Adriano - racconti e altro

La galassia di Madre - 66

Era ormai sera quando Davide Kori rientrò nel modulo che divideva (in parti non uguali) con Olaf Selke e come sempre lo trovò vuoto. Come sempre nell’ultimo periodo, almeno. Era già trascorso un certo periodo dalla conclusione forzata dei lavori al cantiere, ma soprattutto dall’incidente della notte precedente la conclusione, quello che era costato una mano a Klaus, ma Olaf il responsabile irresponsabile non aveva ancora finito di smaltire le conseguenze di ciò che gli altri avevano fatto.

Conseguenze blande, tutto sommato, ma punizione era e come punizione doveva essere vissuta. Nel caso specifico di Olaf, ciò significava una riduzione del salario, varie limitazioni alle attività e, cosa peggiore, l’obbligo di seguire ogni giorno lezioni o ripetizioni sulla condotta e roba simile. Davide non sapeva bene cosa fossero, né gli interessava saperlo, ma il compagno di stanza le descriveva come terribili e tanto gli bastava.

Conseguenze peggiori erano capitate ad altri del gruppo. Klaus Layer, per cominciare, che adesso si trovava da qualche altra parte, impegnato con la riabilitazione della protesi artificiale che gli aveva rimpiazzato la mano sinistra, dopo che questa aveva perso una scommessa tra ubriachi: per lui non c’erano state punizioni, sulla base che perdere una mano era punizione sufficiente. Sebastian Hahn, che aveva dimenticato di disattivare il macchinario, aveva ricevuto pure lui una sanzione economica e una nota negativa al capitolo “disciplina” del curriculum, ma aveva anche accolto tutto quanto con una scollata di spalle e l’interesse che i lombrichi sono soliti riservare alla meccanica quantistica. Altri, che avevano incitato Klaus o partecipato in prima persona alla geniale scommessa, erano stati trasferiti altrove, forse destinati a lavori ancora più schifosi. Davide, che alla scena aveva assistito come spettatore occasionale, non aveva ricevuto reali punizioni, anche se considerava punitivo a sufficienza l’incarico temporaneo che gli avevano rifilato.

Non una bella storia, già. Il loro gruppo era quasi dissolto ed era stato rimescolato in abbondanza, con l’aggiunta di nuovi arrivati che il Teatro di Oklahoma aveva sbarcato da poco. Olaf era ancora il responsabile, formalmente, ma girava sempre con una faccia da bassotto stitico e doveva rispondere ogni giorno a un controllore. I lavori di costruzione del museo erano rinviati a data da destinarsi, per la scoperta della pietra e il successivo intervento di archeologi e militari: non proprio la stessa storia del cantiere stradale, ma quasi. E loro, i rimanenti, erano stati distribuiti in varie zone della città, per tappare falle e occuparsi dei lavori che nessuno voleva. O, a seconda dei punti di vista, di lavori utili o fondamentali per il benessere della nuova comunità.

Davide sospirò, scagliando i vestiti fetidi in un angolo e incuneandosi nella doccia-sepolcro. Certo, era indubbio che la riparazione ed estensione del sistema fognario di Oklahoma City fosse un lavoro utile, per non dire fondamentale; che avessero spedito buona parte del loro gruppo a occuparsene, però, era palesemente una punizione. Spediti assieme a una pletora di novellini, con ancora la puzza di Terra addosso, e assieme a qualche veterano, che addosso aveva una puzza generica. Era brutto, ma non ancora brutto a sufficienza, perché lui, lui Davide, non solo doveva spendere le giornate nel sottosuolo, nonché in altri materiali meno gradevoli. Lo avevano pure sistemato in coppia con Luis, che era di compagnia come una cimice nel letto.

Ok, forse era un giudizio ingiusto. Luis Morago qualche sforzo lo faceva. Tentava di comunicare. Il problema era che comunicava in una lingua nota forse a lui soltanto, fatta di parole mescolate a caso e pescate a occhi chiusi, sparate a raffica in un tentativo di assassinare la sintassi. Se ti impegnavi a fondo, se concentravi tutti i tuoi neuroni su ciò che diceva, alla fine riuscivi a cavarne un senso, ma quasi mai era un senso che valesse tutta quella fatica. Così le giornate trascorrevano con Davide che gettava una frase nel vuoto comunicativo, Luis che bofonchiava qualcosa di vagamente intelligibile, Davide che mugugnava una risposta a caso, il tutto separato da abissi cosmici di silenzio. E fetore.

Ma quanto puzzavano le fogne di Madre? Troppo. Doveva esserci qualcosa nel cibo, forse, o negli insetti che sguazzavano allegri nel materiale semisolido, o forse batteri anomali, che producevano il più ributtante dei gas che l’uomo potesse immaginare. Neanche il bagno di casa dopo il passaggio di suo fratello Matteo era mai stato così fetido. Punizione, sì: decisamente una punizione. Sadica.

