La galassia di Madre - 70
Sole, caldo moderato. Cominciava una nuova giornata nella fiabesca città marittima di Bidonia, per un dato valore di fiaba, probabilmente redatta dai fratelli Grimm mentre almeno uno di loro soffriva di acuto mal di denti. Il resto del gruppo era già andato in spiaggia, tanto per cambiare, o tanto per non cambiare. Davide no. Aveva inventato qualche scusa, posti da vedere, cose da fare, qui e là, ma si era scollato i compagni e adesso la città gli si apriva come un antico cassonetto, parimenti povero di promesse ed esondante di pattume, rorido di olezzi immondi. Pure, qualcosa lo doveva ricavare.
Era partita da lui l’idea del mare e gli altri avevano approvato, ma non era al mare che la sua idea si sarebbe fermata e non era soprattutto il mare a interessarlo, anche se doveva ammettere che la vista delle colleghe in costume non era disprezzabile e di certo poteva presentare qualche utilità, entro un contesto molto preciso e definito di utilità, possibilmente da non coltivare in pubblico. Ma il punto era un altro. Il punto era che aveva scelto quel posto di mare perché era il più vicino, in linea d’aria al vecchio ascensore e alla base militare ai suoi piedi, e questo già si sa. Tutto il resto era un extra, magari piacevole, magari spiacevole, ma sempre secondario. Perché là, dove era discesa la famosa spedizione di quasi venticinque anni prima, si sarebbero dovuti trovare i misteriosi pozzi, almeno secondo Zeke , e i pozzi erano importanti. Fondamentali.
Forse. Davide non ne era più così sicuro, al momento, anche se la spiegazione gli era sembrata così logica e sensata a casa di Zeke, mesi e mesi e ancora mesi prima. Quanti tempo era passato ormai? Non lo sapeva, ma doveva essere parecchio, a occhio. I giorni erano sempre tutti uguali, su Madre, e perdere il conto sarebbe stato facile per chiunque, non solo per chi aveva sempre guardato ai numeri con sospetto e ostilità, come appunto era il caso di Davide. Ma una cosa restava e la memoria non l’aveva ancora sbiadita. I pozzi erano la chiave, si trovavano nei pressi del vecchio ascensore e lui li avrebbe raggiunti. In un qualche modo. Con tanto ottimismo.
Li voleva vedere coi propri occhi, faccia a faccia, anche se i buchi nel terreno non sono soliti avere una faccia. Suo padre era stato lì, secondo Zeke; da lì era spuntato l’insetto misterioso che lo aveva punto, sempre secondo Zeke; lì sotto era stato deciso tutto, di nuovo secondo terzo e quarto Zeke. I pozzi. Zeke gli aveva anche ordinato di scendere in un pozzo, se gli si fosse presentata l’occasione, o almeno cercare un modo per scendere, se mai ce ne fosse stato uno, ma Davide riteneva che fosse impossibile e comunque l’idea di infilarsi in una voragine nel terreno non lo attivava proprio. Se si trattava di vederli, però...
Nessun colono gli aveva saputo raccontare qualcosa. Nessun colono ne aveva mai sentito parlare. Il che pareva assurdo. Erano larghi un chilometro, secondo le storie di Zeke, e come fai a nascondere un pozzo largo un chilometro? Soprattutto quando i pozzi sono nove. Ci aveva pensato parecchio, Davide, e alla fine gli erano rimaste due risposte: o i pozzi non esistevano e Zeke se li era inventati, per chissà quale ragione, oppure esistevano e i militari ci avevano costruito sopra la base. Dopotutto alcuni coloni gli avevano detto che era enorme, quasi larga come un paese. Larga a sufficienza per nascondere nove pozzi di un chilometro ciascuno? Lo avrebbe scoperto solo vedendola.
Così, mentre il resto del gruppo si preparava per la spiaggia, Davide si era posto un altro obiettivo di giornata: non prendere il sole smorto e divertirsi, ma setacciare ogni angolo e ogni retta della città in cerca di mappe, notizie e qualsiasi cosa potesse servirgli per pianificare una spedizione solitaria verso il vecchio ascensore. Che poi, chissà, magari potevano anche esserci viaggi guidati o qualcosa del genere, per quanto ne sapeva lui. Poteva anche essere un luogo turistico, sempre per quanto ne sapeva lui. Che lui ne sapesse esattamente zero era un dettaglio secondario e comunque destinato a cambiare prima del tramonto. In un modo o nell’altro.
Sebastian lo aveva deriso un poco, le ragazze lo avevano salutato e basta, raccomandando di passare in spiaggia se cambiava idea, Olaf gli aveva rivolto la sua migliore faccia bovina e alla fine tutti se n’erano andati. Restava Davide, con la città spalancata davanti a sé. E una cerca da compiere. Come avrebbe detto Sebastian, dopotutto era un’avventura.
