La galassia di Madre - 65
Quando ricevette il messaggio dalla professoressa Bapchuck, Erika Freire si era quasi dimenticata dell’insetto. O almeno ci si era messa d’impegno e aveva ottenuto risultati abbastanza buoni, il che è grossomodo la stessa cosa, da un certo punto di vista. Aveva ripulito e riordinato la stanzetta che le faceva da terrario domestico, cancellando ogni traccia residua di quella specie di tafano affetto da gravi manie da guardone: gli pseudoscarafaggi non avevano mai apprezzato il coinquilino e le loro abitudini ne erano rimaste alterate, per ragioni ancora da chiarire. Si era mantenuta il più possibile lontano dallo studio del professor Leitl, il tizio a cui aveva rifilato l’insetto e che aveva accettato l’onere con un entusiasmo da colite. Aveva dedicato tutto il poco tempo libero disponibile ad attività più utili e proficue, come assicurarsi che lo specializzando Dingledine si trovasse sempre ad almeno venti metri da lei, meglio ancora se dietro una o più pareti molto spesse. Aveva in breve proseguito con la propria vita, nel bene e nel male.
La rinuncia era arrivata con un cartellino del prezzo e il prezzo era alto. Scoprire una nuova specie, non ancora catalogata, le avrebbe garantito riconoscimenti quasi certi sul lavoro e in società, o per lo meno in quella parte di società che vive tra le pareti di accademie e simili: era il genere di colpo che sognavano ricercatori di ogni tipo e su ogni pianeta, a volte riuscendoci e a volte no, e valeva da solo una carriera, o quasi. Pure, lei lo aveva ceduto ad altri, decidendo che una migliore qualità di vita era preferibile alla fama e quindi che se lo godesse pure qualcun altro quell’insetto snervante, che ti fissava e scrutava di continuo, come se l’insetto fossi tu e non lui. O lei: non aveva scoperto il genere di quell’esemplare, ma adesso era un problema altrui. Scelta forse poco professionale, forse, ma scelta di cui Erika non si era pentita. Si stava meglio senza quel coso attorno. La sua viga poteva tornare alla normalità, adesso.
O così aveva sperato.
In realtà, lo pseudotafano era ancora fin troppo vivo nella sua memoria. Ogni volta che entrava nella stanzetta libera del suo appartamento, adibita a piccolo terrario, la prima reazione era sempre quella di guardare verso il punto in cui aveva tenuto la teca con l’ospite sgradito. Adesso era solo un pezzo di pavimento vuoto, con un poco di polvere accumulata, ma lei continuava a guardarlo. E si sentiva osservata. Reazione nervosa, ovvio, niente più di un peto psicologico o giù di lì, eppure era come se gli occhi di quell’insetto fossero ancora puntati verso di lei, proprio come succedeva ogni volta che apriva la porta. Ma l’insetto non c’era più. Quindi non la poteva guardare. Eppure.
Anche il comportamento quotidiano della minuscola comunità di pseudoscarafaggi era cambiato. Di poco, nulla che un passante occasionale avrebbe potuto notare (non che ci fossero passanti nel suo appartamento, occasionali o meno: era solo un modo di dire), ma lo notava lei, che aveva allestito il terrario proprio per studiarne la vita da vicino, anche fuori dagli orari di lavoro. Fosse stata una tra le specie già note e osservate da anni, sia sulla Terra che altrove, Erika avrebbe detto che qualcosa li aveva spaventati. Siccome quella particolare specie madriana era stata scoperta soltanto da cinque anni e ancora si sapeva pochissimo sulle loro abitudini, il modo in cui avevano cominciato ad agire dopo la scomparsa dello pseudotafano poteva essere descritto solamente come strano.
Trascorrevano quasi tutto il tempo nell’acqua, che in quel particolare terrario era poco più di una pozzanghera. Pozzanghera affollatissima, adesso, come neanche una piscina comunale nel pieno di un agosto torrido. Il che non aveva molto senso, almeno sulla base di quello che Erika Freire sapeva (o credeva di sapere) sul loro conto. Erano anfibi, certo, e l’acqua rappresentava un elemento molto importante nella loro vita, ma era solo un elemento. Entravano in acqua di tanto in tanto, oppure in occasioni particolari, ma in teoria avrebbero dovuto trascorrere la maggior parte del proprio tempo sul terreno lungo l’acqua. Sui bordi. Dentro e fuori. Non dentro e basta. Era sbagliato, soprattutto in quel periodo dell’anno. O almeno, era sbagliato sulla base delle ipotesi che lei aveva formulato per spiegarne il comportamento. Forse era il caso di formularne di nuove.