Matteo. Era da tanto che Davide non pensava più al fratello. C’era stato un periodo in cui lo aveva quasi odiato per essere fuggito su Lakshmi lasciandolo da solo con la mamma. Poi era passato a una compassione sdegnosa, durante i mesi trascorsi con gli Isolazionisti: Zeke gli aveva spiegato che chi andava sui pianeti degli Altri diventava come gli Altri, povero fantoccio assimilato e manovrato. E sì, Matteo aveva tutto il necessario per essere un fantoccio, praticamente costruito nel genoma. Alla fine Davide aveva proprio smesso di pensarci, con tutto quello che era capitato, l’arrivo su Madre e la nuova vita da colono. Ci pensava adesso, asciugandosi, trasportato da un treno mentale fatto di odori da bagno o giù di lì. Decisamente più giù del bagno.

Si sarebbero mai rivisti? Forse sì, forse no. Inutile pensare o progettare, perché prima o poi la vita ti si siede sul castello di carte che stavi costruendo e tutto quanto se ne va in malora. Meglio un passo alla volta, andare dove porta la strada e prepararsi a correre, quando necessario. Forse non una gran bella filosofia di vita, ma funzionale, almeno per quanto Davide avesse potuto verificare. Pensare al fratello non era comunque una priorità, al momento. O meglio, poteva anche pensarci, se proprio lo voleva, ma preoccuparsene o farne un qualche tipo di priorità era inutile. Peggio, era stupido. Aveva altro lavoro per le mani, ma anche per altre parti del corpo.

Gli incarichi assegnati da Zeke, per esempio. Li aveva accantonati, durante i mesi su Madre, e se ne sarebbe forse dimenticato, se avesse avuto tempo a sufficienza per fermarsi da qualche parte, con un lavoro preciso e definitivo. Questo non era successo. Prima c’era stato il cantiere stradale, interrotto dal ritrovamento di un fossile, o almeno di una specie di osso, che era stato poi presentato come un fossile. Ne avevano parlato per un poco, in città, ma presto la notizia era passata di moda, restando solo un interesse accademico o da accademici. Stessa roba. Era stato quindi il turno del museo, il primo che sarebbe sorto su Madre per accogliere reperti alieni, ricostruzioni, modelli e così via, la paccottiglia che piaceva forse a Matteo, ma di certo non a lui. Ci avevano lavorato a lungo, pareva che tutto stesse procedendo bene, poi ecco che la terra sputa una nuova sorpresa, un roccione dalla forma strana. Chiuso anche quel cantiere, forse per un poco o forse per sempre. Adesso attendevano nuovi ordini e nuove destinazioni, se mai ce ne sarebbero state.

Aveva tempo e non aveva altro da fare, a parte sguazzare nelle fogne. Perché non rispolverare gli incarichi di Zeke? Non avevano data di scadenza, dopotutto, quindi erano ancora validi. Di utilità assai dubbia, se le scarne notizie giunte dalla Terra e il grande silenzio indicavano davvero che gli Isolazionisti avevano fallito in grande stile, o in piccolo stile, tuttavia quegli incarichi restavano pur sempre qualcosa da fare. Un passatempo. Un modo per dare una conclusione a fili della sua vita che erano rimasti a sventolare liberi nel nulla. O qualcosa del genere, ci siamo capiti.

La vita da colono non gli dispiaceva. Vero, non è che gli piacesse neppure tanto, troppo faticosa per i suoi gusti e molto spesso anche troppo grezza, ma era una vita, una occupazione, essere parte di un gruppo e dividere le proprie esperienze con gli altri. Lo faceva sentire pieno, anche se non sempre il ripieno era positivo o piacevole. Si era anche dedicato a cercare informazioni sul padre, dettagli che confermassero o smentissero la storia di Zeke. Ne aveva trovati? Da un certo punto di vista, volendo e non facendo troppo il pignolo. L’insetto esisteva. Forse. O almeno esistevano altre persone che lo avevano visto, o quanto meno ne erano state punte. Ed era successo proprio nella zona del vecchio ascensore, ossia dove si dovevano trovare i fantomatici pozzi, secondo Zeke. Dunque era probabile, possibile che fosse tutto vero. Certo, dei pozzi nessuno sapeva nulla, ma una cosa alla volta.

Solo che doveva cercare proprio i pozzi, se voleva anche svolgere gli incarichi di Zeke. Oh beh, per lo meno sapeva dove fosse il vecchio ascensore, quello riservato ai militari: non disponeva di mezzi di trasporto per raggiungerlo, ma questo era un problema secondario. Ok, un problema secondario grosso, ma preferiva concentrarsi sul primo aggettivo e lasciare il secondo al futuro. Qualche giorno prima ne aveva anche chiacchierato con Olaf, in modo molto indiretto e contorto. Chiacchierato dei basi militari e zone archeologiche, se non altro, che al momento erano un argomento molto comune di discussione, tra la scoperta della pietra, la chiusura del cantiere e tutto il resto.