C’era poca gente per strada. Il che era normale, soprattutto se ti allontanavi dal lungomare, ma pure quello era piuttosto scarno. Vero, era mattina e molti probabilmente dormivano ancora. Davide non aveva notato posti particolari per il divertimento notturno, o almeno per ciò che lui concepiva come divertimento, ma qualcuno doveva pure esserci e diversi coloni turisti stavano ancora smaltendone gli effetti, ovvio. E poi era bassa stagione, o così aveva detto Olaf. Bidonia si affollava davvero in estate, secondo lui, ma adesso l’estate era ancora un poco distante, anche se all’equatore era difficile notare il cambio di stagione. Pure, un cambio doveva esserci. Fosse come fosse, c’era poca gente in strada e questo non era bene. Poca gente significava anche poche persone a cui chiedere.
Meglio comunque partire dagli abitanti fissi del posto. Avevano più probabilità di sapere qualcosa.
La sua prima perlustrazione si svolse sul lungomare. La spiaggia era una lettiera per gatti allungata sulla sua destra, fino al mare grigiastro e calmo che luccicava smorto sotto un cielo di candeggina usata. Vari bagnanti si muovevano come scarafaggi, scattando qui e là, e tra loro dovevano esserci anche i suoi amici. Dalla strada Davide non li vedeva, né li cercava. Cercava i negozietti e i locali, affastellati sul confine tra città e mare, quasi tutti aperti e quasi tutti avvolti da un’aura di plastica e lamiere. Non che fossero realmente fatti di plastica e lamiere, ma lo sembravano, aggiungendo una spruzzata di compensato tanto per insaporire il piatto. Avevano la precarietà vuota delle giostre, che ancora potevi vedere nei documentari su un passato sempre più remoto, ma poco o niente della loro presunta allegria e vivacità. Erano... cose che occupavano spazio, mungendo qualche soldo qui e là.
Davide ne tentò parecchie. Piccoli bar, negozietti di souvenir di autentico pessimo gusto, rivendite di attrezzature varie per mare e derivati: il copione era sempre quello e il risultato pure, ossia nulla. Davide entrava, guardava un poco la mercanzia del caso, poi si avvicinava al gestore con qualche domanda da turista, più o meno incentrata sui prodotti disponibili, infine tentava di ripiegare su una chiacchierata tranquilla, tra amici. E com’è il posto, e cosa c’è di interessante da fare, sono appena arrivato, sa, mi piacerebbe distrarmi un poco, magari anche nei dintorni, ci sono cose interessanti da vedere, non so, luoghi particolari, mi dica lei. Ne ricavò quattro indirizzi di locali che alla sera gli potevano far avere “roba forte, eh” (con strizzata d’occhio, che presumibilmente valeva solo come pubblicità e non era inclusa nel prezzo), più altri sei di posti in cui trovare “compagnia” (di nuovo con strizzata d’occhio, oltre a virgolette inserite anche nella pronuncia), il tutto condito da una dose generosa di sogghigni e un paio di colpetti col gomito, da veri amiconi.
Il vecchio ascensore, in apparenza, non lo guardava nessuno, almeno non sul lungomare. Era quasi mezzogiorno quando Davide si concesse una pausa per il pranzo, nonché per cercare nel pattume un frammento dell’ottimismo entusiasta che lo aveva spinto a buttarsi in quella ricerca. Qualche traccia ci doveva ancora essere, forse, ma lui non la sapeva trovare. Mangiò senza gusto due panini che una donna quasi barbuta gli descrisse come “una specialità locale che guarda, la devi proprio provare, te lo assicuro”, coi gomiti puntati sul tavolino, e ignorò gli interrogativi che gli inviavano di continuo gli organi di senso presenti in bocca, incerti più che mai su cosa potesse esserci tra le due fette di pane sintetico. Davide non lo voleva sapere. Qualunque cosa fosse, non si muoveva più e si lasciava sciacquare via da un sorso della bevanda sintetica ed estremamente frizzante con cui aveva deciso di accompagnare il pasto. Fantastico.
Con l’entusiasmo di chi ha posato la testa sul binario e attende solo il passaggio del rapido, Davide uscì dal bar, paninoteca o quello che era, e guardò negli occhi il resto del paese, che sprofondava nel piatto entroterra, tra edifici e altri edifici, ma ancora più brutti dei primi. Il lungomare non gli aveva dato nulla, se non una digestione che prometteva di essere piuttosto complicata, ma se lo sarebbe dovuto aspettare: era terra da turisti, quella, e solo roba turistica avrebbe trovato. Verso l’interno la città si faceva più città e meno giostra, diventava più stabile, più duratura, e forse poteva esserci per lui qualcosa da trovare, giusto? Tra un vicolo e l’altro, dove giravano gli abitanti reali di Bidonia, i disperati che la occupavano per tutto l’anno e magari, con tanta fortuna, guardavano anche verso il vecchio ascensore e l’orizzonte meridionale, invece di ammassarsi solo attorno alla spiaggia.
