La galassia di Madre - 69
La città di Bidonia sorgeva sulla costa, o almeno era sparpagliata in modo quasi uniforme lungo la costa, con grumi che raggiungevano l’entroterra più alcuni schizzi arenati qui e là, dove c’era spazio o dove al costruttore di turno sembrava saggio edificare qualcosa. Non era stata proprio progettata o pianificata, ma era sorta spontaneamente o quasi, nei limiti in cui può essere spontanea la nascita di un insediamento urbano in una colonia recente, ma soprattutto complicata e contorta come Madre. Ossia ben poco, almeno come impulso iniziale. Ma poi dall’impulso si passa alla vita e la vita aveva spalmato tutto quanto come marmellata sulla suola di uno scarpone.
Era in quel tratto di mare che Rafael Thoreau e Kaya Farrell avevano cercato e poi trovato i primi esemplari di vita locale, nel corso della seconda spedizione, e li avevano cercati proprio lì in quanto era il tratto di mare più vicino al loro campo base, viaggiando quasi dritti verso settentrione, per gli amici nord. Anche adesso si poteva vedere nel cielo il profilo del vecchio ascensore, filo a piombo che univa cielo e terra e che, se lo fissavi troppo a lungo, ti poteva causare una leggera vertigine, unita a un vago senso di disagio: lì, circa venticinque anni prima, era giunta la missione che aveva trasformato il pianeta in una colonia terrestre e lì, ma al suolo, ancora si trovava il centro militare di Madre, nonché gli scavi archeologici più vecchi. Non proprio una zona dal facile accesso, ma non era dettaglio che preoccupasse il visitatore medio di Bidonia, orientato semmai verso la possibilità di riposarsi un poco e, se si sentiva coraggioso, farsi una nuotata nelle acque calme, poco profonde e vagamente grigiastre della baia.
L’insediamento era nato qualche anno dopo la seconda spedizione. Thoreau era rimasto su Madre e si era dedicato allo studio delle forme di vita locali. Doveva mantenersi quasi sempre al campo base o nelle sue immediate vicinanze e poteva allontanarsi soltanto con l’accompagnamento di almeno due militari, all’inizio, ma con l’arrivo di forze fresche dalla Terra, più una generosa infornata di exologi giovani e, da un certo punto di vista, sacrificabili, aveva potuto allargare il proprio raggio di azione e stabilire un piccolo centro studi sulla costa, niente più di un edificio prefabbricato piazzato a pochi metri dalla spiaggia. Aveva accolto due ricercatori, in un primo momento, che spendevano le proprie giornate a setacciare le acque con piccoli droni, in cerca di qualsiasi cosa potesse avere un minimo di interesse; poi i ricercatori erano diventati quattro, dieci, venti, e si era unito personale che si occupasse di pasti e pulizie, espandendo la piccola colonia. Prima ancora che tutto si potesse organizzare a dovere, o anche solo organizzare, eccoti un insediamento fatto di alcune migliaia di abitanti, molti dei quali erano coloni normali, che volevano cambiare aria e cercare qualcosa di più avventuroso della nuova capitale, Oklahoma City, che proprio allora prendeva forma ufficialmente.
Così era nata Bidonia. Il suo nome reale era un altro, naturalmente, ma quasi nessuno lo usava. Quel soprannome, nato da visitatori spiritosi o, a seconda dei punti di vista, visitatori che si ritenevano spiritosi, possedeva un tipo di forza che nessuna etichetta ufficiale poteva eguagliare; inoltre, era una descrizione piuttosto realistica del paesaggio, almeno a parere degli osservatori più sinceri o crudeli. Perché era una catasta di edifici diversi, senza uno straccio di architettura comune, e le strade sembravano tracciate a mano libera da un bambino di quattro anni parecchio svogliato, l’aria possedeva un retrogusto di discarica, la spiaggia somigliava a una lettiera per gatti e, nel complesso, soltanto una persona sprovvista di qualsivoglia organo di senso avrebbe potuto trovare piacevole un posto simile. Pure, era diventata una località famosa e frequentata. Piuttosto frequentata.
Oklahoma City, la capitale della colonia, si trovava da qualche parte verso sudovest, lontana ma non troppo. Le strade erano buone, era la città marittima più vicina, potevi farci un salto in giornata, la sicurezza era ottima anche per gli standard del pianeta, con una base militare quasi in vista: non era il paradiso, d’accordo, ma era accettabile e insomma ti dovevi anche sapere accontentare, no? Eri su una colonia ancora in piena costruzione, mica potevi pretendere alberghi a cinque stelle, suvvia. Se poi vogliamo dirla tutta, non è che neppure Madre sia il paradiso, anzi. Simile attira simile, no?