«Ci vorrà un po’ per spostare la pietra senza danneggiarla, guardare che non ci sia altro lì sotto, cose così,» aveva risposto Olaf, quando Davide aveva chiesto per quanto tempo sarebbe rimasto chiuso il cantiere del museo secondo lui. «Non so quanto ci vorrà di preciso per quella roba lì, mica sono un archeologo, ma secondo me, boh, un mese, dai. Se non c’è altro, ok, perché se trovano altri sassi o quello che sono... mah, non so quando lo riapriranno, ma secondo me c’era solo quella, sì,» aveva concluso, con la sicurezza di chi guarda altre persone lavorare.

«E continueremo a scavare fogne per almeno un altro mese,» aveva detto Davide.

«Eh, Bruno, facciamo quello che c’è da fare, no? Mica lo scegliamo noi, lo sai. E poi, beh, con tutto quello che è successo, dai, è ovvio che per un po’ ci daranno solo cose schifose. Non è proprio una punizione, no, però è, non so, un modo per calmare tutti, no?»

«Una punizione, ok.»

«Eh, beh...»

«Però sono arrivati presto, stavolta. Quando abbiamo trovato l’osso, al cantiere stradale, c’è voluto molto di più. Questa volta bam! Trovata la pietra e subito archeologi e militari a sbavarci sul collo.»

«Beh, stavolta siamo anche in città, non in mezzo al niente. Poi archeologi e militari stanno qui nei dintorni, voglio dire le loro sedi centrali. Gli scavi principali, per esempio. Lo sanno tutti.»

«Vicino al vecchio ascensore, dove sono arrivate le prime due spedizioni.»

«Eh, sì, giù di lì.»

«Quando c’è bel tempo lo si vede anche, più o meno. Beh, non che ci sia mai molto bel tempo, con la foschia o quello che è. L’aria fa sempre abbastanza schifo. L’ascensore però si vede, nel cielo. Si vede dov’è, almeno. Grossomodo.»

«Beh, sì, perché è grosso, però è lontano, dico. Voglio dire, mica ci arrivi a piedi, se ci vuoi andare. Non che io ci voglia andare, eh. Infilarmi in mezzo ai soldati e agli archeologi, lì...»

«Beh, è ovvio. E poi non c’è nessun mezzo per arrivarci, no? Nessun mezzo pubblico, dico.»

«Eh, no, nessuno.»

Davide aveva cercato di cavarne qualcosa di più, ma la discussione era morta di stenti e alla fine si era rassegnato a riportarla verso altri lidi, più piacevoli o almeno meno sofferti. Tutti sanno dov’è, tutti sanno cos’è, tutti la vedono, ma nessuno sa come raggiungerla. Non con mezzi pubblici, se non altro, perché i mezzi pubblici non ci vanno, non in quell’area. Eppure archeologi e militari entrano ed escono, vanno avanti e indietro. Quindi lo faranno con mezzi privati. Quindi con mezzi privati ci arrivi. O a piedi, ok, ma a piedi significava camminare per chilometri e chilometri in mezzo al nulla. Quasi nulla. La colonia non si era estesa molto in quella direzione, lungo l’equatore. In tutte le altre direzioni sì, ma non verso il vecchio ascensore e i primi scavi. Curioso.

No, curioso per niente. Se là si trovava quello che pensava Zeke, allora era ovvio che la colonia si fosse estesa da altre parti. Con tutto un pianeta libero, poi, lo spazio non mancava. Pure, era strano. Oh beh, ci avrebbe meditato. Aveva a disposizione giornate intere nelle fogne per meditarci sopra.

Qualche giorno dopo, in mensa, Tunde Bohr gli disse che la tizia che teneva le lezioni serali se n’era andata per qualche motivo non chiaro. A sostituirla era arrivato un tizio sulla trentina, con una voce da lobotomia e una barbetta da capra deforme. Non un miglioramento, secondo il suo parere, e forse avrebbe smesso di seguirle, perché davvero, già le fogne erano una tortura per conto loro, e se poi ci dovevi aggiungere serate con un tizio che recita il rosario, invece di spiegare, allora tanto valeva che ti rispedissero a piedi sulla Terra, che forse sarebbe stato meno doloroso.

Davide accolse la notizia con una scrollata di spalle. Le lezioni serali le aveva abbandonate già da tempo, a differenza di gente come Tunde e Selina, che le seguivano per farsi una cultura, o come il vecchio Sebastian, che le usava come riserva di caccia alla femmina. Aveva sperato all’inizio che gli avrebbero potuto insegnare qualcosa di utile sull’insetto che cercava lui, ma non era successo, come era stato inutile chiedere direttamente alla tizia. L’avevano trasferita altrove? Affari suoi, a Davide non poteva fregare di meno. Mica l’aveva mandata via lui.