Gli bastarono pochi metri per verificare che sì, il soprannome di Bidonia era meritato, meritatissimo e forse, se proprio gli si poteva trovare un difetto, era quello di mirare troppo in basso. La zona dove il suo gruppo aveva trovato alloggio era triste, d’accordo, di quella tristezza particolare che ottieni solo dopo aver pagato per divertirti, ma era zona turistica, fatta di alberghi e variazioni sul tema. Era previsto che fosse triste, perché doveva spingerti con la forza a cercare locali di svago. Che poi non avresti trovato, vero, ma quello era un altro discorso. La Bidonia in cui si stava addentrando adesso, invece, era un vero settore residenziale e possedeva un altro tipo di tristezza, quella che trovi nelle abitazioni nate come provvisorie, temporanee, giusto qualche settimana per rimettermi in riga e poi tanti saluti, ma che a poco a poco si sono stratificate attorno al loro occupante, diventando sempre più definitive, sempre più durature, condanna a vita che si nutre di occasioni perse, sogni sfumati e fallimenti assortiti, sostanze che gli inquilini secernono a getto continuo.
Assomigliava al posto in cui era nato e cresciuto. Non era bello. Non lo era come pensiero e non lo era come ricordo. Davide doveva soffocare l’impulso di guardare a ogni angolo, in ogni vicolo, per cercare il profilo della madre, di Matteo, di Amir, di tutti gli altri persi per strada. Era un clistere nel colon della memoria, reso ancora più strano e straniante dal contesto. Gli odori, il cielo, il sole, tutto quanto attorno a lui era alieno, letteralmente alieno, eppure sembrava casa, sembrava la Terra, quel frammento da cui era fuggito col Teatro di Oklahoma, mentre il resto del suo gruppo di allora, Amir e Zeke e gli Isolazionisti, preparavano il botto che avrebbe dovuto portare ovunque la loro voce. Ma non l’aveva portata ovunque, Davide lo sapeva. In tutti quei mesi nessuno ne aveva sentito parlare, neppure tra gli ultimi arrivati, ancora freschi e profumati di Terra. Dovevano avere fallito, spazzati via dalla storia, magari con un aiuto della polizia.
Ma basta coi pensieri inutili, adesso. Aveva qualcosa da fare, informazioni da cercare, ed era meglio farlo, invece di sprecare tempo a farsi seghe mentali, come Matteo. Sul confine tra il lungomare e la città residenziale aveva già visto una specie di concessionaria che affittava piccoli veicoli, per chi si voleva dedicare a brevi esplorazioni nei dintorni, e quello era un buon punto di partenza. Adesso un mezzo di trasporto lo aveva trovato, potenzialmente, ma mancava ancora una meta o, per essere più precisi, una strada che lo portasse alla meta. Esistevano vie tra Bidonia e il vecchio ascensore? Solo una cartina o una mappa gli avrebbero potuto rispondere, o magari uno stradario, se qualcuno aveva già cominciato a produrne su Madre, ma ancora li doveva trovare, quindi era tempo di...
La sagoma di Olaf gli spuntò davanti, lo urtò e quasi lo buttò a terra, con tutta la delicatezza del suo fisico da orso, ma soprattutto con la massa del suo fisico da orso, che contava molto di più. Davide trattenne una bestemmia, poi decise che non era il caso di trattenerla e la lasciò uscire, perché farle prendere una boccata d’aria, vedere nuove facce, conoscere gente. Olaf! Che cosa ci faceva lì? Non era in spiaggia con gli altri? Davide glielo chiese.
«Cosa ci fai qui? Non eri in spiaggia con gli altri?»
Olaf contorse un poco la faccia, sperimentando varie espressioni sul tema “dubbio esistenziale”, con una spolverata di incertezza fenomenica e una spruzzata di principio di indeterminazione, che ci sta sempre bene e dà a ogni vivanda quel vago non-so-che che ti si ferma in bocca anche molto tempo dopo aver digerito il resto, più o meno come certe polpette della mensa. «Ti stavo cercando,» disse poi. «È che ero un po’ preoccupato, sai.»
Davide non sapeva. Perché mai Olaf doveva essere preoccupato? Erano in una città, stiracchiando il significato del termine, non certo in un cantiere, dove incidenti potevano sempre succedere. «Beh, no, francamente non so,» gli rispose. «Perché eri preoccupato? Ho detto che non sarei venuto con voi oggi perché dovevo cercare un paio di cose, no? Non mi sembra preoccupante, no? O lo è?»
I lineamenti di Olaf continuavano a fare ginnastica. «No, cioè, non è preoccupante, ma... vedi... non so bene come spiegarlo. È che...»
«Dillo con parole tue. O con quelle di un altro, se le tue non le trovi o le hai finite.»
Olaf tentò un mezzo sorriso, che si perse subito. «È che, voglio dire, non sembravi tranquillo. Negli ultimi giorni, intendo. Da quando siamo arrivati qui. Sembri... non so, come se qualcuno ti corresse dietro, no? Voglio dire, sei preoccupato, si capisce. Sei sempre a guardare in giro, ti fermi a fissare il niente, sei... sulle tue, ecco, non è che ci ascolti molto.»