Per questi e altri motivi, Bidonia era la destinazione principale per i coloni in vacanza, o in ciò che passava per vacanza sul pianeta. Tutti la criticavano, tutti la deridevano, tutti la insultavano, ma tutti la frequentavano. Era una topaia, vero, ma era la nostra topaia. E poi era solo provvisoria, giusto i primi tempi, tempi duri ed eroici, tempi da pionieri sulla frontiera selvaggia, questo e quello: una volta sistemato il pianeta, poi, vedrete che avremo di sicuro qualcosa di meglio anche noi, giusto? È sempre così, no? L’importante era crederci.
Assieme ad altri vacanzieri o aspiranti tali, anche Davide Kori e il suo gruppo erano giunti da poco in città. Olaf si era occupato di organizzare tutto, vantandosi delle proprie conoscenze, dei contatti che solo lui possedeva, questo e quello, ci penso io, vedrete, conosco uno che c’è già stato un anno fa, mi ha indicato un posto fantastico per dormire, ottime stanze e prezzi bassi, proprio quello che ci serve, vedrete, ahaha, non sono mica nato ieri, mi hanno fatto pure responsabile del gruppo, no? Vi potete mettere tranquilli, che me ne occupo io, tutto garantito, mi conoscete bene, sapete come sono fatto, di me ci si può fidare. Loro non si erano messi tranquilli, ma avevano comunque lasciato fare all’amico, un poco perché sembrava davvero convinto e poi un poco perché, beh, ok, non potrà fare troppi danni, no? Anche volendo, dico.
Non li aveva fatti, in effetti. Non troppi, almeno. Per questo persino Sebastian Hahn si era limitato a un mezzo sorriso e un «Affascinante! Mi ricorda quella volta che ho avuto la gastroenterite» quando si era trovato davanti la pensione che li avrebbe ospitati. Ma appariva moderatamente solida, aveva meno insetti di quanti se ne fossero aspettati e probabilmente nessun ladro sarebbe mai stato tanto disperato da tentare un furto in quel posto. E poi era un’avventura, come aveva commentato Selina Dialla, aprendo un armadio con cautela commovente. Davide aveva optato per un cauto silenzio.
Era alla finestra, adesso, e fissava la linea dell’ascensore. Si alzava più o meno verso sud, direzione opposta rispetto al mare, ed era la sola cosa decente in una stanza con vista sul malinconico nulla, ma a Davide andava benissimo. Era quello a interessarlo. Non il malinconico nulla, ma l’ascensore. Il resto, spiaggia o vacanza che fosse, era solo un extra, qualcosa di superfluo, qualcosa che serviva a riempire il tempo. Il vecchio ascensore, e ancora di più la base militare ai suoi piedi, erano il vero motivo per cui lui aveva voluto raggiungere Bidonia. Che era proprio un discreto bidone di posto, come il nome o il soprannome suggeriva. Perfino più squallida della periferia dove era cresciuto sulla Terra, perché almeno quella periferia non aveva cercato di essere altro, si era accontentata del suo ruolo, una via di mezzo tra il dormitorio e la mangiatoia, non un luogo in cui vivere ma da cui provenire. Bidonia, invece, si spacciava per divertente. Fallendo su tutta la linea, quantomeno per un dato valore di divertimento, uno che non includesse pesanti allucinogeni o variazioni sul tema.
«Allora, preferisci restartene qui a far compagnia agli scarafaggi e guardare il nulla, oppure ti vuoi unire al nostro funambolico gruppo di esplorazione? Dico a te, Bruno.»
La voce di Sebastian lo riportò alla realtà. «Arrivo, arrivo,» rispose, voltando le spalle alla finestra dopo un ultimo sguardo all’ascensore. «Non che ci sia granché da esplorare...»
«Ma come, prima insisti per venire al mare e poi fai il disfattista? Sei proprio un individuo inutile. È ovvio che sarai il primo a finire in acqua a questo punto, specialmente se non lo vuoi.»
«È balneabile, almeno? Perché, vista la zona...»
«Sì, lo so, ma non ti preoccupare. Il grande capo Olaf in Cortile sostiene che la spiaggia è ottima, lo ha detto un tizio che conosce lui, tutto garantito, provare per credere. Ci puoi anche fare il bagno ma il sapone lo devi portare da casa.»
«A dirlo è lo stesso amico che gli ha suggerito questo posto?»
«Sì. Ma dopotutto è un’avventura, no?»
Davide sospirò. Era un bene che il suo progetto non riguardasse la vacanza, perché non prometteva di essere qualcosa di memorabile. Almeno, non in termini positivi. Traumatica, ora, era un aggettivo che appariva più appropriato, il che l’avrebbe comunque impressa nella memoria, per cui... Ma no, il viaggio era una scusa, un modo per avvicinarsi alla base militare. Quella era importante.
