La galassia di Madre - 67
I due giorni successivi alla spiacevole avventura fognaria Davide Kori (o Bruno Kitzis, come era il suo nome di battaglia) li spese in un luogo non proprio piacevole, ma familiare: un ospedale. Luogo fin troppo familiare per i suoi gusti. Sulla Terra non ne aveva praticamente mai visti, almeno non da diretto interessato e ricoverato; c’erano state le visite alla madre, ok, ed erano state gradevoli come infilare la mano in un tritacarne, ma in quelle occasioni lui era stato spettatore, parecchio coinvolto ma pur sempre spettatore. Essere attore era diverso e su Madre era già stato attore fin troppo spesso nella tragicommedia ospedaliera. Si poteva quasi dire (e lui lo pensava, se non proprio diceva) che si era fatto ormai la collazione completa. Non una nota positiva. Tra punture, infezioni, malattie e intossicazioni alimentari, più varie ed eventuali, la sua vita da colono era stata un inno alla non salute. C’era materiale sufficiente per pensare a una maledizione, per chi era incline a quel genere di pensieri.
Lui non lo era. In quell’ultimo caso, soprattutto, di maledetto non c’era proprio niente, se non forse la sua stupidità. Perché era stato stupido, sì, e lo doveva ammettere. Avvicinare la tua faccia a una forma di vita sconosciuta non è una manovra utile a garantire la sopravvivenza dell’individuo, men che meno la tua. Era sopravvissuto, certo, e senza riportare danni degni di nota, a parte una rutilante irritazione alla pelle del volto e una specie di congiuntivite, ma il punto era un altro. Il punto era che Davide aveva sempre amato pensarsi come un sopravvivente, uno capace di cavarsela da solo, uno astuto. La realtà lo aveva smentito, dimostrandogli invece che era astuto come una falena. È brutto quando la realtà ti tratta così. Brutto per la tua autostima, in particolare.
Pure, i due giorni in ospedale erano stati pacifici, per quanto lo possa essere un qualsiasi ricovero. I medici lo avevano trattato con un vago interesse, gli infermieri erano stati gentili, le infermiere una discreta delusione, essendo poche, tutte equipaggiate con fisici da maniscalco e almeno il doppio di anni rispetto a lui, ma nel complesso non si poteva lamentare, anche se un po’ si lamentava in ogni caso. C’erano state domande, molte, e molti esami. Erano tutti curiosi, volevano sapere che razza di insetto fosse, o almeno che specie di insetto fosse, accontentandosi anche di vaghe indicazioni sulla famiglia e l’ordine, che Davide ovviamente non sapeva dare. Un coso lungo e piatto, che striscia sul muro ed è fosforescente, o giù di lì. Non velenoso per gli umani, almeno in apparenza, e grazie per i piccoli favori, ma irritante in parecchi sensi. Su quello strettamente fisico, gli effetti si sarebbero protratti per diversi giorni. Ottimo.
«Alcune tossine sono state assimilate attraverso i pori, ma il tuo organismo le smaltirà in breve, non ti devi preoccupare,» era stato il responso di un medico, che magari era un pezzo grosso o magari no. Aveva la barbetta da intellettuale e la pettinatura di chi ha visto troppi attori e vuole sembrare fico come loro, anche senza uno staff di parrucchieri a disposizione, e questo doveva pur significare qualcosa, giusto?
Il secondo giorno era anche passato a trovarlo un tizio che doveva essere poco più vecchio di suo fratello Matteo e appartenere alla sua stessa razza. Faccia da limone succhiato e gettato via, capelli rossi con spettinatura poliedrica, odore un poco vissuto (anche se era meglio non chiedersi dove e come avesse vissuto, per ottenere quell’odore), occhi da sogliola asmatica: il ritratto della salute, ma dipinto in sua assenza. Si era presentato come il dottor Dingledine, si era afflosciato su una delle due sedie disponibili e aveva attaccato con una sfilza di domande, con tutta probabilità recitate a memoria e imparate giusto la sera prima. Si interessava di insetti, diceva, e voleva conoscere tutti i dettagli sul suo incontro ravvicinato con quello che, in apparenza, era un esemplare ancora ignoto ai ricercatori del posto. Davide ripeté la storia.
«Comunque il mio collega ne ha preso un esemplare più piccolo, mentre eravamo di sotto. Chiuso in un vasetto o qualcosa del genere, non ricordo. Non è che ci vedessi molto bene,» aveva concluso.
«Ne ha catturato un esemplare? Ottimo. Questo sarà molto utile. Pensi che lo abbia ancora?»
«Non so cosa ne abbia fatto, non era proprio il primo dei miei pensieri in quel momento. Magari lo ha ancora, se non se l’è mangiato.»
«Mangiato? Pensi davvero che potrebbe essersi mangiato un insetto trovato in una fogna?»