Davide ascoltava adesso e ciò che sentiva non gli piaceva. Scoprire che, mentre tu guardi e studi gli altri, anche gli altri guardano e studiano te, è una cosa che può giungere imprevista e spesso anche come uno shock, almeno per chi ha speso la maggior parte del proprio tempo racchiuso in certi stati mentali a tenuta stagna. Quindi il resto del gruppo osservava le sue azioni. Ne discuteva. Magari si facevano anche idee che non corrispondevano alla realtà. Magari si facevano idee sbagliate, perché non sarebbe stato bello se si fossero fatti idee giuste, almeno in quel caso particolare. «E quindi gli altri ti hanno mandato a cercarmi? Nel caso, non so, che mi stessi mettendo nei guai?»
Olaf scosse il suo testone. «No, no, non è così. Voglio dire, ne abbiamo discusso, stamattina, ma poi lo sai, Sebastian ha detto che era meglio lasciarti fare come volevi, che sei grande e vaccinato, sai come dice lui, e comunque se c’era qualcosa ce lo avresti detto tu, no? Siamo amici, in fondo.»
Davide avvertì un vago senso di colpa, ma lo ignorò. «E quindi tu cosa ci fai qui?»
«Sono venuto a cercarti lo stesso, perché, beh, insomma, so come sei fatto e magari, non so, se hai un problema, voglio dire, se ce l’hai davvero, tu sei uno che non lo viene a dire ma fa tutto un po’ di testa sua, ecco. Cioè, niente di male, voglio dire, non è una critica, fai anche bene, ma...»
«Ma?»
«Beh, voglio dire, sono più o meno due anni ormai che ci conosciamo e li abbiamo sempre passati assieme. Dormiamo anche assieme, no? Nella stessa stanza dico, non in quel senso, ci siamo capiti, ma siamo amici, no? Ti aiuto io. Non c’è bisogno che mi racconti tutto, per carità, non voglio farmi i fatti tuoi, ma per qualunque cosa io ci sono. Sono anche il responsabile del gruppo, no? Figurati se poi non aiuto un amico.»
Davide si sentiva vagamente in imbarazzo. Che cosa rispondi in quella situazione? No, ti sbagli, va tutto bene? Olaf non gli avrebbe creduto. Ne aveva anche già discusso con gli altri, quindi ormai si erano messi in testa che lui aveva un qualche tipo di problema, il che in parte era vero, ma era anche un tipo di problema di cui non poteva proprio discutere così, come se niente fosse. Cosa gli avrebbe dovuto dire? «Oh, sì, sto pensando a come infilarmi in una base militare su richiesta di qualcuno che adesso è probabilmente ricercato sulla Terra come terrorista» non sembrava proprio il modo più intelligente per aprire una discussione. Anche se, in fondo, Olaf non era proprio un genio, per cui lo avrebbe anche potuto prendere sul serio, senza troppe domande. Però...
«Non è un problema, davvero,» rispose poi. «Te l’ho detto, devo solo cercare delle cose e...»
Olaf lo afferrò per le spalle, serio serio. «Ti aiuto io! Qualunque cosa sia, ti aiuto io. Figurati se ti lascio qui da solo. Non c’è bisogno che mi spieghi, se non vuoi o se è una cosa troppo personale. Tu dimmi solo cosa devi fare e al resto ci penso io. Ti serve qualcosa? Dimmi cosa e te lo trovo io, non mi devi spiegare a cosa ti serve. Devi andare da qualche parte? Dimmi dove e ti ci porto io, non mi devi spiegare perché. Davvero. Non ti lascio da solo qui in mezzo. Siamo un gruppo lo sai. Se hai un qualche problema, puoi sempre contare sul gruppo, no? Ce lo avevano spiegato anche all’arrivo, ti ricordi? È così che funziona nelle colonie: i problemi di uno sono i problemi di tutto il gruppo e il gruppo li risolverà. E comunque siamo amici e io un amico non lo lascio da solo, ok? Dimmi cosa devi fare, altrimenti continuo a cercarti e seguirti fino a che non lo scopro e poi ti aiuto.»
Davide non sapeva cosa rispondere. Non sapeva neppure cosa pensare o come pensarlo, in effetti. Il suo cervello stava attraversando una fase di confusione acuta e diffusa, a tratti temporalesca. Olaf lo aveva quasi commosso. Non proprio commosso commosso, niente lacrime o palle varie, però aveva toccato un nervo non solo scoperto, ma probabilmente anche impegnato in un numero di lap-dance. Era il bisogno di appartenere a qualcosa. Lo aveva avvertito quando era con gli Isolazionisti, sulla Terra, e poi lo aveva cercato su Madre, ma non lo aveva trovato. Non del tutto, non come prima. Se gli Isolazionisti erano stati davvero un gruppo con cui poteva condividere ogni cosa, senza segreti (o così lo aveva vissuto lui), nel gruppo di coloni aveva sempre trovato una barriera, che lo separava dagli altri e gli impediva di essere davvero una parte del tutto. Perché non poteva raccontare a loro ogni cosa. Aveva un nome falso, una identità falsa, un passato falso, obiettivi falsi. E quel cumulo di falsità lo aveva schiacciato a poco a poco, togliendogli aria, isolandolo in se stesso. Non era stato un membro del gruppo, ma un osservatore esterno. Qualcosa come Matteo, un fesso che guardava lo spettacolo da fuori, perché non sapeva o non voleva aprire la porta e unirsi agli altri.