Gli altri attendevano davanti all’edificio, espressioni che spaziavano dall’imbarazzato al rassegnato, cercando di attestarsi sul più neutrale dei “non-vedo, non-sento, non-parlo”. Tranne Olaf, sereno nel suo ghigno che, se esibito da un motociclista, avrebbe potuto ospitare due o tre sciami di moscerini. Sembrava addirittura soddisfatto del lavoro svolto. Fantastico lavoro svolto. Oh beh, contento lui...
«Allora, tutti pronti?» disse, battendo le mani. «Tempo di andare a trovare il mare e vedere se è così diverso da quello di casa. Il collega che me l’ha consigliato dice che non è proprio la stagione più indicata, sarebbe stato meglio aspettare ancora un po’, ma ci divertiremo di sicuro, eh?»
Mugugnarono tutti qualcosa di poco impegnativo sul tema del sì poco convinto, ma senza prendere una posizione definitiva. Un sì possibilista, dettato più dal buon cuore che da un riscontro oggettivo basato sui fatti in loro possesso. Fai strada, Olaf, che poi vedremo. Olaf fece strada.
Curioso, pensava Davide. Erano più o meno all’equatore, quindi ci sarebbe dovuto essere caldo, se non addirittura caldo umido, e in effetti faceva più o meno caldo, volendo. A tratti, almeno. Perché, e quello era il punto, il clima generale faceva pensare più a un maggio in un clima temperato, forse un poco fuori stagione, forse un maggio dalle temperature anomale, ma non aveva niente, proprio niente di tropicale. E all’equatore c’era un clima tropicale, giusto? Davide lo sospettava, ma non era mai stato particolarmente attento alle lezioni di geografia, a scuola. Mondo strano, già. Lo dicevano tutti, quindi doveva pur essere vero.
«Ma l’acqua non sarà un po’ troppo fredda?» chiese, mentre attraversavano una strada dal traffico pressoché inesistente. La linea degli edifici si era aperta davanti a loro e il mare era apparso, pianura grigia e luccicante sotto un sole che era una caramella già usata, ma non molto apprezzata. Pareva calmo, per quanto si potesse capire da lontano, e puntini si muovevano sulla riva, fuori e dentro le grige, fresche e salate acque.
«Ti dirò, non lo so di preciso. Quello con cui ho parlato ci era venuto in un’altra stagione e ha detto che il mare era fantastico, ci nuotavi senza problemi, ma comunque è tropicale, no? Cioè, siamo qui sull’equatore, no? È caldo per forza, vedrai,» concluse Olaf, tutto convinto e sicuro.
Gli altri sembravano molto meno convinti e sicuri. «Beh, andrà avanti uno di voi baldi uomini a fare da cavia, giusto?» disse Tunde. «Poi noi ci regoleremo.»
«Oh, non ti preoccupare,» rispose Sebastian. «Dopotutto è un avventura.»
Selina sospirò. «Devi ripeterlo ancora un po’ di volte?»
«Ma è una frase molto appropriata, non trovi? Dopotutto è un’avventura.»
Tunde sorrise. «Adesso capisci perché ti dicevo di stare molto attenta a cosa dici, quando c’è questo idiota nei paraggi? Adesso te lo continuerà a ripetere fino a che non gli sarà passata di mente.»
«Tunde, Tunde, tu mi offendi. Io non sono così fissato: lo sono molto di più. Non dimentico mai le cose che sento, almeno finché me le ricordo.»
«Spero che la spiaggia sia infestata da insetti e che si arrampichino tutti sulle tue gambe.»
Ma la spiaggia non era infestata da insetti, o almeno non ne videro all’arrivo. Probabilmente anche loro la trovavano deprimente. Era una distesa di sabbia, grossomodo, e i tratti di ghiaia si fermavano prima del bagnasciuga. Non c’era neppure troppa immondizia, anche se i segni lasciati ovunque dal passaggio di una particolare specie di scimpanzé dal pelo corto erano facili da localizzare, senza la necessità di cercarli davvero: balzavano agli occhi, chiazze di colore nel grigio monotono del tutto. Perché più o meno tutto era grigio, e nemmeno di un grigio vivace, argenteo. Era quel grigio scialbo e noioso che possono assumere a volte i capelli, se sei particolarmente sfortunato nell’invecchiare.
Era anche la stessa tinta dell’acqua, almeno fino a dove potevano vedere. Il cielo sopra di loro era di un azzurro sbiadito, consumato da troppi lavaggi, e il sole possedeva tutta la gioia e la luminosità di una lampadina prossima alla morte. Qualcuno nuotava, altri erano sdraiati, altri ancora rispettavano la più triste tradizione spiaggesca dell’universo, giocando con palloni troppo cresciuti. Bambini non se ne vedevano, ma nel complesso era una scena che cercava di suggerire pensieri da vacanza sulla riviera, momenti spensierati, scottature, allegria, roba simile. Ci riusciva malissimo.