Davide aveva alzato le spalle. «Non ne sarei così sorpreso, visto il tipo.» Gli aveva indicato dove e come trovare Luis Morago, il possibile possessore dell’insetto, e quel Dingledine non era sembrato molto entusiasta. Era sembrato ancora meno entusiasta mentre bofonchiava che, forse, gli sarebbe in ogni caso toccato scendere nelle fogne in cerca di altri esemplari, nonché per studiarne lo habitat e le abitudini. Se era davvero una nuova specie...
«Me lo faranno fare, vedrai,» gli aveva confidato, con l’infelicità di un bambino che deve mangiare un piatto di broccoli. «E tutto perché ero libero quando è arrivata la notizia al centro. È una specie di regola, sai? Quando voi coloni trovate qualcosa, noi dobbiamo investigare sempre e comunque.»
A Davide non poteva fregare di meno, ma aveva annuito con serietà e una espressione di adeguata e comprensiva condoglianza, con un vago retrogusto da fratellanza universale tra gli ultimi nati della cucciolata e palle varie. Meglio a te che a me, aveva aggiunto in forma non vocale. Davide sapeva di avere comunque buone probabilità di dover tornare nelle fogne, salvo imprevisti o vaghi miracoli positivi, ma per il momento era soddisfatto di sapere che anche un professorino di università era condannato a sguazzarci dentro, e proprio per merito suo. C’era davvero un poco di giustizia nella galassia, dopotutto. Per un dato valore di giustizia.
Era passato a trovarlo anche Sebastian, presumibilmente alla fine del suo turno. Gli aveva intimato subito di risparmiarsi tutti i dettagli sull’insetto e Davide aveva obbedito, per il momento, limitando la storia al suo attuale stato di salute. Avevano chiacchierato del più e del meno, Sebastian gli aveva confermato che i progetti di vacanza proseguivano e avevano incontrato l’approvazione del grande capo Toro Stravaccato, per gli amici Olaf, questo e quello, e una mezz’oretta era passata, forse non in allegria ma almeno in modo più piacevole rispetto al vuoto spinto del ricovero.
«Comunque non ti preoccupare, che il posto di lavoro non te lo ruba nessuno,» aveva aggiunto poi il collega, nonché grossomodo amico. «Le fogne ti aspetteranno a tombini aperti, non appena ti avranno buttato fuori a calci da qui. A proposito, quando ti butteranno fuori a calci, Bruno?»
«A calci non so, ma fuori mi ci butteranno domani, salvo imprevisti,» aveva risposto Davide.
«Allora prepareremo una festa di bentornato al mondo dei vivi e il tuo caro Luis si occuperà degli effetti luminosi, quelli che ti piace tanto guardare da vicino.»
«Ma fottiti.»
«Anatomicamente improbabile. A domani, allora.»
Il domani Davide fu dimesso, senza imprevisti. Oklahoma City, capitale della colonia di Madre per mancanza di alternative, si stendeva come un pugile distrutto sotto a un cielo color malinconia usata e non lavata, che nel caso in questione era una tonalità piuttosto moscia di grigio, con striature di un azzurro scialbo dove le nuvole si aprivano. Non era proprio freddo, ma un clima frizzante, anche in assenza di robuste dosi di anidride carbonica. Temperatura strana per una città equatoriale, ma non così anomala per Madre, pianeta accogliente come una stanza di albergo a mezza stella. Davide non aveva ancora capito perché la Terra avesse scelto proprio quella cloaca, ma probabilmente era come dicevano Sebastian e gli altri: le rovine aliene e palle varie.
«Potevano metterci solo basi militari e centri di studio e andare a colonizzare qualcosa di decente,» si disse, camminando per le strade poco affollate. Oh beh, era andata così e pazienza. Attorno a lui il battito della metropoli ricordava un malato terminale, soprattutto perché a definirla metropoli c’era da arrossire, ma il discorso era sempre lo stesso e sempre relativo: metropoli per il pianeta, non per i canoni galattici. Per i canoni galattici era un sobborgo operaio d’antan, facente funzione di città.
Più per curiosità impulsiva che per reale interesse, Davide si avviò verso il vicolo dove si apriva (o si chiudeva, a seconda dei punti di vista) il tombino da cui era riemerso qualche giorno prima, alla fine della sua disavventura lavorativa. In spalla aveva la borsa col cambio di biancheria, che Olaf gli aveva portato, più una robaccia che Sebastian aveva aggiunto e che, di certo, l’amico aveva ritenuto divertente, o almeno spiritosa. Davide la trovava l’equivalente in materie plastiche di quei dadi di peluche che in altri tempi, tempi non certo felici, certe persone avevano amato tenere sul cruscotto dell’auto o appesi allo specchietto. Forse era il caso di farne pregiato dono agli allegri abitanti del sottosuolo. Magari loro avrebbero riso o quantomeno apprezzato.