O forse no. Perché erano soltanto gli esemplari che lei teneva in casa ad agire in quel modo. Tutti gli esemplari nei terrari al centro studi, che non erano mai entrati in contatto col nuovo insetto, non avevano mutato il proprio comportamento, neppure dopo che Dingledine aveva trascorso ore e ore a molestarli. Il che era già di per sé un risultato notevole e insegnava molto sulla capacità che quella specie possedeva di adattarsi e sopravvivere in ogni circostanza: chiunque sapesse resistere a lungo alla vicinanza di quella specie di tenia umanoide non poteva lasciarsi intimorire da un mero tafano.
Pure, il tafano aveva alterato il comportamento degli insetti che lei teneva in casa. In apparenza, è vero, ma al momento era la sola spiegazione che si potesse dare. Forse una qualche sostanza emessa dall’insetto, o una vibrazione, qualcosa. Ma cosa? Non lo sapeva e adesso non avrebbe avuto modo di scoprirlo, non dopo essersi liberata dell’unico esemplare in circolazione nelle vicinanze. Quindi, meglio non pensarci. Dimenticarsene. O tentare di.
Poi arrivò il messaggio dalla professoressa Bapchuck. La grande capa la convocava nel suo studio la mattina seguente, per discutere dell’esemplare che lei aveva trovato. Punto. Niente spiegazioni, niente altro. Discutere dell’esemplare. Adesso che erano ormai passati parecchi giorni da quando lo aveva rifilato al professor Leitl? Adesso, sì. Poteva almeno degnarsi di aggiungere qualche straccio di informazione extra al suo messaggio. Voglio dire, sarebbe stato il minimo, no? Ma la Bapchuck non lo aveva fatto. Se voleva sapere altro, Erika si sarebbe dovuta presentare nello studio della capa la mattina seguente. O anche se non voleva sapere altro, in effetti, perché gli ordini erano ordini, in particolare se venivano dalla capa.
Sicuramente c’era stato qualche problema e le avrebbero dato la colpa. Era ovvio. Era inevitabile. Il mondo era strutturato in quel modo. La galassia rispettava quelle regole. Quando c’era qualcosa di spiacevole su Madre, esisteva soltanto una persona verso cui potesse essere indirizzato. Non aveva già raccolto prove a sufficienza per dimostrare la validità della tesi? Quindi stavolta il problema era con l’insetto che Erika Freire aveva trovato e la Bapchuck la convocava per darle la colpa. QED.
Fu dunque con un entusiasmo da vittima sacrificale che il mattino seguente si presentò di buon’ora davanti alla porta dello studio della Bapchuck, respirò a fondo, respirò ancora un poco più a fondo, ripassò la breve lista di possibili giustificazioni che aveva preparato la notte precedente, ne eliminò un paio che al momento le parevano ancora meno plausibili delle altre, infine si accomodò, in attesa della chiamata. Era in anticipo, ma arrivare sempre in anticipo era uno dei tanti difetti da cui non si era ancora saputa liberare. Questo tendeva a darle tempo per attendere e rimuginare su tutto ciò che le poteva passare per la testa, il che non è quasi mai un bene.
Fu fortunata, una volta tanto. Neppure cinque minuti ed ecco apparire la sagoma della professoressa Bapchuck: l’ambiente fu subito pieno della sua personalità nonché della sua stazza, non grassa ma grossa, come se il progettista avesse sbagliato la scala delle misure. «Chiedo scusa per averla fatta attendere,» disse o tuonò, a seconda dei punti di vista. «Mi segua pure, ne parleremo subito.» Erika Freire la seguì nello studio.
Una stanza netta, pulita, ordinata, più da impiegato di banca che da professore ed exologo, almeno in base alle esperienze che Erika aveva di quella categoria, inclusa se stessa, che era sì exologa ma non ancora professore (e forse mai lo sarebbe stata, pensava nelle fasi di sconforto). La collezione solita di modelli strani, ma allineati con una meticolosità quasi ossessivo-compulsiva, immagini sui muri, persino scaffali di libri, o almeno di rilegature che simulavano vecchi libri, qualcosa di ormai superato e vetusto ma che faceva sempre la sua figura e trasmetteva un forte senso di università e di professorosità. Completavano il quadro alcuni schermi, al momento spenti, e una finestra chiusa su un paesaggio urbano fatto di un muro grigio, due lampioni e un vicolo piuttosto stretto, non proprio la più affascinante delle vedute ma più o meno il meglio che la città avesse da offrire, al momento: non c’erano infatti cantieri aperti e la strada non pareva molto trafficata.
«L’ho convocata per parlarle dell’insetto che ha trovato e consegnato al professor Leitl,» disse Ada Bapchuck, sistemandosi dietro la scrivania. La sedia emise un cigolio preoccupante. «Ha fatto male e mi spiace doverglielo dire. Lo avrebbe dovuto consegnare direttamente a me.»
Erika Freire sospirò. Ecco la prima delle accusa, ma era pronta. «Era mia intenzione consegnarlo a lei, ma quando sono passata non ho trovato nessuno. Il professor Leitl è stato l’unico a rispondere, in questo settore. Non è che ho scelto proprio lui, ecco, ma è l’unico che ho trovato. Sa.»