Quando erano trascorsi ormai più di due mesi terrestri dalla chiusura del cantiere e ancora il futuro non conteneva tracce di una sua possibile riapertura, con buona pace delle opinioni altrui, per Olaf si concluse il periodo di castigo, o di qualunque cosa gli facessero fare alla sera, al termine del turno nelle fogne. Festeggiò il lieto evento lasciandosi cadere sul letto, col rischio di sfondarlo, e rifiutò di dare alcun segno di vita fino verso la mezzanotte, quando finalmente si alzò e dondolò in bagno, ancora avvolto nella tuta da lavoro. Vi rimase chiuso abbastanza a lungo da far temere a Davide che un nuovo lavoro di allargamento dei condotti fognari si sarebbe reso necessario a breve, poi uscì, si sedette, fissò il pavimento con un sospiro e brontolò. «Prendiamoci una vacanza. Non ne posso più di questa storia, veramente.»

Davide si raddrizzò nel letto, smettendo di fingersi addormentato. «Sei preso così male?»

«Neanche te la immagini la palla. E tutto perché un deficiente è andato a infilare la mano dentro una spaccasassi mentre era ubriaco. Cioè, voglio dire... dovrebbe estinguersi, gente così. Farebbe solo il bene dell’umanità, davvero. Ma come si fa, dico?»

Davide aveva raggiunto conclusioni simili poco dopo la serata dell’incidente, quando aveva visto, con grande chiarezza, come la specie nel suo complesso avrebbe goduto di un piccolo ma prezioso miglioramento se i geni (decisamente poco geniali) di Klaus Layer fossero stati rimossi e dispersi in mare. Siccome però aveva valutato che la specie umana sarebbe migliorata rimuovendo anche il genoma di parecchi altri individui di sua conoscenza, non escluso il compagno di modulo, optò per una risposta poco impegnativa, ma orientata all’accordo. Sì, c’erano parecchie persone inutili, per non dire dannose. E una vacanza... eh, una vacanza sarebbe stata piacevole. Più piacevole che una fogna, anche se in effetti erano tantissime le cose più piacevoli di una fogna.

«Possiamo davvero permetterci una vacanza?» chiese, mentre il compagno continuava a scuotere la testa al buio e bofonchiare parole incomprensibili.

«Perché non dovremmo? Siamo lavoratori, no? Stipendiati. Mica siamo schiavi.»

Davide pensò ai lavori che gli avevano assegnato fino a quel momento. «Se lo dici tu. In fondo sei tu il responsabile; lo dovresti sapere meglio di noi, no?»

Olaf incrementò l’umidità media della stanza con una pesante emissione di aria dalla bocca. «Io mi voglio fare una vacanza, poi vedi tu.»

«Io non ho niente in contrario.»

«Dormiamoci sopra e ci penseremo domattina.»

Giusto il tempo di concludere la frase e contare fino a dieci, dopodiché dal letto di Olaf l’orchestra attaccò col solito concerto notturno, che in quella circostanza faceva pensare a un asino brutalmente segato a metà, con estrema lentezza e l’aggiunta di qualche manciata di sale. Davide seppellì la testa sotto al cuscino, in un vano tentativo di soffocare le orecchie, magari senza soffocare anche il resto del corpo. Sì, esistevano persone che avrebbero potuto contribuire al benessere dell’umanità, se solo si fossero decise ad autorimuoversi da essa, evitando anche di lasciare propri discendenti. Tormenti acustici a parte, l’idea non era male. L’idea di prendersi una vacanza, ecco. Ancora non gli era mai capitato di pensarci seriamente, convinto com’era che il lavoro fosse un qualche modo per ripagarsi il viaggio e lo avrebbero dovuto svolgere senza soste fino a che il Teatro non avesse detto qualcosa del tipo «Ok ragazzi, il debito è estinto, adesso siete liberi».

Ma non era così. Non funzionava così. Il debito con la Terra, se debito c’era, lo ripagavano essendo lì, come coloni. La Terra aveva bisogno di gente che emigrasse, che lavorasse su Madre, riempisse la sua superficie, contribuendo a renderla accogliente e terraformata, o qualunque cosa fosse. Erano sì coloni, ma erano anche normali lavoratori. Dipendenti del governo locale, nello specifico. Quindi si potevano prendere vacanze. Forse non pagate e forse solo in certi periodi dell’anno, o magari per un numero limitato di giorni consecutivi, però potevano. Peccato solo che il pianeta fosse una topaia e di posti interessanti da vedere non ce ne fossero proprio.