Il gruppo si concesse un minuto di silenzio. «Bene, sì, direi che ci siamo, no?» Fu la voce di Olaf a rompere poi l’imbarazzo con una giovialità che non suonava neppure finta. «Sì, il posto è ancora un poco grezzo, qui e là, ma ce lo aspettavano tutti, giusto? È una colonia, fondata da poco. Dobbiamo adattarci, modellare il mondo a nostra immagine e somiglianza, cose così. Tra qualche anno sarà un centro turistico da sogno, senza dubbio.» Gli altri continuavano a rimanere in silenzio. «Allora, c’è una zona che preferite? Ci sistemiamo... là vicino a quel gruppo? O preferite stare un po’ più isolati, così c’è più privacy, non ci disturbano, eh?»
Finì che si sistemarono un poco più isolati. Il primo ad affrontare l’acqua fu Olaf e la trovò tiepida, per niente male, davvero, venite pure anche voi. Nessuno gli credette. Il secondo fu Sebastian, dopo averla tirata per le lunghe con un elevato numero di battute una più orrenda dell’altra. La reazione al contatto col mare fu decisamente meno entusiastica, ma fu costretto ad ammettere che sì, in fin dei conti, tutto sommato, rispetto a quanto si aspettava, non era poi così terribile. Calda no, proprio per niente, ma accettabile sì. Almeno finché galleggiavi. Se posavi i piedi sul fondo, invece, sentivi cose strane che si muovevano, strisciavano, scappavano, e preferiva non indagare su cosa fossero.
«Che poi, anche volendo, col culo che le vedo. È limpida come una tazzina di caffè in cui ha cagato mio nonno! Ma è davvero acqua, questa roba? Sicuro sicuro? Non è che ci hai portato a nuotare in un pozzo nero o qualcosa del genere? Un secchio di candeggina troppo usata?»
«Ce lo aspettavamo già, no? Quando abbiamo scelto di venire qua, dico,» rispose Olaf, tenendosi a galla con bracciate lente, un poco più al largo dell’amico. «Voglio dire, è un mare vivo, no? È che ci hanno trovato dei pesci, qui. O qualcosa del genere.»
«Spero solo che non li abbiano trovati a pancia in su. Ma anche questa è un’avventura.»
Si buttarono tutti, alla spicciolata e con poca convinzione. Davide esitò più degli altri, guardò prima di ogni passo, si accorse che era una operazione inutile perché davvero non si vedeva un tubo e così decise di mantenersi sempre e comunque in superficie, meglio dove era certo di non toccare, così da evitare ogni possibile contatto con cose strane sommerse. La fauna del pianeta gli aveva già causato fin troppi problemi e preferiva non avere altri incontri ravvicinati, grazie. Ma l’acqua era piacevole, sul serio, soprattutto dopo il viaggio e se paragonata a tutto ciò che poteva vedere attorno a sé. Non il massimo della vita, ma il meglio che offrisse al momento. Il che era un pensiero deprimente già di suo, ma si poteva sopravvivere. Probabilmente.
Quella sera cenarono in un locale che si vantava di preparare soltanto specialità locali, anche se non era chiaro a nessuno in che senso fossero specialità locali e nessuno trovò il coraggio di chiederlo. Il parere di Tunde era che si intendesse roba pescata o dragata dal mare e scaldata in un qualche modo nelle vicinanze di una fonte di calore: c’era un vago retrogusto di sale marino e le sostanze dentro i loro piatti, in effetti, potevano suggerire una origine acquatica, anche se presumibilmente nei pressi di R’lyeh o altra località analoga. «Ma almeno non si muove più, per cui spero che non sia dannosa. Non troppo,» concluse, spostando con la forchetta un boccone alquanto sospetto. In mancanza di un suggerimento migliore, tutti accettarono la sua ipotesi.
«Per me l’importante è che non abbiano i tentacoli. Odio le cose coi tentacoli,» disse Selina, mentre improvvisava una rapida autopsia sul reperto alimentare numero tre, sezione destra del suo vassoio.
«Tentacoli ancora non ne ho visti, ma quello che sto masticando adesso sembra avere una specie di ventosa di gomma. O almeno spero che sia una specie di ventosa: non voglio pensare alle possibili alternative e vi invito a non suggerirmele, grazie,» commentò Sebastian, cercando di masticare una cosa che, in apparenza, non era consenziente all’essere masticata.
«Se ha una specie di ventosa, deve essere un pesce dei fondali o giù di lì, credo,» disse Selina. «Ve lo ricordate? Ne aveva parlato anche la ricercatrice che ci faceva lezione, la Freire. Una delle prime forme di vita che hanno trovato su Madre, proprio da queste parti.»
«Ed è commestibile? No, perché sembra opporre resistenza ai miei denti, sai com’è.»