«Sarebbe dovuta ripassare in un secondo momento. Non era una questione così urgente, giusto? Lo aveva già custodito per più giorni, dopotutto, e aspettarne ancora uno o due non le avrebbe fatto poi tutta questa grande differenza. O sbaglio?»
Sbaglia, non rispose Erika. Perché da un certo punto di vista aveva ragione la Bapchuck. Il punto di vista logico e razionale, che non era stato quello usato da lei, quando si era liberata dell’insetto. Meglio procedere piano e con diplomazia. «Sì, probabilmente lo avrei potuto tenere ancora per un poco, qualche giorno, ma mi ero accorta che non avrei fatto progressi nel suo studio e mi stava solo ritardando il programma di lavoro, per cui ho pensato che fosse meglio se lo avessi affidato subito a qualcuno più competente di me, che avrebbe... certo... saputo...»
Lo sguardo della Bapchuck l’azzittì lentamente, quasi vampirizzandole le parole dalla bocca, o dalla mente. «Le chiedo scusa,» concluse a testa bassa.
«Oh, non è una tragedia, non proprio una tragedia. Ha agito in modo assai sconsiderato, ma la posso capire, è la gioventù, la voglia di fare e strafare.» Ada Bapchuck intrecciò le dita sulla scrivania, con quello che, forse, lei interpretava come un sorriso conciliante e rassicurante, e magari qualche altra cosa in -ante. «Quello che non sa, e che naturalmente non avrebbe potuto sapere, è che con quella sua scoperta lei è inciampata in... come dire... qualcosa di piuttosto scomodo. O così mi è stato dato a intendere, per lo meno. Dai piani superiori.»
«È un... insetto... problematico?»
«No, sono gli umani a essere problematici,» sospirò. «Ricorda il fossile che è stato scoperto alcuni mesi fa? Dovrebbe ricordarlo, credo, visto che lo abbiamo qui al centro.»
«Sì, me lo ricordo, anche se i fossili non sono proprio il mio campo.»
«E neppure il mio, ma non è rilevante, al momento. Lo sa che ci è stato impedito l’accesso alla zona del ritrovamento, giusto? E sa anche perché ci è stato impedito l’accesso?»
«Ehm,» bofonchiò Erika, che non sapeva né che fosse stato impedito l’accesso alla zona, né perché fosse stato impedito. Aveva seguito solo con mezzo orecchio distratto le notizie sul fossile, ai tempi, troppo impegnata con quelle che aveva ritenuto essere cose più importanti. Insetti, per esempio.
«Ah, capisco. Questo spiega perché si sia comportata come una sciocca con la sua scoperta. Vede, il luogo del ritrovamento è adesso zona militare e lo resterà ancora per... oh, non so quanto. Fino a che i soldatini non si saranno stancati, credo, o fino a che non si saranno stancati i bambinoni che si divertono ancora a giocare coi soldatini. Madre è un pianeta pieno di luoghi che, di punto in bianco, diventano zone militari. Un brutto posto, per chi come noi deve studiare ciò che ci vive, ma anche un posto pieno di sorprese, il che forse si bilancia, sul lungo termine. Forse.»
«Quindi, siccome l’insetto l’ho trovato vicino a una zona militare, è diventato anche lui un segreto militare o qualcosa del genere?» Erilka maledisse di nuovo il ragazzino che era venuto a parlarle di quell’insetto, ma si concesse qualche imprecazione anche per Thoreau e il suo mantra di ascoltare i coloni e seguire tutte le piste che i loro discorsi suggerivano. Bei risultati che ottenevi, davvero.
«Non proprio un segreto militare, ma i militari non vogliono che se ne parli. Hah!» sbuffò. «Non so cosa l’abbia portata a rivolgersi proprio al professor Leitl, ma è stata una grande stupidata, lasci che glielo dica. Una scemenza con lode e bacio accademico, guadi.»
«È l’unico che ho trovato in studio, quel giorno,» le ricordò Erika.
«Sì, per forza. È sempre nel suo studio, quello. Sempre chiuso lì dentro ad annusarsi le scoregge e a ripulirsi le narici, quando crede che nessuno lo veda. Jérémy Leitl ci vive nel suo studio. Ti ci vuole la gravità di un buco nero per scollarlo dalla poltrona e trascinarlo fuori di lì. Per forza che lo hai trovato! Sarebbe stato strano non trovarcelo nel suo studio, quel paguro umanoide.»
Erika Freire si sentì vagamente in imbarazzo per la descrizione che la Bapchuck aveva appena dato di un suo collega. Descrizione che poteva anche essere vera, per quel che ne sapeva lei: non aveva mai avuto a che fare col professor Leitl, se non per rifilargli l’insetto, e il modo in cui la capa glielo aveva appena descritto le aveva tolto ogni eventuale voglia residua di rivederlo. Non che ne avesse mai avuto voglia, beninteso, ma quello era un altro discorso. «E... come mai è stato un errore averne parlato col professor Leitl? Non capisco...»