Poteva parlare con Olaf? No, non era la domanda giusta. Poteva parlare in parte con Olaf? Dirgli il suo obiettivo, il posto che voleva raggiungere, senza scendere nei dettagli. Forse. In fondo, Olaf si era offerto di fare proprio questo. Ti aiuto io, dimmi cosa devi fare, non c’è bisogno che mi spieghi il perché o altro. Ed era una buona offerta. Una offerta utile. Olaf era mediamente stupido, ma anche pratico. Sapeva parlare alla gente, scoprire cose, ottenere informazioni. I risultati lasciavano spesso a desiderare, vero, ma in un paio di giorni aveva preparato il viaggio a Bidonia, prenotando tutto e sistemando anche la questione ferie coi superiori. Il viaggio in sé aveva fatto piuttosto schifo e non si poteva proprio parlare di servizio splendido, ma... sì, se c’erano percorsi tra la città e l’ascensore vecchio, Olaf li avrebbe trovati. Sarebbero state carraie orribili, ma lo avrebbero condotto alla meta.
Alla fine Davide si arrese. Non era convinto di stare facendo la cosa giusta, ma in fondo neppure era convinto che ci fosse una cosa giusta, una di quelle circonfuse di luce e alte nel cielo, con tanto di cori angelici e tutto il resto della paccottiglia. C’erano cose che dovevi fare, in un modo o nell’altro. A volte il modo che sceglievi era un modo funzionante, altre volte non lo era: per conto tuo, dovevi scegliere ciò che al momento sembrava potere funzionare meglio. Considerato come si era svolta la sua giornata fino a quel momento, persa in giri a vuoto per la città, Davide ritenne che l’aiuto di una persona più pratica in quel campo avrebbe potuto garantire al suo progetto una più alta percentuale di successo. Una che fosse superiore a zero, per esempio.
«So che probabilmente ti sembrerà assurdo, ma devo arrivare al vecchio ascensore,» disse infine.
Olaf annuì tutto serio, senza parlare. Parlò poco dopo, notando che l’amico non stava aggiungendo altre richieste, come invece si sarebbe aspettato. «Tutto qui?» gli chiese.
«Sì, tutto qui,» disse Davide. «Volevo scoprire se ci fosse qualche percorso, non so, magari è anche un luogo turistico, potrebbe esserci gente che lo va a vedere, di tanto in tanto. È proprio qui vicino, dopotutto,» aggiunse come spiegazione, di fronte alla perdurante perplessità del compagno.
Olaf vi meditò ancora un poco. «Uhm, non so. Dici che è turistica?»
«Non lo so neanch’io! È quello che volevo scoprire.»
«E lo cercavi qui? Qui in mezzo?» Olaf agitò un braccio, a includere il favoloso affresco urbano che li circondava, fatto di un vicolo vagamente fetido, muri scrostati, immondizia gettata da qualcuno o forse spuntata spontaneamente dal suolo, il tutto corredato da un bastardino che li fissava perplesso, o almeno con una espressione che un umano poteva interpretare arbitrariamente come perplessa, ma che forse era la sua espressione naturale. Non sembrava proprio il luogo in cui cercare informazioni su luoghi turistici, a meno che non si avesse una concezione molto particolare di luogo turistico.
Davide sospirò. «No, beh, non stavo cercando proprio qui. Sono partito dalla zona sul lungomare e non ci ho trovato nulla, stamattina, così dopo pranzo ho deciso di tentare anche giù di qui, non si sa mai. Non proprio qui nello specifico, ovvio, ma intendo... nei dintorni. In questa zona della città.»
Olaf annuì. «Sì, beh, magari c’è qualcuno che lo sa, da queste parti, ma non è dove avrei cercato io. Che poi ci ho messo parecchio a trovarti, sai? Sono partito anch’io dal lungomare, ma lì non ti ho proprio visto e così alla fine mi è toccato venire anche giù di qui, visto che non eri da nessun’altra parte. Fortuna che ti ho quasi centrato, se no sarei ancora a cercare. È un casino con tutti i vicoli che ci sono, credimi. Dovresti fare le cose con più... ordine, cioè. Logica, insomma.»
Sentirselo dire da uno come Olaf era vagamente offensivo, ma Davide lo ignorò. «E allora secondo te come avrei dovuto fare, scusa?»
Olaf sorrise. «Non hai ascoltato molto gli altri, vero?»
Vero, Davide non li aveva ascoltati molto. O almeno li aveva ascoltati, grossomodo, ma non aveva fatto molto caso a quello che dicevano, soprattutto perché tendevano a parlare di qualsiasi cosa, fino a che Sebastian non distruggeva qualsiasi discorso sensato con una delle sue battute pessime. Che si potessero ricavare informazioni dal loro chiacchiericcio era un pensiero sorprendente, più o meno al livello di un suggerimento di ricavare informazioni dallo svolazzare di una mosca.