Non lo fece. Il tombino era scoperchiato e recitato, non con un nastro da lavori in corso, ma con una sua versione di colore diverso, che non riconosceva. Forse quel tizio che era passato a interrogarlo in ospedale era realmente sceso a farsi un bagno di liquami, nolente o nolente. Peggio per lui: che si godesse gli insetti e ne incontrasse il più possibile, a distanza di bacio. Davide fissò per un poco il cerchio scuro nel manto stradale, fiutò il profumo che ne usciva, eau de toilette come pochi altri, poi scrollò le spalle e se ne andò. Forse lo avrebbero spedito di nuovo a lavorare là sotto, forse no: se ne sarebbe preoccupato più avanti, se era il caso.
Per strada incrociò diversi cani e un buon numero di gatti, ancora riconoscibili e identificabili come forme di vita giunte da poco sul pianeta. Tra i coloni c’erano diverse scuole di pensiero, passatempo per i momenti di riposo, e Davide non aveva potuto evitare di sentirne alcune, pur mantenendosi il più possibile agnostico: chi sosteneva che gli animali terrestri non si sarebbero mai mescolati con le forme di vita locale, chi sosteneva che nel giro di qualche secolo ne sarebbero usciti bastardi quasi irriconoscibili, chi diceva che avrebbero convissuto tutti quanti in pace, chi che si sarebbe scatenata una guerra per le risorse, chi tifava per la selezione naturale, chi per quella innaturale. Questioni di lana caprina. Per Davide erano l’equivalente moderno delle danze angeliche su capocchie di spilli: utili per chi ci campava, forse, ma inutili per chi lavorava davvero.
Sarebbe dovuto tornare al modulo in cui era alloggiato, lo sapeva, ma non ne aveva voglia. A parte la faccia rossa e occhi che sembravano uova in camicia, Davide si sentiva in forma, anche se non gli era ancora chiaro che forma fosse. Si sentiva bene, però, energetico, e i due giorni chiuso a letto lo avevano lasciato con una discreta voglia di camminare, muoversi, scaricarsi, fare. Peccato solo che la città fosse uno schifo, allegra come un dito in un naso altrui. Ma girare poteva e girare girò, per un poco, guardando di tanto in tanto il paesaggio, più spesso trastullandosi nel segreto del proprio cranio, come fanno quasi tutti gli esseri umani.
Era il tramonto, quando raggiunse l’alloggio, e Olaf lo attendeva seduto sul letto, gambe incrociate ed espressione di serietà quasi stitica. Stava anche fissando qualcosa sulla parete di fronte, sguardo sfocato di chi è perso in un mondo diverso da quello in cui si trova il suo corpo. Ma non c’era niente di bello da vedere, sul muro. Quindi non guardava il muro. Quindi guardava quello che i suoi occhi vedevano sul muro. Davide gettò la borsa in un angolo, si tolse le scarpe, si sedette e aspettò. Prima o poi il compagno di stanza sarebbe tornato al mondo dei vivi, magari portandosi anche un qualche souvenir dal viaggio. O magari no.
«Ti ho visto che sei tornato,» disse Olaf. «Finisco qui e sono da te.»
«Fai pure come se fossi a casa tua.»
Fu da lui dopo una decina di minuti. Olaf si scollegò, scrocchiò la schiena, si grattò la testa con un suono di carta vetrata, quindi si girò verso Davide, che nel frattempo si era sistemato nella posizione più comoda che il letto scomodo gli consentisse di assumere senza riportarne danni permanenti alla colonna vertebrale. «Ti hanno dimesso, a quanto vedo.»
«Il tuo spirito di osservazione mi lascia sempre senza parole,» rispose Davide. «Stavi guardando un porno? Muovevi spesso le mani, ho notato.»
«No, studiavo il posto in cui vorreste andare in vacanza. Sebastian me ne ha parlato e a me va bene, non è che mi faccio problemi, ma non è che ci sia molto, lo sai?»
«Non è che ci sia molto neppure qui in città, se è per questo. Non credo che ci sia un posto in cui ci sia molto, su tutto il pianeta. Non un posto accessibile a noi, per lo meno.»
«Sì, beh, è una colonia, è ancora un poco primitiva, vero. Però al mare, voglio dire, se ti aspetti una di quelle località turistiche come sulla Terra, beh, siamo molto lontani, ok? Ne ho parlato anche con un collega che ci è già stato, uno dei più vecchi, e s’, dice che non è proprio orribile e mi ha dato un paio di consigli, di coloni che la frequentano ce ne sono un po’, ma è nato come insediamento sulla costa, fatto più che altro per esplorazioni e studio, e magari un giorno anche per il commercio. Quel poco di turistico che c’è lo hanno aggiunto da poco. Sembra più o meno una topaia, ecco.»
«Dimmi qualcosa che non so. Ci sono schifezze pericolose nell’acqua? Si può entrare nell’acqua?»