«Già, ovvio. Perché è un cretino e ha qualche amico tra gli ufficiali di stanza su Madre. Che poi, sia chiaro, amico è una parola grossa. Diciamo ha qualche conoscente, gente con cui chiacchiera ogni tanto e magari va a bere qualcosa, se gli capita di alzarsi, o vanno a puttane assieme, quello che è.»
Erika Freire si sentì ancora più in imbarazzo e il fatto che stesse pure arrossendo peggiorava solo le cose. No, non era decisamente la chiacchierata a cui aveva cercato di prepararsi. Non lo era neppure per sbaglio. «Ehm, beh, quindi, insomma...»
«Quindi insomma quel cretino è andato subito a vantarsi della scoperta con uno dei suoi amichetti, una cosa tira l’altra, un messaggio qui e uno là e alla fine hanno contattato Thoreau, per chiedergli di controllare meglio quello che i suoi dipendenti fanno e studiano, perché certe cose non è saggio che si vadano a raccontare in giro, niente pubblicità, blablabla, solita roba. Bah!»
«E... quindi? Sono nei guai?»
«Definiscimi “guai”. Comunque no, non proprio nei guai. Non direttamente nei guai. Diciamo che hai messo il naso in qualcosa in cui non avresti dovuto mettere il naso. Ordini superiori, sai.»
«Ma io non volevo!»
«Volere o non volere non ha alcuna rilevanza. Se dipendesse da quello che voglio io, di militari qui non ce ne sarebbe neppure mezzo. O forse mezzo sì, perché no, su un palo come promemoria per i colleghi. Conta quello che fai e che non fai e tu hai cercato e poi trovato un insetto in un settore del pianeta che è, di fatto, area militare, anche se tecnicamente non lo sarebbe. Un insetto a noi ancora ignoto e che, a quanto pare, i militari avrebbero preferito che rimanesse ignoto.»
«Ma diversi coloni lo avevano già visto, voglio dire...»
«Sì, sì, ho letto la sua relazione. I coloni vedono molte cose, senza dubbio, ma non ha rilevanza, lo capisce? Perché sono, appunto, coloni. Sono i pionieri della nuova frontiera, gli immigrati a caccia di fortuna, su e giù, questo e quello, aggiungi pure la retorica che preferisci, ma restano pur sempre persone comuni. Non sono ufficiali. Nessuno le prende sul serio. Quello che dice un professore, un ricercatore, uno che ha gente che lo ascolta anche fuori dai bar, invece, è preso sul serio. Vero, non sempre e non necessariamente, ma ha credibilità. Ha peso. È serio. Se un colono dice di avere visto un elefante rosa che volava, farà ridere qualcuno, ma tutto finirà lì, anche se il nostro colono se ne va in giro con l’elefante al guinzaglio. Al massimo gli concederanno un articoletto umoristico tra le curiosità, per riderci tutti assieme. Ma se l’emerito professor Trombetta, dell’università Pappappero, se ne esce con una pubblicazione sulla scoperta di una nuova specie di elefante rosa volante, magari con un esemplare in allegato, cosa credi che succederà adesso? Soprattutto se succede su un pianeta come Madre, che ha le rovine aliene e più anomalie di quante abbia voglia di contarne?»
«Beh...»
«Te lo dico io cosa succede: probabilmente nulla.»
«Ma allora...»
«Probabilmente nulla, perché da quando è cominciata l’era delle esplorazioni spaziali di cose strane ne spuntano quasi tutti gli anni e ormai ci siamo anestetizzasi. C’è bisogno di qualcosa di veramente grosso per scuotere l’opinione pubblica interplanetaria, oggi: come le rovine aliene, per esempio, o come forse saranno le strutture organiche nei giganti gassosi, che quel professore svarghiano dice di avere scoperto. Se Svarga continuerà a pomparle, perlomeno. Una nuova specie di insetto, invece, è del tutto trascurabile, se non per una ristretta cerchia di persone interessate. No, non è quel dannato coso che sembra un tafano deforme a essere un problema. Sono i militari. È a loro che interessa, per motivi che soltanto loro sanno, forse. Non sono convinta che lo sappiano neppure loro, ma lasciamo perdere, che è meglio. Il punto è che tu lo hai consegnato a Leitl, Leitl ne ha parlato coi militari e il comando della base, quella dell’ascensore vecchio, ha parlato con Thoreau, Thoreau ha parlato con me e adesso io parlo con te. E di cosa? Delle conseguenze della tua scoperta.»
«Conseguenze che io comunque non ho ancora capito.»
«Non ne dubito. La conseguenza più diretta è che adesso ti dovremo assegnare un altro incarico e tu dovrai lasciare la città, che ti piaccia o meno. A me non piace. Non perché mi interessi averti qui o perché io abbia a cuore le tue attuali ricerche, ma perché me lo chiedono persone sgradevoli. Me lo ordinano persone sgradevoli, che è decisamente peggio. Thoreau dice di sopportare, perché non può durare per sempre, ma io dico che è durato anche troppo. Pure, dobbiamo sopportare, per dispetto se non per convinzione. Alla fine cederanno. Leonardi non può durare per sempre.»