«Se lo cucinano vuol dire che è commestibile, no? Che domande fai, Sebastian?»
«Mi spiace doverti dare questa terribile notizia, Selina, ma il tuo ragionamento è fallato. Il semplice fatto che abbiano buttato qualcosa dentro un piatto non significa che sia commestibile, o anche solo gradevole da masticare. Tu che millanti di avere frequentato per un poco l’università dovresti sapere come sia andata durante le prime colonizzazioni, no? Tipo su Svarga. Prendi tutto ciò che non riesce a scappare in tempo e fallo mangiare a qualcuno: se il qualcuno sopravvive, allora fallo mangiare a qualcun altro. Se un numero di persone sufficientemente elevato sopravvive, allora è commestibile, o almeno può essere considerato commestibile fino a prova contraria.»
«Va bene, ma stiamo parlando di tre o quattro secoli fa, dai! Mica succede ancora, no?»
Sul tavolo calò un silenzio fatto di riflessioni. «Comunque non è peggio di quello che mangiamo in città,» disse infine Davide. «Se non altro è più... saporito, ecco. E poi non è una specie di pastone, che neanche capisci cosa ci sia dentro il piatto. Più o meno vedi quello che mangi, qui.»
«Non sono del tutto sicura che questo valga come punto a favore,» rispose Tunde, «ma per adesso è meglio pensare ad altro, direi. Qualcosa in programma per domani? Sempre mare?»
«Al centro studi locale hanno allestito una specie di museo,» disse Selina. «Sono più che altro due o tre stanze in cui espongono alcuni reperti marini, cose curiose che hanno trovato e così via. Pare che ci siano anche due dei primi esemplari, quelli pescati dalla seconda spedizione. Mi piacerebbe fare un salto a vedere, già che ci siamo.»
Sebastian scosse la testa. «Palloso. Proposta bocciata. La prossima?»
«Non è palloso, è interessante. Ci aiuta a capire meglio il mondo su cui siamo venuti a vivere.»
«È un museo di pesci orrendi e non ci sono tette, o almeno non in costume da bagno, ma dubito che qualche ragazza sana di mente vada al mare per vedere roba simile, per cui non ci saranno neanche in abiti normali. Quindi, non mi interessa. Altre proposte?»
«Sei una persona orrenda, guarda!»
«Faccio del mio meglio, grazie. Proposte? No? Mare anche domani, allora: aggiudicato!»
Fu mare anche domani, almeno al mattino. Nel pomeriggio Selina e Tunde si sganciarono, andando a vedere il museo di pesci o quello che era, e alla sera ne parlarono a lungo e noiosamente. Secondo il modesto parere di Sebastian, per lo meno. Davide lo trovò invece abbastanza interessante, anche se non a sufficienza da stimolarlo a recarsi lui stesso a vedere quella roba. C’erano limiti a tutto e la sua idea di divertimento, o anche solo di relax, non avrebbe mai incluso escursioni da gita scolastica e roba simile. Ascoltare i commenti di chi aveva assistito, invece, poteva anche essere accettabile. O almeno era un’alternativa migliore al solito teatrino di infimo gusto improvvisato da Sebastian, che eventuali bevande alcooliche riuscivano addirittura a peggiorare, spingendolo là dove nessun uomo era mai giunto prima o, più precisamente, da dove nessun uomo era mai tornato prima, forse perché chi gli stava attorno aveva deciso di abbatterlo, per pura misericordia.
Selina spiegò a lungo e in dettaglio (anche troppo a lungo e in dettaglio) come fossero quei famosi primi due esemplari trovati dalla seconda spedizione. In base alla sua descrizione, non si potevano proprio considerare figure accattivanti e atte a stimolare l’immaginazione del pubblico, a meno che il pubblico in questione non avesse gusti molto particolari e poco apprezzati nella buona società, se mai era possibile accostare l’aggettivo “buona” a un qualunque tipo di società. A ogni modo, erano una specie di lumaconi marini, o almeno qualcosa di molto simile a un lumacone per struttura del corpo e funzionamento generale, e un pesce che, con ogni probabilità, era davvero parente di quello che Sebastian aveva mangiato il giorno prima.
«Ma non credo sia proprio la stessa specie,» aggiunse Selina. «Non dopo tutto ciò che hanno fatto ai pesci del posto e coi pesci del posto. Ce lo aveva spiegato anche la Freire, no, quella che ci faceva lezione alla sera. La fauna ittica originaria era già scarsa di suo, i mari erano abbastanza poveri, in più all’inizio della colonizzazione hanno importato tonnellate di pesci dalla Terra, o almeno hanno importato il necessario per produrre tonnellate di pesci, non so bene come funzioni, non è proprio il mio campo, neppure quando ero all’università. Comunque hanno riempito i mari coi pesci terrestri, dopo averli modificati per adattarli al posto, e adesso la maggior parte di ciò che mangiamo viene da lì. Hanno anche modificato alcune delle specie autoctone, ma non sembra che abbia funzionato molto bene. È una cosa molto interessante, sapete.»