Olaf alzò le spalle. «Ci sono i pesci che ci abbiamo messo noi, quelli della Terra. Tutti pesci che si mangiano, insomma, non che ti mangiano. Modificati o quello che è, non so come funziona.»
«Niente porcheria del posto? Insetti strani, pesci strani, roba strana...»
«Dicono che non c’era molto nei mari, specie vicino a riva. Qualche lumaca, o roba che assomiglia a lumache, e poco altro. Ma è sparito quasi tutto, sai, se lo sono mangiato i nuovi pesci. Dicono. Ma è meglio che chiedi a gente come Selina, che ne sa di più. Io non è che sono proprio un esperto...»
«Sì, sì, lo so. Sembra sicuro, come posto, ma penso che farò meglio a usare Sebastian come cavia, prima di entrarci. Che poi, a proposito, non mi hai detto se possiamo fare il bagno.»
«Boh, la temperatura sembra abbastanza alta, non ti congeli se ci entri, è sui ventiquattro o giù di lì, il numero l’ho appena letto ma non me lo ricordo già più, e... boh, non è espressamente vietato. Ci sono anche immagini di gente che fa il bagno, per cui penso che si possa. Non facevano il bagno in molti, quando c’è andato il tizio con cui ho parlato, ma magari adesso è cambiato un poco.»
«Ok, lo scopriremo sul posto e comunque userò Sebastian come cavia. A quando?»
«Eh, ho parlato oggi con quelli di sopra e ho portato anche la lista, cioè i nomi di chi vorrebbe una vacanza, che siamo noi, e hanno detto che sì, va bene, ma non subito, che hanno bisogno. Sarà fra due o tre settimane, roba così.»
Oh, poteva andare peggio. «Altre novità? Mi sono perso qualcosa? Sebastian ha detto che al museo c’è stato movimento, ma il cantiere è ancora sigillato.»
«Beh, i militari sono andati via ieri l’altro, mentre eri in ospedale, ma gli archeologi sono ancora lì e ci hanno messo le tende, ormai. Che, dico, ce le hanno messe davvero, eh, mica così per dire. Non ti so mica dire quanto ci resteranno, ma secondo me sarà parecchio. Chissà quando lo riaprono.»
«E tutto per un sasso.»
«Beh, è una pietra importante, dicono. Verranno anche a studiarla da fuori, da un altro pianeta. Non so quando, ma lo dicevano alla direzione. Cioè, non è che lo dicevano proprio, ma ho sentito...»
«Sì, sì. Ti è casualmente capitato di sentire che qualcuno ne parlava, mentre eri là a parlare di ferie e così via, giusto?» Davide sorrise. Non era proprio ficcanaso, Olaf, non deliberatamente ficcanaso, ma per un qualche motivo gli capitava spesso di avere l’orecchio orientato nella direzione giusta e al momento giusto, quando qualche impegno lo portava su in direzione. Doveva essere la sua faccia da bue ritardato a indurre gli altri ad abbassare la guardia in sua presenza, facendoli parlare forse più di quanto dovrebbero.
Due o tre settimane e poi sarebbero andati in quella località sulla costa. Davide era poco interessato al mare, anche non aveva nulla in contrario a vedere qualche costume da bagno interessante, ma non era la spiaggia ad avere rilevanza. Era il posto in generale, la sua collocazione geografica: era forse il punto più vicino al vecchio ascensore, alla base militare e agli scavi principali, o almeno il punto più vicino a cui una persona comune potesse accedere sena problemi. Non aveva ancora progettato cosa fare dopo, avrebbe avuto bisogno di studiare la località di persona, ma una idea vaga l’aveva e non si trattava di una idea sana. Pochi considererebbero sana l’idea di infiltrarsi in una base militare e Davide non era tra quei pochi. Tuttavia...
Tuttavia avrebbe tentato, se gli si fosse presentata anche solo mezza occasione. I pozzi erano la vera meta che gli aveva affidato Zeke Boodie, quando era partito dalla Terra, ma i pozzi erano diventati anche un suo interesse personale. Una questione privata. Per la storia del padre, certo, che secondo Zeke era stato punto da un insetto mentre sorvegliava un pozzo, ma anche perché li voleva vedere, li voleva trovare. Pozzi enormi, profondi centinaia di chilometri: origine sconosciuta, sconosciuta la loro funzione, sconosciuto tutto. Sconosciuto anche cosa li mantenesse, quando la gravità li avrebbe dovuti far collassare da milioni di anni anche su un pianeta come Madre, dove la sua forza era più bassa rispetto alla Terra. Erano... beh, non proprio un’avventura, niente di così stupido o romantico, quella era roba per Matteo, il fratello maggiore e scemo, ma erano qualcosa e lui li avrebbe trovati.