Erika Freire non capiva dove stesse andando la discussione, ma era un dettaglio secondario, in quel momento. Cosa significava che l’avrebbero trasferita? E dove l’avrebbero trasferita? Dove sarebbe finita, se doveva lasciare la città? Perché non è che ci fosse molto, nei dintorni. E tutto perché, quel maledetto giorno in cui quel maledetto ragazzino l’aveva avvicinata, era uscita da sola e non aveva controllato chi ci fosse nei dintorni. Bella fregatura. «Che cosa mi succederà, allora?» chiese.
«Hai scoperto l’insetto, continuerai a studiare l’insetto. Il tuo prossimo incarico sarà nella zona dei primi scavi archeologici, presso la base militare. È lì dove hai trovato più riferimenti all’esemplare, giusto? Che non ti piaccia o che ti faccia schifo, adesso dovrai proseguire la ricerca e scoprire tutto il possibile su quella nuova specie. E sarai controllata da vicino dai militari. La tua ricerca la dovrai svolgere sotto la loro supervisione e collaborando con loro, capisci? Dicono che è importante per la sicurezza della zona e forse anche per il benessere della base, o palle varie. Non so dirti che cosa ti toccherà fare di preciso, ma questi sono gli incarichi. Ah, potrai anche usufruire di un aumento di stipendio e del titolo di professore, almeno in via provvisoria. A seconda di come andranno le cose, potrebbe anche diventare definitivo. Questo sono gli ordini che hanno dato a me e che io devo dare a te, dal produttore al consumatore. Tutto chiaro?»
No che non lo era, ma al momento Erika non credeva che la sua testa avrebbe evitato di esplodere per il tempo necessario a fare domande e ascoltare eventuali risposte. Era successo troppo e tutto era successo troppo in fretta. Avrebbe avuto bisogno di qualche ora da sola, in pace, per ricapitolare la discussione e, con un poco di fortuna, ricavarne un barlume di senso, ammesso e non concesso che ce ne fosse un barlume, da qualche parte. Ne dubitava, ma non si poteva mai dire.
«Nessuna domanda?» riprese la Bapchuck. «Bene, anche perché dubito che ti saprei rispondere. Ti inoltrerò a breve tutti i dettagli sul tuo incarico, data e ora della partenza e così via. Ah, non ti devi preoccupare per gli impegni che ti eri assunta qui: li distribuiremo ad altri, incluso il tizio che hai come specializzando. Quello sarà il problema minore, davvero.»
Sarà anche la cosa più piacevole, pensò Erika. Liberarsi di quel tizio avrebbe migliorato la qualità della sua vita, almeno in parte. Peccato che tutto il resto l’avrebbe peggiorata, per cui il risultato non sarebbe stato positivo. Lavorare coi militari? Prospettiva non entusiasmante, ma dopotutto in linea col resto della sua esperienza su Madre: una spirale verso il basso. Tanto per stare allegri.
Il resto del giorno lo trascorse col pilota automatico inserito e il cervello scollegato. Si occupò degli insetti nei terrari, assegnò incarichi a Dingledine che fossero il più possibile lontani da lei, pranzò in mensa, chiacchierò con qualche collega, ma tutto col distacco di chi ha ormai deciso di fare l’ultimo salto e deve soltanto controllare che il gas sia chiuso, le luci spente eccetera. O qualcosa del genere: Erika Freire non sapeva come fosse di preciso quello stato mentale, ma poteva almeno immaginare che non si trovasse poi troppo lontano dal suo, su un piano puramente teorico e figurato.
Cosa doveva attendersi adesso? I dettagli che la Bapchuck le aveva promesso, d’accordo, ma a parte quelli? Oh beh, inutile pensarci troppo. Meglio prepararsi al peggio e sperare in meglio, anche se le sue speranze di solito non abbandonavano mai il livello iperuranico per farsi realtà oggettuale. Tipo il museo che stavano costruendo in città e che sarebbe stato il primo sul pianeta. Ci aveva sperato, lo aveva aspettato e adesso i lavori erano sospesi, rinviati a data da destinarsi, perché dagli scavi era emerso un sasso o qualcosa del genere. Erano intervenuti gli archeologi e quando intervenivano gli archeologi tutto il resto si fermava. Magari lo avrebbe trovato già concluso al ritorno dal viaggio e annesso soggiorno presso la base militare. Se mai ne sarebbe tornata.