Olaf gli spiegò così che in città c’era una specie di punto turistico, o qualcosa con un nome simile, e si trovava vicino al famoso museo dei pesci, quello che aveva tanto colpito Selina. Non era granché e probabilmente non sarebbe stato di aiuto, ma si potevano anche trovare brevi itinerari disponibili per chiunque volesse esplorare i dintorni, magari affittando un veicolo. «Ma proprio qui attorno, eh, niente di lontano. Pare che ci siano cose interessanti da vedere, ma non ne so molto. A me non sono sembrate interessanti, quando ci sono passato, e così ho lasciato perdere. Te lo immagini Sebastian a fare un giro turistico qui attorno? Ci sarebbe da mettergli il bavaglio.»
Davide se lo poteva anche immaginare, ma non era quello a interessarlo. «Ci sei passato?» chiese.
Olaf alzò le spalle. «Appena arrivati, mentre voi sistemavate tutto. Me ne aveva parlato quello che mi ha consigliato il posto, ha detto che magari poteva esserci qualcosa per noi, qui tutto cambia di continuo e sì, quando c’era stato lui era ancora piuttosto misero, ma magari adesso c’erano novità o altro. Cose interessanti da fare, sai. Comunque vale sempre la pena di controllare.»
«E in questo punto turistico hai trovato...»
«Niente di interessante,» ammise Olaf. «Ma ci è passata anche Selina e lei ha trovato quella specie di museo, no? Per cui non si sa mai, dipende dai gusti. Comunque adesso che so cosa cercare andrò di nuovo e magari non so, c’è qualche percorso che va verso l’ascensore, roba simile. Penso a tutto io, non ti devi preoccupare, davvero.»
Affermazione che in genere incita a preoccuparsi al massimo, ma in quel particolare caso Davide si sentiva propenso a credervi. O almeno decise di credervi, il che non è proprio la stesa cosa, ma può andare bene lo stesso, soprattutto in penombra. «Così io non dovrei fare più niente?» chiese poi.
«Tu pensa solo a divertirti, davvero. A me fa solo piacere aiutare un amico. E poi, beh, mi stavo già un po’ rompendo di questa vacanza. Voglio dire, ok, è bella, è una vacanza, meglio che il cantiere o le fogne, però... ho bisogno di fare qualcosa, capisci? Stare sempre fermo è un po’...»
Davide non capiva, perché lui aveva sempre apprezzato stare fermo e fare il meno possibile, ma sì, sapeva che c’erano anche persone così, che avevano sempre bisogno di fare, fare, fare. Palesemente malate, insomma, ma al mondo c’era posto per tutti, specie da quando i mondi erano aumentati. «Se proprio insisti lascerò fare tutto a te, allora. È che mi sento un po’ in colpa, in fondo è roba mia, non tua, e mi sembra di, non so, approfittare di te, ecco.»
Olaf alzò una manona. «No, no, te l’ho già spiegato. È roba del gruppo e io sono il responsabile del gruppo, per cui ci penso io. E comunque sto aiutando un amico, per cui non ci sono problemi.»
Davide si arrese. Si incamminarono assieme verso la spiaggia, dove gli altri li stavano aspettando, «Perché ho detto che ti venivo a recuperare,» spiegò Olaf. «Non ti chiederanno niente, non temere. Ho detto che mi occupavo di tutto io, per cui è a posto. Tutto risolto, no? Preparo tutto e andremo a fine vacanza, così non avremo problemi. Gli altri torneranno subito in città, noi faremo una piccola deviazione e poi li raggiungeremo. Giusto, Bruno?»
Poteva anche essere giusto. Davide non sapeva come si sarebbe svolto il viaggio e sapeva ancora di meno cosa avrebbero trovato all’arrivo, ma come tempi poteva funzionare. Una piccola deviazione per loro due, a scopo esplorativo, e poi tutti assieme a Oklahoma City, come sempre. Non era poi un brutto progetto. Restava solo da verificare se Olaf sarebbe riuscito davvero a progettare il viaggio, ma Davide si sentiva fiducioso. Quasi di certo non sarebbe stato comodo o piacevole, considerando i precedenti dell’amico, ma il viaggio ci sarebbe stato.
In spiaggia tutto pareva normale. Tunde e Selina stavano prendendo il sole e li salutarono senza un commento; Sebastian era poco lontano, tutto indaffarato a importunare la componente femminile di un altro gruppo di giovani coloni, che avevano l’aria di essere novellini di Madre. «Vi ho riportato il figliol prodigo!» esclamò Olaf, con un entusiasmo che nessuno condivise. Al solito, insomma. Tutto normale, tutto tranquillo, tutto come sempre. Davide si sentì a casa, poi ci pensò meglio e decise di no. Non si sentiva a casa. Si sentiva bene, che nel suo caso specifico era piuttosto diverso. Casa per lui era stato solo il posto in cui mangiare e dormire, non qualcosa a cui appartenere. Il gruppo lo era.