Il giorno dopo ne discusse durante la pausa pranzo con Sebastian, Tunde e alcuni altri. Pochi altri. Il gruppo era bello e palle varie, ma l’idea di doversi trascinare dietro tutti quanti, se mai la proposta di Olaf fosse passata da idea ad azione, lo attirava quasi quanto il lavoro nelle fogne. No, ok, adesso aveva esagerato: il lavoro nelle fogne lo attirava molto meno, ma il principio era lo stesso ed era più che solido, a suo parere. Parliamo di vacanze? Allora deve essere qualcosa di piacevole. Rilassante. Rinfrancante, anche, se proprio si voleva abbondare con gli -ante. Dunque richiedeva, no, esigeva la più accurata delle selezioni, quanto ai partecipanti. Certi elementi del gruppo li accettava sul lavoro, ma nel privato li preferiva tenere a distanza di sicurezza. Su un altro pianeta, per esempio.

Ma Sebastian pareva interessato e anche Tunde si dichiarava possibilista, sebbene con distinguo. Un periodo di vacanza? Perché no? Ma era possibile? Voglio dire, rientra nei nostri diritti? Davide se lo era chiesto la notte precedente e lo aveva chiesto quel mattino stesso ad alcuni colleghi più anziani. Vacanza? Certo che si poteva! Periodi brevi e scaglionati a dovere, così da non causare buchi o altri tipi di problemi, ma erano lavoratori come tutti gli altri, dunque avevano teoricamente diritto a ferie e roba simile. Non che molti ne usufruissero, di solito. Che vacanze fai, su Madre? Te ne stai chiuso in alloggio a dormire, forse, o magari a ubriacarti in un bar, ma non è che ci fossero molte località di svago o altro. Era terra molto rustica e ruspante, per adesso.

Per Davide era un problema secondario. Potevano andare in vacanza, per qualche giorno, e allora perché non approfittarne? Un rapido consulto delle mappe gli aveva indicato che c’era realmente un qualche tipo di località balneare, forse più porto che spiaggia, ma a nord, nordest della città esisteva un insediamento, che definire cittadina era generoso. Il numero di abitanti non era riportato, così come si taceva della dimensione effettiva, ma le immagini lo facevano sembrare una delle frazioni a strada unica, spalmate a ridosso dei grandi centri turistici, ove la gente dorme, forse fa il bagno e poco altro. Poteva essere un posto da vacanza, volendo. Poteva anche essere molto di più, sempre volendo, perché era forse l’insediamento più vicino al vecchio ascensore e in linea d’aria la distanza era breve. A occhio. A giudicare dalla mappa.

A Davide interessava poco il mare e sospettava che quello di Madre non fosse balneabile, o almeno non per chi auspicasse a una vita lunga e integra, ma la posizione era ottima. Convincendo un poco di gente come copertura... Olaf sarebbe stato d’accordo, era ovvio. Voleva una vacanza e cosa c’era di più vacanzoso del mare? Niente! Quindi era deciso. Bastava solo una certa opera di persuasione.

Non fu difficile. Sebastian accettò subito, Tunde era più titubante, ma Selina sedeva al loro tavolo e si dichiarò interessata a vedere il mare madriano, il che spinse la bilancia a favore della proposta e alla fine portò a un consenso unanime tra i presenti. Mare sia. Davide non aveva calcolato che a loro si sarebbe aggregata pure Selina, con cui aveva parlato sì e no quattro volte e lo metteva sempre un poco a disagio, perché era troppo colta per i suoi gusti, ma era servita a far passare il suo progetto e il resto pazienza, si sarebbe adattato. Restava solo da sondare Olaf, ma ci avrebbe pensato in serata.

Fu un bene, perché nel pomeriggio ebbe pensieri molto diversi per la testa. Meno gradevoli, tanto per cominciare, nonché molto più umidi.

Accadde nel condotto fognario in cui lavorava assieme a Luis Morago, il suo fido collega di poche parole e nessuna sintassi. Dopo una mattinata piuttosto tranquilla e spesa in larga parte in superficie, che aveva permesso loro addirittura una rara incursione in mensa, il turno pomeridiano li aveva di nuovo relegati nelle viscere della città, o per lo meno nelle sue budella, grossomodo dalle parti del colon, a giudicare da odore e materiali organici circostanti.

Quel tratto di fognatura passava sotto un quartiere residenziale parecchio grosso e spartano, era alto a sufficienza per camminarvi eretti senza sbattere la testa, ma lo sviluppo urbano era proceduto più di quanto previsto e adesso si progettava una espansione, con nuove diramazioni da aggiungere per distribuire meglio il flusso degli scarichi o roba del genere. Lo aveva spiegato un tizio dalla pancia a pera e una barba da gatto morto, agitando una bacchetta verso uno schermo, ma nessuno ascoltava mai davvero, quando Ciccio parlava. Non che le spiegazioni contassero molto. Il punto era che loro sarebbero dovuti scendere nei condotti e verificare di persona, sguazzando in quello che, per il bene del proprio stomaco, era meglio pensare come ur-fertilizzante. Prospettiva da sogno.