Partì nove giorni più tardi, in un mattino moderatamente fresco e nuvoloso, smosso di tanto in tanto da un venticello molesto la cui unica funzione, per quanto lei potesse giudicare, sembrava essere di sollevare polvere e buttartela negli occhi. Oklahoma City, capitale della colonia per carenza di seri contendenti al titolo, ma anche non seri contendenti, le regalò un saluto in cui si condensava tutto il suo fascino, che un poeta avrebbe potuto paragonare a quello del marciapiede di fronte al take-away di un agglomerato urbano dal senso civico particolarmente basso. Pure, il luogo aveva fatto funzioni di casa per lei, durante tutto il tempo trascorso su Madre, per cui Erika Freire non riuscì a soffocare una vaga malinconia all’idea di separarsene, aggravata dal fatto che non fosse solo una idea, ma una realtà in pieno inveramento.
Per la trentunesima volta si ripromise di non ascoltare mai più quello che le raccontava qualcuno, in qualsivoglia circostanza potesse accadere. Indagate sempre sulle storie dei coloni, mi raccomando, aveva detto Thoreau. Potrebbe esserci un brandello di verità. Non si sa mai. Non vi costa nulla. E lei lo aveva ascoltato. Ho trovato un insetto molto strano, fatto così e cosà, le aveva detto il ragazzino, quello che seguiva le sue lezioni serali (ex lezioni: capitolo chiuso della propria vita, che mai e poi mai avrebbe rimpianto). Lei lo aveva ascoltato. Risultato di tutto questo? La caricavano in carrozza (per modo di dire) e la spedivano verso una base militare, dove avrebbe dovuto continuare studi di cui non le poteva importare di meno. E tutto questo perché, apparentemente, aveva cercato qualcosa che non avrebbe dovuto cercare. Grazie dei tuoi preziosi consigli, Thoreau. Mi sono serviti molto.
La noia la impanò di melassa, mentre osservava il paesaggio scorrerle attorno, monotono e vuoto in quel modo così caratteristico di tutti i paesaggi di Madre. Potevano esistere mondi più squallidi? Sì, con ogni probabilità ne esistevano, ma con probabilità ancora maggiori l’uomo non li avrebbe mai e poi mai abitati, almeno fino a esaurimento scorte. Perché quei cretini dei terrestri si erano andati a scegliere quel posto? Per le rovine aliene, quasi di sicuro. E magari per dispetto. Sì, più per dispetto che per altro, almeno a suo parere: tipicamente umano. Fai una cosa perché sai che è stupido farla.
L’ascensore spaziale le apparve per primo, come era inevitabile che fosse, poi la zona archeologica e la base militare si delinearono sul terreno, a completare la trimurti locale e a suggerire, con la loro disposizione a triangolo grossomodo isoscele, una immagine stilizzata piuttosto buffa e allusiva, per lo meno alle menti infantili a sufficienza per cogliere allusioni di un certo genere. Erika Freire non la colse, persa nella pura contemplazione di ciò che le correva incontro, o a cui lei correva incontro, a seconda delle prospettive.
«Base militare? È una città militare, che cazzo.»
Aveva ricevuto una vaga anteprima del posto, quando aveva spedito il drone a caccia del suo insetto fatale, ma le immagini raccolte a distanza non l’avevano preparata alla realtà ravvicinata. Certo, che fosse un posto grande lo sapeva, ne aveva sentito parlare più volte, ma così grande? Qualcosa delle dimensioni di un centro commerciale, ecco cosa si era aspettata, ma la cosiddetta base sembrava più un paese da trenta o quarantamila persone come minimo. Forse di più. Stimare a occhio la capienza di qualcosa non era mai stata una sua dote e doverla applicare a chissà quanti chilometri quadrati di terreno, ricoperti da edifici di varie dimensioni e racchiusi da reticolati e affini, non migliorava di certo il risultato. Perché poteva anche estendersi sottoterra, giusto? Erika se lo sarebbe aspettato: era da base militare, dopotutto. Fosse come fosse, era grossa come una cittadina di provincia, di quelle che possono permettersi anche un ospedale di discrete dimensioni. Ed era presumibilmente piena di soldati, impegnati a proteggere il pianeta da chissà cosa. Dalla noia, forse.
Cosa ci faccio qui?, si chiese, non per la prima volta e quasi sicuramente neppure per l’ultima. Ci faceva che le volevano far studiare un insetto, in teoria. Un insetto che, in apparenza, viveva solo da quelle parti, o che almeno era stato localizzato soltanto da quelle parti, e che, per motivi ignoti e un poco sospetti, sembrava interessare ai militari. In cosa si era infilata stavolta? Per certi versi era più o meno come essere di nuovo su Varuna, dove in ogni momento potevi infrangere una convenzione sociale, finire nel quartiere sbagliato per il tipo sbagliato di persona o comunque trovare un qualche modo estremamente improbabile e sgradevole per peggiorare la tua vita. Allegria, davvero.