Peccato che non avesse ancora pianificato un dopo, ma ci avrebbe pensato strada facendo. Pensare al dopo quando deve ancora cominciare il prima è inutile, giusto? Giusto o sbagliato che fosse, così la pensava Davide e così avrebbe agito. Per sua sfortuna o per sua colpa.
E mentre su Madre qualcuno pensava alle ferie, su Agni qualcun altro si preoccupava. Seduta nella quiete del suo studio, Li Xiangqi fissava sullo schermo i dati raccolti dai sismografi e tamburellava le dita sulla superficie in finto legno della scrivania. Non erano bei dati. Meglio ancora, o peggio ancora, a seconda dei punti di vista, non erano dati che suggerivano belle interpretazioni, almeno a lei. Ma gli strumenti funzionavano correttamente, i precedenti erano chiari e numerosi, il ciclo più che definito, il rancio ottimo e abbondante, eccetera eccetera. Eppure qualcosa non tornava.
O, in alternativa, qualcosa sprofondava. Qualcosa che non aveva nulla a che vedere con le faglie e il sano, normale spostamento delle placche continentali, ma molto a che vedere coi terremoti periodici che colpivano l’isola di Prajaapati, quella larga distesa di terra quasi completamente piatta al largo (ma non troppo) delle coste orientali di Mahaprajaapati, maggiore massa continentale dell’emisfero australe di Agni.
Era stata una brutta sorpresa scoprire di avere sotto ai piedi una terra così ballerina, quasi un secolo e mezzo prima. Il progetto di colonizzazione del pianeta aveva selezionato l’isola di Prajaapati per ospitare uno dei primi nuclei di coloni, perché aveva bisogno di poco lavoro, era molto fertile, non vi abitavano forme di vita animale o vegetale che potessero rappresentare problemi per l’uomo, non era una zona soggetta a disastri naturali, per quanto avevano potuto rilevare le sonde e le analisi, e lo stato attuale delle faglie suggeriva che non ci sarebbero stati problemi sismici per almeno qualche altro milione di anni. Fascia climatica buona, se non proprio ottima, e a poca distanza dall’equatore, ossia dall’ascensore spaziale. Cosa chiedere di più? Nessuno aveva chiesto di più e tutti ne avevano approfittato. Con entusiasmo.
Dieci anni dopo l’inizio della colonizzazione era arrivata la prima scossa.
Era stata lieve, poco più di un tremito avvertito dagli strumenti e da qualche animale. Poi c’era stata una seconda scossa, a distanza di cinque anni. Più forte, anche diversi umani l’avevano sentita, ma nessuno si era allarmato, non c’erano stati danni. Poi un’altra, a distanza di altri sette anni. Di quella si erano accorti quasi tutti e a quel punto era diventato chiaro che, nelle analisi iniziali del territorio, qualcuno aveva sbagliato qualcosa. Scoprire chi avesse sbagliato cosa, però, fu molto più difficile e le varie inchieste non giunsero mai ad alcuna risposta: alla fine si concluse che era stata soltanto una fatalità, una disgrazia, cose che capitano e in fondo non è colpa di nessuno, c’era stato sì un errore, ma non si trattava di un errore preciso, definito. Era più che altro una erroneità generale, che si era inverata e incarnata senza la responsabilità concreta di qualcuno e comunque suvvia, gli abitanti di Prajaapati sono persone adulte e civili, coloni di nuova generazione, e capiranno. E se poi non sono contenti, cazzi loro. Tanto noi non ci viviamo.
Le scosse erano continuate. Non regolari, né come intervalli di tempo né come potenza, ma per tutte l’epicentro si collocava entro un raggio di circa dieci chilometri dal centro dell’isola. Gli abitanti si erano adattati, le norme antisismiche per l’edilizia locale erano state rafforzate, spesso qualcuno le applicava pure, e alla fine tutto era diventato una specie di abitudine, anche se non proprio una delle più piacevoli. A controllarne l’andamento era stato soprattutto l’istituto di sismologia di Apva, città che sorgeva a distanza di sicurezza nell’entroterra di Mahaprajaapati: i suoi esperti avevano raccolto dati, li avevano catalogati, esaminati, avevano costruito modelli, disegnato proiezioni, suggerito più ipotesi per l’andamento dello sciame sismico, avevano sviluppato teorie solide e poi avevano fallito in grande stile le previsioni dell’ultima grande scossa, la più violenta, che aveva strapazzato l’isola un paio di mesi prima. Cose che capitano, nessuno gliene aveva fatta una colpa.
Se ne faceva una colpa Li Xiangqi, che aveva una propria ipotesi per l’andamento dei terremoti, ma non aveva saputo farsi ascoltare, anche e soprattutto perché neppure lei sapeva su cosa basare quella ipotesi. È piuttosto difficile essere presi sul serio quando, alla fine della discussione, tutto ciò che sai portare per giustificarti è un «secondo me funziona così, non so bene come». Ma era indubbio (per lei, quantomeno) che pian piano le scosse si stessero facendo più profonde. Come se... sì, ok, diciamo pure, visto che non c’è nessuno in ascolto e lo studio è vuoto: come se qualcosa si stesse inabissando. O quantomeno scavando verso il basso.