Sguazzavano Davide e Luis, al momento, sempre in coppia perché era vietato procedere da soli. Le probabilità di perdersi erano scarse, perché la loro posizione era monitorata e registrata dall’alto, ma poteva sempre succedere qualche incidente e in due si riducevano le possibilità di incidenti finali e non reversibili. «E poi almeno avrete qualcuno con cui parlare, no?» aveva concluso il barbaciccio, con un sorriso che trasmetteva tutta la simpatia di un dito in gola, o in altri orifizi a propria scelta.

Qualcuno con cui parlare, certo. Quando avevi voglia di parlare, Luis Morago era proprio la persona giusta. Mister Monosillabo. Oh beh, il materiale che aveva sotto i piedi e attorno alle caviglie, ma spesso anche fino agli stinchi, esemplificava alla perfezione il tipo di lavoro che gli era toccato. Non c’era molto da aggiungere e Davide non lo aggiungeva.

Nelle spedizioni estemporanee su per l’intestino urbano si domandava spesso che razza di fauna lo potesse abitare. Nessuna, in apparenza, il che era una mezza benedizione. Sulla Terra ci sarebbero stati ratti in abbondanza, con ogni probabilità, nonché esseri ancora più sgradevoli. Ragni, tanto per cominciare, e altri insetti con più zampe che buongusto. Potevano esserci anche serpenti e scorpioni là sotto? E perché no? Le fogne terrestri non le aveva mai viste, di persona, per cui poteva popolarle con quello che gli pareva. Le fogne madriane, invece, parevano spopolate. Ottimo.

Davide non conosceva molto della fauna locale, a parte gli insetti che in superficie lo pungevano spesso e volentieri. I topi sembravano non essere ancora arrivati dalla Terra, così come altri di quelli che potevano essere definiti “parassiti”, almeno dai mammiferi più grandi di loro, ma era probabile che il pianeta avesse sviluppato una qualche specie animale per riempire quella nicchia ecologica, no? Funzionava così l’evoluzione, giusto? Selina Dialla probabilmente glielo avrebbe saputo dire, ma non era importante. L’importante era che lì sotto non aveva ancora avuto incontri ravvicinati di un qualsivoglia tipo. Non con cose vive, per lo meno.

C’erano state carcasse di cani, vero, nonché di altri animali domestici importati dalla Terra: Davide non sapeva come fossero finiti nelle fogne, ma preferiva rimanere nell’ignoranza, giudicandola una condizione preferibile, almeno in quel contesto. Carcasse umane ancora non ne avevano incontrate, anche se un paio di volte Luis ci aveva scherzato, o aveva bofonchiato alcune parole che, riordinate e integrate con articoli e preposizioni, sembravano suggerire un tentativo di battuta. «Là, giù. Come mano fuori, eh? Ciao!» aveva detto in una occasione e sì, in effetti il grumo di qualcosa aveva avuto una curiosa somiglianza con una mano, se volevi vederne una. Ma non lo era, era solo un cumulo di vegetazione marcita in modo curioso. Ahaha, che ridere.

Non rise quel pomeriggio, Davide. Il condotto proseguiva dritto, buio e fetido per una distanza che era difficile stimare, o anche disprezzare. Non c’erano punti di riferimento, tutto era viscido e pieno di sostanze organiche di scarto, altresì dette merda. Potevi solo continuare a camminare, guidato dal beep che veniva dalla cintura, e puntare il fascio di luce qui e là, ma soprattutto sotto, per evitare brutte sorprese e inciampi che, se lasciati a se stessi, ti avrebbero probabilmente portato a un tuffo assai sgradevole in una piscina non proprio olimpica. Era successo a Luis il secondo giorno e da allora avevano deciso di procedere strisciando i piedi sul suolo (o sul facente funzione di), piano piano, giusto per stare sul sicuro. Fu per questo che Davide notò soltanto all’ultimo quella leggera luminescenza poco più avanti.

Era sulla parete destra del condotto, più o meno a un metro di altezza. Una lunga fascia orizzontale, forse un paio di metri o forse più (o forse meno: le stime a occhio non rientravano tra le sue capacità speciali, ma neanche tra quelle normali), di un materiale fosforescente. O un colore fosforescente. O comunque una fascia di qualcosa che si vedeva al buio ed emetteva una vaga luce, non sufficiente per leggere o svolgere altre attività presunte intelligenti, ma che permetteva di scorgere i profili di cose vicine. Una specie di supercatarifrangente, che produceva luminosità invece di rifletterla.