La zona degli scavi era sul lato opposto e pure quella era decisamente grande. Assomigliava quasi a un enorme cantiere, accanto a cui si era sviluppato un villaggio per fornire i servizi necessario agli operai. Un bubbone di villaggio, a voler essere poco poetici ma molto realisti. Erika si cullò per un poco l’immagine, trovandola buffa, poi ci pensò meglio e si accorse che non era soltanto una buffa e curiosa immagine: era anche vera. Avevano cominciato gli scavi, gli scavi si erano allargati sempre di più e alla fine li avevano dovuti dotare di tutti i servizi necessari al sostegno della comunità che si era formata attorno alle rovine: dormitori, mense, aree ricreative, negozi, eccetera eccetera. Chissà come si viveva lì dentro? Con tutta probabilità non lo avrebbe mai scoperto.
Il suo sguardo tornò alla base militare, sempre più vicina e sempre più larga. Non sembrava esserci un settore destinato ai cosiddetti servizi, nei dintorni, non come esisteva per gli scavi, ma non ne fu sorpresa. Se c’era, e poiché doveva per forza esserci, in un posto così grande e affollato (o per lo meno presumibilmente affollato), i servizi dovevano costituire una specie di quartiere interno, dove trovare mense, negozi, aree ricreative eccetera. Forse. Erika Freire non aveva idea di come fosse o come funzionasse una base militare, a prescindere dalle sue dimensioni, ma era pur sempre abitata da esseri umani e gli esseri umani fanno più o meno le stesse cose ovunque, giusto?
Ci pensò. Ci pensò meglio. Ok, forse non proprio ovunque e forse non proprio le stesse, almeno in pubblico. Varuna era stato un caso particolare, forse un caso limite, con una società fatta di scatole e scatole, una dentro l’altra, una accanto all’altra, in strutture geometriche che avrebbero confuso pure Escher, costringendolo a sbottare un sonoro «Ma è uno sclero!». Su Varuna gli unici spazi pubblici erano di fatto club privati, a cui potevano accedere soltanto membri di determinate categorie. Erano microcosmi dove entravi con invito o quasi. Ma forse, se univi tutti quei microcosmi, almeno su un livello virtuale, forse potevi ottenere qualcosa di simile a uno spazio pubblico. Un puzzle pubblico, se non altro. Un cubo di Rubik pubblico, in cui ogni faccia poteva essere di un solo colore e pure quel colore era frazionato in quadrati più piccoli.
Ma Varuna era Varuna e Varuna era il passato, almeno per lei. La base militare rappresentava invece il futuro, non proprio luminoso o gradevole ma pur sempre il posto in cui sarebbe finita nel giro di pochi minuti, nolente o nolente. Quindi, meglio concentrarsi solo sulla base e pensare a come la vita potesse essere tra le sue recinzioni. Abbastanza normale, no? Magari più rigida, ok, ma erano tutti terrestri, era su una colonia terrestre, una società terrestre, quindi non ci sarebbe stato nulla di strano o anomalo. In teoria. Con un poco di fortuna.
Pure, avrebbe preferito rimanere al centro studi in città, insieme ai suoi pseudoscarafaggi anfibi. Ma era inutile pensarci: i cancelli della base si aprivano già per lei, o almeno per il mezzo di trasporto su cui stava viaggiando, un corridoio di edifici la guidava alla sua nuova casa e il resto... Il resto lo avrebbe visto da sé, prima o poi. Che le piacesse o meno.
A Oklahoma City, nel terrario della stanza tredici, Steve Dingledine contemplava gli insetti che gli erano stati affidati e di cui era rimasto unico tutore, vestale muta che vegliava il fuoco sacro della conoscenza pseudoblattica. Almeno per il momento. Non aveva gradito la notizia che la sua tutrice sarebbe stata trasferita altrove e che a breve qualcuno avrebbe deciso dove e come ricollocarlo, per consentirgli di proseguire la propria specializzazione, ma nessuno che si fosse degnato di chiedergli un parere o anche solo di spiegargli cosa stesse accadendo. Niente di nuovo, da quel punto di vista: aveva già parlato con altri ricercatori e specializzandi e sapeva più o meno cosa aspettarsi. «Finché sei qui a fare il tuo corso, tu sei più o meno un portaombrelli parlante,» gli avevano detto tutti, con variazioni individuali sull’oggetto a cui lo avevano paragonato. «Ti spostano qui e là, poi ti rifilano questo e quello e insomma ti tirano tutto ciò che nessuno ha voglia di fare, visto che tanto tu lo devi fare. Porta pazienza e adattati. Sono solo un paio di anni.»
Steve portava pazienza e si adattava. Pure, per una volta che un esemplare femminile di umano era costretto a spendere parecchio tempo con lui, avrebbe preferito potere continuare la collaborazione. Gli scarafaggi gli piacevano anche, tutto sommato. Ok, forse “piacere” non era il verbo adatto, forse era troppo positivo, ma erano almeno un passatempo gradevole. Non facevano rumore, non erano di troppe pretese e non richiedevano molte cure: li rifornivi regolarmente di cibo e acqua, controllavi di tanto in tanto i valori del terrario, regolavi qualcosa qui e là e per il resto era solo una monotona serie di raccolte dati e test da eseguire. Facile, rilassante, con un gradevole retrogusto di noia, che è sempre benvenuta, specie se consideri le alternative. Tipo lavorare con insetti velenosi o aggressivi.