Non aveva senso e Li Xiangqi lo sapeva. Un cedimento strutturale sì, questo lo si poteva accettare e approvare: non sarebbe stata la prima volta, nella storia della geologia, e sicuramente non l’ultima. Era successo su Svarga, quando il pianeta era ancora in fase di colonizzazione e le esperienze erano poche o nulle. Avevano cominciato a edificare un nuovo quartiere su un terreno che tutti gli esami avevano dichiarato essere stabile e sicuro, poi c’era stato un mese di piogge quasi ininterrotte e tutto il terreno stabile e sicuro si era trasformato in una voragine stabile e sicura. Capita. Così è la vita. Ma l’incidente su Svarga risaliva a quasi trecento anni prima, la tecnologia era progredita parecchio, l’intelligenza umana non lo era, ma comunque adesso era quasi impossibile ripetere l’errore.
Eppure, qualcosa nel sottosuolo continuava a sprofondare.
Li Xiangqi aveva portato il caso di Prajaapati come argomento per la propria tesi di dottorato, tra un sorrisetto di condiscendenza del relatore e un sospiro della commissione. Aveva analizzato nel suo studio la sequenza dei terremoti, almeno da quando le registrazioni erano cominciate, aveva messo in relazione date, orari, profondità, forza e coordinate, aveva proposto un possibile proseguimento della sequenza (sbagliandolo, ma era normale) e aveva concluso che, in mancanza di alternative più solide (ahaha, che battuta), l’unica che reggesse al momento era lo sprofondamento progressivo di un corpo rimasto bloccato sotto la crosta terrestre. I resti di un meteorite, probabilmente, perché nel settore dell’epicentro erano stati rinvenute le tracce di un impatto vecchio qualche milione di anni. I segni in superficie erano stati cancellati dall’ultima glaciazione, ma quali fenomeni potevano essere in corso a una profondità di qualche decina di chilometri?
«Ottima storia di fantascienza,» aveva affermato il presidente della commissione, con un sorriso che gli sarebbe valso una nomination al Premio “Faccia da fracassare con un mattone”. «Peccato che di scientifico non abbia nulla, ma apprezziamo il suo impegno. Davvero. Auspichiamo però che con il passare del tempo i suoi sforzi si orienteranno verso obiettivi più realistici e seri.»
Li Xiangqi aveva inghiottito e portato a casa. Adesso aveva trentadue anni, un posto moderatamente fisso all’istituto di sismologia di Apva e viveva in quella città di pianura, il cui padre fondatore era stato senza dubbio una persona fantastica e di ottime intenzioni, ma anche un testone supponente e ostinato, con una conoscenza pessima della mitologia indiana e dei testi vedici. Quale altra forma di vita razionale avrebbe scelto il nome dell’antica personificazione della paura che causa un subitaneo rilassamento dell’orifizio rettale? C’erano stati decenni di discussioni e persino un referendum, nel tentativo di ribattezzarla, ma alla fine non se n’era fatto nulla. Apva era e Apva sarebbe rimasta.
Ma il nome della città non era il principale dei suoi problemi, anche se le causava sempre un certo imbarazzo nelle occasioni più formali. Il problema era il terremoto di un paio di mesi prima, quello che aveva quasi raso al suolo la maggiore città dell’isola di Prajaapati e causato qualche centinaio di morti, non ricordava il numero preciso. Passata una certa soglia, anche la capacità di comprendere una tragedia si fa labile ed evanescente, volatile più dell’etere. Ma c’era stata e il suo tentativo di predirla aveva fatto fiasco, a voler essere generosi. Non avrebbe cambiato molto, d’accordo, perché lei era la ruota di scorta nell’istituto, ma questo era un altro paio di maniche. Li Xiangqi era sicura che la sua fosse l’ipotesi giusta, ma non era servita a predire l’andamento della serie sismica.
Così spense tutto, si alzò, camminò fino alla finestra e guardò il panorama. Che consisteva nel muro del palazzo di fronte, per di più chiazzato di umidità. Favoloso. Un panorama di Apva.
Un meteorite. Ci aveva pensato più volte e le sembrava una spiegazione passabile, nel complesso, e anche un poco plausibile. Che l’impatto ci fosse stato era certo, o quasi certo. Non proprio sull’isola di Prajaapati, ma nel mare, a pochi chilometri di distanza dalle sue coste. Qualche traccia del cratere era ancora visibile sul fondale, anche se era molto meno definita di quanto sarebbe stato legittimo aspettarsi. Ed era storta, come se l’impatto fosse stato in diagonale, anziché perpendicolare.
Una diagonale che puntava verso l’isola. O meglio, sotto l’isola. Molto sotto.