«Quindi quello che ho mangiato io era una qualche specie di mutante venuto male?»
«Beh, non la metterei proprio in questi termini, no, però...»
«Però dopotutto è un’avventura, giusto.»
Selina sospirò. «Ma non ti sei ancora stancato?»
«Non vedo perché dovrei. Dopotutto è un’avventura.»
«Ma a parte quei due pesci o quello che erano, c’era altro sulla seconda spedizione?» chiese Davide.
Non direttamente sulla seconda spedizione, perché in apparenza non avevano avuto molto tempo da dedicare allo studio delle forme di vita madriane, ma il professor Thoreau era rimasto sul pianeta a lungo dopo la partenza di molti altri membri e si era spostato regolarmente tra il campo base ai piedi dell’ascensore e la zona in cui poi sarebbe sorta Bidonia. Aveva sempre qualche militare a fargli da scorta e, almeno secondo le storie, aveva anche utilizzato alcuni di loro come assistenti improvvisati e di fortuna. «Ma di fatto erano più che altro manovali, sia chiaro,» aggiunse Selina. «In fondo non è che un soldato si possa intendere molto di fauna ittica, a parte quella che magari si trova nel rancio o quello che è. Il cibo dei soldati si chiama rancio, giusto?»
A ogni modo, la guida del piccolo museo (che già chiamarlo museo era una forzatura del termine, è vero, ma pazienza) aveva indicato altri esemplari che Thoreau aveva trovato e catalogato in seguito, nel corso di mesi di studio spesso frustranti e raramente appaganti. Erano sempre pesci parecchio miseri e in alcuni casi li si poteva chiamare pesci soltanto perché vivevano in acqua e respiravano con varianti sul tema “branchie”, ma per il resto non avevano quasi niente in comune con ciò che un terrestre è solito visualizzare, quando pensa alla parola “pesce”.
«E quelli di sicuro non ce li hanno fatti mangiare, perché non erano commestibili,» aggiunse. «Non so come Thoreau lo abbia verificato e non lo voglio sapere, ma gli credo sulla parola.»
«Noto sempre una enorme quantità di fiducia nel prossimo, nelle tue parole,» disse Sebastian. «Che una cosa non sia commestibile non significa che nessuno cercherà mai di fartela mangiare, specie se costa meno di una cosa commestibile. Non dovresti credere a tutto ciò che senti. Ma hai ragione tu, dopotutto anche questa è un’avventura, no?»
«Sebastian, veramente, sei simpatico come un nido di vespe nelle mutande,» disse Tunde. «A ogni modo no, non c’era molto altro sulla seconda spedizione. Non direttamente sulla spedizione, per lo meno. Il suo obiettivo principale non era tanto studiare le forme di vita del pianeta, ma scoprire di preciso cosa fosse successo alla prima spedizione, almeno secondo la versione ufficiale della storia, poi non so, e ovviamente dovevano anche investigare sulle rovine aliene. È la cosa più interessante sul pianeta, dopotutto. I pesci sono stati più che altro un extra, giusto per tenere occupato anche il resto dell’equipaggio. O qualcosa del genere, non so bene.»
«E tutto questo lo avete scoperto guardando una mostra di pesci?» chiese Sebastian.
«Non era una mostra di pesci e no, non lo abbiamo scoperto tutto oggi pomeriggio. Nel caso non te ne fossi ancora accorto, viviamo su questo pianeta già da un po’ di tempo, ormai, e visto che siamo qui cerchiamo anche di documentarci. Informarci. Mai sentito questi verbi? Non siamo tutti come te, noi, che quando non lavori sei in giro a molestare le donne e basta.»
«Falsità, maldicenze. Non molesto le donne, io. Dimostro solo il mio interesse per loro.»
Davide sospirò. Finiva sempre così. Aveva perso il conto del tempo trascorso su Madre, soprattutto perché non è che lo avesse mai tenuto davvero, ma ogni discussione nel loro gruppo, presto o tardi, deragliava dall’argomento iniziale e diventava una specie di show personale di Sebastian. Definirlo narcisista o egocentrico sarebbe stato un eufemismo. Oh beh, pazienza. Come al solito non avrebbe ricavato nulla dagli altri; se proprio voleva scoprire qualcosa, doveva muoversi personalmente.
Che, nello specifico, significava raggiungere la base dell’ascensore vecchio e, magari, infilarsi nella base militare. In un qualche modo. Se mai fosse stato possibile. Perché i pozzi erano là, qualunque cosa fossero di preciso, e i pozzi erano la chiave. La chiave del racconto di Zeke, d’accordo, ma non solo di quello, forse. Comunque, erano qualcosa che lui doveva trovare. Glielo aveva chiesto Zeke stesso, dopotutto, ed era più o meno la missione che gli aveva assegnato.