«Magari sarà ancora meglio quando avrò chiuso con la storia dei pozzi,» si disse. E magari era vero. A ogni modo, il tempo di scoprirlo si stava avvicinando. Sperando che tutto si sarebbe concluso, se possibile bene, se non possibile almeno decentemente.
Nei giorni seguenti Olaf fece qualche spedizione solitaria in città, a volte di primo mattino e a volte nel tardo pomeriggio. A Davide non spiegava mai nulla, ma gli strizzava sempre l’occhio con l’aria da cospiratore o, a seconda dei punti di vista, da scemo. Probabilmente stava preparando il viaggio, ma era meglio non indagare. Alla fine avrebbe scoperto tutto. Nel mentre, continuavano le giornate in spiaggia e in una occasione Davide accettò di aggregarsi a Selina per un nuovo giro al museo dei pesci, che Sebastian aveva ribattezzato come “il banco del pesce”, col suo solito umorismo che non ti avrebbe strappato una risata neppure coi migliori strumenti dell’inquisizione. Fu una escursione moderatamente interessante, per un dato valore di interessante. Un valore non troppo elevato.
Vide i famigerati esemplari trovati dalla ancora più famigerata seconda spedizione. Potevano essere i resti autentici, potevano essere semplici ricostruzioni: Davide avrebbe puntato sulla seconda, ma la sua guida, nonché cicerone estremamente loquace, sosteneva che fossero originali. «Sono proprio quelli che ha trovato Thoreau,» disse Selina. «Imbalsamati, ovviamente, ma autentici.» Gli rivolse uno sguardo che prometteva una pioggia di fuoco su chiunque osasse contraddirla. Davide non osò. Non è che gliene fregasse poi molto, dopotutto.
Proseguendo, Selina gli indicò un altro esemplare, il primo a risultare commestibile per gli esseri umani senza bisogno di ritocchi e modifiche. «Quindi probabilmente ce lo saremo mangiato in una qualche specialità locale,» aggiunse. Davide non fu entusiasta della notizia, dato che quel pesce gli ricordava un pancreas decomposto a cui qualcuno aveva appiccicato due chiazze di piccoli tentacoli sul ventre. O sulla parte inferiore, che magari non era il ventre. Si domandò senza reale interesse chi fosse stato il coraggioso che aveva provato a mangiarselo: probabilmente un giovane ricercatore, su ordine del grande capo, oppure un manovale inconsapevole. Di soliti funzionava così.
C’era poi una fantastica collezione di varianti sul tema “lumaca”, una più ributtante dell’altra. Tutte vivevano in acqua e in gran parte preferivano mantenersi nei pressi della riva, gli spiegò Selina. Era stato quasi sicuramente l’arrivo dell’uomo a cambiarne le abitudini, spingendole verso le spiagge: in origine non le trovavi a meno di cento metri dalla costa, ma i primi insediamenti e i primi scarichi di liquami e liquidi non sempre depurati dovevano avere accresciuto la quantità di sostanze nutritive sui fondali più basi, con conseguente migrazione delle lumache.
«Che comunque non sono proprio lumache, sia chiaro,» aggiunse Selina. «Le chiamiamo così per la somiglianza estetica con le nostre lumache, ma davvero, sono forme di vita completamente diverse e il termine rischia più che altro di causare confusione.»
Davide annuì serio serio, fissando le teche piene di obbrobri. Non aveva mai saputo o sospettato che la collega fosse così interessata alla vita marina del pianeta, altrimenti si sarebbe finto malato invece di accompagnarla in quella escursione. Pessima idea, davvero, ma in fondo la sola alternativa era di sopportare un’altra giornata di Sebastian, impresa che non sentiva di avere le forze per superare. Di fronte agli esemplari successivi, però, Davide optò per disattivare il cervello e tenerlo spento fino al termine della visita. Ci riuscì senza che Selina se ne accorgesse, persa com’era nella osservazione di pesci e altre schifezze subacquee.
La sera dell’ultimo giorno, di ritorno dalla cena, Olaf chiamò da parte Davide, che stava cercando di fingersi interessato alle storie di vita vissuta con cui Sebastian ammorbava la digestione di tutti. Al momento, il nucleo dell’aneddoto era una colona di un altro gruppo, che aveva conosciuto e con cui aveva scambiato diverse “vedute molto profonde”, secondo le sue parole, ma svariate altre trame si inserivano qui e là, trasformando in un gomitolo confuso quella che, in teoria, era una storia lineare, nonché noiosa. Davide fu più che felice di assentarsi.
«Allora, per domani tutto è pronto,» gli disse Olaf, quando ritenne di trovarsi a distanza di udito dal resto del gruppo. «La strada non è molta, ma è in condizioni pessime. Cioè, in effetti la strada non c’è proprio, non proprio una strada strada come le facevano costruire a noi, ma ci sono tracciati tra i campi che possiamo seguire verso sud. Tipo carraie, no?»