Forse. Davide si fermò, tenendo la propria luce artificiale puntata verso il basso. Che cos’era quel coso? Una specie di segnale? Ma non c’erano segnali, lì sotto. Correzione: non avevano mai visto segnali lì sotto e nessuno li aveva informati della presenza di eventuali cartelli stradali o altre forme di indicazione. Il che era diverso. Un conto era negare l’esistenza di una cosa e un altro era negare la propria conoscenza dell’esistenza di una cosa. Matteo gli avrebbe fatto una testa come un pallone da spiaggia: era così pignolo da travalicare i confini della stipsi indotta, quando si trattava di fare il puntiglioso sulle parole. C’era una luce di cui lui non sapeva nulla. Ecco, così era meglio.

La luce si muoveva.

Piano. Piano. Scorreva o slittava in avanti, un millimetro alla volta, forse anche meno. Persino una lancetta delle ore sarebbe sembrata un missile terra-aria, a confronto col movimento della cosa sulla parete. Poteva sfidare una placca continentale. Poteva giocare a scacchi con la placca continentale. Eppure si muoveva, scorreva in avanti, un poco più lontana ogni minuto. Molto poco più lontana, è vero, ma è il principio che conta. Si muoveva. Quindi forse non era un cartello o qualche altra cosa di origine artificiale. Quindi forse...

Un animale? Una specie di lucciola strisciante? Davide poteva sentire la presenza di Luis dietro di sé. Era fermo. Aspettava? Difficile dirlo, con quel tizio. Probabilmente gli era solo andato in stand-by il cervello. «La vedi anche tu quella cosa, vero?» gli chiese.

«Sì. Luce, parete. Muove.»

Bene, la vedeva anche Luis. Quindi non era un’allucinazione prodotta dai gas ributtanti della fogna. O, se proprio lo era, allora colpiva entrambi allo stesso modo. Il che era rassicurante. Non in termini generali, d’accordo, ma rassicurante in quel nauseabondo microcosmo sotterraneo. Poteva essere un animale, o un insetto. Sembravano esserci schifezze nuove ovunque, sul pianeta, e la maggior parte tendeva a pungerti, oppure a causarti dissenteria infilandosi nel tuo cibo, quando erano spore, batteri o altra porcheria microscopica. C’era proprio da stare allegri.

«Pensi che sia pericoloso? Dobbiamo passare proprio di qui...»

«Boh. Luce. Qui buio.»

Rassicurante. Non poteva capitargli qualcosa del genere mentre era in compagnia di qualcuno con un numero di neuroni che fosse almeno in doppia cifra? O anche con un armadio umano, tipo Olaf. Avere un bovino antropomorfo da mandare avanti come cavia è sempre rassicurante, in circostanze di emergenza. D’altra parte, però, qualcuno da mandare avanti come cavia lo aveva comunque. Non un bovino e decisamente sottodimensionato in termini di altezza, ma ben piantato lo era, con spalle ampie e fisico tarchiato, da nano uscito da un fantasy dozzinale. Quindi...

«Luis, passa avanti tu. Voglio controllare meglio una cosa, qui dietro. Per precauzione, sai.»

Luis passò avanti, senza discutere. Davide lo osservò mentre camminava pian piano accanto al coso sulla parete, lo osservò mentre lo superava, lo osservò mentre se lo lasciava indietro, senza che gli succedesse qualcosa di orribile o doloroso, poi non lo osservò più, perché il compagno era nel buio, fori dalla portata delle loro luci. Buon segno, con tutta probabilità.

Il coso sulla parete continuava ad avanzare del suo passo geologico, ma solo se tu rimanevi fermo a fissarlo. Forse avanzava anche se non rimanevi fermo a fissarlo, ma in quel caso non lo avresti visto e si sarebbe riproposto il solito enigma zen: un coso luminoso sulla parete striscia anche se nessuno lo guarda? A Luis comunque non aveva fatto nulla, quindi poteva procedere anche lui, giusto?

Davide procedette. Per un poco. Quando ebbe affiancato il coso sulla parete, però, la curiosità ebbe la meglio sul buonsenso e lo spinse ad avvicinarsi, per guardare e magari capire cosa diavolo fosse quell’affare. Per quanto poteva vedere e capire, la sua forma era più o meno simile a uno stecchino di ghiacciolo, bislungo e piatto. Poteva essere gelatina, o almeno sembrava gelatina, ed emetteva la sua blanda luminescenza dall’interno. O dalla superficie? Difficile dirlo. Brillava, e questo è quanto. Brillava poco, d’accordo, ma nel buio completo della fogna anche il poco è molto.

Era... simmetrico, sì. Non proprio regolare, ma trasmetteva una sensazione di simmetria, con le sue due estremità identiche. Una doveva essere la testa, forse, e Davide poteva almeno ipotizzare che il ruolo di testa lo stesse svolgendo l’estremità davanti, quella nella direzione del movimento, ma non c’era modo di distinguerla dal retro. Non un modo che lui sapesse riconoscere, per lo meno. Ma era buio e nel buio ci si vede poco. Se avesse provato a illuminarla, forse...