Peccato che lui non sapesse come passare da idea ad azione.
Il mattino seguente il cielo era sereno, quasi luminoso e caldo. Molto caldo. Uno dei giorni più caldi che avessero conosciuto, dall’arrivo su Madre. Luccicante contro il cielo meridionale, l’ascensore si vedeva meglio del solito, meglio di quanto Davide lo avesse mai visto. Certo, aveva visto molto ma molto meglio quello da cui erano scesi loro, tempo prima, quando le navi del Teatro di Oklahoma li avevano scaricati nella loro nuova casa, ma quello non contava. Era l’ascensore civile, più recente, su cui tutti arrivavano e su cui tutti potevano viaggiare. Diversi chilometri a sud di Bidonia, invece, si innalzava l’altro ascensore, il primo a essere stato costruito. Quello riservato ai militari, adesso.
Sembrava quasi di poterlo toccare, allungando una mano. Alzando la testa e guardando il punto in cui svaniva nel cielo, invece, potevi avvertire una leggera vertigine, ma soltanto le prime volte. Ti abituavi, alla lunga. Restava sempre uno spettacolo un poco preoccupante, quel pilone che saliva e saliva, sottile, e svaniva dove gli occhi non potevano più seguirlo, ma in un certo senso era anche lo spettacolo della loro epoca. O dell’epoca dei loro nonni, e dei nonni dei loro nonni, in effetti. Era...
«Bello il panorama, eh, Bruno? Oggi sì che c’è sole.»
La voce di Olaf non conosceva mezze misure, soprattutto se si trattava di volumi: partiva dal forte e sapeva solo salire. Davide si girò, passando dalla sagoma eterea dell’ascensore spaziale a quella più orsina e turistica dell’amico, raggiante nei suoi sandali, pantaloncini e canotta arancione. Mancava giusto una palla sotto braccio per completare il quadro da villeggiante sapiens, per un dato valore di sapiens. Un valore molto prossimo allo zero, secondo il modesto parere di Davide. La realtà poteva essere una gran brutta cosa, quando ti colpiva nei denti nel mezzo delle tue fantasticherie poetiche e sottili. Oh beh, in fondo c’era di peggio. Bastava solo cercarlo molto bene.
Era sorridente, Olaf. La sera precedente era rimasto tranquillo e silenzioso, quasi spento, mentre nei suoi dintorni infuriava la discussione tra Sebastian e le ragazze. O, per essere più precisi, mentre le ragazze cercavano di parlare di argomenti che loro ritenevano culturali e Sebastian le sabotava con le sue solite scemenze. Che erano anche divertenti, per carità, se assunte in dosi moderate e diluite nel corso di una settimana o due. Quando te le sparava a raffica, invece, provavi soltanto un acceso desiderio di strangolarlo con la sua stessa lingua.
Davide non vi aveva badato molto, sul momento. Olaf tendeva quasi sempre a sparire, quando in un discorso interveniva qualcosa che puzzava di cultura. Forse perché non sapeva cosa dire, forse solo perché si sentiva fuori del proprio ambiente, ma l’omone si trasformava in una pianta grassa, una di quelle che sistemi in un qualche angolo della casa e ti dimentichi di averle per giorni interi. Strano. O forse no, forse era normale. In fondo Olaf era stato manovale anche sulla Terra, no? Uno di poche parole e tanti fatti, azione prima del pensiero, minestra o finestra, quello che era. Uno che pensava con le mani. Ecco. Sì, così andava meglio. Quando doveva pensare con la testa, in genere, i risultati lasciavano parecchio a desiderare. Desiderare di essere da un’altra parte, per esempio.
Si stava divertendo, Olaf? Il pensiero colpì Davide all’improvviso. Proprio lui aveva lanciato l’idea di una vacanza, sempre lui aveva programmato tutto, di nuovo lui si era assunto più o meno tutte le responsabilità, senza brontolare, senza discutere. Ma la vacanza... beh, ecco, ci voleva molta buona volontà per definirla un successo. Anzi, bisognava proprio mentire, senza pudore e senza ritegno. E adesso, a vederselo di fronte così entusiasta, o almeno con una espressione di apparente entusiasmo, che non è proprio la stessa cosa ma può sembrarlo se c’è poca luce, Davide si sentì un poco in colpa con l’amico, nonché compagno di stanza. Non aveva fatto granché per contribuire alla vacanza. Più precisamente, lui non aveva fatto alcunché. Si era sistemato a ruota, aveva lasciato lavorare gli altri, era grossomodo un rimorchio, utile come uno scalpello di marzapane.