Cosa lo avrebbero spedito a fare, adesso? Non lo sapeva, ma probabilmente starebbe stato un lavoro poco piacevole, ossia molto faticoso. O anche solo faticoso, senza avverbi particolari. Intanto, Steve continuava a curare gli pseudoscarafaggi e ad assicurarsi che stessero tutti bene.
Prima di partite, la dottoressa Freire aveva riportato al centro studi gli esemplari che aveva tenuto in casa e adesso occupavano un piccolo terrario nella stanza tredici, a una certa distanza dagli altri. Gli aveva suggerito di seguirli con attenzione, perché si erano comportati in modo strano di recente e un eventuale ricongiungimento con gli altri avrebbe dovuto attendere per lo meno che le loro abitudini fossero tornate normali. Steve ci aveva capito poco, ma aveva annuito. Era un lavoro come un altro, dopotutto, e in più la richiesta gli veniva da una donna, che magari un giorno avrebbe anche potuto dimostrare una qualche gratitudine nei suoi confronti, no? Magari non così probabile, ok, ma tutti hanno diritto di sognare, dopotutto. Così Steve controllava i nuovi arrivati e attendeva notizie.
Che non arrivavano, per fortuna o purtroppo. Si trovò così a spendere tutto il giorno e tutti i giorni nella stanza tredici, a fare la balia per gli pseudoscarafaggi. Non proprio il lavoro dei suoi sogni, ma pur sempre migliore di quello che le aveva prospettato quella persona orribile di Maelle Prsic, nelle giornate interminabili al centro culturale di Varshi. Lavorerai con le mosche, vivrai con le mosche, ti sposerai con una mosca, gli aveva detto lei. E invece no, hah! Di mosche non ne aveva vista una, alla facciaccia sua. Lui si occupava di scarafaggi.
E i nuovi arrivati, in effetti, erano piuttosto strani. Steve si scoprì interessato nonostante tutto. Aveva letto gli appunti che la Freire gli aveva lasciato, in cui spiegava come tendessero a trascorrere molto più tempo in acqua del normale, e in effetti era vero: confrontandoli con gli altri terrari, anche solo a vista, il comportamento appariva ancora più anomalo. All’inizio. Poi Steve fece qualcosa che si certo non avrebbe incontrato l’approvazione della sua ex responsabile, ma dopotutto quasi nulla di ciò che lui faceva incontrava mai l’approvazione della Freire, per cui lo fece lo stesso. Raccolse uno degli pseudoscarafaggi dal comportamento anomalo e lo trasferì in un altro terrario. E guardò.
Nel giro di tre giorni quell’esemplare sembrava aver contagiato anche tutti quelli del nuovo terrario. Strano. Steve raccolse dati, registrò con cura le reazioni, abbozzò un paio di sue ipotesi sul perché fosse successo, quindi procedette con un nuovo esperimento: prese un altro scarafaggio portato dalla Freire e lo trasferì in un secondo terrario. La storia si ripeté, sempre nel giro di tre giorni. Che ci fossero metodi di comunicazione ancora ignoti tra gli pseudoscarafaggi? Possibile. Non si sapeva molto sul loro loro comportamento. Era un fenomeno che meritava studi più approfonditi.
Steve Dingledine procedette così lungo una linea di pensiero tutta sua, che la Freire non avrebbe di certo approvato, ma la Freire non c’era e Steve sì. Questo decise la sorte degli pseudoscarafaggi. Ne raccolse altri due esemplari, uno di quelli dal comportamento anomalo e uno di quelli ancora in apparenza normali, e li vivisezionò. O tentò di. Non aveva studiato come vivisezionare scarafaggi alieni, ai tempi dell’università su Lakshmi, ma nella stanza tredici c’era solo lui, nessuno sembrava interessarsi molto a ciò che faceva e i suoi contatti umani erano ridotti solo a poche chiacchiere in mensa, il che può spiegare molte cose. Non tutte, forse, ma molte può bastare.
Ma la vivisezione non trovò anomalie o differenze. Strano. Dunque non era un fattore fisico, ma psicologico, almeno nei termini in cui puoi parlare di psicologia con scarafaggi anfibi. Quale poteva essere la spiegazione? Perché i nuovi arrivati contagiavano col proprio comportamento tutti gli altri esemplari con cui entravano in contatto? Cercando una risposta, e attendendo ordini dall’alto o da qualsiasi altra direzione, Steve Dingledine continuò i suoi esperimenti nella stanza tredici del centro studi. Non era proprio interessante, ma era un modo per passare il tempo, no?
Poi ci fu l’incidente nelle fogne e i suoi superiori gli trovarono altro da fare. Purtroppo per lui, non fu decisamente più piacevole.