«Non so perché, ma me lo aspettavo,» disse Davide.
«Beh, è che non c’è proprio un motivo per fare una strada da qui al vecchio ascensore, sai. Non ci va mai nessuno. Possiamo però seguire i cosi, quei tratti che separano i campi, dove ci passano tutti i macchinari agricoli, presente? Le chiamo carraie anche se non è che siano per i carri, ma non so se abbiano un nome loro, comunque ci siamo capiti, no? Non è proprio una via diretta, ma alla fine ci si arriva, se cambiamo un po’. Se c’è bel tempo e non abbiamo altri problemi, potremmo anche fare tutto in giornata. Cioè, dipende da cosa devi fare là, ok, ma...»
Eccoli a un punto che lui non avrebbe voluto discutere. Davide non aveva ancora deciso una linea di condotta da tenere con l’amico: gli aveva detto dove voleva andare, ma non perché volesse andarci. Il che, in fondo, era giustificato. Olaf stesso aveva insistito per non saperlo. «Sono affari tuoi,» gli diceva ogni volta. «Io non ti chiedo nulla. Parla pure se vuoi, ma non sentirti obbligato, davvero.» Davide non si era sentito obbligato ed era rimasto zitto. Prima o poi, però...
«È che non so neanche io bene cosa fare, quando ci siamo arrivati,» rispose. «Per adesso voglio solo vedere il posto, poi dipende da cosa vedremo, capisci.»
Olaf annuì. «Non c’è problema. Comunque, come viaggio dovremo poter fare sia andata che ritorno in giornata. Dico per la distanza. Possiamo partire da qui al mattino presto e poi per la sera saremo di ritorno, in linea di massima, e il giorno dopo raggiungeremo gli altri in città. Allungheremo solo di un giorno, per cui non ci saranno problemi col lavoro.»
«E non potremmo tornare a Oklahoma City direttamente dal vecchio ascensore?»
«Eh, ma il veicolo è a noleggio. Lo dobbiamo portare indietro.»
Giusto, Davide non ci aveva pensato, ma Olaf sì. Perché Olaf era pratico. Non sveglio, non proprio una cima, neanche una di quelle molto levigate dal tempo, ma pratico sì. Il che era ottimo. Pensare era un lavoro per altri, gente che lo sapeva fare bene. Gente come lui, per esempio. Sorrise. «Beh, allora ci faremo questa giornata avanti e indietro in mezzo ai campi, poi un altro giorno in viaggio per tornare a casa. Un po’ di movimento ci farà bene, dopo il tempo in spiaggia.»
«Beh, non è che ci muoveremo molto,» disse Olaf. «Saremo sempre seduti.»
«Era per modo di dire. Comunque sì, direi che è tutto a posto. Vedremo domani, allora. E... grazie di tutto, davvero,» aggiunse Davide, un poco in imbarazzo. «Mi hai aiutato parecchio.»
«Oh, beh, siamo amici, è normale.» Olaf sventolò una manona a chiudere il discorso. Sembrava un poco in imbarazzo pure lui, nonostante tutto. Davide ne sorrise.
Avrebbero visto domani. Erano passati circa due anni da quando Zeke lo aveva spedito su Madre con una missione e adesso, finalmente, si preparava a svolgerla davvero. In un modo o nell’altro, la sua storia sul pianeta sarebbe cambiata. Avrebbe scoperto qualcosa, forse, ma soprattutto si sarebbe levato un peso. Non tutti, perché avrebbe dovuto continuare a fingersi un’altra persona per chissà quanto tempo ancora, ma un pensiero sarebbe sparito, una delle zavorre che gli avevano impedito di sentirsi davvero parte del gruppo. Le cose potevano solo cambiare in meglio, per lui.
Quella sera prepararono i bagagli, mente Sebastian continuava con le sue mille storie improbabili e confuse, che nessuno più ascoltava, ammesso e non concesso che qualcuno le avesse mai ascoltate davvero. Dalla stanza di Tunde e Selina arrivava musica, filtrando attraverso pareti poco più spesse e resistenti della cartapesta, e la finestra aperta lasciava passare un vento leggero, profumato di un qualcosa che Davide non riconosceva. Niente caldo, niente freddo, niente insetti o altri fastidi non umani. Era quasi un momento perfetto. Perfino Sebastian ne faceva parte, pur essendo una parte non esattamente gradevole, ma si fondeva al resto e sì, il risultato era... bello.
Fu un momento che Davide avrebbe portato con sé in viaggio, ma anche dopo, durante quello che si potrebbe definire il post-viaggio. Perché, come avrebbe scoperto poi, quella sera chiuse davvero un capitolo della sua vita. Purtroppo per lui, fu anche una chiusura definitiva, che non ammetteva ripensamenti o dietrofront. Ma ancora non lo sapeva e per lui era meglio così.
Il mattino seguente, Davide e Olaf partirono per il vecchio ascensore, mentre i compagni dormivano ancora. La loro avventura cominciava.