C’era stata anche qualche vaga proposta di cercarne i resti, anni prima, ma non se n’era fatto nulla. Avrebbe richiesto troppi sforzi e troppe spese, per un risultato che sarebbe stato non solo dubbio, ma anche di scarso interesse per tutta quella parte di popolazione che non campava studiando pezzi di roccia piovuti dal cielo, ossia la stragrande maggioranza degli abitanti di Agni. «E poi, se anche c’era qualcosa, si sarà disintegrata nell’impatto o comunque sarà ormai irrintracciabile,» era stato il parere generale dei non interessati. «Sono trascorsi quasi quattro milioni di anni, dopotutto: davvero vi aspettate di trovare ancora qualcosa di riconoscibile, là sotto?»
Così il meteorite era diventato una pagina della storia di Agni, una pagina poco frequentata e su cui ancora non era stata raggiunta l’unanimità. Fino al giorno del terremoto. Quello aveva riportato ogni cosa a galla, almeno in senso figurato. Perché c’era qualcosa di decisamente sbagliato sotto l’isola di Prajaapati e non era una faglia, non solo. Il tipo di scossa non corrispondeva a quello causato dal movimento delle placche continentali. Non corrispondeva in effetti a nessuno dei modelli elaborati dall’istituto di sismologia di Apva o di altre città di Agni, ma quello era un altro paio di maniche e i sismologi non amavano molto discuterne in pubblico, anche se ne discutevano parecchio in privato.
La storia del meteorite, tuttavia, era affascinante e aveva sempre molto successo tra gli spettatori, se il professor Qualcosa di turno la spolverava e l’abbelliva con qualche lustrino. Riscuoteva successo anche quando non era un professore a resuscitarla, ma un semplice parolaio di passaggio, specie se da poco c’era stata una scossa, meglio ancora se con un numero di morti in doppia cifra. A partire in quella circostanza era stato il professor Rajeev Prasad, che parolaio non era e Li Xiangqi stimava parecchio. È il meteorite che sprofonda, diceva, e dovremo aspettarci terremoti di questa entità per un lungo periodo di tempo, in futuro, almeno fino a che non sarà sceso a sufficienza da non causare più danni alla superficie coi suoi movimenti.
Nessuno gli aveva creduto. Nessuno lo aveva preso sul serio. Anche Li Xiangqi, che condivideva in parte le sue idee, aveva trovato parecchio difficile appoggiare la sua ipotesi, soprattutto esposta nel modo in cui la presentava sempre lui, col suo tono da profeta biblico sotto anfetamine e un aspetto da santone appena fuggito da un manicomio criminale, con qualche residuo di elettroshock che gli scuote ancora i muscoli. Pure, era una ipotesi che qualche base l’aveva, almeno per chi decideva di guardare i dati dall’angolazione giusta, o almeno dall’angolazione che ti consentiva di sostenere la possibile base. Li Xiangqi non era ancora del tutto convinta che la base fosse solida, ma questo era un altro discorso e al momento non se la sentiva di affrontarlo, non da sola.
Era stata anche a Prajaapati, dopo il terremoto. Non subito dopo, perché avrebbe soltanto infastidito chi lavorava tra le macerie, ma aveva aspettato quasi un mese, quando il peggio sembrava passato e il territorio appariva in via di normalizzazione, per quanto sia possibile parlare di normalità quando hai di fronte i frammenti da ricomporre di una città sfasciata. Anche così, il viaggio era stato inutile: aveva percepito sotto i piedi qualche ultima scossa di assestamento, o quelle che erano presentate come scosse di assestamento, ormai poco più che lievi vibrazioni nel suolo, ma nulla aveva parlato di meteoriti in movimento, nessun segno particolare l’aveva accolta per annunciarle che sì, la sua ipotesi era corretta, complimenti, hai proprio fatto centro. Attorno a sé aveva visto solo i postumi di un terremoto, macerie ancora da rimuovere, edifici la cui ricostruzione era già cominciata. E basta.
Adesso, nel suo ufficio, Li Xiangqi rifletteva sulle prossime mosse da compiere. Che erano poche, a voler essere ottimisti; a voler essere realisti, tendenti al pessimismo, non ne aveva proprio. Dati, dati e ancora dati da ricontrollare e riorganizzare, setacciare e distribuire in nuove forme, in cerca di uno straccio di informazione, ma a parte quello? C’era altro che lei potesse fare? Una idea?