Davide sollevò la torcia e la puntò contro il coso sulla parete. Lo illuminò. Non successe nulla. Per qualche altro momento continuò a non succedere nulla, mentre lui tendeva la faccia in avanti, nella migliore tradizione del personaggio stupido di qualsiasi storia, ma soprattutto nella migliore delle tradizioni di quel primate che, pur essendo stato sospinto dalla evoluzione lungo un ramo diverso, continua a sbandierare all’universo la propria indiscutibile parentela coi cercopitechi. Poi successe qualcosa. Un liquido, o una sostanza che sembrava liquida, innaffiò Davide negli occhi, come uno schizzo nebulizzato. Bruciava. Bruciava da bestemmiare a pieni polmoni, ma solo in un secondo tempo, quando il dolore è calato e le tue corde vocali possono di nuovo articolare parole di senso compiuto, anche se non necessariamente bene accolte nella buona società, o in ciò che ama ritenersi buona società, a torto o a errore.

Davide urlò, si portò le mani alla faccia, indietreggiò alla cieca, inciampò su un qualcosa e cadde di schiena su una superficie che lo accolse con un sordo “sciof” e cedette solo un poco, lasciandolo a galleggiare in un materiale che, per il bene del nostro stomaco, possiamo immaginare come un tipo di budino gelatinoso, dal colore vagamente marrone e dimenticato fuori dal frigorifero ben oltre la sua data di scadenza. L’odore era da claustrofobia sensoriale, ma al momento tutta la sua coscienza si concentrava sugli occhi e il naso era fortunatamente scollegato dal cervello. Avrebbe raccolto tutti i dati e li avrebbe messi da parte per il futuro, quando sarebbero di certo tornati utili.

Luis Morago lo raggiunse quasi subito, col passo sguazzato di chi cerca di correre con l’acqua quasi al ginocchio. Questo avrebbe reso Davide poco felice, in altre circostante, perché il movimento del collega lo coprì di ulteriori schizzi melmosi, ma in quel preciso momento aveva altro a cui pensare e neppure se ne accorse. Si accorse che qualcuno lo stava sollevando, quasi di forza, e lo appoggiava a una parete, cercando di tenerlo in posizione verticale e al di sopra del contenuto della fogna, ma il tutto accadeva alla periferia del suo cervello, dove il dolore giungeva solo come eco. Poi qualcosa di fresco e non fetido gli scorse sulla faccia, sotto e sopra le mani, e il male calò un poco. Fu allora che cominciò a bestemmiare, con sentimento.

«Meglio fuori, eh? Non buono, sotto. Qui.»

Luis non aspettò una risposta, ma passò un braccio attorno a Davide e in parte lo sostenne, in parte lo trascinò verso una uscita, via, o quantomeno da qualche altra parte. Il diretto interessato lo notò a malapena, impegnato com’era a invocare i nove miliardi di nomi di dio, tutti corredati da opportuni attributi e apposizioni. Poi raggiunsero una scala, Davide recuperò una parvenza di ragione, sfregò un altro poco la faccia, si guardò attorno con occhi così arrossati da farlo sembrare un semaforo con lampadine poco fantasiose, quindi brontolò qualcosa e cominciò ad arrampicarsi. Luis Morago lo seguì poco dopo, in silenzio.

Riemersero in una stradina bloccata, in una zona del quartiere che Davide non conosceva o almeno non riconosceva, ma di certo non poteva essere peggio del posto che si era lasciato indietro. Crollò sul materiale vagamente gommoso, che usavano da quelle parti al posto di asfalto e derivati, respirò a fondo, si strofinò ancora la faccia e bestemmiò, stavolta nella propria testa. Come aveva potuto fare una cosa tanto stupida? Perché aveva avvicinato la faccia a quell’affare? Per vederlo meglio, sì, ottimo, proprio un genio, centodieci e lode con bacio accademico per la tua laurea in deficienteria applicata. Meglio non pensarci. Non pensarci e sperare che non ci fossero conseguenze spiacevoli. Più spiacevoli di quelle che c’erano già state, se non altro.

Ci vedeva, il che era un buon inizio. Vedeva un vicolo moderatamente pulito, ma affascinante come un ingorgo estivo, ma quello era un altro paio di maniche. Gli occhi funzionavano, il resto poteva aspettare. Ora, l’importante era non pensare più a quello che gli era successo. Ma più più, ok? Poco ma sicuro gli sarebbe toccato un giro al pronto soccorso, il che era bene, accettabile, ma al coso sul muro non avrebbe pensato più. Ok? Ok. Su questo ci siamo capiti. Poi anche Luis Morago riemerse dal tombino, col fascino di una Venere blattica.

«Preso. Piccolo. Serve, magari.» E mostrò orgoglioso un vasetto trasparente, al cui interno qualcosa luccicava a malapena. Qualcosa lungo pochi centimetri, fratello ultraminore del coso sulla parete.

Davide si girò e vomitò. Con passione.