accordo che causasse il minor disagio possibile a tutti. Ogni voce su presunte cause esterne non era da prendersi sul serio, almeno per il momento.
Non sembrò servire a molto, perché il clima nella fondazione si faceva sempre più elettrico. Sentivi la tensione nei corridoi, nelle stanze, nei laboratori, e il giardino era uno spazio a cui nessuno più si avvicinava. Con le comunicazioni con l’esterno ancora limitate, la claustrofobia diventava quasi un nuovo compagno di stanza, un compagno ingombrante e soffocante. C’era gran voglia di uscire e di cambiare aria, che si faceva ancora più intensa davanti ai notiziari, che raccontavano di altre aree di Svarga in cui gli insetti erano ancora pacifici e i problemi visti a Yi-Wu e Guan Yu erano ignoti.
I più irrequieti erano i due terrestri. Se mai c’era stata una occasione ottima per fuggire, era quella. I droni avevano perso ogni regolarità nelle loro ronde, con gli insetti che li distraevano di continuo, e sarebbe stato meglio approfittarne adesso, prima che qualcuno si decidesse a riprogrammarne azioni e priorità. È il momento! Fuggiamo! Subito! Ma non fuggivano.
«Il problema è che gli insetti sono un fastidio anche per noi, vedi,» spiegò Fazel, osservando da una vetrata il giardino. Era un incubo di ronzii e sciami. «Voglio dire, ma ci pensi stare lì in mezzo? Ma lo vedi che casino? Io mica mi fido a uscire. Chissà cosa potrebbero farci. Ancora peggio che qui dentro, te lo dico io. No, meglio aspettare un momento migliore.»
Anna sospirò. «Credo che non ci sarà mai un momento migliore, a meno che non si risolva davvero tutto e si torni a come stavamo un anno fa, e in quel caso non avremmo più bisogno di fuggire. No, se davvero vogliamo raggiungere l’ambasciata, è adesso o mai più.»
Ma neppure lei sembrava molto entusiasta all’idea di affrontare gli insetti. Lo sembrava ancora di meno se si doveva passare da idea ad azione. Fazel non le metteva fretta. Voleva andarsene, da un certo punto di vista, ma voleva soprattutto rimanere vivo e intero. Il clima all’interno era brutto, ma il clima esterno sembrava peggiore. Era molto meglio aspettare, ponderare, esaminare pro e contro e stare a vedere cosa sarebbe successo. Era una situazione fluida, in continua evoluzione. O qualcosa del genere, ci siamo capiti. Ma i bagagli li teneva pronti, perché non si sapeva mai. Metti caso che ci sia da fuggire all’improvviso, per una qualsiasi ragione...
E ci fu da fuggire all’improvviso, per una ragione molto, molto precisa. Accadde subito dopo cena, in un giorno di nuvole e vento, ma senza pioggia. Una vetrata in una sala ricreativa cedette di colpo, sbriciolandosi come per la più potente delle martellate. Ma nessun martello l’aveva colpita, nessuno almeno che si potesse vedere. Non che qualcuno se ne preoccupò, al momento. Chi si trovava nella sala aveva problemi più pressanti, a cominciare dalla nube di insetti che si riversò all’interno, in una cascata di figure minuscole che ronzavano e volavano ovunque.
Gli umani fuggirono, mani sulla testa e poco fiato da sprecare in urla. Nessuno si curò di chiudere le porte, anche perché altri umani premevano dietro di loro, e in un tempo fin troppo breve gli insetti si erano diffusi ovunque dentro la struttura. Riempivano l’aria, coprivano le pareti e spesso anche teste e schiene delle persone troppo lente. E parevano arrabbiati. Parevano molto, molto arrabbiati.
Fazel assistette alle scene di panico con la più completa incredulità. Cosa stava succedendo? Voglio dire, al di là del lato puramente oggettivo. Cosa stesse succedendo lo vedeva bene anche da solo, ma perché stesse succedendo era un altro discorso. Da un momento all’altro la sede della fondazione era esplosa come, hah! Come un formicaio, bella questa, ma in effetti era così, era la sola immagine che la sua mente confusa gli sapesse fornire. Un formicaio calpestato. Solo che a calpestarlo erano stati gli insetti e a fuggire qui e là erano gli umani.
Probabilmente sarebbe rimasto a guardare a bocca aperta per chissà quanto tempo ancora, se Anna non lo avesse colpito alla nuca con la sua valigia. «Chiudi la bocca e prendi tutto, ce la filiamo.»
Fazel chiuse la bocca e si avviò a recuperare il proprio bagaglio, prima camminando e carezzandosi la testa, poi correndo quando la comprensione cominciò a colargli nel cervello. Il mondo era andato a pezzi, tutto gli era impazzito attorno, tanto valeva impazzire anche lui, giusto? Ed era certo pazzia uscire per strada in quel momento, con una collina da scendere e chissà quanto altro da camminare, prima di raggiungere l’ambasciata in città. Ammesso e non concesso che la raggiungessero.
Ma i droni sciamavano ormai dentro l’edificio, i militari accorrevano e la confusione era totale. E in quella confusione, non viste e non sentite, due figure sgusciarono lentamente verso i margini del giardino e il mondo che si apriva subito dopo, in un’aria che ronzava e ti rimbalzava contro faccia e mani. Pareva di nuotare in una cascata di insetti.
E nuotando sulla terraferma, Fazel e Anna cominciarono la loro fuga.