Una le si presentò qualche tempo dopo, sebbene solo in forma di fantasticheria ipotetica e quasi del tutto impossibile da testare nella pratica. Fu quando il professor Muzafar Chang arrivò su Agni, col suo codazzo di pubblicità e corifei, nel corso del suo lungo e laborioso ciclo di conferenze, durante il quale avrebbe toccato tutti i pianeti colonizzati per portare la buona novella. O almeno tutti quei pianeti colonizzati che non lo avrebbero accolto con un plotone di esecuzione. La Terra era esclusa a prescindere, mentre Madre non era mai neppure stata presa in seria considerazione: era stato già inserito nella lista di persone non gradite all’Ufficio per la Colonizzazione terrestre e non lo aiutava certo la causa in corso tra lui e l’Ufficio stesso, sulla quale aveva comunque già messo le zampe il governo di Svarga, a sentire certe voci accademiche e non. Tutti gli altri mondi, però, si erano detti disposti ad accoglierlo e su quelli sarebbe andato. Col suo annuncio.
Li Xiangqi non aveva trovato particolarmente interessante la notizia. Ok, la possibilità che al centro di alcuni pianeti esistessero strutture organiche ancora inspiegabili e inspiegate, di per sé, sarebbe stata affascinante, ma che queste strutture si trovassero su giganti gassosi le faceva perdere molto di quel possibile fascino. A lei non interessavano i giganti gassosi, meno ancora quelli che ruotavano attorno a un sole distante qualche anno luce. Ora, se la scoperta avesse riguardato invece un pianeta roccioso, di quelli abitabili dall’uomo, allora tutto sarebbe cambiato parecchio. Strutture organiche sotto ai tuoi piedi, là dove ti saresti aspettata un normale nucleo ferroso, erano qualcosa che avrebbe ribaltato tutte le prospettive per un sismologo. Avrebbe dischiuso possibilità inconcepibili. Forse lo o avrebbe costretto a ripensare la propria materia. O la avrebbe costretta, se quel sismologo era una sismologa. Ma un gigante gassoso, suvvia...
Pure, quando la conferenza si svolse nella capitale amministrativa di Mahaprajaapatii, il continente su cui viveva, Li Xiangqi vi si recò. Era un biglietto omaggio, dopotutto, uno di quelli offerti per ragioni a lei ignote al suo centro di sismologia, e una cosa omaggio non la si rifiuta mai. Sua madre si sarebbe rivoltata nella tomba, se avesse scoperto che la figlia aveva rifiutato qualcosa gratis. Così Li Xiangqi raggiunse la capitale del continente assieme al resto del dipartimento, sedette per quasi tre ore in una poltroncina scomoda imbucata in un angolo remoto e dimenticato della sala, in mezzo o meglio ai margini di altre duemila persone circa, non tutte profumate, e rischiò di appisolarsi in un paio di occasioni. Non lo fece, salvata dai gomiti irrequieti dei vicini di posto, uno dei quali pareva pronto a esplodere di entusiasmo, mentre l’altro pareva pronto a esplodere e basta e probabilmente sarebbe servito un argano per estrarlo dai braccioli, da cui straripavano vari rotoli di qualcosa che la misericordia e i vestiti nascondevano alla vista del pubblico. Li Xiangqi rimase sveglia, volente o nolente, e ascoltò per intero la conferenza. Il che forse non fu un male, perché le diede nuove cose a cui pensare.
Lasciamo perdere le strutture organiche e i giganti gassosi, che non le interessavano. Sarebbe stato possibile però utilizzare le stesse tecnologie applicate da quel professor Chang a pianeti lontani, per rivolgerle invece verso quello che avevano sotto ai piedi? Analizzare l’area di Prajaapati colpita dal terremoto (nonché dal presunto meteorite, qualche milione di anni prima) servendosi non dei soliti strumenti da sismologo o geologo, ma con quelli da astronomo o planetologo? Se quello svarghiano aveva potuto scrutare al centro di giganti gassosi lontani svariati anni luce, analizzare profondità di qualche decina di chilometri a distanza pressoché nulla sarebbe stato molto più semplice, no? Non sarebbe stata una buona idea tentare?
Risultò poi che no, non sarebbe stata una buona idea, perché non funzionava proprio così. Ne parlò col capo del suo dipartimento e da lui le venne la prima doccia fredda, ma furono peggiori quelle che ricevette a distanza da astronomi e planetologi locali, da lei interpellati giusto così, per curiosità e per capire bene come funzionasse, eccetera eccetera. Non sarebbe servito, secondo loro. Quando si parlava di aree così vicine, che potevi studiare direttamente o quasi, sistemi escogitati per mondi lontani e inaccessibili non erano applicabili, non con successo. Li Xiangqi scrollò le spalle e lasciò perdere. Forse era vero o forse semplicemente non la volevano ascoltare. Pazienza. Per suo conto, lei avrebbe continuato a investigare e a cercare una risposta ai terremoti ricorrenti di Prajaapati.
I semi lasciati dalla conferenza di Chang avrebbero comunque prodotto qualcosa per Li Xiangqi, un giorno, ma quel giorno apparteneva a un futuro ancora molto distante. Per adesso c’erano soltanto le sue ricerche, e la speranza di scoprire cosa causasse quei terremoti. Magari prima del prossimo.