E per tutto il tempo aveva pensato soltanto a come raggiungere la base militare, fregandosene degli amici. In effetti, a metterla in quei termini, aveva davvero di che sentirsi in colpa. Forse.
«Già, bella giornata. Mare anche oggi, giusto?» chiese, con un sorriso che qualcuno poteva avergli appiccicato sulla faccia con un trasferello, tanto era autentico e partecipato.
«Mare anche oggi, già,» rispose Olaf. «Anche se, non so, magari preferisci andare da qualche altra parte, non so. Vuoi esplorare i dintorni, Bruno? Guardi sempre da quella parte...»
Davide alzò le spalle. «Oh, no, guardavo solo l’ascensore, sai. In città non è molto bello da vedere, non quello che vedi in città, almeno. Ci sei proprio lì sotto, è più un coso che... sì, insomma, ce l’hai così sopra la testa, ti schiaccia, no? Ma qui, da lontano, è molto più...» Agitò le mani a casaccio, non sapendo bene come concludere. Ci sarebbe voluto Matteo: era bravo a inventarsi parole stupide, suo fratello. Era bravo soprattutto a non dire niente e parlare per ore. Lui no. L’ascensore era più...
Ma non fu necessario concludere, perché Olaf stava già annuendo col suo ritmo saltellante. «Oh, sì, capisco, è una cosa diversa, tutta un’altra roba, lo so. È molto più... ecco, quelle cose che disegnano sui muri, no? Sembra un po’ uno di quelli, no? Quelli... nelle chiese, hai presente?»
Davide non aveva presente, ma qualcosa scattò. «Un affresco, dici?»
«Eh, sì, può darsi. Qualcosa del genere.»
Il solito vecchio Olaf. Un toro se gli facevi fare qualcosa, un mattone se gli chiedevi di usare più di trecento parole diverse. Tanto meglio così, dopotutto. «Un bello spettacolo, sì, ma adesso pensiamo al mare, eh? Già tutti svegli, gli altri?»
«Le ragazze sono pronte, ma Sebastian è ancora un po’, ecco...»
Davide si poteva immaginare come fosse ancora un po’ Sebastian. Non è che avesse proprio bevuto troppo, la sera prima, ma aveva bevuto parecchio e non era certo che sarebbero riusciti a trascinarlo fuori dal letto, quella mattina. E forse neanche quel pomeriggio, in effetti. Tempo di rendersi utili al gruppo, per una volta. Magari gli avrebbe fatto dimenticare l’ombra del senso di colpa. «Ok, allora vediamo cosa si riesce a fare per convincerlo ad alzarsi, quel pigrone.»
Andarono. E lo convinsero ad alzarsi dal letto, in un modo o nell’altro. Quella mattina in spiaggia incontrarono poi alcuni insetti che, pur non facendo nulla di preciso, si assunsero l’incarico di tener sveglio e allerta Sebastian, almeno per tutto il tempo che spese nelle vicinanze dell’acqua. Erano un qualche tipo di scarafaggi, o schifezze simili a scarafaggi, e secondo Selina ne aveva parlato anche la tizia che aveva tenuto le lezioni serali, tempo prima. Non erano pericolosi, diceva, e comunque il loro corpo non possedeva né pungiglioni, né zanne o altro con cui potesse danneggiare un essere umano. «Ci sono quelle corna sulla testa, ok, ma sono più che altro decorative e poi non sono forti a sufficienza da perforare la pelle umana,» spiegò, mentre Sebastian si manteneva a una certa distanza e armato di una scarpa.
«Sono insetti e non mi fido, punto,» rispose. «E poi, cosa ci fanno in mare, eh?»
«Sono anfibi o qualcosa del genere, anche se in effetti mi sembrava di avere capito che preferissero l’acqua dolce. Magari sono un’altra specie, non so. La Freire ne aveva parlato solo in una lezione e non è che ci avesse detto molto.»
«Io quelli non li voglio,» concluse Sebastian, con tutta la ragionevolezza e la logica di un bambino capriccioso di quattro anni. Si sistemò il più possibile lontano dal punto in cui gli insetti si stavano facendo i propri fatti da insetti e rifiutò a lungo di entrare in acqua, quel giorno, almeno fino a che Olaf e Davide si scambiarono uno sguardo, afferrarono il compagno e lo scaraventarono in mare di peso, tra gli applausi e le risate degli altri. E così un’altra giornata di vacanza trascorreva, mentre il vecchio ascensore scintillava nel cielo meridionale, forse in attesa, forse invitante, o forse solo una colossale struttura artificiale, che se ne stava lì perché non poteva fare altrimenti.
Ma Davide lo avrebbe raggiunto. Prima della fine della vacanza lo avrebbe raggiunto. Così pensava, spendendo il tempo sulla spiaggia assieme ai compagni. Assieme al suo gruppo. Che non sarebbe rimasto suo ancora per molto.